I corridoi umanitari per vincere il traffico (di migranti)


La normativa dell’Unione europea prevede la possibilità di emettere un numero limitato di visti relativi a un singolo paese. Su questo alcune istituzioni cristiane, cattoliche ed evangeliche, hanno trovato un accordo con il governo (della passata legislatura). L’idea è portare in Italia persone particolarmente bisognose. Dopo l’arrivo è pure previsto un percorso d’integrazione. Anche se i numeri non sono enormi, si tratta comunque di oltre un migliaio di rifugiati. E l’accordo potrebbe essere rinnovato con il nuovo governo.

Abeba aveva una malformazione cardiaca. Se non l’avessero operata subito, quasi certamente sarebbe morta. In Etiopia non era possibile. Non ci sono le strutture per i cittadini, ancora meno per i profughi. Lei, piccola eritrea, è però riuscita a venire in Italia ed è stata operata all’ospedale Bambin Gesù di Roma. Così si è salvata. E ciò grazie ai corridoi umanitari organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio insieme alla Conferenza episcopale italiana (Cei), il governo di Roma e quello di Addis Abeba.

I corridoi umanitari nascono da una collaborazione tra il governo italiano (ministeri degli Affari esteri e dell’Interno), la Comuntà di Sant’Egidio, la Cei, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei) e la Tavola Valdese. Queste ultime due istituzioni si sono occupate in particolare di rifugiati siriani provenienti dai campi profughi del Libano.

Descriviamo qui il corridoio Etiopia-Italia, mentre parleremo del secondo canale, Libano-Italia, nella prossima puntata.

Campione di accoglienza

È un’operazione che, dal novembre 2017, ha permesso di portare in Italia dall’Etiopia 327 eritrei, somali, sudsudanesi. E, tra ottobre e gennaio, ne farà arrivare altri 173. L’Etiopia si trova geograficamente al centro di conflitti e sofferenze. Il paese ospita un milione di profughi in fuga da guerre, carestie e persecuzioni. È una delle nazioni al mondo che accoglie più rifugiati. Una parte consistente arriva dal Sud Sudan, nazione sconvolta da una guerra che, dal 2013, ha causato migliaia di morti e quattro milioni di sfollati, persone che hanno lasciato la casa per cercare rifugio in altre zone del paese o all’estero (vedi MC ottobre 2018).

In Etiopia arrivano anche molti somali in fuga da un conflitto lungo quasi trent’anni che ha causato circa 500mila morti, e da un terrorismo islamico sempre presente e violento (Al Shabaab, vedi dossier MC maggio 2018).

Dal Nord, poi, arrivano gli eritrei, in fuga da un regime paranoico non dissimile da quello nordcoreano, il più dittatoriale di tutta l’Africa, e gli yemeniti, vittime di un conflitto civile senza quartiere che ha trasformato il gioiello della penisola araba in un inferno costellato di crimini di guerra.

«I corridoi umanitari – spiega Giancarlo Penza della Comunità di Sant’Egidio – sono un modo per far arrivare nel nostro paese i rifugiati senza che questi debbano finire nel tritacarne del traffico di uomini, e con la certezza che riusciranno a integrarsi in modo serio nella nostra società».

Una veglia organizzata dalla diocesi di Noto, insieme con la Caritas diocesana, la fondazione Migrantes, l’associazione We Care e il comune di Pozzallo. Con il Vicario generale della diocesi di Noto, Mons. Angelo Giurdanella

Cosa sono i corridoi umanitari

L’idea è nata nel 2011. Di fronte alle continue stragi del mare, i membri della Comunità di Sant’Egidio si sono interrogati sul fenomeno e, stimolati anche da papa Francesco che ha dedicato il suo primo viaggio pastorale proprio ai migranti recandosi a Lampedusa, hanno deciso di scendere in campo.

«Dopo un attento studio delle leggi – continua Penza -, abbiamo scoperto che il codice dei visti offre la possibilità ai singoli paesi europei di concedere un numero annuale di visti “a territorialità limitata” che valgono cioè solo per il paese che li rilascia. Abbiamo così proposto al governo italiano di concedere nullaosta a persone vulnerabili sottraendole ai viaggi della disperazione».

Il governo ha dato il suo assenso e così a novembre 2017 è partito il primo gruppo dall’Etiopia. Le persone sono scelte tra le categorie più deboli: malati (soprattutto i bambini come Abeba), vedove, giovani che hanno subito carcere e torture. «Sono individui – osserva Penza – che ci vengono indicati da organizzazioni religiose che lavorano in loco, ma anche dall’agenzia etiope per i rifugiati e dall’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) con le quali collaboriamo strettamente. Una volta individuati, i rifugiati giungono in Italia e qui chiedono il diritto d’asilo. Il vantaggio è doppio: i migranti non devono sobbarcarsi viaggi lunghissimi e pieni di pericoli; l’Italia conosce fin dall’inizio chi giungerà sul proprio territorio, perché già in Etiopia ha fatto una selezione tra chi ha presentato la domanda di visto».

Integrazione?

I corridoi umanitari permettono però di superare anche il problema dell’integrazione, lo scoglio più grande per chi arriva nel nostro paese. «L’Italia non ha un problema d’immigrazione, ma di integrazione – osserva l’ex viceministro agli Esteri, Mario Giro, da sempre legato alla Comunità di Sant’Egidio -. A questo riguardo il progetto dei corridoi umanitari ha molto da dire: il modello di accoglienza diffusa sta mostrando quanto l’integrazione non sia solo possibile ma è il nostro futuro».

Nel nostro paese, i rifugiati non vengono infatti lasciati a loro stessi. Sono accolti in 13 delle 20 regioni italiane (Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria, Veneto) presso parrocchie, appartamenti di privati e istituti religiosi. Qui possono contare sul supporto di famiglie italiane che si occupano di accompagnare il percorso di integrazione sociale e lavorativa sul territorio, garantendo servizi, corsi di lingua italiana, inserimento scolastico per i minori, cure mediche adeguate.

La Caritas di Ragusa, per esempio, ha ospitato Mohamed Abdi, 54 anni, la moglie Kadija Hussen, 31 anni e cinque bambini tra i 2 e 15 anni. La famiglia, pur di fede islamica, è dovuta fuggire a causa delle minacce di un gruppo musulmano fondamentalista. Una delle bimbe è affetta da lupus, una malattia cronica autornimmune. Un fratellino è già morto a causa della stessa patologia. La Caritas di Ventimiglia ha invece ospitato un papà del Sud Sudan con i suoi due bambini, la bimba ha un grave problema a un occhio.

Come si pagano i corridoi

Ma chi paga l’arrivo, l’accoglienza e l’assistenza in Italia? Il progetto è nato dalla collaborazione tra Comunità di Sant’Egidio e la Conferenza episcopale italiana che copre la maggior parte dei costi grazie ai fondi dell’8 per mille (quello della Fcei, con l’8 per mille della Tavola Valdese, ndr). Altri fondi arrivano da donazioni private. «Allo stato – continua Penza – questa operazione non costa nulla. A fine anno, la convenzione scadrà. Stiamo trattando per rinnovare il protocollo. Nonostante sia cambiato il governo e l’attuale compagine abbia posizioni molto dure sull’immigrazione, finora abbiamo trovato ampia disponibilità. Speriamo davvero di poter ripristinare un sistema che ha permesso di salvare vite umane. L’obiettivo è di alzare l’asticella chiedendo i visti per 600 rifugiati provenienti dall’Etiopia e da altri paesi».

In questo senso fanno ben sperare le parole del premier Giuseppe Conte pronunciate a margine della visita nella sede della Comunità di Sant’Egidio a Roma, dove ha incontrato profughi, anziani e disabili: «La Comunità di Sant’Egidio ha varato in passato protocolli per realizzare corridoi umanitari. Sono iniziative importanti perché fanno arrivare in Italia migranti che hanno diritto alla protezione umanitaria. Numeri specifici, persone individuate. Si tratta di immigrazione regolare».

«La speranza è che in Italia si ripeta questa esperienza – ha dichiarato monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza episcopale italiana accogliendo i primi rifugiati arrivati nel novembre 2017 -. Questi corridoi umanitari devono diventare una prassi consolidata, affinché chi ne ha bisogno possa realizzare il suo sogno di vivere con dignità. Questa esperienza non nasce oggi, ma si pone a fianco di altre iniziative che la Chiesa italiana sviluppa in questi paesi di migrazione e transito da più di 30 anni».

Enrico Casale
(prima puntata – continua)




Cari Missionari


Preghiera per l’Ottobre Missionario 2018

Insieme ai giovani, portiamo il Vangelo a tutti

O Dio Padre che sei nei cieli,

con gioia e stupore ti ringraziamo perché per un’iniziativa del tuo amore preveniente ci troviamo in questo mondo. Per mezzo del Cristo, tuo dilettissimo Figlio, ci hai creati a tua immagine e ci hai rigenerati a vita nuova, rendendoci tuoi figli adottivi in virtù del dono del tuo Santo Spirito, che ci fa vivere l’entusiasmante avventura di chiamarti Papà nella Chiesa, tua famiglia. Nella fede riconosciamo che la nostra vita è una missione: attratti da te ed inviati nel mondo, ci percepiamo interiormente animati dal tuo Spirito d’amore che custodisce in noi la speranza. Ti supplichiamo umilmente: fa’ che nessuno rifiuti il tuo amore, in modo tale che cessi la povertà materiale e morale e ogni discriminazione di fratelli e sorelle.

O Cristo Gesù crocifisso e risorto,

aprendoci alla missione che tu ci affidi dicendoci: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi», la nostra fede rimane sempre giovane. Tu dai senso alla nostra vita, tu sei la verità che ci rende liberi, il tesoro che riempie di gioia la vita, il fondamento dei nostri sogni e la forza per realizzarli. Stando con te prendiamo coscienza che il male è provocazione ad amare sempre di più. Dalla tua croce gloriosa impariamo la tua logica amorosa, l’offerta di noi stessi come annuncio del tuo Vangelo per la vita del mondo. Tu per la fede abiti nei nostri cuori e vuoi parlare e agire in noi.

Spirito Santo, anima della Chiesa,

dal battesimo dimori in noi come in un tempio.
Illumina e infiamma la mente e il cuore di ciascuno di noi, rendendoci missionari del Vangelo nel mondo
intero. Ti ringraziamo per il dono di coloro
che ci hanno trasmesso la fede con la vita e la parola, testimoniando la perenne vitalità del Vangelo.

O Maria, Regina degli Apostoli e madre e modello della Chiesa,

prega per noi perché in fretta raggiungiamo gli ambienti umani, culturali e religiosi ancora estranei al Vangelo di Gesù vivente nella Chiesa. Aiutaci a donarci nella vocazione che ci è stata regalata dal Creatore, seguendo il tuo Figlio Gesù. Insegnaci a metterci il grembiule per servire i più piccoli, promuovendo la dignità umana e testimoniando la gioia di amare e di essere cristiani. Ricordaci che molta gente ha bisogno di noi, che Cristo conta su di noi, chiamandoci incessantemente ad essere suoi discepoli missionari, sempre più appassionati per il suo Regno.
San Francesco Saverio, Santa Teresa del Gesù
Bambino, Beato Paolo Manna, intercedete per noi e accompagnateci sempre.
Amen. Alleluia!

don Francesco Dell’Orco
di Bisceglie (BT), 02/08/2018

Ha ragione Salvini?

Cari Missionari,
ve la prendete se dico che, almeno in una cosa, Salvini ha ragione? Non è meglio se i coniugati che hanno figli vengano chiamati padre e madre, anziché genitore uno e genitore due?

Mario Zumpanesi
12/08/2018

Caro Mario,
dal mio povero punto di vista non credo ci sia bisogno di scomodare Salvini per dire che un bambino/a ha un padre (maschio) e una madre (femmina) e non genitore 1 e/o 2. Lo dice la natura stessa, la nostra specie. Tanto più che essa è una realtà con paladini più credibili di un ministro che governa (o fa campagna elettorale perenne) twittando.

Primo, c’è una tradizione dell’umanità che va avanti da qualche migliaio di anni ed è condivisa dalle culture più disparate. E questo è «civiltà», come avrebbe scritto Giovannino Guareschi che definiva «progresso» la «tornilette vicino alla stanza dove mangi e dormi», e «civiltà» il «cesso fuori da dove vivi» (come era un tempo nella sua Bassa).

Poi c’è una solida tradizione biblica e cristiana. È vero, il Vangelo non ha norme su come devono essere scritti e formulati i documenti dello stato, e quindi è legittimo che questo usi le diciture che preferisce. Ma se si vuole essere davvero inclusivi e rispettare tutti i credi e le opinioni, perché imporre a tutti quel «genitore 1 e 2» che, se rispetta una minoranza, insulta invece una grande maggioranza?

Da ultimo. Uno stato può e deve legiferare su aborto, divorzio, unioni omosessuali, gender, utero in affitto e via dicendo, ma per un credente l’aborto rimane un omicidio, il matrimonio è per la vita, l’unione tra due persone dello stesso sesso non è matrimonio, l’utero in affitto non è accettabile (vedi a pag. 62) così come la sperimentazione genetica sui feti, un bambino/a nasce dall’incontro tra uno spermatozoo di un maschio e l’ovulo di una femmina, eccetera. Benvenga la modifica dei documenti twittata da Salvini, purché mantenga uno spazio di rispetto per chi la pensa in modo diverso e non sia un’imposizione ideologica.

Dissentire da Gesualdi

Gent.mo padre Gigi,
seguo da anni la rivista e apprezzo molti articoli, devo però dissentire su molte cose scritte negli articoli di Francesco Gesualdi.

Ad esempio, nell’articolo di giugno appare che tanti problemi siano dovuti alla mancanza di sovranità monetaria degli stati. Quando si afferma che «la moneta unica ha prodotto risultati disastrosi», forse sarà pur vero in qualche caso (ha tolto terreno agli speculatori), ma è innegabile che i risultati positivi sono stati di gran lunga maggiori. Ma se la Grecia o l’Italia non avessero avuto una stabilità monetaria cosa sarebbe successo?

Come sarebbero stati gli interessi che si sarebbero dovuti pagare, senza l’euro, a chi ha prestato capitali (usati per politiche demagogiche come mandare in pensione statali con soli 15 anni di lavoro o dare invalidità a tanti che non ne avevano diritto)? Ma si è certi che bastava stampare altra lira per azzerare il debito? Il default dell’Italia sarebbe stato meglio?

Il vero problema è la mancanza di una politica comune (fiscale, economica, estera) e l’esistenza di tanti egoismi locali e nazionali. Ripeto: il problema non è la mancanza di sovranità monetaria.

Quando si fa riferimento a Keynes, come esempio da seguire si dimentica che sono passati 90 anni, che il mondo è cambiato, le distanze si sono enormemente accorciate; alcuni stati (europei e non solo) hanno bilanci inferiori a quelli di alcune multinazionali. Non si può tornare indietro … «Piccolo è bello», slogan in voga negli anni ‘80-’90 ha dimostrato che è un’illusione chiudersi nel proprio piccolo, nazione o gruppo.

Comunque, continuerò a leggere Missioni Consolata e quando leggerò gli articoli di Gesualdi scuoterò sconsolato la testa.

Antonio Borello
20/07/2018

Caro signor Antonio,
quanto Francesco Gesualdi scrive con competenza e passione, non è Vangelo. È un contributo alla comprensione di una realtà – come quella economica – estremamente complessa e sempre più fuori dal controllo non solo di noi gente comune, ma a volte anche dei governi.

È vero che ci fa più piacere leggere cose che confermano quello che già pensiamo, ma confrontarci con chi la pensa diversamente da noi ci arricchisce e ci può invogliare ad approfondire di più e conoscere meglio.

La logica di questa rivista non è quella dei social: riscuotere il più alto numero di «mi piace». Non cerchiamo il consenso, ma crediamo nel cuore e nell’intelligenza dei nostri lettori di cui rispettiamo fino in fondo la libertà di pensiero e di opinione.

Spezzare la catena

La rete che fa partire i migranti africani, cioè quelli che si fermano in Libia, ce l’hanno descritta più volte: ci sono quelli che girano nei paesi per convincere le persone a partire e poi le vendono a una lunga catena di intermediari in tutti i paesi attraversati. Vengono bloccate e torturate fin quando non arrivano altri soldi, e poi l’ultima sanguinosa estorsione avviene in Libia, che magari prende soldi italiani per rubarci su costruendo lager, e altri ancora li estorce dai poveretti per lasciarli imbarcare.

