Torre Maura: calpestare il pane – spezzare il pane

Quei Rom che vivono nei campi, sotto le diverse denominazioni: attrezzati, abusivi, istituzionalizzati, micro insediamenti, villaggi… sono sostanzialmente stigmatizzati da tutti, lo fanno i partiti di ogni tendenza, dalle stesse organizzazioni che vorrebbero tutelarli, dall’opinione pubblica in generale. Il risultato è sempre lo stesso, una disparità pericolosa e dannosa per i Rom che vivono nei campi, chi per scelta, per costrizione o per mancanza di alternativa. I Rom dei campi sono di fatto accusati come fossero dei “parassiti”, dei privilegiati, approfittatori, incapaci di volersi integrare. Cosa poi significhi integrare è ancora tutto da valutare e capire. I fatti di Torre Maura di Roma sono la conseguenza di questo e di altro ancora, soprattutto decenni di esclusioni, di pregiudizi e di un clima di odio che ha portato a gettare per terra e calpestare il pane destinato a quel gruppo di Rom, collocati provvisoriamente in un alloggio, dopo lo sgombero del loro campo.

Spezzare il pane è sempre stato il gesto carico di significato, esprime condivisione, accoglienza, il riconoscimento della dignità umana dell’altro, senza esclusione di ceto, classe, religione ed etnia. Nel dare un pezzo di pane, non solo riconosco la dignità dell’altro, ma valorizzo anche la mia, la nostra.” Un pezzo di pane non lo si nega a nessuno!” Era un dato di fatto indiscutibile fino a qualche anno fa, ora non più!

Questo principio, quello di non negare il pane, piano piano ha cominciato a sgretolarsi, già da diversi anni: vedi le ordinanze di diversi sindaci (di ogni orientamento politico) che vietano di dare una semplice bevanda calda con una brioche ai clochard che gravitano attorno le stazioni, o ai migranti che cercano di attraversare il confine: vietato aiutarli! Tutto per il così detto “decoro cittadino” da salvaguardare! Dare del pane a chi è nel bisogno, da qualche anno a questa parte, è diventato una minaccia al decoro cittadino. Il decoro sembra ormai avere la priorità sul quel sentimento umano, primordiale che ha caratterizzato il genere umano e l’Occidente stesso, quello di garantire e donare il pane a tutti.

Ma spezzare il pane per un cristiano o per chi vive una sua fede religiosa, ha dei significati immediati, chiari: rimandano al Mistero stesso di Dio. La Bibbia, La Torah e il Corano sono ricchi di richiami e di messaggi “teologici” riguardo il pane da spezzare, da condividere soprattutto di fronte all’affamato, al bisognoso, come all’ospite e al viandante di passaggio.

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo!” (Gv, 6, 41) Pane come dono di Dio, Gesù pane spezzato per la salvezza di tutti: buoni e cattivi, meritevoli o meno. “Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo.” Gettare a terra il pane e calpestarlo perché non sia dato ai Rom è come calpestare il volto di Gesù, figlio di Dio che si è identificato con l’affamato, il povero, la vedova, il forestiero… Come tale è un gesto sacrilego che offende Dio e l’Uomo allo stesso tempo, umiliando non solo i Rom, ma l’intera umanità. Per il cristiano Cristo è presente in tutti, ma nei poveri tale presenza acquista una importanza tale, da essere paragonata allo stesso Mistero Eucaristico. Che senso può avere, non solo per coloro che hanno profanato il pane o per i tanti che si definiscono i “difensori della civiltà cristiana”, ma soprattutto per le nostre comunità cristiane, celebrare l’Eucarestia domenicale, se poi nella vita non riusciamo a spezzare il pane dell’amicizia e della giustizia con i privilegiati del Regno che Gesù stesso ci ha annunciato? Che senso può avere rimanere ancora distanti, indifferenti, appollaiati sui nostri balconi, assistendo passivi alla sorte di questi “poveri Cristi”, gettati per terra e calpestati?

“Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc, 18, 8)

don Agostino Rota Martir (campo Rom – Pisa)
p. Luciano Meli (Lucca)
12 Aprile 2019




Attraverso il Niger, Africa «coast to coast»

Testo e foto di Marco Bello |


Il Niger è un paese di origine ma soprattutto di transito di migranti. Molti sono quelli che passano di qui per tentare la traversata del Sahara. Succede che non ci riescano, oppure che vengano respinti e riportati alla frontiera. Il flusso dei «ritornati» è in aumento. La chiesa cattolica del Niger si è organizzata per dare loro un’assistenza più «umana» possibile.

Niamey. La capitale sabbiosa del Niger sta cambiando volto. Nella sua zona centrale sono ben visibili alcuni grandi cantieri. Enormi edifici in costruzione, hotel e palazzi governativi di un’altezza mai vista qui, e poi il terzo ponte sul fiume Niger.

Guardando bene vediamo molti cinesi al lavoro sotto i caschetti gialli, e in alcuni cantieri sventolano bandiere turche. Sono questi i due sponsor ufficiali della speculazione edilizia a Niamey.

Ma in altre zone della capitale ci sono ancora quartieri con le case di mattoni in fango e paglia essiccati (banko), quasi «edifici storici», si direbbe da noi. Case da villaggio si dice in Niger.

Ci spingiamo nella periferia Est. In questa zona relativamente recente ci sono case basse e qualche edificio più alto, di banche o compagnie telefoniche. Noi cerchiamo i locali della parrocchia San Gabriel Garbado, della chiesa cattolica, minoritaria nel paese a grande maggioranza musulmana. A San Gabriel, l’arcidiocesi di Niamey – una delle due del paese, l’altra è la diocesi di Maradi – ha concentrato le attività di accoglienza e ascolto per i migranti.

Entriamo nella bassa costruzione in colore ocra, quasi mimetica, e nel cortile interno incontriamo Laurent Tindano, l’animatore principale della pastorale migranti. Laurent è un migrante lui stesso, perché burkinabè, ma vive qui da decenni e si sente nigerino a tutti gli effetti.

Un centro di ascolto

«Questo è un piccolo centro di accoglienza. Con pochi mezzi facciamo un accompagnamento dei migranti.

Ci occupiamo di coloro che stanno ritornando, dopo aver attraversato il deserto e tentato di passare il mare, senza successo, e ora vorrebbero rientrare nei loro paesi. Arrivano a Niamey sfiniti, privati di qualsiasi mezzo, smarriti e traumatizzati dell’esperienza durissima. Noi li accogliamo, ma non facciamo un lavoro amministrativo.

Parliamo con loro, li riceviamo come fratelli, non come stranieri, dando loro valore umano. Lasciamo tutto il tempo per parlare e cerchiamo di creare un rapporto di fiducia. Così ci raccontano il loro vissuto.

Li compatiamo nella loro sofferenza.

Quando un essere umano sente che lo capite, vi dà fiducia, e accetta di aprirvi il suo cuore e vi dirà molte cose. È diverso dal fargli delle domande per compilare un formulario».

Al centro di Garbado viene dato ai migranti anche un piccolo aiuto materiale «per facilitare il loro passaggio»: qualche soldo, una coperta, un kit igienico. Una volta la settimana un medico volontario visita le persone di passaggio. E, grazie alla convenzione con una farmacia e una clinica, si riescono a dare farmaci e far visitare i casi più gravi.

Un fenomeno nuovo

Laurent ci racconta che tutto è iniziato intorno all’anno 2011: «Con gli avvenimenti della Libia, del Mali e della Costa d’Avorio, alcuni sbandati arrivavano a Niamey e cercavano una parrocchia, perché è noto che dove c’è la chiesa è probabile ricevere un aiuto. Il fenomeno era nuovo e creammo dei comitati in ogni parrocchia. Ma poi ci rendemmo conto che c’erano migranti che facevano il giro. Si decise di concentrare l’attività a Garbado, che è in un luogo logisticamente vicino alle stazioni degli autobus di lunga percorrenza».

Gli chiediamo perché l’accoglienza è in prevalenza a chi torna dal tentativo di traversata. «Quelli che partono verso il deserto di solito sono in forma e hanno ancora il morale alto e mezzi economici. Hanno meno bisogno di noi. Inoltre noi siamo per la libertà di circolazione. Se ci chiedono informazioni sulla strada, diamo loro almeno qualche indicazione sui pericoli della traversata».

Seduto su una panca, poco più in là, sotto la tettoia di lamiera che ora ripara dal sole implacabile e per (soli) tre mesi all’anno dalla pioggia torrenziale, sta Micheal Johnson. Liberiano, di 37 anni, Michael è un vero globe trotter dell’Africa. Ma non per turismo.

Michael il «globe trotter»

Durante gli anni ‘90 in Liberia infuria una cruenta guerra civile (dall’89 al 2003 con una pausa nel ‘97-‘98). Come molti suoi connazionali Michael fugge e si ritrova in Costa d’Avorio, in un campo profughi. Nel paese lavora per dieci anni. Parla molto bene anche il francese. «Finita la guerra sono tornato nel mio paese, ma ho visto che la situazione era pessima. Volevo qualcosa di meglio dalla vita. Allora sono ripartito».

Michael passa da Guinea, Senegal, Mali, Burkina Faso e poi Niger. Da qui arriva in Ciad e si dirige verso il Sudan. «A questo punto è stato molto difficile. Ad Abéché ho trovato molti altri migranti che facevano il mio stesso viaggio. Siamo partiti insieme con un camion, ma passata la frontiera, verso le tre di notte, ci hanno assalito i ribelli Janjawid». Michael si trova nel Darfur. I ribelli sparano ai pneumatici del camion, fanno scendere tutti e puntano un’arma alla testa dell’autista. «Ci hanno fatti sdraiare nel deserto, hanno iniziato a torturarci e ci hanno preso tutto». Poi compare una pattuglia di caschi blu della missione di pace Onu, Unamid, che, sparando in aria, mette in fuga i Janjawid. Michael e gli altri sono salvi.

I caschi blu recuperano i malcapitati e li portano alla città di Al Fasher. «Hanno visto che non avevo nulla e mi hanno pagato il biglietto dell’autobus per Khartum. Il mio obiettivo era andare in Arabia Saudita».

A Khartum Michael non conosce nessuno, però da viaggiatore ormai esperto, si infiltra nel campus universitario, dove si riesce a vivere con poco e si trova sempre qualcuno che ti aiuta. «Sapevo dell’esistenza dell’università Jama Africa. Ci sono rimasto qualche tempo, intanto ho cercato un lavoro perché avevo finito i soldi». Appena ha abbastanza soldi Michael si rimette in viaggio e è arriva a Port Sudan, città sul Mar Rosso.

Ultimo passaggio

«C’erano delle barche che attraversavano il mare per andare in Arabia Saudita. Le barche erano sovraccariche. Ho visto gente di Etiopia, Eritrea, Nigeria, Camerun, Mali, Liberia. Ho pagato 1.500 dollari e mi hanno portato in un luogo nel deserto, dove molti altri erano in attesa. Ho così scoperto che c’erano molti migranti clandestini. Ci hanno detto di non farci vedere in città. Dovevamo aspettare di essere 150 per riempire una barca e i trafficanti sarebbero venuti a cercarci. Nel frattempo ci portavano cibo e acqua acquistata in città. Sono rimasto in quel luogo circa un mese».

Poi finalmente una mattina all’una, all’improvviso i trafficanti vanno a cercarli per partire. Ma Michael non ha fortuna. Una motovedetta della guardia costiera saudita blocca la sua nave. Non li fa attraccare e li rimanda in Sudan. Da allora Michael diventa come un pacchetto, espulso dai diversi paesi che ha attraversato. Lo portano a Nguigmi, in Niger al confine con il Ciad.

Ma lui non si arrende. «Allora mi sono detto, passerò dall’Algeria per andare in Francia». Dopo aver lavorato riesce ad attraversare il Sahara e arrivare a Oran, città algerina sulla costa. Qui trova un lavoro per mettere insieme un po’ di soldi ma «una sera, uscito dal lavoro, mi ferma una pattuglia della polizia. Io non avevo i documenti. Mi hanno portato all’ufficio immigrazione. Chiesi che cosa avevo fatto, ma mi dissero che dovevo partire. Volevo passare da casa a prendere le mie cose, ma non lo consentirono». Rinchiuso in un locale con altri clandestini, dopo alcuni giorni Michael viene messo su un camion «quelli che portano fino a 150 persone», e trasferito verso Sud. I migranti respinti sono quindi scaricati in Niger, nei pressi della frontiera. In qualche modo arriva poi a Niamey. «Qui la situazione è peggiorata, non riesco a trovare lavoro. Ho deciso di tornare in Liberia ma non posso arrivare senza un soldo. Nel mio paese la guerra ha rovinato tutto, ha ucciso i miei genitori. Anche per questo me ne sono andato».

