Di pacchie e di abbagli


Negli ultimi mesi il dibattito su migrazione, cooperazione e sfruttamento dell’Africa si è ingarbugliato su frasi a effetto e invettive un tanto al chilo sul neocolonialismo. A farne le spese è la chiarezza su temi che, già complessi di loro, di tutto hanno bisogno meno che di essere resi più fumosi.

«Se riapri i porti tornano i morti». Così il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini commentava lo scorso 19 gennaio in una diretta Facebook il naufragio di un gommone a 45 miglia da Tripoli e la morte di 117 su 120 dei suoi passeggeri. «Cuori aperti per chi scappa davvero dalla guerra», aggiungeva poi nello stesso video, «ma porti chiusi per Ong, trafficanti e tutti gli altri», precisando di tenere «a che in Italia si entri chiedendo per favore e dicendo grazie se si ottiene qualcosa» e rallegrandosi dei primi effetti visibili del decreto sicurezza: «Tanti fermi di richiedenti asilo che commettono reati e tante espulsioni». La soluzione del leader leghista al problema dell’immigrazione è presto detta: evitare le partenze direttamente nei paesi d’origine, dove «con Onlus e associazioni perbene, con Ong perbene e volontari perbene si distinguono coloro che scappano dalla guerra – che sono pochi – e coloro che non scappano da nessuna guerra e non hanno diritto a partire e ad arrivare». A questo, continuava Salvini nella diretta Facebook, si aggiunge il fatto che in questo mese di marzo il ministro dovrebbe tornare «in un paese africano che stiamo aiutando per mettere i primi mattoni di un’operazione di sviluppo, di cooperazione, che riguarda la scuola, riguarda la sanità, riguarda il lavoro per decine di migliaia di quei ragazzi».

Quanto a chi è già arrivato in Italia, Salvini aveva dichiarato all’inizio di giugno 2018 in un comizio a Vicenza che «gli immigrati regolari e perbene non hanno niente da temere in questo paese e i figli loro sono i figli miei. Per gli immigrati clandestini è finita la pacchia: preparatevi a fare le valigie»@. Pochi giorni dopo aveva ribadito il concetto chiarendo che «i 170mila finti profughi che in questo momento stanno guardando la televisione in albergo pagati dagli italiani è una pacchia che non ci possiamo più permettere»@.

© Daniele Biella

Pacchie petrolifere

A controbattere a quest’ultima accusa era stata nel giugno 2018 un’immigrata nigeriana, in una lettera pubblicata sul sito Raiawadunia curato dal giornalista Silvestro Montanaro.

«Vengo da un paese, la Nigeria, dove ben pochi fanno la pacchia e sono tutti amici vostri», rivendicava la donna, originaria di Port Harcourt, città industriale sul Delta del fiume Niger dove ha sede la maggior parte delle raffinerie nigeriane. «La regione in cui vivo,» si legge ancora nella lettera, «dovrebbe essere ricchissima, visto che siamo tra i maggiori produttori di petrolio al mondo. E invece no. Quel petrolio arricchisce poche famiglie di politici corrotti, riempie le vostre banche del frutto delle loro ruberie, mantiene in vita le vostre economie e le vostre aziende».

Paese scosso da diversi colpi di stato, deninciava la donna, la Nigeria ha visto andare al potere «personaggi obbedienti ai voleri delle grandi compagnie petrolifere del suo (di Salvini, ndr) mondo, anche del suo paese. Avete potuto, così, pagare un prezzo bassissimo per il tanto che portavate via. E quello che portavate via era la nostra vita».

La Nigeria è fra i primi 10 fornitori di petrolio dell’Italia e nel 2018 il greggio proveniente dal paese africano ha inciso sul totale per poco meno del 4%@.

Un anno fa si è aperto a Milano il processo «Scaroni e altri» per la presunta maxi tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari che i vertici di Eni e Shell avrebbero pagato al governo nigeriano in cambio dei permessi per l’esplorazione del giacimento offshore Opl 245. I fondi sono transitati sul conto del governo di Abuja presso la banca JP Morgan a Londra, poi rientrati in Nigeria in due tranche versate su conti riconducibili alla Malabu Oil & Gas Ltd dell’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete e ad Abubakar Aliyu, imprenditore petrolifero noto in Nigeria come Mr. Corruption e molto vicino a Goodluck Jonathan, che all’epoca dei fatti contestati era il presidente della repubblica di Nigeria. Lo scorso settembre per questa vicenda sono stati condannati in primo grado due mediatori, l’italiano Gianluca di Nardo e il nigeriano Obi Emeka, che hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato. Come riporta Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera@, nelle motivazioni della sentenza di condanna depositate lo scorso dicembre, la giudice per l’udienza preliminare Giusy Barbara afferma che «Tutti gli elementi di prova inducono questo giudice ad affermare che il management delle società petrolifere Eni e Shell è stato pienamente a conoscenza del fatto che una parte dei 1,092 miliardi di dollari pagati sarebbe stata utilizzata per remunerare i pubblici ufficiali nigeriani, che avevano avuto un ruolo in questa vicenda e che come “squali” famelici ruotavano intorno alla preda».

Lo scorso novembre, inoltre, un rapporto commissionato a un centro di ricerca da un gruppo di Ong – le britanniche Global Witness e The Corner House e l’italiana Re:Common, da un esposto delle quali è scaturito il processo in corso – mostra come le perdite per lo stato nigeriano non si limitano ai denari malversati della presunta maxi tangente, ma aumenteranno di ulteriori 6 miliardi di dollari a causa delle mancate entrate per il fisco nigeriano. L’analisi rivela infatti che l’accordo, del 2011, fra il governo di Abuja e le due compagnie petrolifere per l’esplorazione del giacimento Opl 245 include condizioni fiscali molto generose nei confronti di queste ultime. «I più alti funzionari nel Dipartimento delle Risorse petrolifere della Nigeria», si legge nel rapporto, «avevano protestato contro l’accordo, definendolo “altamente svantaggioso per gli interessi del governo federale”. Queste preoccupazioni sono state ignorate o respinte dai ministri dell’epoca, che sono attualmente accusati dai pubblici ministeri di aver ricevuto tangenti provenienti dal miliardo di dollari pagato da Shell e Eni per l’accordo»@.