Non potrebbero giornalisti coraggiosi, magari assumendo informazioni dai missionari, descrivere bene questa catena (in cui, a occhio, c’entrano molti stati ex francesi e ora comunque collegati con la Francia che tanto strilla per non riceverli) e l’Italia occuparsi di diffondere queste informazioni su tutte le reti possibili, in modo che arrivino nei paesi d’origine dei migranti?

Claudio Bellavita
04/07/2018

Il problema è grande. Ci sono Ong, associazioni e chiese che si impegnano in questo campo. Pensi solo alla rete «Talitha Kum» creata da tante suore nel mondo che stanno lottando contro la tratta di persone. Oppure alle attività di cui abbiamo scritto a proposito del Niger (MC 3 e 4/2018) o del soccorso in mare (dossier MC 1-2/2018). Quanto alle responsabilità, quella francese è fuori discussione, visto la politica colonialista passata e recente. Ma neanche noi italiani possiamo ritenerci del tutto innocenti: Libia, Eritrea, Somalia ed Etiopia sono nostre ex colonie e il nostro colonialismo non è stato «più buono» di quello inglese, francese o tedesco.

Crollo di una diga in Laos

Spero che la tragedia del 24 luglio, quando il crollo di una colossale diga ha provocato la morte di oltre cento persone e la scomparsa di decine di villaggi nel Sud del Laos, convinca i governanti che il Mekong, più che un gigante pericoloso da imbrigliare con costosissime operazioni di ingegneria idraulica, è un fiume che dovrebbe essere amato, capito e valorizzato per quello che è, ovvero un patrimonio di eccezionale valore biologico, naturalistico e paesaggistico.

Spero che i professionisti dell’informazione facciano del loro meglio per ricordare a tutti che la tutela del Laos e della sua natura è di cruciale importanza per la conservazione degli equilibri ecologici e climatici nella regione del Sudest Asiatico e non solo.

Ave Baldassarretti
12/08/2018

I disastri non risparmiano alcun angolo del mondo. Ma non dovremmo aver bisogno di terremoti, inondazioni, incendi, tsunami ed eruzioni per «custodire il creato». Papa Francesco, nell’enciclica «Laudato si’», ci ha ricordato con forza e chiarezza la nostra responsabilità. Ma come è difficile per tutti cambiare e smettere di comportarci da «padroni» e diventare invece «custodi» e «giardinieri» del mondo.

Cammino verso Czestochowa

«Se vogliamo conoscere il cuore dei polacchi, occorre venire qui a Czestochowa al santuario della Madonna Nera. Bisogna ascoltare in questo luogo l’eco della vita dell’intero popolo vicino al cuore della sua Madre e Regina».

Pellegrinaggio 2018 alla Madonna di Czestochowa con i giovani dei Missionari della Consolata

Queste parole pronunciate da Giovanni Paolo II esprimono bene quel rapporto tra il santuario di Czestochowa e la vita di milioni di fedeli. La prospettiva migliore per capire tutto questo è di partecipare a uno dei numerosi pellegrinaggi che a piedi da ogni parte del paese d’estate si dirigono qui. Si contano ogni anno circa 250mila pellegrini provenienti da tutte le 41 diocesi polacche.

La tradizione dei pellegrinaggi al santuario della Madonna Nera è antica. I primi gruppi documentati risalgono al
XVII sec. Nel settembre del 1626 un gruppo di 80 fedeli partì da Gliwice diretto a Czestochowa per onorare un voto di ringraziamento alla Madonna per aver salvato la città dall’assedio dell’esercito danese. Il voto impegnava i cittadini a recarsi lì ogni anno per ringraziare e far memoria dell’evento.

Pochi anni dopo nel 1637 anche i fedeli della città di Kalisz iniziarono a recarsi a piedi al santuario e, cosa singolare, a fare a piedi anche il ritorno. Nel 1771, il 6 agosto, anche i varsaviani come voto di ringraziamento alla Madonna per aver salvato la città dalla peste inziarono a pellegrinare verso il santuario. Questi primi gruppi iniziarono una tradizione ininterrotta che si è sviluppata grandemente e ancora oggi dopo diversi secoli resiste nel tempo.

Dalla sola città di Varsavia partono ogni estate almeno cinque pellegrinaggi a piedi, tra questi quello organizzato dalla Pastorale universitaria dell’Arcidiocesi che ha sede nell’antica chiesa di sant’Anna, nel centro della città. Vi partecipano mediamente 4mila giovani e famiglie divisi in 19 gruppi. Uno di questi gruppi, quello argento, lo guidiamo noi missionari della Consolata. Infatti, fin dal nostro arrivo in Polonia nel 2008 ogni anno partecipiamo al pellegrinaggio con questo gruppo.

Il percorso è di circa 300 km diviso in 10 giorni dal 5 al 14 agosto. La giornata inizia con la sveglia all’alba. Dopo essersi preparati, aver ripiegato la tenda o aver sistemato il sacco a pelo usato nel fienile di qualche contadino, i pellegrini sono pronti ad affrontare la lunga giornata. Ogni due ore circa si fa una sosta nei pressi di una parrocchia che organizza l’accoglienza. Il parroco benedice con l’acqua santa i gruppi che arrivano, mentre i parrocchiani ristorano gli affaticati pellegrini con panini e bevande. In cambio ricevono riconoscenza e tante preghiere. Il programma spirituale è intenso. Ogni giorno, in una cornice di canti gioiosi, vengono fatte conferenze dai sacerdoti, preghiere tradizionali, il rosario, la Corona alla divina misericordia e, come momento culminante, la S. Messa. Alla sera ci si saluta con un momento di ringraziamento in gruppo e un canto mariano. Ogni giorno si fa esperienza dell’ospitalità presso famiglie semplici di villaggi che condividono quello che hanno. Forniscono un po’ di acqua per lavarsi dopo la calda giornata, rendono accessibile il fienile per sistemare i sacchi a pelo e trascorrere la notte oppure i propri giardini su cui montare le tende e passare qualche ora di riposo notturno indispensabile per riprendere un po’ di forza e ripartire il giorno dopo.

Il clima che si crea tra i pellegrini è di grande fraternità e di gioia. Una gioia che umanamente è difficile scorgere in una esperienza obiettivamente faticosa. Eppure, ogni partecipante vive una forza interiore che lo sorregge e incoraggia. Questa forza, lo crediamo, ci è data da Colei verso cui e per cui camminiamo offrendole le fatiche e tantissime intenzioni di preghiera.

Il nostro gruppo in mezzo agli altri si distingue per la caratteristica missionaria. La nostra presenza internazionale vuole essere un segno della universalità della nostra fede vissuta nella fraternità. Spesso invitiamo confratelli e amici da altri paesi che arricchiscono le giornate con i loro racconti e testimonianze.

In una cultura occidentale che propone all’uomo moderno una tecnologizzazione globale, spesso anonima, che esclude le distanze e gli incontri reali così come ogni forma di sacro, il pellegrinare a piedi ha ancora un suo significato prezioso: ridare all’uomo il giusto orientamento per il quale è nato, quello del camminare con altri condividendo una forte esperienza di fede. Per questo andare a piedi percorrendo centinaia di chilometri ha un suo senso e le persone che vi partecipano lo testimoniano con convinzione.

padre Luca Bovio
Czestochowa, 17/08/2018

Grazie, Asante sana

Ringrazio Dio per avermi aiutata a concludere gli studi e a diventare una maestra. Lo ringrazio perché l’aiuto di tante persone che neppure conosco mi ha permesso di arrivare a questo punto e superare tutte le difficoltà. Grazie per esserci stati per me quando avevo più bisogno di voi.

Catherine Smaila
Maralal, Kenya

Con queste parole Smaila [o Smiler) ha voluto ringraziare tutte le persone che hanno contribuito alla  sua educazione dalla scuola elementare fino al completamento dei suoi studi al Teacher’s College.

Vi avevo raccontato la storia di Colei-che-ride tanti anni fa, era il dicembre 2009, proprio sulle pagine di questa rivista. «Colei-che-ride non ride più» avevo scritto.

Ma oggi Smaila è tornata a sorridere grazie all’aiuto di tanti amici che mi hanno permesso di aiutarla nei lunghi anni di scuola. Con lei e con tanti altri bambini e bambine che hanno concluso il loro ciclo di studi o stanno ancora studiando, vi ringarzio anch’io di cuore. Il «sostegno a distanza» è un’avventura lunga e impegnativa, ma la gioia che dà è grande. Che il Signore ricompensi ciascuno di voi per la pazienza e l’affetto con cui aiutate noi missionari a restituire il sorriso e la speranza a tante persone in situazione di grande povertà e sofferenza.

 




Mali, LVIA, una Ong contro la guerra

Testo di Marco Bello, foto di Archivio dell’Ong LVIA |


Nel paese, in conflitto dal 2012, è crisi umanitaria. Centinaia di migliaia di sfollati, mancanza di acqua, cibo e assistenza medica. Gli attacchi sono quotidiani e le violazioni dei diritti una costante. Spuntano anche le fosse comuni di civili. In mezzo a tutto questo una Ong piemontese, la Lvia, propone la sua via per la pace. Abbiamo incontrato il suo rappresentante.

Parigi, 26 maggio 2018. Mamoudou Gassama, è un immigrato clandestino di 22 anni. Nel diciottesimo arrondissement salva un bimbo appeso a un balcone, arrampicandosi a mani nude, con l’agilità di un gatto, fino al quarto piano di un palazzo. Ricevuto all’Eliseo dal presidente francese Emmanuel Macron, gli viene immediatamente concessa la nazionalità francese e gli è proposto un lavoro come vigile del fuoco.

San Calogero (Vibo Valentia, Calabria), 2 giugno. Tre immigrati vengono presi a fucilate da un italiano. Stavano cercando vecchie lamiere in una fabbrica abbandonata per costruire baracche. Sacko Soumayla, 29 anni, regolare e sindacalista, cade a terra morto. Il giorno prima al Quirinale ha giurato il governo Lega – Movimento 5 stelle, detto «del cambiamento».

Mamoudou e Sacko, entrambi migranti, entrambi maliani. Due storie simili, due destini diversi.

Anche Ousmane ag Hamatou, 37 anni, è del Mali. Lui lavora a Bamako, la capitale, per una Ong italiana, l’Lvia di Cuneo, della quale è il responsabile nel paese africano. Ousmane non ha nessuna intenzione di migrare. È in Italia, su invito della sua Ong, per formazione e una serie di incontri, poi tornerà in patria dalla sua famiglia e al suo lavoro.

Lo incontriamo, per farci spiegare cosa sta succedendo in Mali, e per provare a capire perché, ragazzi come Mamadou e Sacko sono scappati dal paese e molti altri continuano a farlo.

Perché si scappa dal Mali

Ma facciamo un passo indietro. Il Mali, paese cerniera tra l’Africa subsahariana e il Sahara, nel 2012 precipita in una crisi profonda, dopo un ventennio di relativa stabilità (cfr. MC giugno 2017). Il Nord del paese, l’Azawad, ha visto, negli anni precedenti, l’infiltrazione di gruppi estremisti islamici (jihadisti) dall’estero, in particolare dall’Algeria, che si sono inizialmente alleati con le milizie locali indipendentiste di etnia tuareg. Insieme conquistano il territorio del Nord, occupando le città e imponendo la loro legge. I soldati regolari fuggono a Sud. Ma l’alleanza si rompe e i jihadisti hanno la meglio sui Tuareg. A gennaio 2013 puntano addirittura sulla capitale Bamako. È per questo che intervengono prontamente i militari francesi, in protezione dell’ex colonia (e dei propri interessi). L’operazione francese Sérval respinge i miliziani e riconquista le città del Nord. Islamisti e indipendentisti si rifugiano nello sconfinato territorio desertico. Quando l’operazione Barkhane sostituisce Sérval, intervengono i caschi blu, con la Minusma: missione composta da soldati africani dei paesi vicini, ma anche da un grosso contingente tedesco. Gli eserciti stranieri affiancano quello maliano, le Forze armate del Mali (Fama), che sono allo sbando.

«La situazione oggi è complessa e molto volatile – commenta Ousmane -, perché dopo la firma degli accordi di pace tra il governo e i gruppi armati nel giugno 2015 (solo alcuni dei gruppi, quelli indipendentisti tuareg non radicalizzati, ndr), c’è stata una mancanza di volontà, in primo luogo dello stato, di mettere in pratica le condizioni sancite dagli accordi stessi (L’accordo prevede, tra l’altro, la smobilitazione dei combattenti; la creazione di pattuglie miste governo – ex ribelli; l’installazione di autorità ad interim nelle città del Nord con la partecipazione degli ex ribelli, e la Conferenza d’intesa nazionale, per una definizione politica dell’Azawad).E c’è anche una certa reticenza da parte dei gruppi armati per quanto riguarda il processo di disarmo, perché le armi sono l’unica garanzia che hanno per poter fare un’eventuale negoziazione». La non applicazione degli accordi crea una situazione di vuoto istituzionale, che ha ripercussioni importanti. «Lo stato non è presente in certe zone e i gruppi armati “firmatari” non si incaricano della sicurezza territoriale. Questo fa sì che sul terreno ci sia un’avanzata delle forze islamiste, che approfittano della situazione di abbandono del territorio. Assistiamo inoltre, per lo stesso motivo, a una disgregazione dei gruppi armati in tanti gruppuscoli più piccoli, con tendenza a diventare formazioni a carattere comunitario, ovvero a base etnica. Ogni comunità si organizza e si dissocia dai gruppi principali che sono i firmatari degli accordi. Esse temono, infatti, che se un giorno ci saranno i dividendi degli accordi, non tutte le comunità rimaste nei grossi gruppi saranno soddisfatte».

Ousmane (© Marco Bello)

Molti attori sul terreno

Oltre alla Minusma e all’esercito maliano – tornato nel Nord, dove controlla oggi le città, grazie all’intervento militare francese nel 2013 – la realtà degli attori sul terreno è complessa e variabile. Racconta Ousmane: «C’è il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma), il quale costituisce l’insieme dei grossi movimenti armati indipendentisti che hanno proclamato l’indipendenza dell’Azawad, poi ci sono diversi gruppi islamisti radicali, alcuni gestiti da maliani, altri da stranieri (in particolare algerini, ndr). Oltre a questi ci sono tante piccole milizie locali, comunitarie, che son state create e contribuiscono a rendere il clima pesante. Sono anche presenti bande di malviventi che operano e ostacolano il lavoro delle Ong, rubando le loro auto e compiendo assalti. Un insieme di attori armati che rende la situazione piuttosto complessa».

La popolazione è la principale vittima di questa situazione di insicurezza e instabilità, nella quale gli assalti si susseguono quotidianamente. Continua Ousmane: «La popolazione del Nord Mali cerca di capire cosa stia succedendo, perché ci sono stati troppi cambiamenti in questi ultimi tempi. Siamo partiti nel 2012 con uno stato maliano centrale relativamente forte, per arrivare a una situazione in cui il Nord è caduto nelle mani di diversi gruppi armati, uno stato autoproclamato dell’Azawad, per poi passare a uno stato islamista, perché gli jihadisti hanno cacciato gli indipendentisti. Siamo quindi ritornati a uno stato maliano diverso da quello del 2012, appoggiato da forze straniere e delle Nazioni Unite».

Oltre alla sicurezza sono i servizi a mancare: «La violenza è a tutti i livelli, anche nei piccoli villaggi, in zone dove lo stato non esiste più e i servizi sociali di base, come l’acqua, l’educazione, la salute, non sono garantiti. Per questo motivo c’è un grande numero di sfollati, sia verso paesi confinanti sia all’interno del Mali in direzione del centro e Sud del paese». I dati delle Nazioni Unite di aprile 2018 parlano di circa 60.000 persone sfollate all’interno e 137.000 rifugiate in Burkina Faso, Niger e Mauritania.

Anche nel centro del Mali la situazione è divenuta complessa. «Le condizioni nella zona centrale non sono diverse, è la stessa crisi del Nord che avanza nel centro, con gli stessi attori. Dato che non si trova soluzione alla base, la crisi si estende anche verso il Sud e ora tocca paesi limitrofi come il Sahel burkinabè (il Nord del Burkina Faso, ndr), che è stato contagiato dalla crisi, e la frontiera con il Niger (Nord Est, ndr). È tutta un’area geografica che vede la crisi estendersi».

In particolare il centro del paese è diventato teatro di scontri tra diverse etnie (cfr. MC giugno ‘17). «La Lvia interviene a Mopti, insieme all’Ong Cisv e con finanziamenti di emergenza del ministero per gli Affari esteri italiano, appoggiando i centri di salute. La particolarità di questa zona sono gli scontri intercomunitari tra la popolazione Peulh, allevatori, che si organizza in milizie, e quella Dogon, agricoltori, che inizia a prendere le armi».