Famiglia migrante

Nella parrocchia di Garbado, questa mattina ci sono una decina di persone. Tutti uomini o ragazzi. Unica eccezione è una famiglia, padre, madre e bimba piccola. Accettano di parlarci.

Biko (nome di fantasia) parla un ottimo francese. Lui e la famiglia vengono dal Ciad, in particolare da Ndjamena, anche se, ci tiene a precisare, sono originari del Sud, Doba, dove ci sono i pozzi di petrolio. Lui ha tentato più volte di studiare giurisprudenza all’università, nel vicino Camerun. Prima nel 2007, poi dieci anni dopo. In entrambi i casi ha dovuto lasciare a causa delle cattive condizioni di sicurezza.

Biko è molto critico con il suo paese: «Sono nato nella guerra, cresciuto nella guerra e le conseguenze sono nefaste, non mi hanno permesso di studiare». La famiglia è composta anche da altri tre figli, ci raccontano entrambi, di 10, 6 e 4 anni. L’ultima, qui con loro, ne ha 2. «Sappiamo che è un rischio lanciarsi in una migrazione con una grande famiglia. Ma ci ha spinto il fatto che il nostro paese non è stabile. La gente vive sempre in mezzo a conflitti armati, intercomunitari, c’è la repressione dei governi, la cattiva gestione. Le ricchezze del paese non sono condivise in modo che tutti ne beneficino per vivere in pace».

La moglie, Evelyn, in un francese più impacciato, aggiunge: «Abbiamo lasciato il Ciad per cercare una vita migliore per noi e i nostri figli. Il nostro obiettivo è cercare fortuna in Marocco». E continua raccontando il loro viaggio, iniziato quasi un anno fa: «Siamo partiti da Ndjamena con un camion e siamo arrivati in Nigeria. Poi da lì è stato complicato, anche a causa della polizia. Abbiamo spesso dovuto negoziare e alla fine abbiamo pure perso i documenti». Entrati in Niger si sono diretti a Nord, fino ad Agadez, la città nigerina alle porte del Sahara, nella quale tutti i flussi dei migranti s’incontrano: da Est, da Sud e da Ovest. E dalla quale si parte per l’Algeria o la Libia. Qui, qualcuno in «uniforme» ha avuto compassione della famiglia e ha sconsigliato loro di proseguire: «Con questi bambini farai la loro tomba nel deserto», hanno detto. E poi li ha aiutati a tornare a Niamey.

Tra l’incudine e il martello

«Siamo qui da quasi otto mesi – dice Biko -, i bambini non vanno a scuola, e non abbiamo neppure una casa. Viviamo all’aperto. Quando piove ci lasciano mettere sotto una tettoia adibita a moschea, poi però dobbiamo sloggiare. Non abbiamo provato a fare i visti per il Marocco, perché non so come fare e non ho soldi. Non abbiamo più nulla».

Chiediamo alla coppia se non pensano sia meglio tornare in Ciad. Risponde Biko: «Sì, ma abbiamo paura di quello che succede nel nostro paese, in particolare il terrorismo. Inoltre mi hanno detto che se sei stato all’estero più di tre mesi, quando ritorni ti sospettano di terrorismo. Devi giustificare cosa hai fatto, altrimenti ti sospettano di essere con Boko Haram. Siamo tra l’incudine e il martello».

Il Ciad fa parte della coalizione militare con Niger, Nigeria e Camerun, che combatte i terroristi di Boko Haram (Cfr. MC ottobre 2016). La capitale Ndjamena è molto vicina al Nord Est della Nigeria, zona storica di questo gruppo che ormai interviene nei quattro paesi nei pressi del lago Ciad.

L’amaro in bocca

Dopo aver parlato con diversi ragazzi, ascoltato le loro storie incredibili, di viaggi e di atrocità subite, prendiamo la nostra telecamera e li salutiamo. Sono contenti di aver condiviso la loro storia con noi, nonostante all’inizio ci fosse una certa diffidenza. Ce ne andiamo con l’amaro in bocca, per non potere far nulla di più che scambiare gli indirizzi mail. Biko ci scriverà una mail qualche tempo dopo. Alla fine sono rientrati in Ciad attraverso l’aiuto dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). Ora stanno aspettando degli aiuti per la «reintegrazione».

Epilogo

Torino, due settimane dopo.

È sera. Sto rincasando, quando sul bordo della strada scorgo un ragazzo africano che fa l’autostop. Mi fermo e lo carico.

Mi ringrazia. Subito un odore dolciastro invade l’abitacolo. Deve essere qualche profumo che utilizza. È un ragazzo molto giovane, con lo smartphone e le cuffiette. Come tutti i giovani ascolta musica. Dopo i primi minuti di silenzio gli chiedo come si chiama e da dove viene. «Vengo dalla Sierra Leone e mi chiamo Jo».

«Freetown?», chiedo io. Il nome della capitale del suo paese lo fa sussultare: «Sì – risponde sorridente – la conosci?».

Ammetto: «Non ci sono mai stato, ma conosco dov’è. Io ho vissuto in West Africa, in Burkina Faso». Il giovane si scioglie, nel tempo di un istante si crea una sorta d’intesa. Mi racconta che è in Italia da due anni e due mesi, e lo dice con precisione. Ha fatto il viaggio del deserto e poi del Mediterraneo. Ce l’ha fatta, lui. «Mi trovo bene qui», garantisce in un italiano mediocre.

Le nostre strade si dividono e lo deposito sul marciapiede. È molto contento e non fa che ringraziare. Lo saluto e vado via veloce nella notte. Ma subito penso a Michael, Biko, Evelyn e gli altri. I suoi conterranei che meno di due settimane fa ho incontrato a Niamey. Infognati in una terra di mezzo, senza più soldi e senza speranza. Con il sogno di una vita migliore infranto e nessuna voglia di tornare a casa a mani vuote. Loro non ce l’hanno fatta.

Marco Bello
con la collaborazione di Sante Altizio


Incontro con l’arcivescovo di Niamey

Essere luce nella società

La piccola ma vivace chiesa cattolica del Niger ha due pastori: monsignor Laurent Lompo e mons. Ambroise Ouedraogo. Il rapporto con l’islam è vitale, così come la comunione con le chiese protestanti. L’insegnamento è un canale importante per diffondere i valori della pace e della tolleranza, mentre la Caritas interviene in aiuto di tutti.

Incontriamo monsignor Laurent Lompo nei suoi uffici dell’arcidiocesi di Niamey. Lo avevamo conosciuto nel 2015, fresco di nomina. Lui è il primo vescovo nigerino del Niger (MC dicembre 2015).

Da quando hanno rapito padre Pierluigi Maccalli nella sua parrocchia nei pressi del confine con il Burkina Faso, il 17 settembre scorso, le preoccupazioni sono aumentate. E le riunioni di coordinamento pure. Ha poco tempo, ma accetta di parlare con noi. Notizie del missionario non ce ne sono. O meglio, il silenzio stampa è d’obbligo, per non disturbare eventuali trattative per il rilascio.

Rispetto alla problematica migratoria, cosa fa la chiesa del Niger?

«Sia nella diocesi di Niamey che in quella di Maradi abbiamo creato delle “cellule di ascolto”, per i migranti che passano. Perché il Niger è un paese di passaggio. Molti sono rimandati indietro da Algeria e Libia, tornano qui in capitale ma vogliono ripartire. Noi facciamo la pastorale dell’ascolto. Perché sono persone ferite, e credevano che migrando qualcosa sarebbe cambiato. Ritornano e sono scoraggiati. Il primo aspetto è dunque ascoltarli e ridare loro il gusto della vita e la dignità di persone. Non è perché siamo migranti che non siamo persone. Siamo pellegrini sulla terra e ognuno è chiamato ad andare all’incontro dell’altro. Il fenomeno migratorio che aumenta nei nostri paesi è il segno che le difficoltà portano la gente a cercare qualcosa in più. Ma sarà la migrazione a dare questo di più? Dobbiamo mettere il focus sui nostri paesi e su come fare in modo tale che la vita delle persone sia decente. Affinché il viaggio sia deciso effettivamente perché vogliono partire e non perché non hanno nulla e sono costretti a spostarsi.

Dobbiamo prendere la migrazione in questo doppio senso: chiunque ha diritto di viaggiare, ma se partiamo perché siamo costretti, perché non abbiamo nulla per vivere, forse dovremmo restare, qualunque sia la condizione. La maggior parte della gente che parte non ha mezzi e non sa dove andare. Molti ritornano. È con loro che lavoriamo cercando, con i mezzi che abbiamo, di ascoltarli, aiutarli a ritornare ai loro paesi. Alcuni trovano del lavoro qui, ma in Niger c’è disoccupazione, è difficile. In ogni caso noi cerchiamo di accompagnarli, soprattutto per fare in modo che ritrovino il loro equilibrio come esseri umani».

Come Chiesa, in un paese islamico, cosa fate per il dialogo interreligioso?

«Facciamo molto per il dialogo, soprattutto a partire dalla base, non solo a livello dei grandi leader. Ovvero partiamo dalle persone comuni affinché la coabitazione tra cristiani e musulmani sia buona, si abbia conoscenza di se stessi e dell’altro e ci sia mutuo rispetto. E facciamo molto attraverso una Commissione per il dialogo interreligioso e intra religioso, che ha intensificato i lavori in questi ultimi anni. Nella commissione ci sono cristiani evangelici e cattolici, e lo facciamo in direzione dei fratelli musulmani, che sono più forti. Abbiamo bisogno di stare insieme, perché siamo tutti figli di questo paese e più ci rispettiamo, più la pace avviene nel cuore, più viene nella società nigerina.

Abbiamo fatto diversi seminari su questi temi, uno nel 2016 sul dialogo, e un altro a novembre scorso concentrandoci sulla gioventù, che è uno strato sociale fragile, e manipolabile a tutti i livelli. Diciamo che se i giovani sono integrati, capiscono la propria fede, se hanno un’apertura verso il dialogo, allora noi costruiamo la pace nel nostro paese».

Lavorate molto con i musulmani, e frequentano le vostre scuole?

«Nelle nostre scuole la maggioranza degli insegnanti è musulmana, e non abbiamo avuto mai difficoltà. Tramite l’insegnamento cerchiamo di educare a dei valori che ci permettono di rispettarci gli uni gli altri, e a valori della vita che permettano a questi bambini, finita la scuola, di avere questa apertura.

A livello della Caritas del Niger, lavoriamo molto con i musulmani e i nostri aiuti sono indirizzati a tutta la popolazione senza alcuna distinzione etnica e religiosa. Operiamo per il bene di tutti. E tutti apprezzano questo nostro lavoro ancora di più, perché non facciamo proselitismo».

C’è anche l’islam radicale che si diffonde nella regione. In Niger ci sono stati episodi di violenza anticristiana nel 2015, quando alcune chiese furono date alle fiamme. Cosa fare?

«Sentiamo che un certo islam si sta radicalizzando. La gran parte sono persone che vengono da fuori, legate a certe scuole coraniche. Ma sia da parte del governo che della chiesa, lottiamo affinché l’islam nella sua generalità non prenda la forma dell’islam radicale, per evitare che ci siano dei conflitti. Facciamo questo sforzo. Negli avvenimenti del 16 e 17 gennaio 2015, non abbiamo accusato la comunità musulmana. I responsabili erano persone manipolate. Noi lavoriamo affinché questo non accada, sia da parte dei cristiani, sia dei musulmani, perché il radicalismo si può vivere in tutte le religioni. È la comprensione estremista delle nostre religioni che chiude le porte all’apertura all’altro. La negazione dell’altro rispetto a noi: è questo che porta conflitto. Noi facciamo di tutto affinché questo non capiti, non raggiunga i diversi strati sociali. E vegliamo, nelle nostre due diocesi, che si mantenga tra i cristiani uno spirito aperto e non si generalizzi rispetto all’islam. Il radicalismo, qualsiasi sia il gruppo da cui nasce, diventa un qualcosa che interroga e inquieta».

Mons. Laurent, lei è il primo vescovo del Niger di nazionalità nigerina. Chi sono i cattolici in questo paese?

 

«I cattolici sono presenti in Niger dal 1932 e penso che essi abbiano contribuito molto all’educazione in questo paese. Attraverso l’insegnamento, attraverso il dialogo della vita, la vicinanza alla popolazione. E continuiamo, malgrado il nostro numero limitato, a essere luce in questa società attraverso il lavoro ben fatto, il rispetto e l’accoglienza dell’altro senza pretese di convertire. Proclamiamo la nostra fede in Gesù Cristo che è il centro della nostra vita. Noi cerchiamo di imitarlo vivendo come lui ha vissuto, stando vicini alla gente come faceva lui.