© Valentina Tamborra

I mattoni di un’operazione di sviluppo?

Salvini rivendicava nella sua diretta Facebook atti concreti a sostegno della cooperazione allo sviluppo. Lo scorso agosto aveva anche annunciato di avere in cantiere un progetto che prevede almeno un miliardo di spesa e di investimento per sostenere l’economia e il lavoro di centinaia di migliaia di persone in Africa, soprattutto puntando sull’agricoltura, sulla pesca e sul commercio»@.

Su questo punto, i dati dicono però altro: «Negli ultimi anni», segnalano le Ong del network Link2007, «l’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) dell’Italia ha avuto un andamento crescente, passando dallo 0,17% del Pil nel 2013 a quasi lo 0,30% (0,294%) nel 2017. Tale progressione sarebbe dovuta continuare fino a raggiungere la media europea dello 0,5% del Pil, come indica la legge 125/2014 e lo stesso governo aveva programmato nella nota di aggiornamento al Def di settembre. Invece la legge di Bilancio inverte tale progressione fissando per il prossimo triennio un andamento decrescente: 0,289% nel 2019 e 0,262% per i due anni successivi»@.

E allora i francesi?

Noi i cattivi? C’è chi fa peggio. Questa sembra essere la logica di fondo con cui diversi esponenti politici, anche dell’area di governo, hanno tentato di recente di sollevare l’Italia dalle proprie responsabilità in fatto di migrazione e cooperazione.

Lo scorso gennaio sia Alessandro di Battista (M5S) che Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) in due differenti trasmissioni televisive si sono lanciati in una teatrale e approssimativa invettiva sul franco Cfa. Si tratta in realtà di due monete distinte utilizzate in due gruppi di paesi dell’Africa centrale e di quella occidentale. Due monete che hanno lo stesso nome e lo stesso tasso di cambio fisso nei confronti dell’euro, pur non essendo interscambiabili. Monete eredità della dominazione coloniale francese. Cfa, infatti, stava per Colonies Fraçaises d’Afrique (colonie francesi d’Africa) e, dopo le indipendenze dei paesi africani, l’acronimo è rimasto lo stesso ma significa ora Communauté financière africaine (comunità finanziaria africana).

È attraverso questa moneta, hanno sostenuto entrambi i politici italiani, che la Francia controlla le risorse e le economie di quei paesi e li priva della sovranità monetaria@ @.

In particolare, ha detto Di Battista, i 14 paesi africani che utilizzano il franco Cfa «per mantenere il tasso fisso prima con il franco francese e oggi con l’euro sono costretti a versare circa il 50% dei loro denari in un conto corrente gestito dal Tesoro francese».

Non è il Cfa il problema

© Marco Bello

Le precisazioni e le smentite alle parole dei due politici non si sono fatte attendere. In particolare, quella proposta da Mariasole Lisciandro sul sito lavoce.info sottolinea come i paesi dell’area Cfa versino alla Francia la metà delle loro riserve in valuta straniera (e non «la metà dei loro denari»), per un ammontare totale di 10 miliardi di euro@.

Inoltre, Di Battista e Meloni non hanno fatto una grande rivelazione, anzi, sono loro ad essere in ritardo visto che il dibattito sulla questa valuta africana è in corso da decenni. Chi lo critica sostiene che il tasso fisso danneggia le esportazioni dei paesi africani che lo usano, perché i prodotti esportabili sono troppo costosi per essere appetibili e che, viceversa, rende conveniente alle multinazionali francesi (ed europee) investire in quella zona potendo contare sulla stabilità del tasso di cambio. Chi invece è a favore del franco Cfa sostiene che ha garantito una maggior stabilità economica e tenuto sotto controllo l’inflazione (che nell’area è circa al 2%).

Ancora, diversi osservatori hanno fatto notare che la proporzione dei migranti provenienti dall’area Cfa è bassa: «Nell’elenco dei paesi da cui sono arrivati i migranti in Italia, diffuso dal ministero dell’Interno e aggiornato a dicembre 2018», scrive David Caretta su Il Foglio, «il primo paese che adotta il franco Cfa è la Costa d’Avorio, ottavo in lista, da cui sono arrivate 1.064 persone su 23.370»@.

E anche a voler prendere, invece degli arrivi dell’anno scorso, la popolazione straniera non comunitaria residente in Italia, le persone provenienti dalle due zone sono in totale 202mila su 3,7 milioni: il 5,2%. Un quinto ha meno di 17 anni@.

Bisogna infine ricordare che l’adesione alla valuta è volontaria – e alcuni paesi come la Mauritania e la Guinea Conakry ne sono usciti – e che il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato nel novembre 2017 a Ouagadougou (Burkina Faso) che del franco Cfa «la Francia non è la padrona, ne è il garante. Questo significa che è prima di tutto una scelta degli stati membri della zona Cfa (…).
Il presidente Kaboré [capo di stato del Burkina] decide domani: “non sto più nella zona franco”? Non ci sta più»@.

Non c’è dubbio che un conto sono le dichiarazioni pubbliche di Macron e un altro i reali rapporti di forza economici, il ruolo degli interessi in Africa di grandi gruppi come Bolloré o Bouygues e i legami con Parigi di tanti membri delle élite dell’Africa francofona, spesso formati in università francesi e vicini alla Francia anche per via di rapporti familiari, come è il caso del presidente ivoriano Alassane Ouattara, la cui moglie è la donna d’affari di origine francese Dominique Claudine Nouvian.

Ma è proprio questo il punto: a voler fare le pulci alla Francia per la sua condotta non sempre esemplare e i suoi interessi in Africa si ha davvero l’imbarazzo della scelta, a cominciare dalla a dir poco fallimentare Opération Turquoise, operazione militare dispiegata durante il genocidio in Ruanda, per continuare con l’Opération Licorne e il ruolo francese – da molti giudicato poco neutrale -nella guerra civile in Costa d’Avorio. Criticare Parigi per il franco Cfa, per di più con argomentazioni claudicanti, abbassa in modo imbarazzante il livello del dibattito. Come si dice spesso in questi casi, sono questioni complesse. E non si spiegano (né si capiscono) nei 280 caratteri di un tweet o in un minuto e mezzo di talk show.