Costretti all’emergenza

Lvia lavora in Mali da 30 anni, ed essendo una Ong che si occupa di sviluppo, ha sempre lavorato su programmi di lunga durata. Ousmane ci spiega cosa è cambiato con la crisi: «Non siamo una Ong di emergenza, ovvero non andiamo di proposito in quei paesi dove c’è la guerra per intervenire, ma in Mali siamo in un contesto che conosciamo bene, abbiamo molti contatti, siamo riconosciuti dalle comunità, dagli enti locali e anche dal governo. Abbiamo fatto tesoro di questo riconoscimento e della nostra conoscenza del terreno per realizzare progetti di emergenza umanitaria. Sono programmi su temi che abbiamo sviluppato anche in contesto non di crisi, come le infrastrutture idrauliche (pozzi artesiani, ndr), per dare acqua potabile alla gente. Per noi il fatto importante che cambia, è che oggi, con la crisi, ci sono bisogni primari da soddisfare, in modo anche urgente. Ad esempio, nell’ambito della nutrizione, perché gli indicatori di malnutrizione nel Nord del paese sono piuttosto alti. Sosteniamo alcuni centri di salute, quelli ancora funzionanti, per accogliere i bambini denutriti e seguirli. Facciamo anche molta sensibilizzazione e accompagnamento delle comunità, nell’ambito della valorizzazione dei prodotti agricoli locali e la loro integrazione nell’alimentazione di base».

Non sparate sulle Ong

In un contesto di crisi, oltre alle normali difficoltà c’è anche un altro problema per le Ong, quello della sicurezza dei propri operatori. «È una grande sfida, perché occorre abituarsi a lavorare in un contesto di sicurezza imprevedibile, dove anche se le nostre organizzazioni non sono prese particolarmente di mira, operiamo in un clima nel quale tutto può succedere. Abbiamo avuto incidenti come furti di auto o assalti a mano armata. È un contesto non controllabile, per cui occorre adattare la nostra missione, i nostri interventi, ogni giorno, informandoci in modo continuo e seguendo alla lettera le raccomandazioni di sicurezza».

Politica: evoluzione?

Il Mali sta vivendo anche un periodo di transizione politica, perché il 29 luglio si terranno le elezioni presidenziali (leggerete queste righe ad elezioni avvenute; pubblicheremo un resoconto delle stesse su www.rivistamissioniconsolata.it), che però non dovrebbero portare particolari sorprese. Oltre al presidente uscente Ibrahim Boubacar Keita (detto Ibk), eletto nel 2013, favorito, sono una ventina gli altri candidati. A inizio giugno una manifestazione di una coalizione di opposizione è stata repressa sul nascere mediante l’uso di gas lacrimogeni. I manifestanti chiedevano più trasparenza e più equità sui media nazionali per la copertura della campagna elettorale.

Chiediamo a Ousmane cosa ne pensa. «Visto il clima d’insicurezza che regna nel paese, con continui attacchi, penso che il contesto non sia propizio alla tenuta di elezioni libere, trasparenti e soprattutto credibili. C’è piuttosto un’urgenza nel mettere in sicurezza il paese e migliorare le condizioni di vita della popolazione più che organizzare delle elezioni.

L’impressione è quella che chi è al potere, ma anche chi vive nel Sud del Mali, dove c’è un piccolo spazio in sicurezza e normalità, non sia molto cosciente di cosa succede nel resto del paese. Il Nord non è mai stato una priorità per le autorità centrali e lo è ancora meno adesso. Colpisce anche il fatto che si organizzino elezioni quando molta gente è fuori dal paese o dalla sua zona di residenza abituale. Non è logico organizzare delle elezioni quando la popolazione non può votare». Occorre considerare che il paese, la cui superficie è di oltre 1,2 milioni di km2 (quasi quattro volte l’Italia) ha una vasta fetta di deserto del Sahara, l’Azawad appunto, che occupa una superficie di 822.000 km2. La capitale dello stato, Bamako, si trova invece nell’estremo Sud del paese.

«Bisogna riconoscere che il presidente attuale ha assunto la carica in un momento piuttosto particolare. È arrivato nel 2013 quando il paese attraversava una crisi molto grave, difficile da gestire. Gli si può però contestare che certi impegni presi nell’ambito dell’accordo di pace non sono stati applicati. Questo è un punto importante sul quale il governo ha fallito». Il Mali è una repubblica presidenziale, per cui il presidente della Repubblica è anche il capo dell’esecutivo. Un cambio del presidente prevede anche un nuovo governo.

«L’opinione pubblica a Bamako è molto divisa su Ibk. C’è chi pensa che questo governo, in un secondo mandato non possa fare meglio di quanto ha già fatto, altri che pensano occorra un vero cambiamento. Io personalmente, tra i candidati, non vedo nulla di nuovo, sono le stesse figure che hanno contribuito, negli anni, a portare questo paese a terra. Resta la stessa generazione di politici maliani che, ormai da decenni, non riesce a far uscire il paese da questa situazione».

Il pantano degli scontri etnici

La novità degli ultimi due anni sono gli scontri a base etnica nelle due regioni centrali di Mopti e Ségou, che nulla hanno a che vedere con l’Azawad e i Tuareg, ma dove si sono inaspriti conflitti atavici tra gli allevatori peulh e gli agricoltori dogon, con la compiacenza dei Bambara del Sud. Sovente i cacciatori bozo di etnia bambara fanno il lavoro sporco coperti dai militari.

È del giugno scorso la scoperta di almeno tre fosse comuni di civili uccisi, sembra giustiziati, anche per rappresaglie, dall’esercito maliano. Il 19 giugno, in seguito a un’operazione militare, erano scomparse 18 persone dalla località di Gassel (dipartimento di Douentza, regione di Mopti), tutte di etnia peulh. Il 20 è stata scoperta una fossa con almeno 7 corpi. Pochi giorni prima, il 15 giugno a Nantaka e Kobaka, nel comune di Sokoura, i corpi di 25 persone erano stati scoperti in tre fosse comuni. Anche loro, con tutta probabilità, peulh. Le responsabilità sarebbero dell’esercito regolare, fatto questa volta confermato da un comunicato del ministero della Difesa.

Scontri nei quali si sono insinuati gli islamisti radicalizzati, come Amadou Koufa, fondatore del Fronte di liberazione di Macina, legato al capo tuareg radicale Iyad ag Ghali (lui di Kidal, nel Nord). Fronte che ha avuto come filiazione il primo gruppo di combattenti jihadisti del Burkina Faso, Ansarul Islam (cfr. MC giugno ‘17), nato nella confinante provincia del Sahel burkinabè.

Crisi senza soluzione?

In una situazione così ingarbugliata è difficile vedere una via d’uscita. Chiediamo a Ousmane, uomo del Nord, che vive in capitale e che ha una visione d’insieme, di dirci quale sarebbe, secondo lui, una pista per la soluzione. «Secondo me è difficile prevedere. L’insicurezza ha gravi ripercussioni sulla situazione umanitaria e su quella politica. Tutto è molto complesso.

La prima cosa da fare è applicare l’accordo di pace di Algeri, per cominciare a trovare una soluzione politica alla ribellione tuareg nel Nord del Mali. In questo modo si farebbe un grande passo in avanti e ci si potrebbe occupare degli altri problemi, che sono nell’insieme una conseguenza di questa  guerra.

Il presidente che arriverà dovrà prendere di petto l’applicazione di questi accordi, per farci andare avanti nella via della prosperità e della pace».

Ma i jihadisti, in particolare quelli stranieri, non hanno partecipato agli accordi. Con loro non si può negoziare? «I jihadisti non hanno nulla da negoziare. Lo hanno detto quando hanno conquistato il Nord, che non erano venuti per negoziare uno stato o una soluzione politica, erano venuti per instaurare uno stato islamico in Mali. Per cui occorre che il governo maliano trovi una soluzione politica alla situazione dei Tuareg nel Nord del Mali e a questo punto, tutti noi maliani, ci possiamo mettere insieme per combattere gli islamisti. Io penso che non resisterebbero a un Mali unito, ma nelle condizioni attuali sono loro che approfittano e creano ogni giorno il caos sulla nostra terra».

Ci sono islamisti stranieri ma anche maliani che si sono radicalizzati. In particolare il capo più importante del momento è il tuareg Iyad ag Ghali. Già leader delle grandi ribellioni tuareg dal 1991 in avanti, si è poi islamizzato, ha fondato il gruppo Ansar Dine, tra i fondatori di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), e nel 2017 ha riunito in un fronte comune diverse formazioni nel Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim).

«Io penso che rispetto agli islamisti maliani si possa trovare una soluzione. Secondo me, la maggior parte di loro si sono radicalizzati perché hanno visto questo passaggio come un modo per continuare la lotta politica per l’indipendenza del Nord. Se invece sentissero che c’è una reale volontà per una soluzione politica con i gruppi armati tuareg o di altre comunità del Nord, sarebbe possibile negoziare con loro. Per gli altri islamisti che non sono maliani, l’unica soluzione è combatterli. Con o senza l’appoggio delle forze straniere. Non abbiamo necessariamente bisogno di eserciti stranieri, ma è invece obbligatorio ritrovare quello che ci unisce come maliani, come nazione, e a quel punto possiamo vincere la guerra contro gli islamisti, contro il sottosviluppo, e ben altre sfide».

Marco Bello




Migranti: a Pozzallo, in preghiera, veglia per non dimenticare

Dalla veglia sul lungomare di Pozzallo |


“Non ti allarmare fratello mio, dimmi, non sono forse tuo fratello? Perché non chiedi notizie di me?”.

Sono parole tratte da una poesia di Tesfom Tesfalidet, il ventiquattrenne eritreo ripescato in mare e portato a Pozzallo il 13 marzo scorso, ricoverato in condizioni disperate per la fame, la tbc e le percosse subite dai trafficanti e morto dopo 24 ore di agonia. Queste stesse parole hanno dato il tono alla veglia di preghiera celebrata il 6 luglio a Pozzallo, all’aperto, davanti al mare che negli ultimi anni è diventato tomba di oltre 34.000 morti tra uomini, donne e bambini, annegati nelle drammatiche traversate del Mediterraneo, nella ricerca di una vita più dignitosa.

Pensieri ed immagini forti che scuotono le coscienze, per svegliarci dall’indifferenza. Dopo la poesia di Tesfom, un video tanto toccante quanto sconvolgente: i corpi senza vita, di uomini donne e bambini, le urla strazianti di paura, il mare, via di salvezza per alcuni, tomba per molti altri che cercavano semplicemente una vita migliore. Ha lasciato senza fiato.

Una veglia per non dimenticare, una richiesta di perdono a Dio per l’indifferenza che “ci ha tolto la capacità di piangere” (omelia di Papa Francesco a Lampedusa), per la mancata presa in carico della sofferenza di questi fratelli, una disattesa risposta di carità, che in quanto cristiani ci deve inquietare; un momento di riflessione per tanta ingiustizia sociale che è causa di sfruttamento e di povertà per questi popoli.

Una veglia organizzata dalla diocesi di Noto, insieme con la Caritas diocesana, la fondazione Migrantes, l’associazione We Care e il comune di Pozzallo. In tanti hanno riempito l’anfiteatro pietrenere del lungomare di Pozzallo. P. Gianni Treglia, missionario per 16 anni in Tanzania, ha introdotto il momento di preghiera, ricordando il dolore di queste morti innocenti e l’impegno dei cristiani a non lasciare da soli questi fratelli, senza chiudersi nell’egoismo e nella paura.

Padre Gianni Treglia

Nel corso della veglia, sono state lette alcune poesie del giovane Tesfom e alcuni interventi di Papa Francesco, sempre così attento, dall’inizio del suo pontificato, al dramma degli immigrati. Francesco, che nello stesso giorno ha celebrato in San Pietro la Messa per loro, ha affermato nella sua omelia che la solidarietà e la misericordia sono le uniche risposte sensate a fronte di questa emergenza.

Papa Francesco in una sua preghiera ci ricorda che possiamo onorare il loro sacrificio con le opere più che con le parole. Bisogna farsi carico di ogni povero e disperato, altrimenti no, altrimenti non ci deve essere dato di dormire sonni tranquilli. L’Africa è terra ricca di risorse costantemente depredate, ognuno di noi ha il dovere di sentirsi coinvolto per questo, mentre godiamo di privilegi costruiti sullo sfruttamento di beni dei quali ci arroghiamo la proprietà, è un’ingiustizia e da troppo tempo ne siamo complici silenziosi. Il cristiano non può far finta di niente, altrimenti semplicemente non è cristiano.

Il Vicario generale della diocesi di Noto, Mons. Angelo Giurdanella

Nella sua riflessione, il Vicario generale della diocesi di Noto, Mons. Angelo Giurdanella, ha rimarcato la responsabilità dei cristiani verso questa crisi umanitaria, esortando tutti, credenti e non, a farsi promotori di una cultura più “umana” – quella “cultura dell’incontro”, così centrale nell’insegnamento del Papa -, e di non chiudere i porti, ma soprattutto i cuori e le menti.

Davanti al mare di Pozzallo, città simbolo degli sbarchi, un piccolo ma deciso segnale di umanità, proprio da questa città che ha dato i natali a Giorgio La Pira (di cui il Papa ha nei giorni scorsi ha dichiarato le “virtù eroiche”, primo passo verso la beatificazione), profeta dell’incrollabile speranza e dell’ineluttabilità della pace, poiché  …la storia è intrinsecamente mossa ed orientata -malgrado tutte le resistenze del peccato- verso l’unità, la pace e la liberazione dei popoli di tutta la terra.” (Giorgio La Pira).

Ma in questo momento storico, quando sembra che i cuori impietriti stiano prendendo il sopravvento, la veglia è stata segno di speranza. L’anfiteatro era gremito di gente, perfino fuori le persone erano numerose. Questa presenza massiccia è segno che noi restiamo umani!

Da testi di don Alessandro Paolino e Federica Puma

Il video usata durante la preghiera.

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“l numero dei morti nel Mediterraneo aumenta, ogni giorno. Vogliamo ricordarli, nostre sorelle, nostri fratelli, la cui unica colpa è il sogno inseguito, sogno di pace, … mai raggiunto. Una Veglia Penitenziale per chiedere a Dio perdono per l’INDIFFERENZA che non ci fa chiedere notizie del fratello, per ogni forma di INGIUSTIZIA SOCIALE causa dell’impoverimento dei popoli, per la mancata PRESA IN CARICO dei poveri che tendono a noi la mano”. (padre Gianni Treglia, imc).

“La memoria dei morti ci aiuti a difendere i vivi e a scegliere con intelligenza, determinazione ed efficacia quella umana via per cui ero straniero e mi avete accolto” (mons. Matteo Zuppi)

Veglia organizzata dalla diocesi di Noto, insieme con la Caritas diocesana, la fondazione Migrantes, l’associazione We Care e il comune di Pozzallo. Con il Vicario generale della diocesi di Noto, Mons. Angelo Giurdanella




Aquarius: dai Missionari italiani appello al Presidente del Consiglio


Dai Missionari italiani appello al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte

11 giugno 2018 – Come cittadini e cristiani siamo esterrefatti e indignati della decisione del ministro degli interni Matteo Salvini che impedisce alla nave Aquarius di portare in salvo nei porti italiani 629 migranti, salvati in acque territoriali libiche.

Il rifiuto di prestare soccorso ai migranti non ha precedenti nella nostra storia ed è in flagrante violazione delle convenzioni internazionali, di cui anche l’Italia è firmataria, che obbligano il soccorso in mare a chi è in pericolo di morte.

Tra i migranti sulla nave ci sono oltre cento minori non accompagnati e sette donne incinte. Una cinquantina di migranti sono stati salvati mentre erano a rischio di morire annegati.

Deploriamo la decisione di Malta, prima destinazione di sbarco, che si è rifiutata di accettare l’attracco della nave Aquarius. Così come la chiusura della Francia e della Spagna (che all’ultima ora si è detta disponibile a ricevere la nave nel porto di Valencia) ad ogni possibilità di accoglienza dei migranti. Ma è deplorevole e vergognoso che l’Italia decida di allinearsi, facendo così pagare a persone innocenti bisognose di aiuto il prezzo di una diatriba tra stati su chi si debba assumere la responsabilità di accogliere i migranti.

Chiediamo pertanto che il nuovo governo italiano ritorni sulla decisione presa dal ministro Salvini e dia immediatamente il benestare alla nave Aquarius di approdare a uno dei porti italiani più vicini a dove si trova ora la nave.