Collaboriamo molto con le altre chiese, le chiese protestanti evangeliche, da qualche anno sentiamo un certo ecumenismo. Questo è importante per noi, perché siamo minoranze in un periodo difficile, allora ci uniamo per proclamare la nostra fede, restando aperti al popolo nigerino. Facciamo questo sforzo e siamo molto contenti della collaborazione con gli evangelici.

Realizziamo diverse attività insieme. Vogliamo che la nostra unità interroghi, in modo da essere portatori della buona notizia in questo popolo».

Che rapporti avete con le chiese vicine?

«Siamo in Conferenza episcopale con il Burkina quindi collaboriamo molto con loro. Abbiamo rapporti con la chiesa della Nigeria. Ci hanno chiesto come fare per vivere ancora più vicini ai nostri fratelli musulmani. Siamo stati io e monsignor Ambroise Ouedraogo (vescovo di Maradi) nella diocesi di Jos e siamo stati meravigliati nel vedere il lavoro che fanno i vescovi. Continuiamo nella stessa linea per essere anche noi portatori di pace nel nostro paese. Collaboreremo, perché condividiamo le stesse esperienze. Abbiamo avuto contatti anche con la chiesa algerina per le questioni della migrazione. Perché loro lavorano sul tema, e il passaggio di migranti in Algeria è importante».

Marco Bello


Archivio MC – Niger

• Marco Bello, «Ci legavano con corde e catene», aprile 2018.
• Marco Bello, Niger, frontiera d’Europa, marzo 2018.
• Marco Bello, Chiesa, dialogo contro terrore, dicembre 2015.




Aiutarli a casa loro:

dalle parole ai fatti

Testo di Chiara Giovetti |


Negli ultimi anni si susseguono le dichiarazioni di intenti dei governi sull’impegno per lo sviluppo. Spesso si tratta di declinazioni più o meno esplicite dell’idea «aiutiamoli a casa loro» e si concentrano principalmente sull’Africa. Ma, ancora una volta, gli slogan allontanano, non avvicinano, i cittadini dalla comprensione dei fatti.

Diciamolo subito: ci vorranno anni, decenni probabilmente. Anche volendo prendere sul serio lo slogan «Aiutiamoli a casa loro», anche cominciando subito e anche mettendoci il doppio delle risorse che ci mettiamo ora, ci vorranno anni prima che il livello di sviluppo nei paesi di provenienza dei migranti sia tale da ridurre i flussi migratori.

Qualunque politico che affermi: stiamo lavorando per creare lavoro e opportunità in Africa, dovrebbe aggiungere almeno tre cose: la prima è che ci vorrà tempo prima che l’aiuto mondiale allo sviluppo sia in grado di incidere in modo decisivo sulle economie dei paesi a cui è diretto. La seconda è che, comunque, questo aiuto può essere efficace a patto che si riducano le spinte in senso contrario e che gli sia consentito di orientare in senso redistributivo l’aumento di ricchezza che i paesi a basso reddito tenteranno di raggiungere con le proprie forze. La terza, di cui solo da pochi anni si è cominciato a parlare, ma che ha il potenziale di minare alle fondamenta le tesi degli anti immigrazionisti, è che potrebbe andare peggio prima di andare meglio. Diversi studi, infatti, mettono in discussione l’equazione «più sviluppo uguale meno migrazione» e suggeriscono, al contrario, che il miglioramento delle condizioni di un paese potrebbe spingere i suoi cittadini a emigrare di più, non di meno.

Secondo il sondaggio dell’Eurobarometro pubblicato lo scorso settembre, gli italiani nel 2017 erano più convinti rispetto all’anno precedente che affrontare il problema della povertà nei paesi in via di sviluppo dovrebbe essere una priorità sia per l’Unione europea che per il governo italiano. Rispetto alla rilevazione del 2016, inoltre, gli intervistati favorevoli a che l’Ue e i suoi stati membri spendessero di più per aiutare i paesi poveri erano aumentati del 10%@.

La crescente sensibilità verso questo tema è con tutta probabilità legata al fenomeno migratorio e all’urgenza di trovare soluzioni per gestirlo: l’arrivo di migliaia di esseri umani sulle coste europee ci ha spinti a chiederci quali siano i motivi che portano i migranti ad affrontare un viaggio così drammatico e i rischi mortali ad esso connessi. A fronte di questa maggior sensibilità verso lo sviluppo, lasciare intendere – con affermazioni pressappochiste – che la cooperazione sia lo strumento per una soluzione raggiungibile nello spazio di una legislatura rischia di peggiorare, e di molto, le cose. Perché crea aspettative che, semplicemente, non possono che essere disattese e getta le basi per un pericoloso passaggio successivo: se la cooperazione non serve, non facciamola più.

A che punto siamo

Il mondo dello sviluppo non solo è lontano dall’essere una bancarella di bacchette magiche capaci di risolvere velocemente i problemi se solo ci si decidesse a usarle; è anche un mondo inquieto e percorso in profondità da dubbi e contraddizioni. Sono passati dieci anni da quando il libro Dead Aid (in italiano: La carità che uccide), scritto dall’economista zambiana Dambisa Moyo, ha ferocemente criticato il sistema degli aiuti. «Negli ultimi cinquant’anni», scriveva Moyo nell’introduzione, «più di mille miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo sono stati trasferiti dai paesi ricchi verso l’Africa. Questa assistenza ha migliorato la vita degli africani? No. In realtà, in tutto il globo, i beneficiari di questo aiuto stanno peggio. Molto peggio». E solo quattro anni fa la comunità internazionale si sedeva (simbolicamente) intorno a un tavolo per constatare che gli Obiettivi di sviluppo del Millennio, trionfalmente lanciati nel 2000, non erano stati completamente raggiunti@.

Oggi, mentre gli Obiettivi di sviluppo del Millennio hanno lasciato il posto agli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2015-2030, gli addetti ai lavori nelle agenzie internazionali, nei governi e nelle Ong stanno ancora ponendosi molte domande non solo sugli interventi sui quali concentrarsi ma anche su come misurare i risultati.

Euractiv, rete di media europei che segue l’attualità e il dibattito sui temi rivelanti per l’Ue, ne ha parlato con Sarah Holzapfel, economista e ricercatrice specializzata sull’agricoltura all’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo (Die). Non basta, sottolinea Holzapfel, citare come risultati il numero di chilometri di strade costruiti o l’acqua fornita con i progetti idrici. «Le vite dei gruppi beneficiari sono cambiate? Il loro reddito è cresciuto? La sicurezza alimentare è aumentata?». Queste sono le domande da porsi per capire qual è l’impatto della cooperazione. E, in mancanza di criteri comuni e di sforzi coordinati fra tutti i donatori, compiere queste misurazioni è a oggi estremamente complicato@.

Non bisogna inoltre dimenticare che parte delle difficoltà a misurare non solo i risultati ma anche i problemi da affrontare deriva dalla molto variabile disponibilità di dati statistici e dalla loro non sempre immediata comparabilità. È un’informazione che fatica a farsi strada fino alle pagine degli esteri dei quotidiani nazionali e, meno ancora, dei Tg della sera, eppure è fondamentale.

Haishan Fu, direttrice della sezione della Banca Mondiale che si occupa dei dati dell’economia dello sviluppo, ammoniva lo scorso febbraio che «ci sono ancora molti spazi vuoti sulla mappa dei dati a livello globale», e che «fino a pochi anni fa, 77 paesi ancora non disponevano dei dati adeguati a misurare la povertà. Quel che è peggio è che spesso i dati sono più scarsi proprio nelle zone dove sarebbero disperatamente necessari»@.

D’altro canto, da paesi che, come vedremo fra poco, non riescono a finanziare sanità e istruzione non ci si può aspettare che investano fondi per potenziare i propri istituti nazionali di statistica.

Questo significa che la cooperazione è uno strumento eccessivamente fragile ed è meglio non contarci troppo? No, il contrario. Significa che va fatta a meglio. Con più risorse e anche più coordinamento.

L’Overseas Development Institute (Odi), centro di ricerca con sede a Londra, sottolineava lo scorso autunno che ci sono ancora 800 milioni di persone in povertà estrema, ma il grosso dell’aiuto va ai paesi a medio reddito, non ai più poveri, perché in questi ultimi è più rischioso investire. Anche quando si tratta di aiuti@.

In un rapporto del settembre 2018@ l’Odi individua 48 paesi nei quali l’aumento (stimato) del gettito fiscale nei prossimi anni non arriverà comunque a coprire del tutto i costi per finanziare i tre settori chiave: istruzione, sanità e protezione sociale. Fra questi 48, il rapporto ne isola poi 29 in forte difficoltà economica (severely financially challenged, in inglese): tutti africani tranne Afghanistan, Corea del Nord e Haiti. Si tratta di paesi che non riescono a coprire nemmeno la metà dei costi per far funzionare i tre settori. Se almeno 33 dei 40 miliardi di dollari in aiuti che ora vanno a paesi già in grado di far fronte da soli ai quei costi venissero invece spostati su quei 29 Paesi più deboli, la spesa di questi ultimi per sanità, istruzione e protezione sociale sarebbe coperta.

Inoltre, se tutti i paesi donatori destinassero come da accordi internazionali lo 0,7% del loro Pil alla cooperazione, 184 miliardi di dollari all’anno in più sarebbero disponibili. Ipotizzando che anche solo metà di questi fossero utilizzati dai 48 paesi di cui sopra, tutti potrebbero far fronte al 94% dei costi per i tre ambiti cruciali.

È ovvio che un aiuto efficace richiede coordinamento, assunzione (e mantenimento) di impegni a livello internazionale e, lo ripetiamo, tempo per produrre e consolidare gli effetti.

Le spinte in senso contrario

Non è colpa solo di quell’arpia della Francia o dei malvagi cinesi. Le spinte in senso contrario allo sviluppo e alla riduzione della povertà sono forti e arrivano da molte direzioni. Honest accounts@, un rapporto prodotto nel 2017 da un gruppo di Ong britanniche e africane, rileva che nel 2015, a fronte di circa 162 miliardi di dollari ricevuti in prestiti, rimesse dei migranti e aiuto allo sviluppo, l’Africa subsahariana ha visto uscire dal continente risorse per 203 miliardi. Il saldo, per gli stati a Sud del Sahara, è negativo di circa 40 miliardi.

Come sono usciti questi soldi? Attraverso fatturazione irregolare e altri illeciti finanziari, rimpatrio dei profitti delle grandi aziende (realizzati sul continente africano ma poi riportati nei paesi dove le multinazionali hanno sede o nei paradisi fiscali), rimborso degli interessi sul debito e contrabbando di legno, prodotti ittici e piante o animali selvatici. A questo si aggiungono i fondi che una manciata di milionari africani mettono al sicuro nei paradisi fiscali. Secondo Gabriel Zucman, studioso della London School of Economics, nel 2014 gli africani ricchi detenevano 500 miliardi di dollari in conti offshore. Questi denari non tassati provocano una perdita fiscale per il continente di circa 15 miliardi.

Altra nota dolente è quella della svendita delle risorse naturali: sono numerosi e documentati i casi di funzionari pubblici o membri dei governi africani che, in cambio di tangenti, hanno ceduto a imprese straniere i diritti sullo sfruttamento delle risorse minerarie a prezzi stracciati.

Un esempio per tutti: il rapporto cita uno studio pubblicato nel 2013 dalla Ong britannica Global Witness e dall’Africa Progress Panel, un gruppo di studiosi e leader africani all’epoca presieduto dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan. Lo studio si concentrava su cinque grandi concessioni per estrazione mineraria in Repubblica Democratica del Congo e riportava che lo stato congolese aveva accettato di cedere i diritti di estrazione alle compagnie acquirenti – tutte società offshore con sede nelle Isole Vergini Britanniche – per un miliardo e 360 milioni in meno rispetto al valore di mercato, praticando alle aziende «sconti» fino al 95%. I diritti sono poi stati acquistati da due grandi multinazionali, la Enrc (Eurasian Natural Resources Corporation, fondata in Kazakistan e quotata in borsa a Londra) e l’anglo-svizzera Glencore, mentre le società offshore sono risultate legate a Dan Gertler, uomo d’affari israeliano membro di una delle famiglie più influenti nel mercato dei diamanti. Il miliardo e 360 milioni di mancato introito per le casse dello stato congolese, conclude il rapporto, equivale al doppio di quanto il Congo ha speso nel 2012 per istruzione e sanità.

Più sviluppo meno migrazione?