Chiara Giovetti

© Simone Perolari


Chi è un rifugiato

 

Sono anni ormai che si parla di migrazione, di profughi e di asilo, eppure i vertici del governo e molti degli esponenti politici italiani continuano a parlare di «veri» rifugiati, che sarebbero solo quelli che scappano dalla guerra, e «finti» rifugiati o migranti economici, che sarebbero più o meno tutti gli altri. Corollario: se vieni dalla Siria hai diritto, se vieni dalla Nigeria no, salvo zone in cui c’è Boko Haram.

Non è così.

  • Un rifugiato scappa da una persecuzione, non dalla guerra, ed è chi «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese» (Convenzione di Ginevra, articolo 1, lettera a @).
  • La protezione sussidiaria è invece regolamentata da due direttive europee (2004/83/CE e 2011/95/UE) e garantita a chi «non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno».
  • Sono considerati danni gravi: la condanna a morte o all’esecuzione, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante o la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
  • Infine c’è la protezione umanitaria: può essere rilasciata per «seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», anche in caso di diniego alla richiesta di asilo. Ma con il decreto sicurezza la protezione umanitaria è stata eliminata ed è stato introdotto un permesso di soggiorno per «casi speciali».

Chi.Gio.




Cari Missionari


Grazie a don Paolo Farinella

Buonasera,
sono un vostro abbonato, nonché estimatore. Ho letto che don Paolo Farinella, che conduceva la rubrica Insegnaci a pregare, lascia. Intanto ringrazio MC per aver fatto una scelta così importante a suo tempo. Mi dispiace che lasci; il suo linguaggio, la sua rubrica l’aspettavo ogni mese. Mi è stata compagna di meditazioni ogni mattino; vi ritornavo spesso sempre sullo stesso numero. Devo dire che ho atteso più di 50 anni prima di trovare chi facesse scivolare/penetrare la Parola di Dio, così come l’ha fatto lui; quanto scriveva mi suscitava il gusto di accedervi più volte. Sì, quando uno ti mette nella condizione di gustare (io che sono uno qualsiasi) e di progredire, puoi solo essergli grato.
Posso dire che come Piero Angela ha saputo parlare alla gente della complessità della scienza e farla gustare, così ha fatto don Paolo nel suo ambito. Don Paolo, un abbraccio riconoscente.

Ottorino Saccon
21/12/2018

Questa è la risposta di don Paolo.

Carissimo Sig. Ottorino
[…] la ringrazio per la e-mail che padre Gigi, direttore di MC, mi ha fatto avere. Non le nascondo che mi sono sentito in grave imbarazzo leggendo, e nello stesso tempo ho provato la gioia di sapere che la Parola di Dio può essere indirizzata a tutti, anche non specialisti, basta studiare tanto per parlare un linguaggio umano accessibile e comprensibile. Se lei vuole e se le interessa può visitare il sito www.paolofarinella.eu/ oppure digiti «Paolo Farinella, prete» su Google, e lo trova. Poi alla finestra Liturgia trova tutti i commenti alle domeniche e feste di tutto l’anno (quello in corso è l’Anno-C).

Da 13 anni non ho solo scritto per la rivista, ma consapevole della mia responsabilità, ogni giorno portavo i lettori di MC, verso i quali ho sempre nutrito una grande stima, nel mio cuore e nella mia preghiera perché, pur non conoscendoli, io entravo tutti i mesi nelle loro case, non sapendo quale effetto potessero avere le mie parole. Per questo tutti gli articoli erano prima pensati e poi pregati e poi pubblicati, nel tentativo di aiutare qualcuno a uscire dal «raccontino biblico» per avere un «incontro» vitale con la Parola che è comunione con Dio.

Lei mi ha dimostrato che è possibile e quindi mi conferma che è questa la strada giusta e l’obiettivo di una vita per cui vale la pena vivere.

Da questo momento lei e tutta la sua famiglia, le persone che ama, siete presenti nella mia Eucaristia e nella mia amicizia, oltre il tempo oltre lo spazio. Con affetto.

Paolo Farinella, prete
Genova, 22/12/2018

 

Abbiamo ricevuto anche altre email in proposito e le abbiamo girate a don Paolo che, come suo solito, ha risposto immediatamente. Grazie ancora Paolo Farinella, prete innamorato della Parola. Anche noi ti portiamo nel cuore e preghiamo per te. Sul nostro sito è possibile trovare i testi pubblicati e scaricarli in formato pdf dallo sfogliabile. Entro Pasqua contiamo di raccogliere i testi di don Paolo pubblicati in un unico pdf per facilitarne la lettura e la consultazione e scaricarli con facilità.

Massacro all’episcopio di Alindao ad opera dei Seleka – cattedrale devastata

Ho paura, ma voglio ancora diventare prete

Dal Carmel di Bangui, Rep. Centrafricana.
La mattina del 15 Novembre ad Alindao, cittadina a circa 500 km da Bangui, un campo di sfollati situato nei pressi della Cattedrale, è preso d’assalto da un gruppo di ribelli islamisti che porta il curioso nome di «Unione per la pace in Centrafrica». Si tratta di uno dei tanti gruppi agli ordini di un certo Ali Darassa, sorti dalla dissoluzione della Seleka e che ancora infestano i tre quarti del paese. I morti sono più di ottanta. Un vero massacro. Anzi, una razzia: oltre alle persone uccise, i ricoveri degli sfollati sono incendiati, l’intero sito è raso al suolo, le abitazioni sono saccheggiate, la chiesa è profanata. La strage avviene davanti all’inerzia del contingente dell’Onu che avrebbe, di per sé, il mandato di proteggere i civili. Tra le vittime, oltre a donne, bambini e persone anziane, anche due sacerdoti: abbé Célestin e abbé Blaise.

Massacro all’episcopio di Alindao ad opera dei Seleka – cattedrale devastata

Il coraggio del giovane vescovo di Alindao, Cyr-Nestor Yapaupa (nella foto qui sotto), impedisce che il bilancio sia ancora più pesante. Invece di accogliere la gente, che vorrebbe trovare rifugio all’interno della cattedrale, ordina a tutti di scappare nella savana. Se i cristiani non gli avessero obbedito, il numero dei morti sarebbe stato ancora più alto. Il vescovo e alcuni sacerdoti decidono di restare comunque.