È vero, l’Italia non può essere lasciata sola di fronte a un fenomeno migratorio che ha una portata enorme e implicazioni internazionali (specie nel bacino del Mediterraneo) che chiamano in causa l’attenzione e il peso geopolitico dell’Unione Europea. È quindi corretto e giusto che il governo italiano faccia sentire la propria voce a Bruxelles, chiedendo ai partner europei di farsi carico, anche loro, del dossier migranti.

Ma nello stesso tempo l’Italia non può sottrarsi al dovere di accogliere persone che, in gran parte, cercano di costruirsi una vita migliore in Europa e che, in alcuni casi, fuggono da guerre e da regimi dittatoriali.

È importante che l’Italia mantenga un doppio ruolo: essere un porto sicuro per i migranti e nel contempo non smettere di sollecitare l’Europa a trovare soluzioni percorribili (non semplicemente fondate sul controllo militare delle aree di transito dei migranti, come avviene in Niger e Mali), anche nei paesi di partenza dei migranti.

I partner europei devono essere sollecitati a spostare il baricentro delle proprie politiche verso il Mediterraneo. È qui – in particolare attraverso la pacificazione e la stabilizzazione degli stati nordafricani – che si possono cominciare a costruire nuovi equilibri politici ed economici.

Conferenza degli istituti missionari italiani (CIMI)
Segretariato unitario di animazione missionaria (SUAM)
Commissione Giustizia, Pace e Integrità del Creato (GPIC) della CIMI

Della Cimi e del Suam fanno parte i seguenti Istituti missionari:

  • Comboniani e Comboniane (Pie Madri della Nigrizia)
  • Francescane missionarie di Maria
  • Missionari d’Africa (Padri Bianchi)
  • Missionari e missionarie della comunità di Villaregia
  • Missionari e missionarie della Consolata
  • Missionari e missionarie Saveriani
  • Missionarie dell’Immacolata
  • Missionarie di Nostra Signora degli Apostoli
  • Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere)
  • Società delle missioni africane
  • Verbiti (Società del Verbo Divino)



Vita e speranze a Moria,

l’hotspot di Lesbo

Testo e foto su Lesbo di VALENTINA TAMBORRA |


L’isola greca di Lesbo è a pochi chilometri dalle coste turche. È diventata passaggio naturale della rotta balcanica dei migranti. Primo lembo di terra dell’Unione europea verso il Medio Oriente. Qui è stato creato un centro di identificazione, il «campo» di Moria, dentro e fuori il quale i profughi cercano di sopravvivere. Siamo andati a raccogliere alcune delle loro storie.

Lesbo. «This is not Europe» è la frase che si sente ripetere incessantemente a Moria. Solo 8,6 km separano il campo di Moria dal resto dell’Europa. E il resto dell’Europa, sull’isola di Lesbo, inizia a Mytilini. È da qui, infatti, che partono i traghetti che collegano l’isola al continente, ad Atene.

Il porto di Mytilini è il fulcro commerciale del luogo. Negozi di souvenir, ristoranti, bar alla moda, musica ad alto volume sparata tutto il giorno dagli altoparlanti sul lungomare. Uno scenario che difficilmente riesci a spiegarti: due mondi paralleli sono divisi da un muro invisibile, quello fra il campo (ufficialmente hotspot) di Moria e il resto dell’isola. È qualcosa che si fa fatica a comprendere, a tollerare.

Moria, centro di accoglienza e identificazione, luogo adatto a ospitare non più di 2.000 persone, ad oggi, marzo 2018, ne contiene o, sarebbe meglio dire, ne trattiene quasi 6.000. Afghanistan, Siria, Iraq sono i luoghi di origine per la maggior parte degli ospiti.

L’attesa per essere ricollocati o rimpatriati può durare mesi, a volte anni.

Una vita al limite

Qui le condizioni di vita sono disperate: mancano servizi igienici adeguati, acqua calda, abiti, generi di prima necessità. Le donne indossano pannolini per non essere costrette a recarsi alle latrine dove manca la luce e dove spesso, purtroppo, si verificano aggressioni sessuali.

Mancano inoltre alloggi adeguati, migliaia di persone vivono accampate in piccole tende nel campo o subito all’esterno, nell’uliveto denominato Olive Grove che è diventato, a tutti gli effetti, un’estensione del campo profughi. Sulla nuda terra vengono piantate tende instabili e traballanti, inadatte alla pioggia, al vento e al clima rigido dell’inverno. Nel 2016 sono morte cinque persone per via del freddo. L’elettricità viene fornita con cavi da interno, che passano sul terreno mettendo così a rischio l’incolumità delle persone. Camminando nell’accampamento non è raro vedere i bambini (che qui sono quasi il 40% dei migranti) giocare con tutto ciò che trovano a terra, vetro, cocci, spazzatura e, appunto, cavi elettrici.

Per scaldarsi si brucia quello che si trova, plastica compresa.

E ancora, non esiste un servizio medico adeguato, né un supporto psicologico, e neppure mediatori culturali a sufficienza.

La tigre Tamil

Ed è proprio per questo motivo che Parathi, la prima persona di cui ho raccolto la testimonianza, è bloccato sull’isola da 23 mesi. Per mancanza di persone che possano occuparsi di raccogliere la sua storia, di comunicare la sua richiesta d’asilo al governo greco.

Parathi viene dallo Sri Lanka, è una «tigre Tamil», ovvero un uomo che ha combattuto per 13 anni per la liberazione della propria terra. Fuggito perché perseguitato, si trova bloccato a Moria senza un interprete. Parathi, chiamato da tutti «Maradona» (per la sua abilità nel gioco del calcio, una delle poche attività ludiche previste per dare sostegno ai migranti), non parla infatti un buon inglese. Avrebbe bisogno di un traduttore tamil ma a Moria non se ne vedono. L’unico in grado di tradurre la testimonianza è un Tamil residente nel Nord Europa. L’Easo (Ufficio Europeo di Sostegno per la richiesta d’asilo) deve avere evidentemente dei problemi nel reperirlo, in quanto in 23 mesi Parathi è riuscito a parlarci una sola volta e la sua domanda d’asilo è stata poi rigettata: si ritiene infatti, a livello internazionale, che in Sri Lanka non esistano più discriminazioni razziali o conflitti interni.

Ma basta fare una semplice ricerca per capire che ciò non corrisponde a verità: il Nord Est dello Sri Lanka è ancora militarizzato e come da dichiarazione dell’arcivescovo di Mannar, monsignor Emmanuel Fernando, dal 2009 mancano 146.679 persone all’appello. Scomparsi, uccisi forse, in quello che è un vero e proprio genocidio di cui non si parla.

Parathi sorride, nonostante tutto. Con il poco cibo che gli viene dato da chi gestisce il campo, mi offre il pranzo. Siamo seduti su una panca in legno tutta traballante: l’ha costruita lui, con la legna trovata nell’Olive Grove. Mi prepara un piatto di riso, pollo e pomodoro, qualcosa che, dice: «Mi ricorda casa».

Casa, dove ha lasciato due figlie, Supidisha, 7 anni, e Karshika, 5. Mi mostra la foto sul cellulare: è orgoglioso delle sue bambine, come ogni papà. È in quel momento che mi dice «sono 23 mesi che non le vedo». La mano trema un po’. Gli occhi si fanno lucidi.

Insieme a lui, nel grande tendone posto al centro dell’Olive Grove, altri quattro Tamil: Hari, Yoga, Danesh e Kayu. Anche loro aspettano una risposta, sono qui da meno tempo di Parathi, ma comunque da più di un anno. L’unico spazio «privato» per loro, è un letto a castello con delle coperte vecchie e logore appese a fare da separé. Nel tendone infatti, ci sono più di 200 persone.

Quando li saluto, mi sorridono «We miss you, write us mam», e da allora, da quando ci siamo salutati il 1 gennaio del 2018, non passa giorno che Parathi non mi mandi con un WhatsApp la buonanotte e il buongiorno.

Il vecchio e il nipote

Il nonno ha 70 anni. Per dirmelo me lo indica con le mani, come quando, da bambini, iniziamo a contare. «Doctor, doctor», ha imparato questa parola perché è ciò di cui ha più bisogno. Seduto sul ciglio di una piccola tenda canadese, mi chiama così, pensando di aver trovato ciò che più gli serve.

Mohamed è arrivato dall’Afghanistan insieme a suo nipote adolescente. È un «caso vulnerabile»: alla sua età non potrebbe essere altrimenti. La sua condizione è scritta, in greco e in inglese, sul certificato che mi mostra. Lui non capisce né l’una né l’altra lingua ma sa, in qualche modo, cosa significa quel timbro.

Sa che gli darebbe diritto a cure mediche, a un giaciglio asciutto e caldo, a cibo che possa masticare, senza che le mascelle gli dolgano, senza far fatica. Quando mi avvicino si toglie il cappellino di lana vecchia, infeltrita. Mi mostra delle cicatrici, mi prende una mano e me la porta alla sua testa, vuole che le tocchi, cerca di farmi capire dove sente dolore.

Gli mostro la mia macchina fotografica, mimo il gesto di scattare una foto. Non c’è nessun mediatore culturale con me in quel momento, non so spiegarglielo chi sono, non so dirgli che non posso fare niente per lui. Prima di andare, gli mostro ancora la macchina fotografica, lo indico, mi indico. Questa volta sì, gli sto chiedendo il permesso. Lui mi guarda, si raddrizza sostenendosi con un bastone ricavato da un ramo d’albero, si porta la mano al cuore e annuisce: scatto una foto, due, tre mentre mi allontano.

Lo guardo, fermo così, una mano sul bastone, un sorriso appena accennato, mi saluta a suo modo. Spero abbia capito. Spero, soprattutto, sia servito a qualcosa.

Sarà un altro uomo, afghano anche lui, a raccontarmi del vecchio Mohamed e di suo nipote. A dirmi di come quel ragazzo si prende cura ogni giorno del nonno: la coda per il cibo, tre volte al giorno, può durare anche due ore. È solo per quello che suo nipote si allontana, per il resto è sempre con suo nonno. L’unica famiglia che gli è rimasta.

Una nuova lingua

Khder ha 60 anni e sta imparando una nuova lingua. Le prime parole che mi dice sono queste: coperta, freddo. Non «Ciao, come stai? come ti chiami? quanti anni hai?». E a seguire: malato, scarpe.

Perché qui, a Moria, a nessuno importa di come ti chiami, da dove vieni, da cosa scappi. A Moria conta l’essenziale, a quello si deve badare e devi saperlo chiedere o potrebbe non arrivare mai.

Khder è il più anziano di una famiglia «allargata»: in tutto, divisi in tre tende canadesi, ci sono dodici persone. Rahema sua moglie, la loro bambina di nove anni, Bahar, la sorella più grande, Barham. E poi ancora Jasm, Kherea, Sema, Soma, Adonea, Aland, Mhabad e Kazm. Sono curdi, vengono dal Kurdistan iracheno.

Kazm, per la sua patria, ha combattuto: era un peshmerga, e la battaglia gli è costata quasi una gamba. Ha poco più di quaranta anni e per muoversi deve sostenersi con un bastone. Zoppica vistosamente: anche lui, come il «nonno» afghano, è un caso vulnerabile. E poi ci sono i bambini, la più grande ha nove anni, la più piccola poco più di uno. Nessuno di loro parla inglese, ed è per questo che passiamo un pomeriggio e una sera raggomitolati in una delle tende, a cercare di insegnare loro qualche parola. Il vecchio Khder ha trovato un quaderno con la copertina verde, consunta, le pagine ingiallite. Deve essere un rimasuglio, magari una donazione, chissà. Lì sopra scriviamo tutte le parole che possono essergli utili. Coperta, freddo, malato, scarpe. Imparare tutto da capo a sessant’anni, non comprendere nulla di tutto ciò che ti sta intorno. Un alfabeto diverso, incomprensibile, un luogo dove sembra che a nessuno importi della tua sorte. Perché poi per i curdi è anche peggio che per tutti gli altri: iracheni e afghani e siriani con loro non parlano. Un ragazzo, quando gli chiedo di aiutarmi con quella famiglia, dicendogli che ho bisogno di qualcuno che traduca, mi risponde: «Curdi?» e sputa per terra, indicandomi il fango. Fuggire da casa propria, dove sei odiato, e piombare in un altro inferno, dove ugualmente sei messo da parte, ghettizzato o in alternativa, ignorato.

È solo grazie a un mediatore culturale della clinica mobile di Medici senza frontiere che riesco a trovare il modo di aiutare questa famiglia: Mayhar, diciannove anni, rifugiato afghano, arrivato su un gommone due anni fa, oggi è un membro dello staff dell’Ong internazionale. È lui che ci fa da tramite. Riusciamo così a portare i bimbi alla clinica mobile, scopriamo che Soma è affetta da anemia. Se ne prenderanno cura qui.

La clinica ogni sera va smontata e portata via, perché provare a dare una mano assume a volte contorni inquietanti. I proprietari delle terre adiacenti infatti, per lo più contadini che qui hanno i loro uliveti, temevano che la struttura potesse trasformarsi in un altro accampamento. Non è vero, ovviamente, la clinica funziona solo di giorno e il grande tendone centrale, accanto ai camion che contengono gli studi medici, serve solo come sala d’aspetto. Alcune panchine, una saletta appartata per le donne che allattano e dei giochi, per intrattenere i bambini. Medici senza frontiere per poter continuare a operare, ha preso accordi con i proprietari delle terre limitrofe. Così ogni sera e ogni mattina, in poco più di mezz’ora, la clinica viene allestita e poi smontata.

Un hammam miraggio

A Moria la solidarietà pare non esistere. Almeno, non da parte di chi dovrebbe garantirla. Sono piuttosto le persone comuni, o alcune Ong, che lavorano fuori dal campo. Non appoggiando le politiche adottate dal governo greco, che cercano di tamponare come e dove possono.

Barham, la sorella della piccola Bahar, mi mostra le sue foto di quando viveva in Kurdistan. Ventitré anni, gli occhi grandi e i capelli neri, folti: è bella questa ragazza, bellissima. «Moria no good», questo sa dirmi in inglese, e gli occhi le si velano. A gesti mi fa capire che non riesce a lavarsi da settimane. Procuro loro delle salviette umidificate e dello shampoo secco.

Facendo domande, scopro però che a Mytilini una donna, una spagnola che lavora per Sao Association, una Ong tedesca, ha tentato una grossa impresa: ha messo in piedi un hammam gratuito per le donne che vivono a Moria. Si chiama «Bashira» e offre la possibilità alle donne di avere un bagno tutto per sé per trenta minuti.

Ogni giorno la coda fuori da Bashira è lunghissima: si snoda lungo la stretta via che dal mare porta a questo vicolo incuneato fra le vecchie case del porto di Mytilini. Un vociare allegro, mariti che tengono per mano i bimbi in attesa che la loro moglie possa concedersi un attimo di pace. Per poterselo permettere però, devono prenotarsi perché nel campo di Moria la voce si è sparsa e le donne continuano ad affluire numerose. Così capita, magari, che a Bashira ci si riesca a andare una volta al mese, o due se sei fortunata. Non è cattiva volontà, anzi: questa Ong è nata proprio per garantire una piccola oasi di normalità alle donne. Non è facile resistere, ma per ora l’hammam resta in piedi. Difficile garantire un posto a tutte, servirebbero più spazio e più bagni, ma il progetto Bashira a oggi è l’unica realtà che consente un po’ di intimità, uno spazio sicuro alle donne che vivono fra tende e container.

Progetto di speranza

Incontro i coniugi Kempson con il loro progetto «The Hope Project». Sono marito, moglie e una figlia ventenne ritirati a Lesbo per vivere lontano da Londra, da una metropoli dura e difficile. Il primo sbarco se lo ricordano bene: hanno sentito urlare dalla spiaggia davanti casa. Sono usciti e hanno fatto quello che chiunque dovrebbe fare. Hanno aiutato. Hanno preso per mano donne, vecchi, uomini, bambini e li hanno asciugati, rincuorati.

«The Hope Project» nasce per far fronte alle esigenze più basilari dei profughi: abiti, scarpe, pannolini per bimbi, assorbenti per le donne, sapone, shampoo. I coniugi Kempson, grazie alle donazioni ricevute da privati, sono riusciti a creare dei magazzini non lontano da Moria. Ogni giorno distribuiscono gratuitamente beni di prima necessità. Il flusso di uomini, donne e bambini dai magazzini è incessante.