Sulla rivista dei gesuiti Aggiornamenti Sociali, il sociologo delle migrazioni Maurizio Ambrosini segnala che secondo diverse ricerche sul rapporto fra aiuto e migrazione «in una prima non breve fase lo sviluppo incrementa le partenze: più gente accede alle risorse per muoversi, accresce l’istruzione, si apre a nuovi orizzonti e aspirazioni. Solo in seguito, dopo diversi anni, l’emigrazione cala»@.

È la cosiddetta «gobba della migrazione» o migration hump: studi storici e comparati, si legge in un documento dell’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo, hanno mostrato che quando la crescita economica e l’innalzamento del livello dei redditi sono tali che un paese non è più definibile a basso reddito, l’emigrazione inizialmente aumenta. Solo quando il paese diventa a medio reddito è ragionevole aspettarsi una diminuzione del fenomeno@.

Per riassumere: chi ci dice che il problema della migrazione degli africani si risolve aiutandoli a casa loro, in sostanza, ci sta dicendo che bisogna almeno raddoppiare i fondi italiani per lo sviluppo, mettersi d’accordo con una trentina di altri paesi donatori perché il denaro sia usato al meglio, convincere la parte corrotta delle élites africane e la parte corruttrice delle grandi aziende internazionali – italiane comprese – a piantarla e, fatto questo, metterci comodi e pazientare ancora qualche anno perché lo sviluppo nei paesi africani sia sufficiente a far diminuire l’emigrazione invece che incrementarla. «Sapevatelo», diceva un famoso comico.

Chiara Giovetti




Di pacchie e di abbagli


Negli ultimi mesi il dibattito su migrazione, cooperazione e sfruttamento dell’Africa si è ingarbugliato su frasi a effetto e invettive un tanto al chilo sul neocolonialismo. A farne le spese è la chiarezza su temi che, già complessi di loro, di tutto hanno bisogno meno che di essere resi più fumosi.

«Se riapri i porti tornano i morti». Così il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini commentava lo scorso 19 gennaio in una diretta Facebook il naufragio di un gommone a 45 miglia da Tripoli e la morte di 117 su 120 dei suoi passeggeri. «Cuori aperti per chi scappa davvero dalla guerra», aggiungeva poi nello stesso video, «ma porti chiusi per Ong, trafficanti e tutti gli altri», precisando di tenere «a che in Italia si entri chiedendo per favore e dicendo grazie se si ottiene qualcosa» e rallegrandosi dei primi effetti visibili del decreto sicurezza: «Tanti fermi di richiedenti asilo che commettono reati e tante espulsioni». La soluzione del leader leghista al problema dell’immigrazione è presto detta: evitare le partenze direttamente nei paesi d’origine, dove «con Onlus e associazioni perbene, con Ong perbene e volontari perbene si distinguono coloro che scappano dalla guerra – che sono pochi – e coloro che non scappano da nessuna guerra e non hanno diritto a partire e ad arrivare». A questo, continuava Salvini nella diretta Facebook, si aggiunge il fatto che in questo mese di marzo il ministro dovrebbe tornare «in un paese africano che stiamo aiutando per mettere i primi mattoni di un’operazione di sviluppo, di cooperazione, che riguarda la scuola, riguarda la sanità, riguarda il lavoro per decine di migliaia di quei ragazzi».

Quanto a chi è già arrivato in Italia, Salvini aveva dichiarato all’inizio di giugno 2018 in un comizio a Vicenza che «gli immigrati regolari e perbene non hanno niente da temere in questo paese e i figli loro sono i figli miei. Per gli immigrati clandestini è finita la pacchia: preparatevi a fare le valigie»@. Pochi giorni dopo aveva ribadito il concetto chiarendo che «i 170mila finti profughi che in questo momento stanno guardando la televisione in albergo pagati dagli italiani è una pacchia che non ci possiamo più permettere»@.

© Daniele Biella

Pacchie petrolifere

A controbattere a quest’ultima accusa era stata nel giugno 2018 un’immigrata nigeriana, in una lettera pubblicata sul sito Raiawadunia curato dal giornalista Silvestro Montanaro.

«Vengo da un paese, la Nigeria, dove ben pochi fanno la pacchia e sono tutti amici vostri», rivendicava la donna, originaria di Port Harcourt, città industriale sul Delta del fiume Niger dove ha sede la maggior parte delle raffinerie nigeriane. «La regione in cui vivo,» si legge ancora nella lettera, «dovrebbe essere ricchissima, visto che siamo tra i maggiori produttori di petrolio al mondo. E invece no. Quel petrolio arricchisce poche famiglie di politici corrotti, riempie le vostre banche del frutto delle loro ruberie, mantiene in vita le vostre economie e le vostre aziende».

Paese scosso da diversi colpi di stato, deninciava la donna, la Nigeria ha visto andare al potere «personaggi obbedienti ai voleri delle grandi compagnie petrolifere del suo (di Salvini, ndr) mondo, anche del suo paese. Avete potuto, così, pagare un prezzo bassissimo per il tanto che portavate via. E quello che portavate via era la nostra vita».

La Nigeria è fra i primi 10 fornitori di petrolio dell’Italia e nel 2018 il greggio proveniente dal paese africano ha inciso sul totale per poco meno del 4%@.

Un anno fa si è aperto a Milano il processo «Scaroni e altri» per la presunta maxi tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari che i vertici di Eni e Shell avrebbero pagato al governo nigeriano in cambio dei permessi per l’esplorazione del giacimento offshore Opl 245. I fondi sono transitati sul conto del governo di Abuja presso la banca JP Morgan a Londra, poi rientrati in Nigeria in due tranche versate su conti riconducibili alla Malabu Oil & Gas Ltd dell’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete e ad Abubakar Aliyu, imprenditore petrolifero noto in Nigeria come Mr. Corruption e molto vicino a Goodluck Jonathan, che all’epoca dei fatti contestati era il presidente della repubblica di Nigeria. Lo scorso settembre per questa vicenda sono stati condannati in primo grado due mediatori, l’italiano Gianluca di Nardo e il nigeriano Obi Emeka, che hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato. Come riporta Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera@, nelle motivazioni della sentenza di condanna depositate lo scorso dicembre, la giudice per l’udienza preliminare Giusy Barbara afferma che «Tutti gli elementi di prova inducono questo giudice ad affermare che il management delle società petrolifere Eni e Shell è stato pienamente a conoscenza del fatto che una parte dei 1,092 miliardi di dollari pagati sarebbe stata utilizzata per remunerare i pubblici ufficiali nigeriani, che avevano avuto un ruolo in questa vicenda e che come “squali” famelici ruotavano intorno alla preda».

Lo scorso novembre, inoltre, un rapporto commissionato a un centro di ricerca da un gruppo di Ong – le britanniche Global Witness e The Corner House e l’italiana Re:Common, da un esposto delle quali è scaturito il processo in corso – mostra come le perdite per lo stato nigeriano non si limitano ai denari malversati della presunta maxi tangente, ma aumenteranno di ulteriori 6 miliardi di dollari a causa delle mancate entrate per il fisco nigeriano. L’analisi rivela infatti che l’accordo, del 2011, fra il governo di Abuja e le due compagnie petrolifere per l’esplorazione del giacimento Opl 245 include condizioni fiscali molto generose nei confronti di queste ultime. «I più alti funzionari nel Dipartimento delle Risorse petrolifere della Nigeria», si legge nel rapporto, «avevano protestato contro l’accordo, definendolo “altamente svantaggioso per gli interessi del governo federale”. Queste preoccupazioni sono state ignorate o respinte dai ministri dell’epoca, che sono attualmente accusati dai pubblici ministeri di aver ricevuto tangenti provenienti dal miliardo di dollari pagato da Shell e Eni per l’accordo»@.

© Valentina Tamborra

I mattoni di un’operazione di sviluppo?

Salvini rivendicava nella sua diretta Facebook atti concreti a sostegno della cooperazione allo sviluppo. Lo scorso agosto aveva anche annunciato di avere in cantiere un progetto che prevede almeno un miliardo di spesa e di investimento per sostenere l’economia e il lavoro di centinaia di migliaia di persone in Africa, soprattutto puntando sull’agricoltura, sulla pesca e sul commercio»@.

Su questo punto, i dati dicono però altro: «Negli ultimi anni», segnalano le Ong del network Link2007, «l’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) dell’Italia ha avuto un andamento crescente, passando dallo 0,17% del Pil nel 2013 a quasi lo 0,30% (0,294%) nel 2017. Tale progressione sarebbe dovuta continuare fino a raggiungere la media europea dello 0,5% del Pil, come indica la legge 125/2014 e lo stesso governo aveva programmato nella nota di aggiornamento al Def di settembre. Invece la legge di Bilancio inverte tale progressione fissando per il prossimo triennio un andamento decrescente: 0,289% nel 2019 e 0,262% per i due anni successivi»@.

E allora i francesi?

Noi i cattivi? C’è chi fa peggio. Questa sembra essere la logica di fondo con cui diversi esponenti politici, anche dell’area di governo, hanno tentato di recente di sollevare l’Italia dalle proprie responsabilità in fatto di migrazione e cooperazione.

Lo scorso gennaio sia Alessandro di Battista (M5S) che Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) in due differenti trasmissioni televisive si sono lanciati in una teatrale e approssimativa invettiva sul franco Cfa. Si tratta in realtà di due monete distinte utilizzate in due gruppi di paesi dell’Africa centrale e di quella occidentale. Due monete che hanno lo stesso nome e lo stesso tasso di cambio fisso nei confronti dell’euro, pur non essendo interscambiabili. Monete eredità della dominazione coloniale francese. Cfa, infatti, stava per Colonies Fraçaises d’Afrique (colonie francesi d’Africa) e, dopo le indipendenze dei paesi africani, l’acronimo è rimasto lo stesso ma significa ora Communauté financière africaine (comunità finanziaria africana).

È attraverso questa moneta, hanno sostenuto entrambi i politici italiani, che la Francia controlla le risorse e le economie di quei paesi e li priva della sovranità monetaria@ @.

In particolare, ha detto Di Battista, i 14 paesi africani che utilizzano il franco Cfa «per mantenere il tasso fisso prima con il franco francese e oggi con l’euro sono costretti a versare circa il 50% dei loro denari in un conto corrente gestito dal Tesoro francese».

Non è il Cfa il problema

© Marco Bello

Le precisazioni e le smentite alle parole dei due politici non si sono fatte attendere. In particolare, quella proposta da Mariasole Lisciandro sul sito lavoce.info sottolinea come i paesi dell’area Cfa versino alla Francia la metà delle loro riserve in valuta straniera (e non «la metà dei loro denari»), per un ammontare totale di 10 miliardi di euro@.

Inoltre, Di Battista e Meloni non hanno fatto una grande rivelazione, anzi, sono loro ad essere in ritardo visto che il dibattito sulla questa valuta africana è in corso da decenni. Chi lo critica sostiene che il tasso fisso danneggia le esportazioni dei paesi africani che lo usano, perché i prodotti esportabili sono troppo costosi per essere appetibili e che, viceversa, rende conveniente alle multinazionali francesi (ed europee) investire in quella zona potendo contare sulla stabilità del tasso di cambio. Chi invece è a favore del franco Cfa sostiene che ha garantito una maggior stabilità economica e tenuto sotto controllo l’inflazione (che nell’area è circa al 2%).

Ancora, diversi osservatori hanno fatto notare che la proporzione dei migranti provenienti dall’area Cfa è bassa: «Nell’elenco dei paesi da cui sono arrivati i migranti in Italia, diffuso dal ministero dell’Interno e aggiornato a dicembre 2018», scrive David Caretta su Il Foglio, «il primo paese che adotta il franco Cfa è la Costa d’Avorio, ottavo in lista, da cui sono arrivate 1.064 persone su 23.370»@.

E anche a voler prendere, invece degli arrivi dell’anno scorso, la popolazione straniera non comunitaria residente in Italia, le persone provenienti dalle due zone sono in totale 202mila su 3,7 milioni: il 5,2%. Un quinto ha meno di 17 anni@.

Bisogna infine ricordare che l’adesione alla valuta è volontaria – e alcuni paesi come la Mauritania e la Guinea Conakry ne sono usciti – e che il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato nel novembre 2017 a Ouagadougou (Burkina Faso) che del franco Cfa «la Francia non è la padrona, ne è il garante. Questo significa che è prima di tutto una scelta degli stati membri della zona Cfa (…).
Il presidente Kaboré [capo di stato del Burkina] decide domani: “non sto più nella zona franco”? Non ci sta più»@.