La notizia e i dettagli dell’avvenimento ci raggiungono increduli e scoraggiati. Le foto dei cristiani carbonizzati fanno il giro del mondo. Le già lentissime lancette dell’orologio della pace sembrano improvvisamente e drammaticamente correre all’indietro. Il Centrafrica sembra ormai essersi ingarbugliato in un inestricabile groviglio d’ingerenze straniere, inadempienze della comunità internazionale e incapacità del governo locale. L’elemento confessionale non fa che rendere il cocktail ancora più micidiale.

Alcuni giorni dopo gli avvenimenti, partecipiamo a un incontro di sacerdoti a Bangui. È presente abbé Donald, appena arrivato da Alindao. Originario di Bangui, sacerdote da poco più di un mese, aveva trascorso al Carmel i giorni di preparazione all’ordinazione, ascoltando con attenzione le conferenze del sottoscritto. Conferenze che avrebbero dovuto dargli le ultime istruzioni prima di essere un ministro di Dio per sempre.

Da qualche settimana Donald era stato inviato in aiuto alla diocesi di Alindao. Questa volta sono io che ascolto con attenzione la sua conferenza, nonostante sia ancora sotto shock, circa quanto avvenuto ad Alindao. Donald non ha ancora avuto il tempo d’imparare a fare il prete; ma ne ha già visti due morire, davanti ai suoi occhi, uccisi per il vestito che indossavano e il mestiere che esercitavano.

In classe, durante la lezione, è quindi un dovere parlarne. Gli studenti che ho davanti non sono allievi qualunque. Sono i futuri sacerdoti del Centrafrica. Provengono dalle città e dai villaggi dell’intero paese. Hanno visto la guerra e ora sono nel Seminario di Bangui perché vogliono fare lo stesso mestiere di Célestin e Blaise. Poi ripartiranno, sacerdoti, nelle diocesi da cui sono venuti. Chiedo loro se hanno ancora voglia di continuare il cammino intrapreso e se sono consapevoli dell’alto rischio che li attende.

Odilon, dall’alto dei suoi vent’anni, risponde per tutti: «Ho paura, mon père. Ho tanta paura. Ma non cambio idea. Voglio ancora diventare prete». La sua sincerità e il suo coraggio disarmerebbero anche Ali Darassa. Vorrei dire a Donald che ho paura anch’io. Ma nessuna voglia di cambiare mestiere. Penso al giorno in cui sono diventato sacerdote. Proprio non immaginavo che sarei finito qui, a spiegare chi era Origene e Agostino, a decine di volti neri, curiosi e imprevedibili, ostinatamente convinti che si può e si deve diventare preti, anche in un paese in guerra.

[…] C’è forse un legame tra il sacrificio dell’abbé Célestin e dell’abbé Blaise, il coraggio del vescovo Cyr-Nestor, quanto ha visto abbé Donald, la solenne promessa di Odilon e il «per sempre» di fra Michaël?

Sant’Agostino chiedeva a Dio, per sé e i suoi pastori, di amare il proprio gregge fino a morirne aut effectu aut affectu, cioè di fatto, con il sacrificio della vita, o con il cuore, nella dedizione senza risparmio al servizio del popolo di Dio. In passato gli argomenti per parlare male di questa giovane chiesa non sono certo mancati. Questo 2018, nel quale ben cinque sacerdoti e decine di cristiani sono stati uccisi durante le celebrazioni o nei pressi delle loro chiese, ci consegna una chiesa sicuramente ancora giovane e fragile, ma che non scappa davanti al nemico e i cui pastori non sono mercenari.

Padre Federico Trinchero
Bangui, 17/12/2018

Massacro all’episcopio di Alindao ad opera dei Seleka


Rinnovi e cancellazioni

Spett. Redazione Rivista Missioni Consolata,
vi sarei grata se sospendeste l’invio della rivista all’indirizzo […] a causa del decesso del destinatario. Vi sarei altresì molto grata se la sospensione avvenisse nel più breve tempo possibile per non riempire eccessivamente la cassetta delle lettere. Cordiali saluti

Email firmata, 22/01/2019

Desidero continuare a ricevere la vostra interessantissima rivista. Grazie per gli articoli che riportano notizie serie, non facilmente reperibili in altra carta stampata.

M.P., 22/12/2018

Buongiorno. Vi scrivo per disdire l’abbonamento alla rivista Consolata, che continua ad essere spedita all’indirizzo di mia zia, nonostante lei sia morta dall’anno 2005. Se vi chiedete perché io non doni al posto suo, vi dico che ho scelto di aiutare l’Unicef. Potreste risparmiare carta e quindi alberi; è pur vero che avrei potuto scrivervi prima di adesso. Vi auguro di continuare la vostra missione nel miglior modo possibile.

Email firmata, 17/11/2018

Con la presente vi chiederei cortesemente di non inviarmi più la bella rivista Missioni Consolata, la rivista aveva incominciato ad arrivare a casa dopo che mio figlio aveva fatto una bella esperienza in Africa, tanti anni fa. Adesso lui non vive più in questo indirizzo ed io non riesco che a leggere ogni tanto un articolo e mi dispiace che venga sprecata.

Email firmata, 22/10/2018

Abbiamo condiviso con voi alcune delle email ricevute di questi tempi. La maggior parte riguarda benefattori delle nostre missioni che sono andati alla casa del Padre. Non finiremo mai di ringraziare il Signore per il loro affetto e il loro sostegno.

Naturalmente non tutti i messaggi ricevuti sono benevoli. Alcuni, inviati dagli «eredi» dei nostri lettori/benefattori suonano come aspri rimproveri perché in tutti questi anni abbiamo approfittato della loro buona fede per spillare soldi.

Non è piacevole neppure sentirsi dire che la nostra rivista riempie eccessivamente la cassetta postale, come se fosse insistente e invasiva alla stregua della pubblicità dei supermercati.
Quanto alla scelta di aiutare un’agenzia Onu invece dei nostri missionari, pur rispettando la libertà personale, inviterei a valutare le percentuali dei fondi usati per il personale in quelle agenzie e quanto usi invece la nostra Onlus o altre simili alla nostra.