Dalla Siria, bloccati a Lesbo

La solidarietà, a Moria, arriva dalle piccole realtà. Il governo greco infatti, che ha preso ufficialmente in mano la gestione dell’hotspot, pare non sia in grado di garantire una situazione almeno dignitosa a queste seimila persone che vivono in attesa di una risposta alla richiesta d’asilo. Certo non deve essere una questione di danaro: l’Unione europea non ha mai smesso di sovvenzionare il governo greco. Il problema, come sempre, è capire dove finiscono queste sovvenzioni. Perché se fossero correttamente utilizzate, non si avrebbe bisogno di Ong che garantiscano assistenza medica e psicologica a persone che, in alternativa, sarebbero abbandonate.

«Assad ci ammazzava con il gas, voi con il freddo». Mohamed, 36 anni. Siriano. A casa ha lasciato moglie e figlia. È fuggito da solo, pensando di trovare una casa e un luogo sicuro dove farsi raggiungere. Ma l’intervista per la richiesta d’asilo gli è stata fissata per l’ottobre del 2019.

Mohamed mi mostra le foto di quella che era la casa del fratello, completamente distrutta dai bombardamenti. Distrutte anche le vite della sua famiglia: il nipote, il fratello, la cognata sono morti così, fra le macerie di casa.

«So che non si dice davanti a una donna, ma se sento un rumore forte di notte, mi faccio la pipì addosso». Mi racconta anche che ogni notte piange nel sonno, ha incubi, e mentre me lo dice, non riesce a trattenere le lacrime. Moglie e figlia cerca di sentirle ogni giorno, sperando che la data del colloquio venga rivista, non ce la fa, mi dice, non può aspettare un anno: «E se la mia bimba non dovesse più riconoscermi?».

Mohamed condivide la tenda con Abd: anche lui siriano. Entrambi musulmani, ma la moglie di Abd, che è ancora in Siria, è cattolica. Abd mi mostra la piccola Bibbia che tiene accanto al Corano: «È sempre Dio no? Ha solo un nome diverso».

Mi mostra il braccialetto che porta al polso: una fila di grani neri e una croce. È di sua moglie, vuole che lo prenda io: «Così ti ricordi di me».

Scritte

Mentre mi allontano da Moria noto una scritta su un muro. È quasi sbiadita ma riconosco i versi iniziali di una famosa poesia: «No one leaves home, unless home is the mouth of a shark», nessuno lascia la propria casa a meno che casa sua non siano la bocca di uno squalo. Sono i versi di Warsan Shire (scrittrice britannica di origini keniane-somale, ndr). Parole bellissime, piene di significato ma che qui, scritte sul muro, sembrano quasi una presa in giro.

Moria è un limbo, non un rifugio. Sono molto più reali le parole scritte sopra un altro muro, quello sormontato dal filo spinato, proprio all’ingresso del campo «Welcome to prison», benvenuti in prigione.

Chi lascia le fauci di uno squalo non dovrebbe finire nel ventre di una balena.

Una realtà da nascondere

C’è una frase che mi torna prepotentemente alla memoria ogni volta che penso a Moria, sono parole di Martin Luther King: «Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti». Di questo luogo infatti, è difficile parlare. Eppure, siamo in Europa, a pochi chilometri dall’Italia, un’isola conosciuta in tutto il mondo non solo per la sua bellezza ma anche per aver dato i natali a Saffo, poetessa del sesto secolo a.C. Siamo in Grecia, culla della cultura, luogo che è sinonimo di democrazia, perché è qui che nasce questa forma di governo, creata per far sì che ogni singolo individuo abbia la possibilità di esprimersi, di far valere i propri diritti.

Nei giorni trascorsi a Lesbo però, questi diritti non mi sono parsi così scontati: fotografi e giornalisti se ne vedono, ma all’interno del campo è proibito loro di entrare, e fuori dal campo non è comunque così agevole muoversi. La polizia vigila, non solo sui migranti. Moria è una realtà scomoda, meglio dunque che non venga raccontata.

Valentina Tamborra

Classe 1983, milanese. Si occupa di reportage e ritratto e nel suo lavoro mescola narrazione e immagine. Ha collaborato con alcune Ong come Amref, Medici senza frontiere e Albero della vita. I suoi progetti sono stati oggetto di mostre a Milano, Roma e Napoli, in luoghi come il Teatro Franco Parenti (Milano) e il Maxxi (Roma). Ha fatto numerose pubblicazioni sui media nazionali. Il suo lavoro «Doppia Luce» è stato oggetto di un ciclo di conferenze in Nuova accademia di belle arti.

www.valentinatamborra.com




Irriducibili sognatori

Editoriale. | Di Gigi Anataloni |


Mentre scrivo si stanno contando i voti. Populismo e destre sembrano alla riscossa. C’è chi esulta e c’è chi piange. «Metà Italia contro élite e migranti», titola un giornale. Quando leggerete queste righe, forse avremo già un nuovo presidente del consiglio e un nuovo governo. Il devoto di san Gennaro o chi ha in tasca il rosario della mamma? Oppure si deciderà di andare a una nuova votazione? Bisognerebbe essere indovini per saperlo.
Fare il commentatore politico non è mia competenza ma, come cittadino, prete e missionario, non posso essere indifferente a quanto succede, soprattutto di fronte alla svolta populista e razzista che intravedo nel paese che amo e di cui sono orgoglioso. Paese che, tra l’altro, ha uno dei tassi più alti di mescolamento genetico al mondo (le analisi sul nostro Dna ce lo confermano), visto che da tempi immemori è stato luogo di incontro e scontro tra i popoli più diversi. L’Italia deve molta della sua bellezza e genialità proprio alla sua diversità.
Quasi tutti i commentatori concordano nel dire che uno degli elementi che ha favorito i vincitori è stata la questione dei migranti, come se fossero loro la causa della mancanza di lavoro e dell’insicurezza diffusa. Noi, da irriducibili sognatori che siamo, continueremo a sostenere, incoraggiati da quei tantissimi italiani che danno più ascolto al cuore che alle paure della pancia, che i migranti non sono un pericolo, ma un valore; che sono persone, uomini e donne come noi, non alieni o nemici, e vanno trattate con giustizia, rispetto e dignità, senza falsi paternalismi o pregiudizi. Giustizia richiede pratiche burocratiche snelle ed efficienti, accoglienza in strutture adeguate e non mezze prigioni, e inserimento, integrazione, scuola, lavoro regolare, salari giusti e cittadinanza a chi è già italiano di fatto (jus soli e affini). Giustizia è anche eliminazione delle nuove schivitù, della tratta, dello sfruttamento dei minori, del lavoro nero. Giustizia è anche dire no al paternalismo e creare con i migranti rapporti seri basati su correttezza e responsabilità, diritti e doveri, e rispetto delle leggi, senza condonare atteggiamenti antisociali o mafiosi.
La paura e l’esagerata percezione di insicurezza stanno spingendo molti ad armarsi, imitando?i nostri eterni modelli e rivali nordamericani. La corsa alle armi non è solo degli individui, ma anche degli stati. La nostra bella nazione, che nella sua Costituzione rigetta la guerra, ha aumentato le spese militari almeno del 4,5% rispetto al 2017, e del 25,8% rispetto al 2006, ed è una delle prime produttrici e venditrici di armi al mondo. Noi, da irriducibili sognatori, continueremo a sostenere che la pace non si ottiene né mantiene con le armi, ma con il dialogo, il rispetto, l’aiuto reciproco tra le nazioni, la difesa dell’ambiente, il commercio equo, un’economia solidale e la lotta alla povertà. Che a livello personale l’arma più potente è il perdono e la nonviolenza, e che gratuità, volontariato, servizio, condivisione, aiuto a chi è nel bisogno e rispetto delle diversità sono più forti e danno più sicurezza di porte blindate, di regolamenti razzisti, di armi in casa, di ronde e vigilantes. Siamo incoraggiati dal fatto che il nostro paese è davvero ricco di gruppi, associazioni e movimenti che «lottano» per la pace e la nonviolenza e sono attivi nel volontariato e nel servizio alla comunità. Questo è bello e dà tanta speranza.
C’è un germe di speranza anche nelle elezioni appena svolte: l’affluenza alle urne ha battuto tutte le previsioni di astensionismo, soprattutto tra i giovani. Questo significa che, nonostante certi politici fallimentari e autoreferenziali, gli italiani credono ancora nella «Politica» e nella partecipazione alla vita del paese, e sono coscienti «del diritto, che è anche dovere, di usare del proprio libero voto per la promozione del bene comune» (Gaudium et Spes 75). Perché «la comunità politica esiste in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (GS 74). Noi, irriducibili sognatori, continueremo a credere che il futuro non è dei corrotti, dei venduti ai grandi poteri economici, di chi mette i suoi interessi al primo posto o è affamato di potere, dei mafiosi e dei massoni, ma di quegli uomini, cristiani e non, che, presa «coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica», si impegnano in prima persona, «sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune» (GS 75).?«Bene comune» che, oggi più che mai, ha dimensioni planetarie, visto che ogni scelta politica, economica e ambientale ha effetti su tutta l’umanità.

Gigi Anataloni

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P.S. MC non ha cambiato titolo. Quest’anno la testata ricorda i 120 anni della rivista, fondata dal beato Allamano nel 1899 come il bollettino «La Consolata» dell’omonimo santuario di Torino. Dal 1901 il bollettino ha due anime: il santuario e le missioni d’Africa. Così nel 1928 si divide in due pubblicazioni: quella del santuario e «Missioni Consolata» che è la voce dei missionari.




Cari missionari, lettere dai lettori

Usukhjargal

Usukhjargal è un simpatico bimbetto di 7 anni, che abita in una gher (la tradizionale tenda mongola) alla periferia di Arvaiheer, capoluogo polveroso della provincia dell’Uvurkhangai, in Mongolia, tra le montagne Khangai e la steppa che dirada verso il deserto. Ha l’occhio vispo di un bambino pieno di vita, mentre scende la collina stringendo la mano callosa di papà Jargalsaikhan che da tre anni aiuta noi missionari con i lavori manuali.

Sette anni fa i medici avevano sconsigliato alla mamma di portare a termine la gravidanza, sulla base di (presunte) mal-
formazioni, o più probabilmente perchè prevedevano un parto difficile, che avrebbe creato loro fastidi. Ed eccolo qui ora, saltando e correndo nel cortile della missione, con le immancabili gote rosse e il sorriso sulle labbra. I genitori sono stati così felici di averlo avuto che l’hanno ritenuto un dono di Dio e hanno chiesto per lui il battesimo quando aveva poco più di un anno.

È stato tra i bimbi del primo gruppo del nostro asilo informale ospitato in una gher dal 2013. L’asilo e iniziato con lui ed è un progetto che si sta rivelando molto positivo: sono molte le famiglie che per povertà ed emarginazione non riescono ad iscrivere i propri figli alle scuole materne statali. Così abbiamo pensato di crearne una con mezzi molto semplici e poco dispendiosi, valorizzando gli elementi culturali più sentiti, come appunto l’abitare nelle gher.

Usukhjargal adesso frequenta la seconda elementare, ma continua a venire tutti i giorni alla missione, dove si unisce agli altri bambini del doposcuola. In un’altra gher calda (anche quando fuori fa meno trenta) e accogliente, bambini e ragazzi delle scuole vengono a fare i compiti e a giocare, assistiti da due signore della comunità.

Il volontariato qui è ancora una novità, ma queste due mamme hanno capito che possono rendersi utili con quello che sanno fare e sono di esempio a tutti. Una di loro è Otgonbayar, la mamma di Usukhjargal. Cerchiamo così di promuovere la cultura della gratuità che fa ancora fatica ad affermarsi in un paese che sta emergendo da 70 anni di comunismo.

Due volte alla settimana Usukhjargal (insieme a tutti gli altri bambini e adulti che lo desiderino) viene a farsi la doccia alla missione, dove da otto anni è attivo un servizio di docce e bagni pubblici gratuiti. Nelle gher ovviamente non c’è acqua corrente e l’igiene personale è dunque ridotta al minimo, per non dire che è molto sacrificata.

All’asilo e al doposcuola cerchiamo di provvedere cibo buono e salutare, per supplire alle carenze vitaminiche di un’alimentazione poco variegata e talvolta insufficiente.

Un giorno, mentre Usukhjargal faceva la fila per lavarsi le mani prima di merenda, ho visto un bambino che gli bisbigliava all’orecchio. Mi sono avvicinato e ho sentito dire: «Sai che bello, mio papà adesso non beve più! Alla sera vediamo insieme la tv e non ci sono più urla e oggetti che volano dentro la  nostra gher…». È infatti un vero cammino di guarigione quello che il papà dell’amichetto di Usukhjargal ha intrapreso con un gruppo di uomini che si trovano regolarmente alla missione per cercare insieme una via che li faccia uscire dall’alcolismo, vera piaga sociale da queste parti. La missione è qui per tutti e può mettere in atto questi segni di prossimità e aiuto se è sostenuta da persone di buona volontà.

Guardando giocare Usukhjargal, non posso che ringraziare Dio per tutti coloro che in questi anni ci stanno permettendo di prenderci cura di lui e di tanti altri come lui, piccoli e grandi. È il miracolo della solidarietà che si rende concreto attraverso la Fondazione Missioni Consolata Onlus. Grazie.

Giorgio Marengo
Arvaiheer, 16/02/2018

Grazie per il dossier sui migranti

Buongiorno,
ho conosciuto la vostra bellissima rivista qualche anno fa, quando sono passato un po’ per caso alla Consolata con i miei studenti in visita di istruzione a Torino. Innamorato dei contenuti e del vostro stile, ho volentieri fatto l’abbonamento alla rivista, che ricevo e leggo sempre con attenzione.

In particolare ho trovato davvero fatto bene, sintetico ma insieme esaustivo, il dossier pubblicato nel numero di gennaio a firma di Daniele Biella, circa i migranti e il reportage dalla nave Aquarius. Poiché tratto spesso con i miei alunni temi che puntano a sensibilizzarli e a superare i molti, troppi luoghi comuni sull’argomento, vorrei poter diffondere il dossier a titolo informativo, anche in ambito comunale (sono consigliere comunale nel mio paese e accogliamo alcuni richiedenti asilo, ma con purtroppo molti pregiudizi tra i cittadini).

Dino Caliaro
27/01/2018

 

Grazie di cuore. Le ricordo che dal nostro sito è possibile scaricare il dossier come pdf e poi stamparlo.

Preghiere e novene

Gentilissimi,
seguo sempre con grande interesse la vostra rivista. Volevo dare un mio piccolo contributo inoltrandovi alcune preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze. Ovviamente non è mia intenzione dirvi cosa dovete o non dovete pubblicare, solo queste preghiere mi hanno aiutato molto e credo possano aiutare anche tante altre persone. Così ho pensato di suggerirvene alcune, che magari già conoscerete o già avrete pubblicato, sperando arrivino a quante più persone possibile. Sperando di fare cosa gradita ringrazio in anticipo per l’attenzione e porgo distinti saluti

Monia
27/02/2018

Cara Monia,
le confesso che quando ho ricevuto la sua email con la lista di ben ventitré novene e preghiere (da quella – a me ignota – alla «Sacra Spalla» alla «Via Crucis» – che con le novene ha ben poco da spartire), il primo pensiero è stato «un altro spam. Cestina». Poi ci ho ripensato perché poteva diventare un’opportunità per questa pagina di dialogo con i lettori. Il tema della preghiera, sul quale ormai da oltre un anno sta scrivendo don Paolo Farinella, sta suscitando molto interesse perché tocca il cuore della vita cristiana. In questo contesto è abbastanza chiaro che stiamo cercando di proporre uno stile di preghiera biblicamente e liturgicamente fondato, provando a evitare devozionalismi e pietismi, pur rispettando la vera «pietà popolare» e le sue ricche tradizioni.

Noi che viviamo dopo il Concilio Vaticano II abbiamo ricevuto un dono grandissimo: quello dell’Eucaristia – la «messa» – che è passata da «rito e obbligo» a «celebrazione e incontro» di salvezza nello spezzare la Parola (finalmente comprensibile a tutti) e il Pane. L’Eucarestia è al cuore della nostra preghiera, tutto il resto viene da quel fare memoria viva della Pasqua e alla messa tutto ritorna per diventare offerta gradita a Dio.

Le «preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze», possono anche aiutare, ma hanno il rischio di mantenere in noi una falsa concezione di Dio, un Dio che ha ripetutamente bisogno di essere supplicato e che ascolta solo se si recitano con fedeltà e insistenza certe formule.

Che contrasto tra la prolissità e ripetitività di molte novene e la sobrietà della preghiera di Gesù. Ai discepoli che gli chiedono «insegnaci a pregare» (Lc 11,1-4), lui offre solo la brevissima preghiera del «Padre», senza fare promesse, senza mettere condizioni né sul numero di volte né per quanti giorni né sulle modalità (in piedi, seduti, inginocchiati…).