Non c’è dubbio che un conto sono le dichiarazioni pubbliche di Macron e un altro i reali rapporti di forza economici, il ruolo degli interessi in Africa di grandi gruppi come Bolloré o Bouygues e i legami con Parigi di tanti membri delle élite dell’Africa francofona, spesso formati in università francesi e vicini alla Francia anche per via di rapporti familiari, come è il caso del presidente ivoriano Alassane Ouattara, la cui moglie è la donna d’affari di origine francese Dominique Claudine Nouvian.

Ma è proprio questo il punto: a voler fare le pulci alla Francia per la sua condotta non sempre esemplare e i suoi interessi in Africa si ha davvero l’imbarazzo della scelta, a cominciare dalla a dir poco fallimentare Opération Turquoise, operazione militare dispiegata durante il genocidio in Ruanda, per continuare con l’Opération Licorne e il ruolo francese – da molti giudicato poco neutrale -nella guerra civile in Costa d’Avorio. Criticare Parigi per il franco Cfa, per di più con argomentazioni claudicanti, abbassa in modo imbarazzante il livello del dibattito. Come si dice spesso in questi casi, sono questioni complesse. E non si spiegano (né si capiscono) nei 280 caratteri di un tweet o in un minuto e mezzo di talk show.

Chiara Giovetti

© Simone Perolari


Chi è un rifugiato

 

Sono anni ormai che si parla di migrazione, di profughi e di asilo, eppure i vertici del governo e molti degli esponenti politici italiani continuano a parlare di «veri» rifugiati, che sarebbero solo quelli che scappano dalla guerra, e «finti» rifugiati o migranti economici, che sarebbero più o meno tutti gli altri. Corollario: se vieni dalla Siria hai diritto, se vieni dalla Nigeria no, salvo zone in cui c’è Boko Haram.

Non è così.

  • Un rifugiato scappa da una persecuzione, non dalla guerra, ed è chi «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese» (Convenzione di Ginevra, articolo 1, lettera a @).
  • La protezione sussidiaria è invece regolamentata da due direttive europee (2004/83/CE e 2011/95/UE) e garantita a chi «non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno».
  • Sono considerati danni gravi: la condanna a morte o all’esecuzione, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante o la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
  • Infine c’è la protezione umanitaria: può essere rilasciata per «seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», anche in caso di diniego alla richiesta di asilo. Ma con il decreto sicurezza la protezione umanitaria è stata eliminata ed è stato introdotto un permesso di soggiorno per «casi speciali».

Chi.Gio.




Cari Missionari


Grazie a don Paolo Farinella

Buonasera,
sono un vostro abbonato, nonché estimatore. Ho letto che don Paolo Farinella, che conduceva la rubrica Insegnaci a pregare, lascia. Intanto ringrazio MC per aver fatto una scelta così importante a suo tempo. Mi dispiace che lasci; il suo linguaggio, la sua rubrica l’aspettavo ogni mese. Mi è stata compagna di meditazioni ogni mattino; vi ritornavo spesso sempre sullo stesso numero. Devo dire che ho atteso più di 50 anni prima di trovare chi facesse scivolare/penetrare la Parola di Dio, così come l’ha fatto lui; quanto scriveva mi suscitava il gusto di accedervi più volte. Sì, quando uno ti mette nella condizione di gustare (io che sono uno qualsiasi) e di progredire, puoi solo essergli grato.
Posso dire che come Piero Angela ha saputo parlare alla gente della complessità della scienza e farla gustare, così ha fatto don Paolo nel suo ambito. Don Paolo, un abbraccio riconoscente.

Ottorino Saccon
21/12/2018

Questa è la risposta di don Paolo.

Carissimo Sig. Ottorino
[…] la ringrazio per la e-mail che padre Gigi, direttore di MC, mi ha fatto avere. Non le nascondo che mi sono sentito in grave imbarazzo leggendo, e nello stesso tempo ho provato la gioia di sapere che la Parola di Dio può essere indirizzata a tutti, anche non specialisti, basta studiare tanto per parlare un linguaggio umano accessibile e comprensibile. Se lei vuole e se le interessa può visitare il sito www.paolofarinella.eu/ oppure digiti «Paolo Farinella, prete» su Google, e lo trova. Poi alla finestra Liturgia trova tutti i commenti alle domeniche e feste di tutto l’anno (quello in corso è l’Anno-C).

Da 13 anni non ho solo scritto per la rivista, ma consapevole della mia responsabilità, ogni giorno portavo i lettori di MC, verso i quali ho sempre nutrito una grande stima, nel mio cuore e nella mia preghiera perché, pur non conoscendoli, io entravo tutti i mesi nelle loro case, non sapendo quale effetto potessero avere le mie parole. Per questo tutti gli articoli erano prima pensati e poi pregati e poi pubblicati, nel tentativo di aiutare qualcuno a uscire dal «raccontino biblico» per avere un «incontro» vitale con la Parola che è comunione con Dio.

Lei mi ha dimostrato che è possibile e quindi mi conferma che è questa la strada giusta e l’obiettivo di una vita per cui vale la pena vivere.

Da questo momento lei e tutta la sua famiglia, le persone che ama, siete presenti nella mia Eucaristia e nella mia amicizia, oltre il tempo oltre lo spazio. Con affetto.

Paolo Farinella, prete
Genova, 22/12/2018

 

Abbiamo ricevuto anche altre email in proposito e le abbiamo girate a don Paolo che, come suo solito, ha risposto immediatamente. Grazie ancora Paolo Farinella, prete innamorato della Parola. Anche noi ti portiamo nel cuore e preghiamo per te. Sul nostro sito è possibile trovare i testi pubblicati e scaricarli in formato pdf dallo sfogliabile. Entro Pasqua contiamo di raccogliere i testi di don Paolo pubblicati in un unico pdf per facilitarne la lettura e la consultazione e scaricarli con facilità.

Massacro all’episcopio di Alindao ad opera dei Seleka – cattedrale devastata

Ho paura, ma voglio ancora diventare prete

Dal Carmel di Bangui, Rep. Centrafricana.
La mattina del 15 Novembre ad Alindao, cittadina a circa 500 km da Bangui, un campo di sfollati situato nei pressi della Cattedrale, è preso d’assalto da un gruppo di ribelli islamisti che porta il curioso nome di «Unione per la pace in Centrafrica». Si tratta di uno dei tanti gruppi agli ordini di un certo Ali Darassa, sorti dalla dissoluzione della Seleka e che ancora infestano i tre quarti del paese. I morti sono più di ottanta. Un vero massacro. Anzi, una razzia: oltre alle persone uccise, i ricoveri degli sfollati sono incendiati, l’intero sito è raso al suolo, le abitazioni sono saccheggiate, la chiesa è profanata. La strage avviene davanti all’inerzia del contingente dell’Onu che avrebbe, di per sé, il mandato di proteggere i civili. Tra le vittime, oltre a donne, bambini e persone anziane, anche due sacerdoti: abbé Célestin e abbé Blaise.

Massacro all’episcopio di Alindao ad opera dei Seleka – cattedrale devastata

Il coraggio del giovane vescovo di Alindao, Cyr-Nestor Yapaupa (nella foto qui sotto), impedisce che il bilancio sia ancora più pesante. Invece di accogliere la gente, che vorrebbe trovare rifugio all’interno della cattedrale, ordina a tutti di scappare nella savana. Se i cristiani non gli avessero obbedito, il numero dei morti sarebbe stato ancora più alto. Il vescovo e alcuni sacerdoti decidono di restare comunque.

La notizia e i dettagli dell’avvenimento ci raggiungono increduli e scoraggiati. Le foto dei cristiani carbonizzati fanno il giro del mondo. Le già lentissime lancette dell’orologio della pace sembrano improvvisamente e drammaticamente correre all’indietro. Il Centrafrica sembra ormai essersi ingarbugliato in un inestricabile groviglio d’ingerenze straniere, inadempienze della comunità internazionale e incapacità del governo locale. L’elemento confessionale non fa che rendere il cocktail ancora più micidiale.

Alcuni giorni dopo gli avvenimenti, partecipiamo a un incontro di sacerdoti a Bangui. È presente abbé Donald, appena arrivato da Alindao. Originario di Bangui, sacerdote da poco più di un mese, aveva trascorso al Carmel i giorni di preparazione all’ordinazione, ascoltando con attenzione le conferenze del sottoscritto. Conferenze che avrebbero dovuto dargli le ultime istruzioni prima di essere un ministro di Dio per sempre.

Da qualche settimana Donald era stato inviato in aiuto alla diocesi di Alindao. Questa volta sono io che ascolto con attenzione la sua conferenza, nonostante sia ancora sotto shock, circa quanto avvenuto ad Alindao. Donald non ha ancora avuto il tempo d’imparare a fare il prete; ma ne ha già visti due morire, davanti ai suoi occhi, uccisi per il vestito che indossavano e il mestiere che esercitavano.

In classe, durante la lezione, è quindi un dovere parlarne. Gli studenti che ho davanti non sono allievi qualunque. Sono i futuri sacerdoti del Centrafrica. Provengono dalle città e dai villaggi dell’intero paese. Hanno visto la guerra e ora sono nel Seminario di Bangui perché vogliono fare lo stesso mestiere di Célestin e Blaise. Poi ripartiranno, sacerdoti, nelle diocesi da cui sono venuti. Chiedo loro se hanno ancora voglia di continuare il cammino intrapreso e se sono consapevoli dell’alto rischio che li attende.

Odilon, dall’alto dei suoi vent’anni, risponde per tutti: «Ho paura, mon père. Ho tanta paura. Ma non cambio idea. Voglio ancora diventare prete». La sua sincerità e il suo coraggio disarmerebbero anche Ali Darassa. Vorrei dire a Donald che ho paura anch’io. Ma nessuna voglia di cambiare mestiere. Penso al giorno in cui sono diventato sacerdote. Proprio non immaginavo che sarei finito qui, a spiegare chi era Origene e Agostino, a decine di volti neri, curiosi e imprevedibili, ostinatamente convinti che si può e si deve diventare preti, anche in un paese in guerra.

[…] C’è forse un legame tra il sacrificio dell’abbé Célestin e dell’abbé Blaise, il coraggio del vescovo Cyr-Nestor, quanto ha visto abbé Donald, la solenne promessa di Odilon e il «per sempre» di fra Michaël?

Sant’Agostino chiedeva a Dio, per sé e i suoi pastori, di amare il proprio gregge fino a morirne aut effectu aut affectu, cioè di fatto, con il sacrificio della vita, o con il cuore, nella dedizione senza risparmio al servizio del popolo di Dio. In passato gli argomenti per parlare male di questa giovane chiesa non sono certo mancati. Questo 2018, nel quale ben cinque sacerdoti e decine di cristiani sono stati uccisi durante le celebrazioni o nei pressi delle loro chiese, ci consegna una chiesa sicuramente ancora giovane e fragile, ma che non scappa davanti al nemico e i cui pastori non sono mercenari.

Padre Federico Trinchero
Bangui, 17/12/2018

Massacro all’episcopio di Alindao ad opera dei Seleka


Rinnovi e cancellazioni

Spett. Redazione Rivista Missioni Consolata,
vi sarei grata se sospendeste l’invio della rivista all’indirizzo […] a causa del decesso del destinatario. Vi sarei altresì molto grata se la sospensione avvenisse nel più breve tempo possibile per non riempire eccessivamente la cassetta delle lettere. Cordiali saluti

Email firmata, 22/01/2019

Desidero continuare a ricevere la vostra interessantissima rivista. Grazie per gli articoli che riportano notizie serie, non facilmente reperibili in altra carta stampata.

M.P., 22/12/2018

Buongiorno. Vi scrivo per disdire l’abbonamento alla rivista Consolata, che continua ad essere spedita all’indirizzo di mia zia, nonostante lei sia morta dall’anno 2005. Se vi chiedete perché io non doni al posto suo, vi dico che ho scelto di aiutare l’Unicef. Potreste risparmiare carta e quindi alberi; è pur vero che avrei potuto scrivervi prima di adesso. Vi auguro di continuare la vostra missione nel miglior modo possibile.

Email firmata, 17/11/2018

Con la presente vi chiederei cortesemente di non inviarmi più la bella rivista Missioni Consolata, la rivista aveva incominciato ad arrivare a casa dopo che mio figlio aveva fatto una bella esperienza in Africa, tanti anni fa. Adesso lui non vive più in questo indirizzo ed io non riesco che a leggere ogni tanto un articolo e mi dispiace che venga sprecata.

Email firmata, 22/10/2018

Abbiamo condiviso con voi alcune delle email ricevute di questi tempi. La maggior parte riguarda benefattori delle nostre missioni che sono andati alla casa del Padre. Non finiremo mai di ringraziare il Signore per il loro affetto e il loro sostegno.