Yukari passava di lì

Yukari passava di lì, quando vide una strana costruzione e vari stranieri che andavano e venivano. Pensò: «Se gli stranieri qui sono i benvenuti, allora accoglieranno bene anche me». Salì una gradinata ed entrò: stava cominciando la messa. Lei non sapeva che quella era una chiesa, in particolare la chiesa di Tong Du Chon dove i nostri padri Tamrat Defar e Patrick Mrosso portano avanti la pastorale dei migranti.

Yukari è una donna giapponese nata dalle parti di Osaka e sposata con un coreano. Si sono conosciuti e sposati in Giappone ma, per ragioni di lavoro, lui è cuoco, si sono dovuti trasferire in Corea del Sud. Yukari era in Corea da pochi mesi, non conosceva ancora la lingua ed era triste quel giorno. Entrata in chiesa rimase colpita dalla luminosità dell’edificio. Finita la messa qualcuno si accorse che lei non era una dei soliti fedeli, la invitò a prendere un caffè con gli altri migranti e le spiegò come poté che ogni domenica c’era una scuola di coreano gratis. Fu così che Yukari cominciò a frequentare la comunità di Tong Du Chon e a partecipare alla messa domenicale. Quel giorno, il 6 agosto 2017, le è rimasto impresso nella memoria come uno degli eventi più belli che le siano capitati.

«Ogni volta che partecipavo alla messa – mi dice – sentivo la gioia che entrava in me, in piccole dosi, come pacchettini di gioia e vedevo la luce brillare intorno a me. Allora chiesi a una delle volontarie, insegnante di lingua, cosa dovevo fare per diventare cristiana. Da quel momento cominciai il catecumenato e a Pasqua del 2018 (nella foto: Yukari – a destra – il giorno del battesimo) ricevetti il battesimo e scelsi come nome nuovo quello di Justina».

«Come è cambiata la tua vita da quando sei diventata cattolica?», le chiedo.

«Adesso non ho più paura», mi risponde senza esitare. «Per esempio – mi dice – a metà del 2018 ci fu un forte terremoto nella zona di Osaka e l’epicentro era proprio dove stanno tutti i miei parenti. Normalmente sarei stata terrorizzata, ma quel giorno invece ero serena. Guarda che combinazione – e mi mostra sul suo telefonino un’app in giapponese – quel giorno la Parola di Dio diceva di non temere e di confidare nel Signore».

Adesso Yukari si difende bene col coreano, partecipa al coro e ad altre attività della parrocchia e ha stretto una bella amicizia con le altre volontarie. Parla della sua esperienza anche alle sue amiche giapponesi che vedono ancora Chiesa e cristianesimo come una cosa strana (ricordiamoci che in Giappone solo lo 0.35% della popolazione è cattolico). È attiva, allegra e ha partecipato perfino alla nostra festa della Consolata, incaricata di leggere una preghiera, per mostrare che il Signore continua a chiamare pecore nel suo gregge da qualsiasi terra Lui voglia.

Yukari passava di lì, ma diamo grazie al Signore perché quel giorno c’era anche qualcuno pronto ad accoglierla!

padre Gian Paolo Lamberto
Daejeaon, Corea del Sud, 16/10/2018


Informazione sicura

Caro padre,
[…] sfogliando il numero (di ottobre 2018) ho visto la lettera «Ha ragione Salvini?». Lì si parla in realtà del fenomeno (che è tra lo strambo e il surreale) del gender e delle sue conseguenze ma si cita Salvini che è uno dei simboli […] di questa presunta deriva anti-cristiana.

Ora, Salvini sì o Salvini no, a me interessa poco adesso, quello che mi fa riflettere è che siamo in tempi in cui sostenere ovvietà come il fatto che il matrimonio è tra uomo e donna e un bambino ha un papà e una mamma oppure che i fenomeni migratori vanno regolati e sono comunque un sintomo di squilibri sociali da «riaggiustare», si passa per intolleranti e brutti e cattivi e anche per cattivi cristiani. Ma anche un’opinione (questa sì è un’opinione, diversamente dal fatto naturale che i genitori sono papà e mamma) come lo ius sanguinis… apriti cielo! Non si può. […]

Rimanendo all’immigrazione penso che, nonostante tutto, molti non siano ancora convinti che il fenomeno migratorio Africa-Europa così come lo vediamo non è per nulla spontaneo, come non lo è quello nuovo dall’Honduras verso gli Usa (guarda caso ci sono le elezioni di medio termine in Usa…) e credo che una buona parte della causa di ciò sia nei mass media (diciamo almeno l’80% dei grandi media) che sembrano lì apposta per «formare» l’opinione pubblica invece che informarla. Sono più attori della politica invece che osservatori.

Ancora rifacendomi a cose già dette, se MC fa giornalismo, allora ha una gran responsabilità e c’è un gran bisogno di informare in modo ben ragionato i lettori. Se volete anche formare le pecorelle che credono di essere rimaste all’ovile ne sarò molto felice ma che sia formazione cristiano «sicura», basata non sulle ventate dell’attualità ma sulla Verità e ciò che la Chiesa ha sempre insegnato a ragion veduta. Un saluto

Andrea Sari
15/01/2019

Caro Sig. Andrea,
mi perdoni se ho di nuovo tagliato la sua lunga email. La questione dei migranti è molto complessa e il modo con cui è trattata nei mass media (e dai politici, e non solo quelli nostrani) non aiuta a capire che questa tragedia, vissuta da milioni di uomini che fuggono dalla loro terra e altri milioni che si vedono «invadere», non è «il problema», ma solo l’effetto di problemi ben più gravi, certo non causati dai mass media. Guerre, riscaldamento climatico, sfruttamento sconsiderato delle risorse, dominio incontrollato delle multinazionali, debolezza dell’Onu, dittature, corruzione e altro, sono i veri problemi da affrontare. MC, nel suo piccolo, cerca di dare un’informazione documentata, puntuale e non di moda.