Quando Gesù dorme sulla barca nella tempesta (Mc 4, 37-40 – figura della Chiesa e di noi nelle difficoltà della vita) ai discepoli spaventati non dice di pregare i salmi, di fare rituali, di recitare speciali invocazioni: chiede solo di avere fede.

E quando nella stessa barca vanno in panico perché non hanno «pane» (Mc 8,14-21) li rimprovera perché «non hanno capito» il miracolo del pane, cioè l’Eucarestia, il «Pane di vita» spezzato per noi e sempre presente in mezzo a noi. Anche per noi, nelle acque tempestose dei nostri tempi, la forza viene dalla fede che sostiene la nostra preghiera, non dal numero e tipo di preghiere che recitiamo. Gesù ci ha fatto una promessa: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Impariamo a camminare con lui, sapendo che c’è sempre, anche se a volte sembra dormire.

Galeano

Eduardo Galeano (AFP files / Pabro Porciuncola)

Solo adesso ho letto l’articolo su Galeano, contenuto nel numero di dicembre della rivista. Sono allibito nel leggere le dichiarazioni di Gianni Minà sul Venezuela, e soprattutto a leggerle su una rivista come Missioni Consolata. Quanto viene detto dai giornali occidentali, compreso il nostro Avvenire, sulla disastrosa situazione dei diritti umani dei venezuelani viene trattato con disprezzo dal giornalista. Le recenti elezioni della Costituente sono state vinte da Maduro? Ma queste elezioni sono state illegali, il presidente Maduro non aveva nessun diritto di eliminare il Parlamento, eletto comunque democraticamente, in un paese dominato prima da Chavez e adesso dall’ex camionista Maduro, e di sostituirlo con la Costituente. L’opposizione non ha potuto fare niente per fermare lo strapotere dei chavisti e decine di persone sono state uccise dalla polizia durante le manifestazioni di protesta in difesa della democrazia. I venezuelani sono alla fame, già decine di bambini sono morti di stenti e la colpa non è certo dei cosiddetti «servizi di intelligence nordamericani». La colpa è dell’arroganza del potere e dell’incapacità di far fronte ai bisogni della popolazione, ridotta a fare lunghissime code di fronte a negozi che non hanno quasi nulla da vendere. D’altronde, Gianni Minà è ben conosciuto per la sua amicizia con Fidel Castro prima e adesso con Raùl, il fratello che ha preso il potere. I cubani stanno un po’ meglio dei venezuelani, per loro fortuna, ma Gianni Minà non dovrebbe dimenticare che i Castro hanno accumulato un’immensa fortuna nel povero paese caraibico; l’attuale presidente Castro controlla direttamente tutta l’economia cubana, e ne ha approfittato largamente. Non è la prima volta che su Missioni Consolata vengono pubblicati articoli molto discutibili, già anni fa avevo letto le lodi della «presidenta» cilena Michelle Bachelet che. come tutti sanno, è una sostenitrice della «salute riproduttiva», cioè dell’aborto. Ma che linea ha scelto Missioni Consolata? Il fondatore sarebbe d’accordo se fosse ancora vivo? Perché non vi leggete gli ottimi articoli che Avvenire ha dedicato alla crisi venezuelana? E l’Avvenire non è certo al servizio delle «agenzie di informazione nordamericane». Da una rivista cattolica mi aspetto come prima cosa un’informazione corretta, non di regime. Distinti saluti.

Franco Eustorgio Malaspina
Milano, 03/02/2018

Caro Sig. Malaspina,
grazie di averci scritto. Le confesso che mi ha sorpreso che sia «allibito» di fronte a quanto ha scritto Minà sul Venezuela visto che sembra conoscere le frequentazioni dello stesso e quindi sapere bene come la pensa. Circa la «presidenta» Michelle Bachelet (di cui abbiamo scritto nel maggio e giugno 2014) è certamente discutibile nel suo appoggio alla «salute riproduttiva», ma ha pagato con la prigione e la tortura il suo impegno politico, mentre il generale Pinochet, pur devoto della Madonna, non ha esitato a imprigionare, torturare e uccidere i suoi oppositori.

Non siamo né fans di Castro né di Chávez, tantomeno di Maduro. I Castro, come dice lei, hanno pur accumulato un’immensa fortuna, ma non risultano certo nella lista dei più ricchi del mondo. Quel signore che fa spedire pacchi a mezzo mondo e vuole mettere il «braccialetto» ai suoi operai perché lavorino «meglio», è immensamente più ricco di loro e di tanti altri.

Se poi ci segue in rete, avrà visto che sulla nostra pagina Facebook abbiamo segnalato più e più volte proprio le pagine di Avvenire sia sul Venezuela che su altre gravi situazioni del mondo. Ammetto che su questa rivista non abbiamo più pubblicato articoli specifici sulla situazione di quel paese (l’ultimo è dell’agosto 2016). E questo è un errore, anche se continuiamo a seguirne la drammatica situazione grazie ai nostri missionari e agli amici che abbiamo sul posto.

Che direbbe poi il nostro Fondatore? Nel nostro piccolo, noi cerchiamo di fare un’informazione documentata e approfondita che permetta al lettore di farsi la sua opinione su situazioni, fatti e persone. Su questo l’Allamano non penso avrebbe da obiettare. Scriviamo «slow news» (facendo il verso al fast food) proprio perché non vogliamo imporre niente a nessuno, ma servire la verità con una speciale attenzione ai poveri, agli emarginati e a quelli che sono ignorati dalla grande comunicazione. Non siamo esenti da errori e possiamo sbagliare. Riportare fatti e opinioni di persone che non vivono o sono contro i principi cristiani non è sposarne le idee e rinunciare alla nostra fede e religione. Siamo pronti a essere corretti e a confrontarci su fatti e idee. Per questo la ringraziamo ancora della sua email.

Petrolio causa di tensioni nel mondo

Nell’articolo sull’Ecuador (MC 12/2017) si parla della curiosa proposta dell’ex presidente Correa di chiedere un contributo alla comunità internazionale per non estrarre petrolio da una zona ecologicamente sensibile. Non si vede bene quale comunità sarebbe interessata a dare un contributo a un presidente sudamericano, che poi potrebbe diventare un Maduro, il quale forse si fa pagare in proprio per non estrarre più il petrolio venezuelano, convenientissimo ma con aziende in preda al marasma e con attrezzature che mancano anche dell’ordinaria manutenzione.

Ma probabilmente sono interessate le banche Usa che han prestato i soldi alle società che praticano il fracking devastando l’Ovest di Usa e Canada, ma assicurando loro l’autonomia energetica. Se il petrolio scende stabilmente sotto i 50 euro falliscono sia le società che le banche, e finora l’unico costosissimo sistema di non farlo scendere è di impedire la produzione in Iraq e Siria, attizzando continue complicatissime guerre, e possibilmente d’ora in poi razionare gli acquisti dall’Iran. E mantenere uno stato di tensione che impedisca anche solo di progettare un investimento per l’estrazione sottomarina dal Mediterraneo orientale, tra Cipro e l’Egitto, l’area più incasinata del mondo, ma con petrolio e gas molto convenienti.

Claudio Bellavita
02/02/2018

Lascio la risposta a Paolo Moiola, autore dell’articolo.

La proposta dell’ex presidente Correa è stata ritirata dallo stesso (quando era ancora in carica) a causa della scarsa risposta avuta a livello internazionale. L’idea era rivoluzionaria in quanto avrebbe consentito di salvaguardare uno scrigno mondiale di biodiversità qual è quella parte di Amazzonia ecuadoriana. Senza parlare della mancata emissione di CO2 nell’atmosfera che avrebbe contribuito a mitigare le conseguenze del cambio climatico. Quanto all’eventuale trasformazione di Correa, egli non è più presidente e vive in Belgio, paese della moglie. Dunque, il rischio che diventi un altro Maduro – come paventa il lettore – non sussiste.

 




Niger: Jihadisti, eserciti e migranti nel paese più povero del mondo

Testo e foto di Marco Bello |


La rotta del Sahara è stata affrontata da generazioni di nigerini. Cercavano un lavoro in Libia. Ma oggi nel paese arabo la vita per uno straniero è insostenibile. Anzi, un «nero» è diventato merce di scambio, vacca da mungere, moneta sonante. In fuga da detenzioni arbitrarie e torture, migliaia di persone cercano di tornare a Sud. Qui li aspettano le famiglie, ma anche siccità e scarsità di lavoro.

Zinder. «Vogliamo che la nostra gente resti qui, al villaggio. E possa lavorare la terra anche durante la stagione secca, quando non cade una goccia d’acqua». Chi parla è Galadima, capo villaggio di Guirari, nel comune rurale di Gouna. Siamo nella regione di Zinder a oltre 900 km a Est dalla capitale Niamey, nel Niger profondo. Ma ci troviamo a poco più di 110 km dal confine con la Nigeria, il gigante africano, che da sempre estende qui la sua influenza economica, commerciale, religiosa.

Guirari è un grosso villaggio isolato, in quanto non vi arrivano strade asfaltate, rare da queste parti, ma solo piste di sabbia o laterite. Le grandi direttrici del Niger sono due: una attraversa il paese da Ovest a Est, dalla capitale al confine con il Ciad, a Ngugmi, nei pressi di quello che era il lago Ciad oggi quasi prosciugato. Il lago definisce un confine quadruplo: Niger, Ciad, Nigeria e Camerun. L’altra strada asfaltata arriva dalla Nigeria, a Sud, e giunge fino ad Agadez e Arlit a Nord, dove l’asfalto termina bruscamente per diventare una pista di sabbia. Le due s’incrociano a Zinder, seconda città del Niger, già capitale e sede dell’antico sultanato del Damagram (dal nome della zona in lingua locale) creato nel 1720. Uno dei più importanti nella storia del Niger.

Due stagioni

Non siamo nel deserto, ma in una zona semiarida, di sabbia, poca terra, laterite e arbusti. Diffuse sono le acacie e altre piante spinose più basse. Qui la gente si è adattata a coltivare una terra povera, che dà frutto durante i mesi di pioggia, da giugno a inizio settembre. In quel periodo si coltivano alcuni cereali, miglio e sorgo, di varietà adattate a questa scarsità di acqua e nutrienti nel sottosuolo. Con i loro grani, si ricava una farina che, preparata come una specie di polenta, costituisce l’alimento base della popolazione. Se piove con regolarità, il raccolto sarà buono e il granaio di casa, dopo il raccolto, potrà tornare pieno, sperando che la scorta duri fino all’anno prossimo. Ma spesso le piogge sono irregolari e il raccolto dell’anno, l’unico, è povero. Il cibo scarseggerà e sarà crisi alimentare.

Dove non ci sono alternative, nei mesi della stagione secca gli uomini lasciano i villaggi e vanno a cercare lavoro in altre zone, e paesi. In particolare, in Nigeria e in Libia. Una migrazione stagionale, storica, che spesso dura alcuni anni. Quella che i nigerini chiamano «esodo», termine che indica l’ampiezza del fenomeno.

Continua Galadima: «Durante la stagione secca, dopo aver finito il lavoro dei campi, molti dei nostri giovani partono. Ma io preferisco che restino al villaggio, in aiuto ai genitori. Vanno in Nigeria, in Libia. Non vogliamo che lo facciano». Non c’è gente che vuole andare in Europa? Chiediamo. «No, ma abbiamo ancora molti giovani in Libia, dove la loro situazione oggi è critica. Vogliamo fare in modo che possano lavorare qui anche nella stagione secca». E continua: «In questa zona abbiamo un sottosuolo fertile. Qui arrivava molta acqua, che irrigava più di 200 ettari. Il problema è che due dighe, Gapati e Zermo, adesso bloccano le acque della valle di Korama». Si riferisce a un avvallamento non lontano dal villaggio, una depressione orografica che raccoglieva molte acque piovane, conservandole anche durante i mesi secchi e permettendo la coltivazione di ortaggi per molti mesi dell’anno.

Un’alternativa

Dalla metà del 2016 è attivo nella zona un progetto dell’Ong Cisv onlus di Torino, cofinanziato dall’Unione europea che prevede proprio la sistemazione di perimetri irrigui, in modo da permettere la coltivazione di ortaggi durante la stagione secca, grazie all’acqua di pozzi scavati in un’area di 70 ettari.

Maman Daoda è il presidente di un’associazione di contadini, che si organizzano per lavorare nella valle di Korama durante la stagione secca. «Siamo pronti, vogliamo lavorare, in alternativa alla partenza per la Nigeria.

Con la mobilitazione della popolazione fatta dal progetto, poca gente è partita quest’anno. Se parti, quando torni, trovi tuo fratello che, rimanendo, ha potuto lavorare più di te.

Quando la stagione delle piogge comincerà, chi è rimasto (anche nei mesi secchi, ndr) ha potuto lavorare la terra e mettere da parte qualcosa per comprare i materiali e quindi coltivare il campo durante la stagione delle piogge, e potrà comprarsi da mangiare nel periodo nel quale il lavoro è più duro». Nei mesi di giugno e luglio infatti, il lavoro fisico è maggiore, ma le scorte dell’anno precedente sono quasi o totalmente finite.

La voce delle autorità

Lasciamo il villaggio di Giuirari, con le sue speranze su un futuro nel quale i giovani non dovranno più emigrare, e incontriamo il capo del corpo forestale, nella prefettura di Mirriah (capoluogo del dipartimento), che commenta: «Sono stato in visita nella valle di Korama e ho incontrato la popolazione. Stavano facendo la divisione delle parcelle di terreno che saranno assegnate a ciascuno per coltivare ortaggi. Parlando con loro sono stato contento, perché ho capito che molti hanno rinunciato a partire per la Libia o la Nigeria. Grazie a questo intervento avranno del lavoro. Normalmente, finita la campagna agricola dei cereali, la gente incrocia le braccia, ma ora ha delle risorse importanti che possono essere sfruttate anche nel periodo morto». E conclude: «Si tratta di famiglie molto povere che non riescono a soddisfare i propri bisogni alimentari nell’arco dell’anno con la sola coltivazione di cereali».

Anche il prefetto in persona, avvolto nel suo grand boubou da grande capo, ci parla della sua visione in merito: «Questo intervento permetterà ai più poveri di arrivare a essere autosufficienti, grazie a un appoggio iniziale che viene dato loro. Dovranno essere un po’ più attivi, perché diventano degli attori che contribuiscono al miglioramento della propria condizione di vita. Ma anche individui che, da un momento all’altro, iniziano a contribuire allo sviluppo dell’economia locale. Inoltre, altre comunità potranno ispirarsi alle tecniche e metodologie messe in campo dal progetto, in modo che questi insegnamenti diventino duraturi e diffusi sul territorio».

I disperati di Birji

Partiti da Mirriah, ci spostiamo una cinquantina di chilometri a Nord di Zinder. Gli alberi si fanno più radi, sono rimpiazzati da bassi cespugli spinosi, la sabbia invade la strada asfaltata e la laterite affiora dal sottosuolo. Ma non siamo ancora nel vero deserto. Anche qui vi sono villaggi di agricoltori che condividono una terra bellissima, ma povera, con popolazioni di allevatori nomadi, i Peulh, i quali si spostano di continuo con le loro mandrie in cerca di pascoli ed acqua.

Ci accompagna madame Nana Aicha Mamadou, responsabile dell’associazione locale Sa3d (Sahel action pour la democratie et le developpement durable, ovvero «Sahel azione per la democrazia e lo sviluppo sostenibile»). Una realtà nuova della società civile di Zinder, che ha la specificità di essere composta in maggioranza da donne.

Arrivati al villaggio Birji, ci dirigiamo nel cortile della scuola elementare, l’edificio più grande in mattoni e cemento. Qui ci aspetta una folla di uomini, molti dei quali piuttosto giovani. Sono vestiti in modo un po’ diverso dai contadini. Hanno giubbotti, giacche o berretti di fattura occidentale, anche se sgualciti e di certo non all’ultima moda. Sono seduti a semicerchio e scrutano gli ospiti venuti da lontano. Sapremo più tardi che sono oltre un centinaio.

Birji è il villaggio più grande, e quindi di riferimento, di una zona particolarmente svantaggiata, in quanto non ha avvallamenti o aree orografiche come la valle di Korama, che raccolgano l’acqua durante le piogge. Inoltre, qui la falda acquifera è molto profonda, e realizzare dei pozzi che forniscano una buona quantità d’acqua anche in stagione secca è più costoso che altrove.