Naturalmente non tutti i messaggi ricevuti sono benevoli. Alcuni, inviati dagli «eredi» dei nostri lettori/benefattori suonano come aspri rimproveri perché in tutti questi anni abbiamo approfittato della loro buona fede per spillare soldi.

Non è piacevole neppure sentirsi dire che la nostra rivista riempie eccessivamente la cassetta postale, come se fosse insistente e invasiva alla stregua della pubblicità dei supermercati.
Quanto alla scelta di aiutare un’agenzia Onu invece dei nostri missionari, pur rispettando la libertà personale, inviterei a valutare le percentuali dei fondi usati per il personale in quelle agenzie e quanto usi invece la nostra Onlus o altre simili alla nostra.


Yukari passava di lì

Yukari passava di lì, quando vide una strana costruzione e vari stranieri che andavano e venivano. Pensò: «Se gli stranieri qui sono i benvenuti, allora accoglieranno bene anche me». Salì una gradinata ed entrò: stava cominciando la messa. Lei non sapeva che quella era una chiesa, in particolare la chiesa di Tong Du Chon dove i nostri padri Tamrat Defar e Patrick Mrosso portano avanti la pastorale dei migranti.

Yukari è una donna giapponese nata dalle parti di Osaka e sposata con un coreano. Si sono conosciuti e sposati in Giappone ma, per ragioni di lavoro, lui è cuoco, si sono dovuti trasferire in Corea del Sud. Yukari era in Corea da pochi mesi, non conosceva ancora la lingua ed era triste quel giorno. Entrata in chiesa rimase colpita dalla luminosità dell’edificio. Finita la messa qualcuno si accorse che lei non era una dei soliti fedeli, la invitò a prendere un caffè con gli altri migranti e le spiegò come poté che ogni domenica c’era una scuola di coreano gratis. Fu così che Yukari cominciò a frequentare la comunità di Tong Du Chon e a partecipare alla messa domenicale. Quel giorno, il 6 agosto 2017, le è rimasto impresso nella memoria come uno degli eventi più belli che le siano capitati.

«Ogni volta che partecipavo alla messa – mi dice – sentivo la gioia che entrava in me, in piccole dosi, come pacchettini di gioia e vedevo la luce brillare intorno a me. Allora chiesi a una delle volontarie, insegnante di lingua, cosa dovevo fare per diventare cristiana. Da quel momento cominciai il catecumenato e a Pasqua del 2018 (nella foto: Yukari – a destra – il giorno del battesimo) ricevetti il battesimo e scelsi come nome nuovo quello di Justina».

«Come è cambiata la tua vita da quando sei diventata cattolica?», le chiedo.

«Adesso non ho più paura», mi risponde senza esitare. «Per esempio – mi dice – a metà del 2018 ci fu un forte terremoto nella zona di Osaka e l’epicentro era proprio dove stanno tutti i miei parenti. Normalmente sarei stata terrorizzata, ma quel giorno invece ero serena. Guarda che combinazione – e mi mostra sul suo telefonino un’app in giapponese – quel giorno la Parola di Dio diceva di non temere e di confidare nel Signore».

Adesso Yukari si difende bene col coreano, partecipa al coro e ad altre attività della parrocchia e ha stretto una bella amicizia con le altre volontarie. Parla della sua esperienza anche alle sue amiche giapponesi che vedono ancora Chiesa e cristianesimo come una cosa strana (ricordiamoci che in Giappone solo lo 0.35% della popolazione è cattolico). È attiva, allegra e ha partecipato perfino alla nostra festa della Consolata, incaricata di leggere una preghiera, per mostrare che il Signore continua a chiamare pecore nel suo gregge da qualsiasi terra Lui voglia.

Yukari passava di lì, ma diamo grazie al Signore perché quel giorno c’era anche qualcuno pronto ad accoglierla!

padre Gian Paolo Lamberto
Daejeaon, Corea del Sud, 16/10/2018


Informazione sicura

Caro padre,
[…] sfogliando il numero (di ottobre 2018) ho visto la lettera «Ha ragione Salvini?». Lì si parla in realtà del fenomeno (che è tra lo strambo e il surreale) del gender e delle sue conseguenze ma si cita Salvini che è uno dei simboli […] di questa presunta deriva anti-cristiana.

Ora, Salvini sì o Salvini no, a me interessa poco adesso, quello che mi fa riflettere è che siamo in tempi in cui sostenere ovvietà come il fatto che il matrimonio è tra uomo e donna e un bambino ha un papà e una mamma oppure che i fenomeni migratori vanno regolati e sono comunque un sintomo di squilibri sociali da «riaggiustare», si passa per intolleranti e brutti e cattivi e anche per cattivi cristiani. Ma anche un’opinione (questa sì è un’opinione, diversamente dal fatto naturale che i genitori sono papà e mamma) come lo ius sanguinis… apriti cielo! Non si può. […]

Rimanendo all’immigrazione penso che, nonostante tutto, molti non siano ancora convinti che il fenomeno migratorio Africa-Europa così come lo vediamo non è per nulla spontaneo, come non lo è quello nuovo dall’Honduras verso gli Usa (guarda caso ci sono le elezioni di medio termine in Usa…) e credo che una buona parte della causa di ciò sia nei mass media (diciamo almeno l’80% dei grandi media) che sembrano lì apposta per «formare» l’opinione pubblica invece che informarla. Sono più attori della politica invece che osservatori.

Ancora rifacendomi a cose già dette, se MC fa giornalismo, allora ha una gran responsabilità e c’è un gran bisogno di informare in modo ben ragionato i lettori. Se volete anche formare le pecorelle che credono di essere rimaste all’ovile ne sarò molto felice ma che sia formazione cristiano «sicura», basata non sulle ventate dell’attualità ma sulla Verità e ciò che la Chiesa ha sempre insegnato a ragion veduta. Un saluto

Andrea Sari
15/01/2019

Caro Sig. Andrea,
mi perdoni se ho di nuovo tagliato la sua lunga email. La questione dei migranti è molto complessa e il modo con cui è trattata nei mass media (e dai politici, e non solo quelli nostrani) non aiuta a capire che questa tragedia, vissuta da milioni di uomini che fuggono dalla loro terra e altri milioni che si vedono «invadere», non è «il problema», ma solo l’effetto di problemi ben più gravi, certo non causati dai mass media. Guerre, riscaldamento climatico, sfruttamento sconsiderato delle risorse, dominio incontrollato delle multinazionali, debolezza dell’Onu, dittature, corruzione e altro, sono i veri problemi da affrontare. MC, nel suo piccolo, cerca di dare un’informazione documentata, puntuale e non di moda.




Esseri umani respinti da un’Europa disumana


Da quando nel 2017 il governo ungherese ha ultimato la recinzione metallica alta 3,5 metri e lunga circa 175 km, sigillando il confine con la Serbia, la rotta migratoria balcanica si è spostata a Ovest, in quel lembo di Bosnia che si incunea nell’Unione europea, il cantone di Una-Sana. È da quell’angolo di mondo che nasce questo reportage.

Testo e foto di. Alberto Sachero

I rifugiati provenienti dalla Grecia, attraverso le rotte di Albania e Montenegro o Macedonia e Serbia, giungono alla porta d’ingresso dell’Unione, il confine con la Croazia, il 28° e ultimo paese, in ordine cronologico, a entrare in Ue nel 2013.

Si stima che più di 25.000 persone siano transitate in Bosnia nel 2018, ma nessuna di queste si vuole fermare in uno stato dove povertà e disoccupazione spingono gli stessi suoi abitanti ad emigrare altrove. Tentano di entrare nell’Ue per raggiungere i paesi tanto sognati: Germania, Olanda, Belgio, Francia, Spagna, Italia e Inghilterra.

Nei pressi del confine bosniaco-croato le cittadine di Velika Kladuša e Bihać, a partire da marzo 2018, si sono trovate a gestire una situazione di emergenza. Migliaia di migranti si sono concentrati nel campo «palude» vicino al canile municipale di Kladuša, e a Bihać all’interno del «Dom», un fatiscente stabile nel parco del centro cittadino. Nel primo, le persone dormivano in tende improvvisate, fatte di rami d’albero e teli di plastica; nel secondo in una struttura senza infissi, senza luce elettrica e con pericolosi buchi nei pavimenti dei suoi tre piani.

Le organizzazioni internazionali Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) si sono dimostrate da subito inadeguate a gestire tale emergenza. I migranti erano (e sono tutt’ora) sostenuti da una parte della popolazione bosniaca, reduce dalla guerra nell’ex Jugoslavia (1991-2001), e dalle associazioni di volontariato. I volontari di Croce Rossa, Medici senza frontiere, Ipsia, No Name Kitchen, Sos Team Kladuša e altri lavorano senza sosta per tamponare una situazione sempre più drammatica che l’Europa per il momento non vuole risolvere.

Per la maggior parte giovani uomini, più raramente donne e famiglie con bambini, provengono da quell’area geografica che dal Medio Oriente arriva fino alla Cina: Siria, Iraq, Iran, Afghanistan e Pakistan. Popoli che fuggono da guerre, persecuzioni politiche e fame. Popoli che cercano rifugio politico in Europa, ma ai quali l’Europa non concede il diritto di richiederlo, contravvenendo alle proprie leggi.

La maggioranza di loro ha provato più volte il «Game» senza vincerlo. «Game» (il gioco) è termine con cui i profughi ironicamente chiamano il tentativo di entrare nell’Unione europea. Partono in genere di notte, in piccoli gruppi. Spesso la polizia croata li intercetta con droni, cani e rilevatori di calore, e li respinge in Bosnia. Vengono picchiati, umiliati e derubati dei pochi soldi che hanno, mentre i loro telefonini, indispensabili per orientarsi col Gps nella fitta foresta, sono distrutti a manganellate.

I ragazzi raramente vincono, più spesso perdono il «Game» e, dopo giorni e giorni di cammino nei boschi e nei fiumi gelati, tornano a Kladuša o Bihać con il corpo martoriato, ferite sugli arti e piedi macerati. Qualcuno è morto annegato o per ipotermia nel tentativo di fuggire dalla polizia.

Perché i confini sono chiusi?

Alcuni, in alternativa al «Game», acquistano documenti contraffatti o pagano (i pochi che se lo possono permettere) qualche migliaio di euro ai trafficanti per farsi trasportare in furgone in Slovenia. Qui però spesso vengono scovati, consegnati alla polizia croata e deportati nuovamente in Bosnia. Il cerchio è così chiuso.

Nizar, giovane siriano di Aleppo: «Io non sono qui per scelta, in Siria stavo bene, ma ora è un paese completamente distrutto. Vorrei tornare, ma forse non ci tornerò mai».

Amhed, iracheno di Baghdad: «Ho camminato due anni con mia moglie e i miei due figli per arrivare in Grecia, lì ci siamo fermati altri due anni. Le condizioni nei campi erano terribili e quindi siamo ripartiti e arrivati in Bosnia, sempre a piedi. Ora vogliamo entrare in Europa e raggiungere i nostri parenti in Germania. In Iraq non possiamo tornare. Perché il confine è chiuso?».

Questa è la domanda che tutti fanno: «Why is the border closed?».

L’Europa continua a ignorare questo fatto e mantiene i rifugiati in un limbo: a casa non torni, ma in Europa non entri.

Manganelli e spray

Alla fine di ottobre 2018 i rifugiati hanno manifestato per una settimana intera al valico di Maljevac, al confine tra Bosnia e Croazia, costruendo un nuovo campo di tende con rami e plastica. I poliziotti croati hanno costituito un blocco per respingerli, ma alcuni hanno cercato di forzarlo. Si sono verificati scontri e la polizia ha usato manganelli e spray al peperoncino per farli indietreggiare. Anche donne, bambini e poliziotti bosniaci (che spesso proteggono i migranti dalla polizia croata) sono stati curati per asfissia e bruciori agli occhi nel furgone di Medici senza frontiere.

Il nuovo campo profughi distava trecento metri dalla dogana, ma il confine è stato chiuso allo scopo di fomentare il malcontento della popolazione locale, che vive di scambi economici tra i due paesi. L’Oim, che distribuiva cibo tre volte al giorno nel campo originario, si è rifiutata di portarlo al nuovo campo. I rifugiati, per mangiare, doverano tornare al vecchio campo o facevano spesa in paese, ma più spesso erano le stesse famiglie bosniache e i volontari stranieri a portare cibo e acqua per sostenerli.