Esseri umani respinti da un’Europa disumana


Da quando nel 2017 il governo ungherese ha ultimato la recinzione metallica alta 3,5 metri e lunga circa 175 km, sigillando il confine con la Serbia, la rotta migratoria balcanica si è spostata a Ovest, in quel lembo di Bosnia che si incunea nell’Unione europea, il cantone di Una-Sana. È da quell’angolo di mondo che nasce questo reportage.

Testo e foto di. Alberto Sachero

I rifugiati provenienti dalla Grecia, attraverso le rotte di Albania e Montenegro o Macedonia e Serbia, giungono alla porta d’ingresso dell’Unione, il confine con la Croazia, il 28° e ultimo paese, in ordine cronologico, a entrare in Ue nel 2013.

Si stima che più di 25.000 persone siano transitate in Bosnia nel 2018, ma nessuna di queste si vuole fermare in uno stato dove povertà e disoccupazione spingono gli stessi suoi abitanti ad emigrare altrove. Tentano di entrare nell’Ue per raggiungere i paesi tanto sognati: Germania, Olanda, Belgio, Francia, Spagna, Italia e Inghilterra.

Nei pressi del confine bosniaco-croato le cittadine di Velika Kladuša e Bihać, a partire da marzo 2018, si sono trovate a gestire una situazione di emergenza. Migliaia di migranti si sono concentrati nel campo «palude» vicino al canile municipale di Kladuša, e a Bihać all’interno del «Dom», un fatiscente stabile nel parco del centro cittadino. Nel primo, le persone dormivano in tende improvvisate, fatte di rami d’albero e teli di plastica; nel secondo in una struttura senza infissi, senza luce elettrica e con pericolosi buchi nei pavimenti dei suoi tre piani.

Le organizzazioni internazionali Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) si sono dimostrate da subito inadeguate a gestire tale emergenza. I migranti erano (e sono tutt’ora) sostenuti da una parte della popolazione bosniaca, reduce dalla guerra nell’ex Jugoslavia (1991-2001), e dalle associazioni di volontariato. I volontari di Croce Rossa, Medici senza frontiere, Ipsia, No Name Kitchen, Sos Team Kladuša e altri lavorano senza sosta per tamponare una situazione sempre più drammatica che l’Europa per il momento non vuole risolvere.

Per la maggior parte giovani uomini, più raramente donne e famiglie con bambini, provengono da quell’area geografica che dal Medio Oriente arriva fino alla Cina: Siria, Iraq, Iran, Afghanistan e Pakistan. Popoli che fuggono da guerre, persecuzioni politiche e fame. Popoli che cercano rifugio politico in Europa, ma ai quali l’Europa non concede il diritto di richiederlo, contravvenendo alle proprie leggi.

La maggioranza di loro ha provato più volte il «Game» senza vincerlo. «Game» (il gioco) è termine con cui i profughi ironicamente chiamano il tentativo di entrare nell’Unione europea. Partono in genere di notte, in piccoli gruppi. Spesso la polizia croata li intercetta con droni, cani e rilevatori di calore, e li respinge in Bosnia. Vengono picchiati, umiliati e derubati dei pochi soldi che hanno, mentre i loro telefonini, indispensabili per orientarsi col Gps nella fitta foresta, sono distrutti a manganellate.

I ragazzi raramente vincono, più spesso perdono il «Game» e, dopo giorni e giorni di cammino nei boschi e nei fiumi gelati, tornano a Kladuša o Bihać con il corpo martoriato, ferite sugli arti e piedi macerati. Qualcuno è morto annegato o per ipotermia nel tentativo di fuggire dalla polizia.

Perché i confini sono chiusi?

Alcuni, in alternativa al «Game», acquistano documenti contraffatti o pagano (i pochi che se lo possono permettere) qualche migliaio di euro ai trafficanti per farsi trasportare in furgone in Slovenia. Qui però spesso vengono scovati, consegnati alla polizia croata e deportati nuovamente in Bosnia. Il cerchio è così chiuso.

Nizar, giovane siriano di Aleppo: «Io non sono qui per scelta, in Siria stavo bene, ma ora è un paese completamente distrutto. Vorrei tornare, ma forse non ci tornerò mai».

Amhed, iracheno di Baghdad: «Ho camminato due anni con mia moglie e i miei due figli per arrivare in Grecia, lì ci siamo fermati altri due anni. Le condizioni nei campi erano terribili e quindi siamo ripartiti e arrivati in Bosnia, sempre a piedi. Ora vogliamo entrare in Europa e raggiungere i nostri parenti in Germania. In Iraq non possiamo tornare. Perché il confine è chiuso?».

Questa è la domanda che tutti fanno: «Why is the border closed?».

L’Europa continua a ignorare questo fatto e mantiene i rifugiati in un limbo: a casa non torni, ma in Europa non entri.

Manganelli e spray

Alla fine di ottobre 2018 i rifugiati hanno manifestato per una settimana intera al valico di Maljevac, al confine tra Bosnia e Croazia, costruendo un nuovo campo di tende con rami e plastica. I poliziotti croati hanno costituito un blocco per respingerli, ma alcuni hanno cercato di forzarlo. Si sono verificati scontri e la polizia ha usato manganelli e spray al peperoncino per farli indietreggiare. Anche donne, bambini e poliziotti bosniaci (che spesso proteggono i migranti dalla polizia croata) sono stati curati per asfissia e bruciori agli occhi nel furgone di Medici senza frontiere.

Il nuovo campo profughi distava trecento metri dalla dogana, ma il confine è stato chiuso allo scopo di fomentare il malcontento della popolazione locale, che vive di scambi economici tra i due paesi. L’Oim, che distribuiva cibo tre volte al giorno nel campo originario, si è rifiutata di portarlo al nuovo campo. I rifugiati, per mangiare, doverano tornare al vecchio campo o facevano spesa in paese, ma più spesso erano le stesse famiglie bosniache e i volontari stranieri a portare cibo e acqua per sostenerli.

Le autorità hanno bloccato le strade adiacenti la frontiera e dopo cinque giorni hanno comunicato ai profughi che se non fossero tornati al campo originario (a tre km dal confine), avrebbero bloccato l’unico sentiero utile per rifornirsi. I migranti si sono rifiutati, ma dopo due giorni, stremati, hanno dovuto cedere e sono stati trasferiti con cinque bus al nuovo campo: il «Miral». Questa struttura, gestita dalla Oim, è una ex fabbrica dotata di riscaldamento fuori dall’abitato di Kladuša.