Quest’area – ci racconta madame Nana – è zona particolarmente depressa, segnata quindi da emigrazione stagionale. Questi uomini sono le braccia valide dei villaggi, che lasciano la famiglia durante la stagione secca per andare a lavorare in Libia o in Nigeria.

Ma qualcosa negli ultimi tempi è cambiato. I fattori sono due. Le maggiori difficoltà per affrontare il viaggio, a causa della nuova legge nigerina per il contrasto alla migrazione clandestina, che ha reso più complesso spostarsi e in molti casi occorre farlo clandestinamente. Ma soprattutto le condizioni di lavoro e di sicurezza in Libia.

Inferno Libia

Nassirou ha 35 anni e faceva l’agricoltore a Birji. Lavorava la terra ma non guadagnava abbastanza. Decise dunque di partire, come alcuni suoi conoscenti prima di lui: «Nel 2006 sono andato in Libia per la prima volta dove ho lavorato per un padrone arabo in un allevamento di polli. Vi sono rimasto due anni, durante i quali mandavo i soldi a casa. Poi sono tornato». Nassirou è ripartito una seconda volta per la Libia e vi è rimasto tre anni, senza particolari problemi. «Vi sono andato per la terza volta, ma qualcosa era cambiato». Mentre Nassirou ci racconta come è andata, il suo volto ricorda il terrore: «Quando avevo finito il mio periodo di lavoro, con un gruppo di connazionali siamo partiti per tornare in Niger. Sulla strada del rientro ci hanno catturati e riportati in città dove ci hanno venduti. Hanno assaltato con le armi il mezzo su cui viaggiavamo, ci hanno obbligati a scendere e ci hanno messi nel cassone di un pick up, con le mani legate con corde e catene dietro la schiena». Nassirou ci mostra i segni delle catene ai polsi. «Siamo stati sette ore legati e senza mangiare, e ci hanno poi chiusi in una camera dove non ci hanno dato né acqua né cibo. Io ho passato due mesi rinchiuso in una stanza dalla quale non si vedeva il sole. Mi hanno fatto spogliare e indossavo solo le mutande».

Nassirou era detenuto in una prigione clandestina nella città libica di Beni Walid: «Durante due mesi siamo stati maltrattati, mentre aspettavamo i soldi per essere liberati. Ci hanno dato un telefono dicendoci: “Se conosci qualcuno in Libia chiamalo e parlagli della tua condizione. Lui dovrà telefonare alla tua famiglia, al paese, per dire di mandare i soldi affinché tu sia liberato”. Così siamo riusciti ad avvisare che eravamo prigionieri».

La famiglia di Nassirou, a Birji, ha venduto due vacche e ha mandato i soldi a un suo compaesano in Libia, affinché li versasse su un conto segnalato. «Il giorno che i soldi sono arrivati, mi hanno preso e mi hanno picchiato. Poi mi hanno portato a Tripoli e liberato. Non riuscivo neanche a stare in piedi, ma grazie ad altri nigerini che mi hanno soccorso, ho ripreso un po’ le forze. Poi mi hanno pagato un biglietto per rientrare.

Altri prigionieri che erano con me invece sono morti. C’è ancora gente rinchiusa in queste prigioni, a soffrire. È sempre così, ti mettono una catena al collo e puoi morire facilmente. Ho visto anche persone di Sudan, Ghana, Mali, Nigeria».

Nassirou non ha più intenzione di andare in Libia. È tornato da sette mesi e ha lavorato nei campi durante luglio e agosto, ma adesso sta cercando di capire che lavoro fare.

A caccia di «neri»

Accanto a lui il più giovane Innousa, 27 anni, ha qualcosa da raccontare: «Non ho mai avuto problemi con il mio padrone in Libia. Ma alla fine del mese venivano da noi i ladri, di notte, per prenderci i soldi. Ed eravamo obbligati a darglieli. Vivevo nella città di Ubari, ma oggi la situazione si è totalmente degradata diventando molto insicura. Io sono stato assaltato due volte da banditi, che mi hanno puntato delle armi al petto chiedendomi tutto quello che avevo. Adesso ti assaltano anche di giorno, non solo di notte. E quando sei in casa devi barricarti dentro, ma rischi che rompano la porta per assaltarti. Se devi uscire a comprare qualcosa è meglio chiedere al tuo padrone per non farti vedere in giro. Quando sei in macchina con lui per fare delle commissioni, rischi che vi fermino e dicano al padrone: “Vogliamo lui”. Alcuni lasciano i loro lavoratori nelle mani degli assaltatori. Se prendi un taxi, rischi che il tassista ti porti dai banditi o dalla polizia dove ti maltrattano. Ormai non vedi subsahariani in giro, stanno tutti nascosti».

Continua Innousa: «Abbiamo capito che c’è complicità tra polizia e bande armate. Gli arabi contro i neri. Anche il tuo padrone può tradirti e consegnarti. È pure successo che facessero irruzione in una casa, e portassero via delle persone (dei migranti, ndr). E non si sa più nulla di loro. Scompaiono. Non so se vengono venduti oppure uccisi». Innousa non vuole più sentire parlare di Libia: «Non ci torno più, assolutamente».

Saidou, 40 anni, ha avuto esperienze simili e ci spiega perché è partito: «Mi sono sposato, ma non avevo di che nutrire la mia famiglia, quindi ho seguito l’esempio di altri amici. Ma ultimamente è diventato difficile mandare i soldi alla famiglia, mentre prima era la normalità». Poi indica la terra del suo villaggio: «Guardate qui intorno, non c’è niente da fare, come è possibile vivere così. Adesso i giovani non sanno che lavoro fare, non avendo più l’opportunità di andare in Libia».

Sono molti i ragazzi, gli uomini che ci fissano, oggi, nel cortile della scuola primaria di Birji. Alcuni portano occhiali da sole e fanno il viso da duri. Altri hanno semplicemente lo sguardo perso nel vuoto. Altri ancora sono incuriositi dagli ospiti stranieri.

Issaka, 47 anni, ha la barba bianca. Lui ne ha fatti tanti di viaggi in Libia. Ma adesso ci dice: «Prima era molto vantaggioso andare in Libia a lavorare. Ma è finito quel tempo. C’è solo sofferenza laggiù.

Nessuno vuole più partire. Il problema oggi è far ritornare quelli che sono là, non tanto scoraggiare i giovani dal partire».

Issaka ha lavorato il campo nell’ultima stagione piovosa, ma non ha un lavoro sicuro: «Mi piace l’orticoltura, e sto cercando anche di fare del piccolo commercio o dell’allevamento. Ma per ora non ho nulla».

Rientri di massa

Nel mese di dicembre scorso il governo del Niger ha organizzato un rimpatrio di massa di nigerini dalla Libia. Ha messo a disposizione un aereo per i voli di rientro da Tripoli e ha chiesto assistenza all’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni, organismo delle Nazioni Unite) per organizzarlo. L’Oim, nella sua sede libica. ha aiutato a identificare i nigerini e farli partire, con un procedimento chiamato «rimpatrio umanitario assistito», orientato a persone detenute nei centri illegali o appena uscite da essi.

La sede Oim di Niamey ha organizzato una prima accoglienza e ha messo a disposizione i mezzi per il rientro nelle aree di origine. L’obiettivo era il rimpatrio di 4.000 persone. Nel momento in cui abbiamo contattato gli operatori dell’Oim Niamey, erano già stati effettuati 1.500 rimpatri. Il Niger è l’unico paese africano che si è impegnato in un’azione di questo tipo a protezione dei propri connazionali.

Costruire una possibilità

Chiediamo a madame Nana, attenta osservatrice della situazione nella regione e a livello nazionale, che prospettive ci sono: «Qualche anno fa, a Zinder c’era un grande transito di migranti dalla Nigeria. Gente di varia nazionalità, addirittura dal Ghana, che passavano da Kano e poi qui, per andare verso Agadez. Da circa un anno osserviamo una riduzione drastica di questi convogli.

Questo perché il passaggio in Libia è diventato molto difficile. Anche i nigerini della regione, che vi lavoravano, sono tornati e non riescono più a partire. Chi aveva l’abitudine di andare in Libia, adesso cerca la via della Nigeria per trovare lavoro. Questa è una migrazione storica, almeno per la nostra popolazione».

Madame Nana insiste sul fatto che il governo sensibilizza, scoraggia chi vuole andare in Libia, mentre non fa la stessa cosa per la Nigeria. Il grosso problema, insiste, è che queste popolazioni depresse avevano nelle rimesse dei lavoratori stagionali, un ingresso economico essenziale: «Come aiutare chi ritorna dalla Libia? Come associazione locale abbiamo un programma per loro. Ma occorrono i fondi. Se si chiede alla gente di non andare in Libia occorre proporre loro un’alternativa, trovare loro un lavoro».

Marco Bello




Niger, frontiera d’Europa

Testi e foto di Marco Bello |


Per la sua posizione strategica il Niger è diventato il principale paese di passaggio di ogni traffico illecito, in particolare quello dei migranti. Oggi chi non è riuscito a traversare il Mediterraneo – e non è morto – fugge dalle persecuzioni dei libici, e tenta la via del ritorno. Ma spesso si trova bloccato a metà strada senza soldi. Qui l’Unione europea vorrebbe fermare il flusso di gente verso Nord. E per farlo utilizza soldi ed eserciti.

Niamey. La città di sabbia con le sue case basse color ocra pare sempre uguale. Tranquilla e lontana dalla frenesia di molte metropoli africane, più che una capitale di uno stato potrebbe essere un grande villaggio. Ogni tanto nei quartieri si incrocia un cammello che procede dondolando dietro al suo padrone inturbantato. Eppure qualche novità c’è. Negli ultimi anni il traffico automobilistico è aumentato notevolmente, e questo nonostante siano stati costruiti due svincoli stradali, uno dei quali sulla centralissima rotonda che dà accesso al ponte Kennedy, quello storico dei due che collegano le due sponde del fiume Niger. Il più recente è stato realizzato dai cinesi – grandi amici del Niger – nel 2011 e un terzo è in previsione, sempre ad opera dei cinesi, per quest’anno.

Ma le novità sono anche altre, meno visibili.

Ci avviciniamo al centrale Rond-point de la Liberté (rotonda della libertà), nei pressi del Grand marché, il mercato principale della capitale. Qui abbiamo l’appuntamento con Cheick Ahmed Touré, che si presenta come agente consolare della Guinea Conakry in Niger. Il signor Touré, guineano, ha già una certa età e ha passato gli ultimi 40 anni della sua vita in questo paese. Pacato e gentile, indossa una giacca grigia che gli conferisce una certa autorevolezza. Il suo sguardo sereno ci scruta da dietro le lenti di vistosi occhiali.

Oramai da alcuni anni Touré è diventato il punto di riferimento dei migranti guineani, ma anche senegalesi, ivoriani, maliani in transito per la capitale nigerina. In maniera totalmente volontaria e gratuita, Touré si è organizzato per aiutare in tutti i modi possibili questi giovani, oggi in fuga dalla Libia, ieri in viaggio verso quel paese.

Il nostro uomo ci aspetta per portarci in uno dei tre «Foyer» (o centri) nei quali accoglie migranti di passaggio. Lo seguiamo. Dietro al rond-point imbocca una stradina, quasi un vicolo. Ci fa parcheggiare. A piedi ci conduce in un viottolo tra case in banco (pronuncia bancò: fango e paglia essiccato al sole, materiale di costruzione tradizionale, molto usato in ambito rurale e ancora, talvolta, nel centro della capitale). Accediamo a un cortile che sembra quello di un quartiere periferico o di un villaggio: terra battuta, frammenti di muri in fango scrostati, qualche panca di legno grezzo, un via vai di persone.

Qui siamo subito circondati da alcuni giovani che ci squadrano con sguardi tra il curioso e l’ostile. Ma noi siamo con «ton ton», lo zio, come i ragazzi chiamano Touré, l’appellativo che da queste parti è assegnato a persone più anziane, di cui si ha grande rispetto.

Centro Liberté (libertà)

I giovani del centro hanno storie terribili. Qualcuno accetta di raccontarle. «Avevo dei soldi della mia famiglia, ma ho perso tutto nel tentativo di andare in Europa, senza riuscire ad arrivarci. Ora sono a Niamey da due anni». Chi parla è Mohammed, 37 anni, di Faranah, in Guinea Conakry. «Qui mi arrangio, faccio il parrucchiere per guadagnare qualcosa. Sono il responsabile di questo Centro. Se in giro vedo un migrante sperduto, lo avvicino e gli chiedo se vuole venire a Liberté. In questo momento siamo circa 28. Al mattino usciamo tutti alla ricerca di qualche lavoretto. C’è qualcuno che sa fare un mestiere. Poi ci ritroviamo qui al pomeriggio, condividiamo qualche soldo per comprarci del riso da cucinare insieme e mettiamo da parte una quota per pagare l’affitto di questo posto».

Mohammed, occhiali da sole e faccia furba, parla un francese di base, ma sciolto, gesticola e ha un  modo di fare spigliato, di chi è a proprio agio. Ha tentato due volte di andare in Libia. La prima volta ha raggiunto il Sudan, ma in Ciad si è procurato una pallottola che gli ha trapassato il torace, senza ledere organi vitali. Ci mostra le due cicatrici (entrata e uscita) e dice che sono stati quelli di Boko Haram, la setta terrorista molto attiva nella regione del lago Ciad (Sud Est del Niger). Ma non spiega le circostanze. È stato operato a Ndjamena, capitale del Ciad, dove un connazionale lo ha aiutato economicamente. «Mi sono scoraggiato e ho deciso di tornare verso casa, ma preferisco guadagnare qualche soldo qui e non rientrare a mani vuote».

Circondati da giovani in piedi che ci scrutano, siamo seduti su una panca di legno, perché in Africa gli ospiti sono sacri. Il signor Touré ci racconta: «Cerco di assistere i miei compatrioti ma anche altre persone della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest, ndr) in difficoltà. Li indirizzo subito verso uno dei tre centri di accoglienza che seguo, dove oggi ci sono un totale di oltre 70 persone. Quando ho qualche soldo lo do loro per le prime necessità. Inoltre cerco di metterli in contatto con associazioni e Ong internazionali. Ad esempio ho portato qui la Croce rossa danese, che ha fornito loro medicine, e ci ha promesso un aiuto in cibo e soldi per l’affitto.

Chi vuole rientrare nel proprio paese lo accompagno all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Ma alla gente non piace il loro sistema, perché l’agenzia (dell’Onu, ndr) organizza dei bus per riportarli nei propri paesi, dando loro solo 60.000 franchi (circa 91 euro, ndr), che è una miseria rispetto a quanto hanno speso per tentare la traversata, e pure una cifra insignificante per iniziare una nuova attività economica.

Per quelli che restano nei centri, verifico chi sa svolgere un mestiere e cerco di indirizzarlo in uno dei vari cantieri della città».

Niger, caput mundi

Il Niger, paese sconosciuto in Europa fino a qualche anno fa, è oggi balzato alla ribalta delle cronache a causa di due elementi chiave: è diventato uno dei principali paesi di passaggio, e traffico, di migranti dagli stati subsahariani verso la Libia, da dove si tenta il salto verso l’Italia; è centrale nella lotta al terrorismo jihadista in Africa (vedi box).

Solo i francesi lo conoscono da tempo perché, oltre ad averlo colonizzato, fin dall’indipendenza (1960) sfruttano i suoi giacimenti di uranio (di cui è terzo produttore al mondo), indispensabile per le centrali termonucleari che producono oltre il 72% dell’elettricità transalpina.

Il Niger è come un imbuto dove si incrociano due flussi migratori principali. Quello dall’Ovest (Senegal, Mali, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, ecc.) in passaggio da Niamey, e quello dal Sud (Nigeria, Camerun, Centrafrica, ecc.) di passaggio da Zinder o altre località. I due flussi si incontrano ad Agadez, ultima città nel deserto, dove poi i migranti si dividono tra chi passa in Algeria a Tamanrasset per entrare in Libia da Est e chi passa da Dirkou e Madaua ed entra in Libia dalla frontiera Sud (vedi cartina). Per questo il Niger è diventato il primo paese a Sud del Sahara, dove i governi europei, Italia compresa, vogliono stabilire una nuova frontiera per bloccare gli africani. L’Italia sta investendo nel paese, con l’invio, per la prima volta nella storia, di un ambasciatore (Marco Prencipe) nel 2017 e l’inaugurazione della nuova ambasciata, avvenuta lo scorso 3 gennaio con l’intervento del ministro degli Esteri Angelino Alfano in persona. È del gennaio di quest’anno l’approvazione in parlamento dell’invio di militari italiani in Niger, ufficialmente per la lotta alla migrazione clandestina e al terrorismo (vedi box qui sopra).