Le autorità hanno bloccato le strade adiacenti la frontiera e dopo cinque giorni hanno comunicato ai profughi che se non fossero tornati al campo originario (a tre km dal confine), avrebbero bloccato l’unico sentiero utile per rifornirsi. I migranti si sono rifiutati, ma dopo due giorni, stremati, hanno dovuto cedere e sono stati trasferiti con cinque bus al nuovo campo: il «Miral». Questa struttura, gestita dalla Oim, è una ex fabbrica dotata di riscaldamento fuori dall’abitato di Kladuša.

Confinati e ignorati

La stessa cosa si è verificata a Bihać, dove dal fatiscente «Dom» sono stati trasportati al «Bira», ex fabbrica di frigoriferi. A gennaio 2019 ci vivevano circa 2.300 persone.

Un servizio privato di sicurezza nega l’accesso a chiunque non lavori all’interno. Non è quindi possibile verificare le condizioni di vita dei migranti, ma le testimonianze di volontari e rifugiati riportano che sono terribili. Nonostante la grande disponibilità di fondi delle agenzie Oim e Unhcr, mancano un’adeguata assistenza sanitaria e psicologica, per alleviare le sofferenze delle persone. A ottobre 2018 è morto all’interno del «Bira» un giovane ragazzo in circostanze poco chiare. Le organizzazioni internazionali, invece di garantire a chi ne ha diritto la richiesta di asilo politico, forniscono a malapena vitto e alloggio in ghetti prefabbricati. La convivenza forzata di più di 2.000 uomini provenienti da paesi diversi, sommata alle pessime condizioni, scatena spesso risse. Le associazioni indipendenti di volontari svolgono un lavoro straordinario fornendo assistenza sanitaria di base, scarpe e indumenti, servizio docce, pasti caldi e tanta comprensione umana.

L’Europa ha così «confinato» migliaia di esseri umani in due ex fabbriche bosniache, in modo da allontanare la minaccia di «invasione» da parte di questa povera gente. Un atto disumano contro ogni legge del diritto internazionale.

Oggi in pieno inverno, tra freddo, neve e respingimenti, i profughi continuano a tentare il «Game», che spesso perdono. Esseri umani respinti da una Europa disumana.

Alberto Sachero




Ecumenismo per le migrazioni


La Federazione delle chiese evangeliche in Italia e la Tavola valdese, insieme alla Comunità di sant’Egidio, stanno sperimentando un metodo per far giungere in sicurezza richiedenti asilo in Italia. Il programma prevede poi un percorso di integrazione. Sono numeri ancora modesti, ma rilevanti. In questo modo intere famiglie siriane possono essere «salvate» e vedere un futuro per i loro figli. Senza pagare trafficanti e senza rischiare vite umane.

Cattolici e riformati insieme per salvare i rifugiati siriani. Una collaborazione dal forte valore ecumenico, quella tra la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) e la Comunità di sant’Egidio. Un sodalizio nato nel 2014, subito dopo l’affondamento di un barcone al largo di Lampedusa nel quale perirono 366 persone (ma c’è chi dice fossero in numero maggiore). «Di fronte a una tragedia simile – ricorda Paolo Naso, responsabile del programma Mediterranean hope della Federazione delle chiese evangeliche -, le nostre chiese si sono interrogate: è possibile trovare un modo per far arrivare i migranti in Europa in modo sicuro? È possibile garantire corridoi umanitari che evitino lo sfruttamento da parte dei trafficanti? È possibile creare percorsi di integrazione in Italia? Da queste domande è nato un articolato progetto sulle migrazioni».

Un osservatorio

Il primo passo della Fcei, d’intesa con la Tavola valdese, è stata la creazione, nei primi mesi del 2014, di un osservatorio a Lampedusa. L’osservatorio, tuttora attivo, lavora su più fronti: monitora gli sbarchi, le condizioni della prima accoglienza, l’impatto delle migrazioni sulla popolazione locale; cura i rapporti con gli isolani, con l’associazionismo, con le istituzioni locali, regionali e nazionali; collabora con la parrocchia cattolica dell’isola; promuove la costruzione di reti nazionali e internazionali per la sensibilizzazione sul tema delle migrazioni. Successivamente è stata creata la Casa delle culture di Scicli (Rg) che conta una quarantina di posti letto e offre ospitalità ai migranti particolarmente vulnerabili (giovani mamme, donne incinte, minori non accompagnati).

La Fcei ha però deciso di andare oltre. «Lo choc della strage di Lampedusa è stato forte – ricorda Naso -. A pochi giorni da quell’evento, insieme alla Comunità di sant’Egidio, ci siamo impegnati a cercare soluzioni per far giungere i migranti in Italia in sicurezza e indirizzarli verso programmi di integrazione efficaci. Abbiamo subito scartato l’idea di chiedere cambiamenti normativi perché non c’erano le condizioni, né in Italia né a livello continentale. Studiando le norme europee abbiamo scoperto che l’art. 25 del Regolamento CE 810/2009 concede ai paesi dell’area Schengen la possibilità di rilasciare visti umanitari validi per il proprio territorio. Una volta in Italia, i beneficiari del progetto possono poi fare regolare richiesta di asilo». Il 15 dicembre 2015, la Fcei e la Comunità di sant’Egidio hanno firmato con i ministeri dell’Interno e degli Affari esteri italiani il primo protocollo che prevede l’arrivo, con un regolare volo di linea, di mille profughi in due anni.

La scelta dei siriani

In Libano, un team di operatori, in collaborazione con organizzazioni umanitarie che operano nel paese, si è occupato di redigere le liste di chi poteva imbarcarsi per l’Italia. «In questi anni – spiega Simone Scotta che lavora per la Fcei a Beirut – abbiamo scelto di far arrivare rifugiati siriani: famiglie sunnite, le più perseguitate in patria, donne sole, persone malate, ragazzi sunniti renitenti alla leva. Ogni due-tre mesi sono stati organizzati voli con un minimo di 60 e un massimo di 80 persone».

Una volta arrivati in Italia questi rifugiati sono stati presi in carico dalla Diaconia valdese che ha offerto loro vitto e alloggio, corsi di italiano, una piccola somma per le spese quotidiane, aiuto per le pratiche burocratiche, assistenza medica e psicologica. «Accoglienza, accompagnamento e assistenza – continua Scotta – non costano nulla allo stato italiano. Tutte le spese sono a carico della Fcei e della Diaconia valdese che attingono ai fondi dell’8 per mille delle Chiese metodista e valdese. Tra i sostenitori del progetto figurano anche donatori internazionali come la Chiesa evangelica della Vestfalia, la Chiesa riformata degli Stati Uniti, diverse comunità evangeliche in Italia e singoli privati in Italia e all’estero».

Il 27 ottobre 2017, con l’arrivo del millesimo rifugiato, si è conclusa la prima sperimentazione. Ma il progetto è andato avanti. Il 7 novembre dello stesso anno è stato infatti firmato il rinnovo dei corridoi umanitari per altri mille profughi per il biennio 2018-2019. «Il progetto continua ed è un dato positivo – conclude Naso -. Segna una forte collaborazione ecumenica tra strutture delle Chiese riformate e cattolica. I corridoi umanitari sono poi un modello unico che si differenzia dagli inserimenti organizzati dallo stato o dagli enti locali. Noi abbiamo definito uno schema di accoglienza diffusa che evita di dar vita a grandi concentrazioni di migranti a favore di un inserimento molecolare. I migranti vengono inoltre accompagnati passo per passo da operatori professionali e da comunità che si prendono cura di ogni loro esigenza. I risultati sono positivi. Crediamo perciò che il modello possa essere preso ad esempio e replicato in futuro».

Enrico Casale
(seconda puntata – fine)

 




Si chiamava Moussa Ba

Si chiamava Moussa Ba. Era
Senegalese. Aveva 28 anni. È morto, arso vivo nell’incendio scoppiato la notte
del 15 Febbraio nella baraccopoli di San Ferdinando in Calabria. È la terza
vittima in un anno in questa zona di braccianti.

Il “ghetto” di San Ferdinando non
è degno di un paese civile, non è degno delle persone che sono costrette ad
abitarlo!

La Conferenza Instituti Missionari Italiani (CIMI) esprime cordoglio
ai famigliari della vittima, chiede che prontamente sia fatta luce sulle
circostanze che hanno portato al rogo e alla morte di Moussa Ba.

Moussa Ba e tanti altri sono oggi
i nuovi schiavi invisibili nelle campagne insieme ai contadini e come loro
vengono affamati, schiacciati e ghettizzati dalla logica del profitto e dal
controllo delle mafie.

Tra le autorità c’è chi in queste ora sta paventando lo sgombero di San Ferdinando. Crediamo che la soluzione non sia quella dell’invisibilizzazione del problema ma quella di trovare soluzioni e misure che favoriscano l’accoglienza diffusa e la integrazione dei lavoratori.

Commissione Giustizia e padre Della CIMI
17/02/2019




Brasile, Roraima: accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti dal Venezuela

“Vogliamo aiuto per darci
ragione di andare avanti perché sappiamo che un giorno le cose
cambieranno”

L’aggravarsi della crisi in
Venezuela costringe la popolazione a lasciare il paese in cerca di
sopravvivenza. Sono oltre 3 milioni i venezuelani che sono fuggite all’estero.
Nel Stato di Roraima, nord di Brasile, nelle città di Pacaraima e Boa Vista,
migliaia di migranti si trovano in condizioni estremamente precarie. La
mancanza di infrastrutture per i fuggitivi in cerca di una sistemazione crea
una preoccupante tensione sociale.

Juan Carlo Olivero è arrivato con
tre cugini e due amici. Hanno camminato per 215 chilometri tra Pacaraima e Boa
Vista, ma non sono riusciti a trovare un rifugio. Di notte dormono lungo il
viale vicino alla stazione degli autobus dove si contendono un pezzo di pane e
uno spazio sul marciapiede con centinaia di connazionali, nelle stesse
condizioni. “Spezza il cuore chiamare i nostri figli che sono rimasti con
la mamma in Venezuela e sentire che oggi non hanno mangiato nulla”, dice
Juan Carlo. “Vogliamo aiuto per darci una ragione per andare avanti perché
sappiamo che un giorno le cose cambieranno”, dice speranzoso.

Audio Juan Carlo Olivero

William Hernandez ha lasciato
moglie e cinque figli, come migliaia di altri venezuelani, nella speranza di
trovare lavoro e cibo. Sono passati 15 giorni dal suo arrivo, ma senza successo.
“Volevo che qualcuno mi aiutasse perché siamo in difficoltà”.

Audio di William Hernandez

Tra gli immigrati si trovano
muratori, meccanici, poliziotti, panettieri ma anche insegnanti, avvocati, e molti
professionisti qualificati, come la dottoressa Fiorella Blanco.

L’Istituto Brasiliano di
Geografia e Statistica (IBGE) stima che più di 30.000 venezuelani sono in
Roraima, ma solo circa 6.000 hanno trovato posto nelle 13 strutture di
accoglienza sostenute con i fondi del governo federale e costruite
dall’Esercito con l’appoggio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati (UNHCR). Un buon numero si trova in case o stanze affittate che sono
destinate al sovraffollamento. Senza aiuto, è difficile pagare l’affitto che
costa tra R$ 300 e 500 Reais (moneta brasiliana: 1 Euro = 4.20 Reais). Ma ciò
che colpisce è la quantità di persone che dormono nelle viali e piazze. Durante
il giorno agli incroci e ai semafori si posizionano molti venditori ambulanti
che cercano di vendere qualche cosa o semplicemente guadagnare una moneta.

Il governo brasiliano concede
asilo, ma l’accoglienza dovrebbe anche garantire un minimo di protezione sociale,
di accesso al sistema sanitario, all’istruzione al cibo e sicurezza per tutti.
Una delle azioni per sollevare Boa Vista dalla catastrofe umanitaria è la
distribuzione dei profughi venezuelani in altri stati del Brasile. Come è
successo il 2 febbraio scorso quando un gruppo di 99 sono stati trasferiti a Dourados,
una città nel Stato di Mato Grosso del Sud, in un volo pagato dalla Organizzazione
Internazionale per le Migrazioni (OIM). Lì lavoreranno in un’industria
alimentare.

Progetto Percorsi di Solidarietà

La Diocesi di Roraima attraverso
la Caritas Diocesana e con l’appoggio della Conferenza Nazionale dei Vescovi
del Brasile (CNBB), la Caritas brasiliana, Servizio Pastorale per i Migranti
(SPM), Istituto di Migrazione e Diritti e Umani (IMDH), Servizio dei Gesuiti
per i Migranti e Rifugiati (SJMR) e altre entità partner, guidano il Progetto “Percorsi
di Solidarietà: Brasile e Venezuela”.