Confinati e ignorati

La stessa cosa si è verificata a Bihać, dove dal fatiscente «Dom» sono stati trasportati al «Bira», ex fabbrica di frigoriferi. A gennaio 2019 ci vivevano circa 2.300 persone.

Un servizio privato di sicurezza nega l’accesso a chiunque non lavori all’interno. Non è quindi possibile verificare le condizioni di vita dei migranti, ma le testimonianze di volontari e rifugiati riportano che sono terribili. Nonostante la grande disponibilità di fondi delle agenzie Oim e Unhcr, mancano un’adeguata assistenza sanitaria e psicologica, per alleviare le sofferenze delle persone. A ottobre 2018 è morto all’interno del «Bira» un giovane ragazzo in circostanze poco chiare. Le organizzazioni internazionali, invece di garantire a chi ne ha diritto la richiesta di asilo politico, forniscono a malapena vitto e alloggio in ghetti prefabbricati. La convivenza forzata di più di 2.000 uomini provenienti da paesi diversi, sommata alle pessime condizioni, scatena spesso risse. Le associazioni indipendenti di volontari svolgono un lavoro straordinario fornendo assistenza sanitaria di base, scarpe e indumenti, servizio docce, pasti caldi e tanta comprensione umana.

L’Europa ha così «confinato» migliaia di esseri umani in due ex fabbriche bosniache, in modo da allontanare la minaccia di «invasione» da parte di questa povera gente. Un atto disumano contro ogni legge del diritto internazionale.

Oggi in pieno inverno, tra freddo, neve e respingimenti, i profughi continuano a tentare il «Game», che spesso perdono. Esseri umani respinti da una Europa disumana.

Alberto Sachero




Ecumenismo per le migrazioni


La Federazione delle chiese evangeliche in Italia e la Tavola valdese, insieme alla Comunità di sant’Egidio, stanno sperimentando un metodo per far giungere in sicurezza richiedenti asilo in Italia. Il programma prevede poi un percorso di integrazione. Sono numeri ancora modesti, ma rilevanti. In questo modo intere famiglie siriane possono essere «salvate» e vedere un futuro per i loro figli. Senza pagare trafficanti e senza rischiare vite umane.

Cattolici e riformati insieme per salvare i rifugiati siriani. Una collaborazione dal forte valore ecumenico, quella tra la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) e la Comunità di sant’Egidio. Un sodalizio nato nel 2014, subito dopo l’affondamento di un barcone al largo di Lampedusa nel quale perirono 366 persone (ma c’è chi dice fossero in numero maggiore). «Di fronte a una tragedia simile – ricorda Paolo Naso, responsabile del programma Mediterranean hope della Federazione delle chiese evangeliche -, le nostre chiese si sono interrogate: è possibile trovare un modo per far arrivare i migranti in Europa in modo sicuro? È possibile garantire corridoi umanitari che evitino lo sfruttamento da parte dei trafficanti? È possibile creare percorsi di integrazione in Italia? Da queste domande è nato un articolato progetto sulle migrazioni».

Un osservatorio

Il primo passo della Fcei, d’intesa con la Tavola valdese, è stata la creazione, nei primi mesi del 2014, di un osservatorio a Lampedusa. L’osservatorio, tuttora attivo, lavora su più fronti: monitora gli sbarchi, le condizioni della prima accoglienza, l’impatto delle migrazioni sulla popolazione locale; cura i rapporti con gli isolani, con l’associazionismo, con le istituzioni locali, regionali e nazionali; collabora con la parrocchia cattolica dell’isola; promuove la costruzione di reti nazionali e internazionali per la sensibilizzazione sul tema delle migrazioni. Successivamente è stata creata la Casa delle culture di Scicli (Rg) che conta una quarantina di posti letto e offre ospitalità ai migranti particolarmente vulnerabili (giovani mamme, donne incinte, minori non accompagnati).

La Fcei ha però deciso di andare oltre. «Lo choc della strage di Lampedusa è stato forte – ricorda Naso -. A pochi giorni da quell’evento, insieme alla Comunità di sant’Egidio, ci siamo impegnati a cercare soluzioni per far giungere i migranti in Italia in sicurezza e indirizzarli verso programmi di integrazione efficaci. Abbiamo subito scartato l’idea di chiedere cambiamenti normativi perché non c’erano le condizioni, né in Italia né a livello continentale. Studiando le norme europee abbiamo scoperto che l’art. 25 del Regolamento CE 810/2009 concede ai paesi dell’area Schengen la possibilità di rilasciare visti umanitari validi per il proprio territorio. Una volta in Italia, i beneficiari del progetto possono poi fare regolare richiesta di asilo». Il 15 dicembre 2015, la Fcei e la Comunità di sant’Egidio hanno firmato con i ministeri dell’Interno e degli Affari esteri italiani il primo protocollo che prevede l’arrivo, con un regolare volo di linea, di mille profughi in due anni.

La scelta dei siriani

In Libano, un team di operatori, in collaborazione con organizzazioni umanitarie che operano nel paese, si è occupato di redigere le liste di chi poteva imbarcarsi per l’Italia. «In questi anni – spiega Simone Scotta che lavora per la Fcei a Beirut – abbiamo scelto di far arrivare rifugiati siriani: famiglie sunnite, le più perseguitate in patria, donne sole, persone malate, ragazzi sunniti renitenti alla leva. Ogni due-tre mesi sono stati organizzati voli con un minimo di 60 e un massimo di 80 persone».

Una volta arrivati in Italia questi rifugiati sono stati presi in carico dalla Diaconia valdese che ha offerto loro vitto e alloggio, corsi di italiano, una piccola somma per le spese quotidiane, aiuto per le pratiche burocratiche, assistenza medica e psicologica. «Accoglienza, accompagnamento e assistenza – continua Scotta – non costano nulla allo stato italiano. Tutte le spese sono a carico della Fcei e della Diaconia valdese che attingono ai fondi dell’8 per mille delle Chiese metodista e valdese. Tra i sostenitori del progetto figurano anche donatori internazionali come la Chiesa evangelica della Vestfalia, la Chiesa riformata degli Stati Uniti, diverse comunità evangeliche in Italia e singoli privati in Italia e all’estero».