Proprio per il contrasto ai flussi migratori, il Niger ha firmato degli accordi con l’Unione europea alla Valletta (novembre 2014), grazie ai quali il paese riceve dei finanziamenti. Così nel 2015 l’Assemblea nazionale (il parlamento) del Niger ha votato una legge (la 36 del 2015) che, entrata in vigore a fine 2016, ha reso illecita qualsiasi attività connessa con la migrazione. Tale legislazione prevede anche un grande dispiego di forze militari e di polizia per il controllo delle frontiere, delle città e delle direttrici di transito dei migranti.

Chiediamo al signor Touré conferma degli effetti della legge: «Ci sono ancora migranti che tentano di andare in Libia, ma sono rari, perché c’è una politica di contenimento, per cui fin dalla frontiera si impedisce loro di entrare in Niger. Prima (della legge, ndr) qui era pieno di migranti sugli autobus di linea delle tre principali compagnie che viaggiano nel Nord. Stavano a Niamey anche una o due settimane, il tempo necessario per ricevere i soldi dalle famiglie e continuare il viaggio, oppure che i passeur (coloro che organizzano i viaggi, o trafficanti) si organizzassero per farli partire. Ora è diventato tutto clandestino, perché sanno di essere ricercati. Prima non si nascondevano».

Migranti di ritorno

Un altro aspetto che ha fatto invertire il flusso, ovvero non solo ridurre quello di andata verso Nord, ma incrementare quello verso Sud dei cosiddetti «migranti di ritorno», è il cambiamento del trattamento che i libici, le varie milizie, riservano da qualche anno ai migranti subsahariani.

«Sono partito per la Libia due volte». Ci racconta Alì Diubate, un ragazzone di 32 anni, di Kankan, Guinea, incontrato al Centro Liberté. «La prima è stata il mese di gennaio 2017. Mi hanno preso molti soldi sulla strada. Sono passato da Agadez e Arlit in Niger, poi da Tamanrasset in Algeria. Lì abbiamo preso una macchina 4×4 per la Libia. I passeur ci hanno messi in un foyer, un posto dove ci hanno chiesto i soldi. Siamo poi passati in un altro foyer, stesso sistema. Appena siamo arrivati a Tripoli ci hanno rinchiusi. Ci hanno legati e torturati, dicendo di chiamare i famigliari, altrimenti ci avrebbero uccisi. Mi hanno fatto un video con il mio cellulare mentre mi maltrattavano e mi hanno imposto di metterlo su Facebook, affinché lo vedessero parenti e amici, per chiedere loro un riscatto. La famiglia ha mandato 3.500 euro che i carcerieri si sono spartiti e poi mi hanno liberato. Sono arrivato al porto, dove si parte con i barconi, ma lì era anche peggio. Hanno preso tutti i soldi che mi erano rimasti. Con altri siamo stati obbligati a fare i lavori forzati. Poi ho deciso di ritornare, sono fuggito e sono arrivato qui a Niamey. Dopo quattro mesi sono ripartito, sono tornato a Tripoli, ma è stato di nuovo terribile». Alì ci mostra dei vistosi segni sulle braccia, le cicatrici prodotte dalle torture. «Ho fatto altre due settimane nella loro prigione, ma sono riuscito a scappare e sono tornato qui».

Alì vive al Centro Liberté da due mesi e lamenta che mancano i soldi per pagare l’affitto del tugurio dove ci troviamo, che però è il solo riparo per lui e i suoi compagni. «Se andassi all’Oim mi aiuterebbero a raggiungere Conakry (capitale della Guinea). Ma io sono il primogenito della mia famiglia, ho preso tutta l’eredità e l’ho persa. Due volte. Ho tre sorelle e due fratelli più piccoli. Quando ero in prigione, l’ultima volta, mi hanno mandato ancora dei soldi. Hanno venduto le vacche, il terreno della casa, per farmi liberare. Tutto è perso. Devo riuscire a mettere qualcosa da parte prima di tornare e ricominciare un’attività in Guinea».

I migranti di ritorno si ritrovano nella capitale nigerina, che è la prima grossa città sul loro percorso di ripiego. Sono fuggiti dalle persecuzioni e dalle torture dei libici, ma hanno impoverito le loro famiglie di origine. I più, invece di rientrare a casa, restano bloccati in questo paese, uno dei più poveri del mondo, alla ricerca di qualche lavoro, che difficilmente permetterà loro di mettere da parte le cifre che hanno dissipato per pagarsi il viaggio.

Se vuoi tornare a casa

L’ufficio dell’Oim di Niamey, vista la sua posizione strategica, ha acquisito negli ultimi anni sempre più importanza e ottenuto fondi. Una giovane funzionaria italiana ci racconta: «A partire dal 2016 sono cresciute le domande di assistenza per il ritorno, mentre prima c’erano molti passaggi per andare verso Nord. Adesso vediamo una frammentazione delle rotte, perché quelle principali sono presidiate dalle forze dell’ordine. I passeur hanno continuato in modo nascosto creando nuove rotte secondarie, evitando i centri e talvolta anche i pozzi nei deserti».

L’Oim Niger può contare su cinque centri di transito, ad Arlit, Dirkou, Agadez nel Nord e due a Niamey, dove se ne sta aprendo un terzo. Qui, chi chiede assistenza all’Oim, viene identificato, rifocillato, aiutato psicologicamente e attende di essere rimpatriato con un mezzo dell’agenzia. I casi vulnerabili, come i minori o donne con particolari problemi, e le persone dei paesi più lontani, sono rimpatriati in aereo. «Nei centri la maggior parte sono migranti di ritorno, ma ci sono anche quelli che, in viaggio verso Nord, decidono di non proseguire», continua la funzionaria.

L’Oim fornisce anche sostegno al governo del Niger, come formazione e fornitura di attrezzature alle autorità consolari.

Capita, al signor Touré, di entrare in contatto con giovani subsahariani che stanno tentando l’avventura verso la Libia. L’anziano agente consolare cerca di dissuaderli: «Quando li incontriamo li portiamo in questi centri e li facciamo parlare con quelli che hanno subito sevizie e torture (in Libia, ndr) in modo che si scoraggino nel continuare. Molti dicono: “Dobbiamo partire, preferiamo morire nel deserto che morire a casa nella miseria”. Una volta è venuto qui l’ambasciatore della Guinea e l’ho portato a incontrare i migranti. Uno di loro era originario dello stesso villaggio dell’ambasciatore. Lui ha cercato di convincerlo, gli avrebbe pagato un volo per tornare a casa, ma l’altro continuava dicendo che era partito con l’intenzione di riuscire. Abbiamo fatto di tutto, ma il ragazzo è partito. Tre mesi dopo mi hanno chiamato per dirmi che era morto. Nel suo gruppo erano sei, tre di loro hanno accettato che pagassimo loro il bus e sono ritornati al paese. Ogni tanto mi chiamano per dirmi che stanno bene, hanno dei piccoli progetti e si sono reintegrati. Come uno che ha realizzato un pollaio e la cosa funziona per lui».

Chi vende chi

Boubacar Oullaré è appena arrivato al Centro Liberté. Ha 28 anni e parla un ottimo francese. Ci dice di essere laureato in giurisprudenza. Aveva un grande sogno, quello di arrivare in Europa. A casa, in Guinea, ha lasciato una moglie e due figli piccoli. Ci spiega i meccanismi del viaggio: «La transazione passa prima attraverso passeur africani (qui l’intervistato intende i subsahariani, ovvero africani di carnagione scura, ndr). Con loro si fa Agadez, Arlit, Tamanrasset. Questi ti vendono ai Tuareg. Da Tamanrasset a Djanet, che è la frontiera tra Algeria e Libia, ti portano i Tuareg, che poi ti vendono ai Tubu (toubou) della Libia. Essi ti portano fino a Tripoli. Qui ti mettono in un foyer, dove chiedono delle somme ai tuoi genitori, per farti traversare oppure per liberarti. Si tratta in realtà di prigioni clandestine, non hai libertà, e ti propongono con la forza degli affari loschi che non puoi rifiutare. Se paghi la somma richiesta ti portano sulla costa. Qui ti prendono tutto, i tuoi abiti, anche la cintura, perché si viaggia su gommoni, e non si vuole rischiare di forarli. Si parte, ma ci sono spesso battelli che si rovesciano nell’acqua. In questo caso, se ti recuperano le navi internazionali sei salvo, perché ti portano in Italia. Se invece sei in acque libiche ritorni in Libia. Noi non abbiamo avuto fortuna – dice con un’enorme delusione sul volto -. Siamo naufragati in acque libiche. Tornati sulla costa avevo speso tutti i soldi. Ho dovuto di nuovo chiamare i miei genitori affinché mi aiutassero. Per questo motivo in Guinea non abbiamo più nulla. Tutti i beni di famiglia sono andati in fumo».

E conclude sconsolato: «Io adesso ho vergogna di presentarmi al mio paese, sono partito e ho preso una somma colossale per il viaggio. Tutto è perso. Siamo qui, e la nostra unica speranza è in Dio».

Lasciando il Centro Liberté i ragazzi, inizialmente ostili, sembrano patire il distacco con questi visitatori stranieri che, in qualche modo, rappresentano la loro terra promessa. Qualcuno di loro parla ad alta voce nella propria lingua, qualcun altro ci dà la mano e ci guarda negli occhi tristemente, sembra dire: «Italiano, domani tornerai in Europa in poche ore con l’aereo. Io ci ho provato e ho perso tutto. Ho rischiato pure la vita. Ti prego, non lasciarmi qui».

Marco Bello

Aqmi, Isis nel Sahara e Boko Haram

Nella morsa jihadista

Il Niger ha un ruolo centrale nella lotta al terrorismo in Africa Occidentale. È in guerra da anni con diversi gruppi armati, appoggiato da eserciti stranieri che ne approfittano per tenere un piede sul suo territorio.

Il Niger è anche al centro della geopolitica della guerra contro i jihadisti. A Nord e Nord Ovest si confronta con le formazioni terroristiche del Sahara e Sahel. Sono i gruppi come Al Qaida nel Maghreb Islamico (Aqmi) e Stato Islamico nel Grande Sahara, una realtà costituita da una galassia di gruppi armati che ora si alleano, ora si combattono e imperversano in Mali e in Burkina Faso. In Mali dal 2012 è in corso una guerra, in cui sono intervenuti l’esercito francese, quello tedesco (con la sua più grande missione militare all’estero) e la Missione delle Nazioni Unite Minusma (13.000 uomini di 26 nazionalità), oltre alle Forze armate maliane (cfr. MC giugno 2017).

In Niger questi gruppi compiono attacchi sporadici, a volte anche incisivi – l’ultimo di rilievo risale al 4 ottobre 2017, quando morirono 5 soldati nigerini e 3 statunitensi -, ma non presidiano alcuna area specifica. Il governo di Mahamadou Issoufou, al potere dal 2011, e rieletto nel 2016, ha infatti sempre avuto un buon controllo del vasto territorio nigerino.

L’altro nemico è a Sud Est, dove la setta fondamentalista Boko Haram impegna sul campo di battaglia diversi eserciti nell’area delle quattro frontiere del lago Ciad. Qui Niger, Ciad, Nigeria e Camerun sono riuniti nella Forza multinazionale mista. In questo contesto intervengono anche i francesi e i droni statunitensi (cfr. MC ottobre 2016 e dicembre 2015) in partenza dalla base franco-statunitense nei pressi dell’aeroporto di Niamey, dove anche l’esercito tedesco sta costruendo la propria base. In tre anni di guerra aperta contro Boko Haram sono centinaia le vittime nigerine (civili e militari) e migliaia gli sfollati nella regione di Diffa. Lo scorso 17 gennaio c’è stato un attacco a una base militare nigerina a Toumour nei pressi di Diffa con almeno 7 morti, al quale sono seguiti bombardamenti aerei della forza multinazionale. Circa un mese prima, fonti militari confermavano l’uccisione di 387 presunti integralisti da parte delle forze armate con l’appoggio dei droni (questi solo recentemente sono stati armati). Il 2 luglio, invece, il villaggio Nguelewa, sempre nei pressi del lago Ciad, era stato attaccato: nove abitanti uccisi e 39 donne e bambini presi in ostaggio. Il primo rapimento di massa nel paese.

Il Niger fa anche parte della coalizione militare G5 Sahel con Mauritania, Mali, Burkina Faso e Ciad per combattere i gruppi jihadisti presenti nella regione. Forza che opera in stretta collaborazione con l’operazione Brakhane (4.000 militari francesi con mezzi, dispiegati nei paesi saheliani contro i jihadisti dal 2014). I governi hanno deciso la creazione di un fondo fiduciario per i finanziamenti necessari a operare, circa 423 milioni di euro per il primo anno. A marzo la forza dovrebbe diventare operativa sul terreno lanciando l’operazione Pagnali, come definito dall’incontro di Parigi, tra i 5 ministri della Difesa africani e quello francese, Florence Parly.

Marco Bello

 

Militari italiani in Niger: addestrare o occupare?

Operazione «scarponi» nella sabbia

Anche l’Italia si appresta a inviare militari e mezzi in Niger. L’ottica è quella di bloccare i migranti in Africa, ma con i numeri previsti è impossibile controllare le frontiere. Mentre i costi rischiano di lievitare.

Il parlamento italiano ha approvato nel gennaio scorso la missione militare in Niger (contestata dal mondo missionario italiano, ndr). Nell’arco di sei mesi, nel paese saheliano potrebbe essere schierato un contingente di 470 uomini. Quale sarà il suo compito? Il generale Claudio Graziano, capo di stato maggiore della Difesa, ha affermato che non sarà una missione di combattimento. I nostri militari dovranno «addestrare i militari nigerini per renderli capaci di contrastare efficacemente il traffico di migranti e il terrorismo». «In realtà – afferma Gianandrea Gaiani, direttore della rivista Analisi Difesa -, la missione partirà in sordina con lo schieramento di 120 uomini che saranno impiegati per la costruzione di una base logistica a Niamey e per compiti addestrativi. Sarà poi il governo che uscirà dalle elezioni di marzo a decidere se mantenere la missione in questo assetto o ampliarla, affidandole anche i compiti di controllo della frontiera con la Libia dalla quale passano i traffici di uomini, droga, sigarette, ecc.». Indiscrezioni parlano dell’invio dei nostri militari a Madama, in mezzo al Sahara, al confine libico, postazione attualmente occupata da truppe francesi.

Facendo un passo indietro, da dove nasce l’esigenza di questa missione? «La missione – prosegue Gaiani – vuole rispondere alle richieste del Niger di avere un supporto nel contenimento del fenomeno dell’immigrazione. Non è un’esigenza nuova. Nel 2014 ero in Niger e l’allora ministro degli Esteri, oggi ministro dell’Interno, Mohammed Bazoum mi disse: “Con l’Italia c’è un rapporto storico, perché Roma non ci aiuta, formando i nostri uomini e fornendoci i mezzi, per contenere l’immigrazione bloccandone le rotte?”. Nel 2014 però, l’Italia era impegnata nell’operazione Mare Nostrum e non era interessata a inviare uomini in Niger. Oggi le condizioni di politica interna ed estera in Italia sono cambiate e c’è un rinnovato interesse da parte di Roma nel contenere l’immigrazione direttamente in Africa. Il Niger diventa quindi la prima linea sulla quale combattere il traffico di esseri umani, ma non solo».

Il 27 settembre 2017, Niamey e Roma hanno firmato un’intesa che prevede aiuti per 50 milioni di euro e l’invio immediato di 120 uomini. «Da giugno – osserva Gaiani -, la missione potrebbe crescere ulteriormente. Sarà il nuovo governo a stabilire se mantenere un contingente ridotto oppure se aumentarlo e quali missioni affidargli. A mio parere, se la missione sarà quella di controllare i confini tra Niger e Libia, 470 uomini potrebbero essere pochi per presidiare un’area così vasta. I militari sul terreno dovrebbero infatti avere il supporto di elicotteri, droni, mezzi di terra, apparati elettronici, ecc. Ciò aumenterebbe il costo della missione e lo sforzo logistico e operativo delle nostre forze armate».

In Niger gli italiani collaboreranno con altri contingenti? «I militari italiani – conclude Gaiani – lavoreranno insieme alle forze armate francesi che sono impegnate in Niger nella lotta al terrorismo. La presenza di soldati italiani, insieme a quella di militari tedeschi e spagnoli, permetterà a Parigi di ridurre il proprio contingente (e quindi di contenere le spese in bilancio) ma, allo stesso tempo, la Francia avrà la possibilità di mantenere una forte presenza nell’area».

Enrico Casale