Le Diocesi disponibili ad
accogliere gli immigrati attraverso questo Progetto possono registrarsi su il
Sito www.caminhosdesolidariedade.org.br

Il sito contiene informazioni dettagliate
ed è stato creato per aiutare l’accoglienza degli immigrati nelle diocesi di
tutto il Brasile. Il vescovo di Roraima, Dom Mario Antonio, sottolinea
l’importanza dell’integrazione degli immigrati. “Molti arrivano affamati e
hanno bisogno di cure mediche”. “Sono nuovi fratelli che vivono in
mezzo a noi”.

Audio di Dom Mario Antonio

Lanciato nell’ottobre 2018, il
progetto “Percorsi di solidarietà: Brasile e Venezuela” ha già coinvolto oltre
60 persone. Il 31 gennaio un gruppo di 17 venezuelani ha lasciato Boa Vista per
Paraíba. Nella città di João Pessoa, sono stati accolti dell’Arcidiocesi di
Paraíba e il Servizio Pastorale dei Migranti e saranno eventualmente inseriti
al lavoro.

La coordinatrice di Progetti nella
Caritas Diocesana, Gilmara Fernandes, vede la necessità di dare visibilità
all’azione.

Audio Gilmara Fernandes

La mancanza di occupazione, la
fame, l’insicurezza e la malattia sono per i migranti un test di sopravvivenza.
E in una città di 500.000 abitanti, con poche opportunità nel mercato di lavoro
e accesso ai servizi sanitari pubblici, trasporti e educazione, i migranti sono
molto facilmente considerati un problema. Sfortunatamente, di fronte a questa crisi
umanitaria, risorgono preoccupanti atteggiamenti di xenofobia. Questo scenario
non permette di vedere le potenzialità che questo fenomeno porta. E quanta
ricchezza portano i migranti quando arrivano nei nostri paesi. Quante abilità,
novità e conoscenze!

D’altra parte, ci sono molte
persone che aiutano e sono solidali. Famiglie che gli lasciano vivere a favore,
altri che abbandonano uno spazio nel cortile, danno lavoro e cibo. Le pastorale
della Diocesi, le parrocchie e comunità, congregazioni religiose e movimenti
con centinaia di volontari, aprono le loro porte e il loro cuore.

Davante la Casa delle Suoere
della Consolata ogni mattina si forma una fila che può raggiungere piu di 500
persone per ricevere un pane con il caffè.

Equipe Missionaria Itinerante

L’Equipe Missionaria Itinerante
del’Istituto Missioni Consolata (IMC) composta da P. Luiz Carlos Emer (RB), P.
Jaime Carlos Patias (DG) e Manolo Loro (RAM) sta dando priorità alle persone
più vulnerabili nella situazione di strada e agli indigeno Warao che sono fuori
dal rifugio. Dopo molte pressioni, il  01
febbraio, un gruppo dell’UNHCR si è recato in Piazza Augusto Germano Sampaio e
ha registrato più di 60 Warao di tutte le età che sono sensa rifugio. Ma finora
non hanno ancora avuto una risposta positiva.

La situazione di vulnerabilità
aumenta i rischi di sfruttamento, uso di droghe, illeciti, fame e malattie in
una popolazione già minacciata dal fatto di migrare.

Ecco perché, come Papa Francesco
ci invita, è urgente: “Accogliere, proteggere, promuovere e
integrare”.

P. Jaime C. Patias, IMC, Consigliere Generale per America.




Roraima, Brasile: le sfide dell’accoglienza e dell’integrazione dei venezuelani

Testo e foto di padre Jaime C. Patias

Warao, accampati in una piazza di Boa Vista

«Abbiamo bisogno di aiuto. Stiamo dormendo in piazza. Non
possiamo entrare nel rifugio». Questa richiesta di aiuto viene dal giovane
indigeno warao Jean Luís Jimenez, ed è inviata da Boa Vista, Roraima, a padre Vilson
Jochem, missionario del Consolata a Caracas. Jean Luís è uno dei 3 milioni di immigrati
che hanno lasciato il Venezuela per i paesi limitrofi.

A seguito di questa richiesta, andiamo al quartiere
Pintolândia, a Ovest della città, dove si trova il rifugio destinato agli
indigeni, e vi troviamo fuori 17 Warao, nove adulti e otto bambini accampati in
Plaza Augusto Germano Sampaio. Due giorni dopo, gli indigeni sono già 30, con
17 bambini sotto i 12 anni. Il rifugio può ospitare fino a 665 indigeni e non
riceve nessun altro.

La nostra attenzione è richiamata da Mardelia Rattia, 25
anni, arrivata qui con cinque bambini, compreso un piccolo di due mesi: «La
nostra situazione è difficile. Penso ai bambini», ci dice Mardelia preoccupata.
Vuole continuare il viaggio e raggiungere Manaus (nello stato brasiliano di
Amazonas), dove si trova già sua suocera con altri parenti.

Malato e indebolito, Jean Luís è stato ammesso all’ospedale
generale di Roraima, che è anch’esso pieno di gente. «Qui almeno sto meglio che
in piazza», osserva sdraiato su una barella nei corridoi accanto a diversi
pazienti, molti dei quali venezuelani. Quando lo dimetteranno sarà lui a essere
nuovamente in strada.

Indigeni Warao a Boa Vista durante incontro col team itinerante dei Missionari della Consolata

L’insicurezza della piazza

Il 18 gennaio, di notte, alcuni soldati dell’esercito che
sono i responsabili della struttura e della sicurezza nei rifugi, passano nella
piazza e abbordano alcuni Waraos dicendo che non possono più dormire lì. La
minaccia spaventa tutti. La sera del 19 andiamo sul posto per evitare una
possibile ritirata. Dopo aver dialogato con i rappresentanti dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), responsabili della
protezione dei profughi, i Warao hanno ricevuto la garanzia di poter continuare
a restare nella piazza. Durante la notte i soldati arrivano in due auto, ma non
si avvicinano al gruppo. In ogni caso la situazione è insicura per i Warao, ed
è per questo che è urgente trovare una soluzione.

Tra gli immigrati ci sono diversi professionisti
qualificati, come da dottoressa Fiorella Lisenni R. Blanco, Warao arrivata qui
con un bambino, una sorella insegnate e un fratello formato in diritti umani.
Lei improvvisa consulenze con coloro che hanno bisogno e organizza un registro
del gruppo. «Perché il Brasile offre un’accoglienza di questo tipo? Senza un
dignitoso benvenuto? Stanno minacciando di buttarci fuori dalla piazza», dice
Fiorella. Le popolazioni indigene godono dei diritti garantiti dalla
costituzione e dalle leggi internazionali. Inoltre, gli antropologi ricordano
che i Warao dovrebbero poter esercitare la libertà transfrontaliera di andare e
venire grazie a una base culturale che storicamente precede la nascita delle due
nazioni Brasile e Venezuela.

Indigeni Warao accampati in una piazza di Boa Vista

Pablo Mattos, del coordinamento dell’Unhcr a Boa Vista,
spiega che «la decisione di creare nuovi rifugi è una responsabilità del
governo brasiliano». L’Unhcr monitora i flussi migratori, sostiene l’accoglienza
nei rifugi e l’integrazione. Per quanto riguarda i Warao, Mattos s’impegna a
proseguire la ricerca di soluzioni in dialogo con le istituzioni coinvolte nel
lavoro.

Il problema non è di oggi. Un rapporto pubblicato nel giugno
2018 dalle Nazioni Unite ha fatto 35 raccomandazioni per garantire i diritti
degli indigeni venezuelani su tre assi: i diritti universali, i diritti dei
migranti, e i diritti specifici dei popoli indigeni. Essi devono essere
trattati come immigrati, ma soprattutto come indigeni. Secondo i dati della Ong
Fraternidad
Humanitaria Internacional
, almeno 957 Warao e E’ñepá sono accampati
nelle città di Pacaraima e Boa Vista. Hanno viaggiato più di 900 chilometri su
una strada rischiosa.

Il posto di registrazione offre diversi servizi di
documentazione e indirizza verso i rifugi e il programma di integrazione. Gli
immigrati ricevono sostegno dalle istituzioni in altri sei luoghi diversi per
fare i documenti. È evidente la carenza di posti nei rifugi. Tutti i lunedì
sono disponibili solo 40 posti a fronte di una richiesta di oltre 200. Il 14
gennaio, dopo aver camminato per almeno 8 km fino al primo posto di identificazione,
un gruppo di Warao è dovuto tornare in piazza senza aver ottenuto niente.

Mamma Warao e figlio in una piazza di Boa Vista

La squadra di emergenza dei missionari itineranti

Dopo una pausa, il team missionario itinerante dei
Missionari della Consolata ha ripreso le sue attività il 12 gennaio 2019. I padri
Luiz Carlos Emer (missionario impegnato in brasile), Jaime Carlos Patias (della
direzione Generale dell’IMC) e Manolo Loro (impegnato in Amazzonia) fanno parte
del secondo gruppo. La priorità del gruppo è quella di accompagnare le persone
più vulnerabili e gli indigeni warao originari della regione del Delta Amacuro
in Venezuela, dove ci sono i missionari del Consolata. «Il poco che possiamo
fare ora è già molto per alleviare la sofferenza di coloro che hanno lasciato
tutto per sopravvivere», dice p. Luiz Emer tornando da una visita al gruppo
indigeno.

Il team sostiene e indirizza le varie situazioni agli
organismi competenti, sapendo che non è possibile risolverle tutte. Ciò che
conta sono gli atteggiamenti evidenziati da Papa Francesco: «Accoglienza,
protezione, promozione e integrazione».

La diocesi di Roraima con i suoi pastori, parrocchie e
congregazioni come le suore Scalabriniane, San Giuseppe di Chambéry, la Madonna
Addolorata, le figlie della carità, le missionarie dei Consolata, i gesuiti, i
Maristi, tra gli altri, prestano diversi Servizi.

Per il vescovo di Roraima, Monsignor Mário Antônio, oltre
alla logistica, «vediamo la necessità di accoglienza da parte delle Comunità
attraverso l’integrazione tra la popolazione locale e i venezuelani, nuovi
residenti che vengono con la prospettiva di una nuova vita. Hanno il diritto di
arrivare e noi abbiamo il dovere di accogliere, promuovere, proteggere e
integrare», ricorda il vescovo. «Vogliamo che le nostre comunità cerchino di
integrare gli immigrati nelle celebrazioni in Portoghese, spagnolo o in lingua
indigena. Vedo la migrazione come un’opportunità per vivere il Vangelo: amatevi
l’un l’altro, come li ho amati», ribadisce Monsignor Mário.

José Miguel Pinto e sette altri amici e familiari, due donne
e due bambini, è venuto a piedi da Pacaraima, 215 km da Boa Vista. Quando sono
arrivati al posto di servizio della parrocchia Nostra Signora Consolata
mostrano le ferite sulle piante dei piedi e le scarpe rotte. Come tanti altri,
di notte il gruppo dorme sul marciapiede in una delle strade vicine al terminal
degli autobus. Il numero dei migranti nelle vie e nelle piazze impressiona. José
Miguel dice che una notte la polizia è passata e ha cacciato tutti. Questo è il
clima di insicurezza che molti di loro vivono.

Indigeni Warao a Boa Vista in un centro di identificazione e registrazione

Il secondo mandato di Maduro aggrava la crisi

Con l’inizio del secondo mandato del presidente Nicolas
Maduro, la cui elezione è contestata, e che non è riconosciuta dal Parlamento
venezuelano e da vari paesi e organizzazioni internazionali, la crisi in
Venezuela sta peggiorando. La previsione è che il flusso migratorio aumenterà.
Nel frattempo, cresce anche la pressione su Maduro. In Boa Vista, uno
striscione appeso su un viale chiede la fine del regime e il sostegno per il
leader dell’opposizione, il Presidente dell’Assemblea nazionale, Juan Guaidó perché
diventi il presidente del paese.

Cartello contro Maduro a Boa Vista

La situazione di vulnerabilità aumenta il rischio di
sfruttamento, consumo di stupefacenti, furto, insicurezza, fame e malattie in
una popolazione già minacciata dalla migrazione. Con così tante persone senza
occupazione e luogo per vivere, aumenta la tensione sociale. La recente visita
di cinque ministri governativi alla città di Boa Vista ha ratificato la prosecuzione
dell’operazione di accoglienza e internalizzazione.

I dati della Polizia federale mostrano che 85.000
venezuelani hanno cercato rifugio in Brasile dal 2015. Le stime del IBGE
sottolineano che più di 30.000 sono attualmente in Roraima.

Jaime C. Patias, IMC, consigliere generale per l’America.

Bambino Warao a Boa Vista assistito dal team itinerante dei Missionari della Consolata