Il 27 ottobre 2017, con l’arrivo del millesimo rifugiato, si è conclusa la prima sperimentazione. Ma il progetto è andato avanti. Il 7 novembre dello stesso anno è stato infatti firmato il rinnovo dei corridoi umanitari per altri mille profughi per il biennio 2018-2019. «Il progetto continua ed è un dato positivo – conclude Naso -. Segna una forte collaborazione ecumenica tra strutture delle Chiese riformate e cattolica. I corridoi umanitari sono poi un modello unico che si differenzia dagli inserimenti organizzati dallo stato o dagli enti locali. Noi abbiamo definito uno schema di accoglienza diffusa che evita di dar vita a grandi concentrazioni di migranti a favore di un inserimento molecolare. I migranti vengono inoltre accompagnati passo per passo da operatori professionali e da comunità che si prendono cura di ogni loro esigenza. I risultati sono positivi. Crediamo perciò che il modello possa essere preso ad esempio e replicato in futuro».

Enrico Casale
(seconda puntata – fine)

 




Si chiamava Moussa Ba

Si chiamava Moussa Ba. Era
Senegalese. Aveva 28 anni. È morto, arso vivo nell’incendio scoppiato la notte
del 15 Febbraio nella baraccopoli di San Ferdinando in Calabria. È la terza
vittima in un anno in questa zona di braccianti.

Il “ghetto” di San Ferdinando non
è degno di un paese civile, non è degno delle persone che sono costrette ad
abitarlo!

La Conferenza Instituti Missionari Italiani (CIMI) esprime cordoglio
ai famigliari della vittima, chiede che prontamente sia fatta luce sulle
circostanze che hanno portato al rogo e alla morte di Moussa Ba.

Moussa Ba e tanti altri sono oggi
i nuovi schiavi invisibili nelle campagne insieme ai contadini e come loro
vengono affamati, schiacciati e ghettizzati dalla logica del profitto e dal
controllo delle mafie.

Tra le autorità c’è chi in queste ora sta paventando lo sgombero di San Ferdinando. Crediamo che la soluzione non sia quella dell’invisibilizzazione del problema ma quella di trovare soluzioni e misure che favoriscano l’accoglienza diffusa e la integrazione dei lavoratori.

Commissione Giustizia e padre Della CIMI
17/02/2019




Brasile, Roraima: accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti dal Venezuela

“Vogliamo aiuto per darci
ragione di andare avanti perché sappiamo che un giorno le cose
cambieranno”

L’aggravarsi della crisi in
Venezuela costringe la popolazione a lasciare il paese in cerca di
sopravvivenza. Sono oltre 3 milioni i venezuelani che sono fuggite all’estero.
Nel Stato di Roraima, nord di Brasile, nelle città di Pacaraima e Boa Vista,
migliaia di migranti si trovano in condizioni estremamente precarie. La
mancanza di infrastrutture per i fuggitivi in cerca di una sistemazione crea
una preoccupante tensione sociale.

Juan Carlo Olivero è arrivato con
tre cugini e due amici. Hanno camminato per 215 chilometri tra Pacaraima e Boa
Vista, ma non sono riusciti a trovare un rifugio. Di notte dormono lungo il
viale vicino alla stazione degli autobus dove si contendono un pezzo di pane e
uno spazio sul marciapiede con centinaia di connazionali, nelle stesse
condizioni. “Spezza il cuore chiamare i nostri figli che sono rimasti con
la mamma in Venezuela e sentire che oggi non hanno mangiato nulla”, dice
Juan Carlo. “Vogliamo aiuto per darci una ragione per andare avanti perché
sappiamo che un giorno le cose cambieranno”, dice speranzoso.

Audio Juan Carlo Olivero

William Hernandez ha lasciato
moglie e cinque figli, come migliaia di altri venezuelani, nella speranza di
trovare lavoro e cibo. Sono passati 15 giorni dal suo arrivo, ma senza successo.
“Volevo che qualcuno mi aiutasse perché siamo in difficoltà”.

Audio di William Hernandez

Tra gli immigrati si trovano
muratori, meccanici, poliziotti, panettieri ma anche insegnanti, avvocati, e molti
professionisti qualificati, come la dottoressa Fiorella Blanco.

L’Istituto Brasiliano di
Geografia e Statistica (IBGE) stima che più di 30.000 venezuelani sono in
Roraima, ma solo circa 6.000 hanno trovato posto nelle 13 strutture di
accoglienza sostenute con i fondi del governo federale e costruite
dall’Esercito con l’appoggio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati (UNHCR). Un buon numero si trova in case o stanze affittate che sono
destinate al sovraffollamento. Senza aiuto, è difficile pagare l’affitto che
costa tra R$ 300 e 500 Reais (moneta brasiliana: 1 Euro = 4.20 Reais). Ma ciò
che colpisce è la quantità di persone che dormono nelle viali e piazze. Durante
il giorno agli incroci e ai semafori si posizionano molti venditori ambulanti
che cercano di vendere qualche cosa o semplicemente guadagnare una moneta.

Il governo brasiliano concede
asilo, ma l’accoglienza dovrebbe anche garantire un minimo di protezione sociale,
di accesso al sistema sanitario, all’istruzione al cibo e sicurezza per tutti.
Una delle azioni per sollevare Boa Vista dalla catastrofe umanitaria è la
distribuzione dei profughi venezuelani in altri stati del Brasile. Come è
successo il 2 febbraio scorso quando un gruppo di 99 sono stati trasferiti a Dourados,
una città nel Stato di Mato Grosso del Sud, in un volo pagato dalla Organizzazione
Internazionale per le Migrazioni (OIM). Lì lavoreranno in un’industria
alimentare.

Progetto Percorsi di Solidarietà

La Diocesi di Roraima attraverso
la Caritas Diocesana e con l’appoggio della Conferenza Nazionale dei Vescovi
del Brasile (CNBB), la Caritas brasiliana, Servizio Pastorale per i Migranti
(SPM), Istituto di Migrazione e Diritti e Umani (IMDH), Servizio dei Gesuiti
per i Migranti e Rifugiati (SJMR) e altre entità partner, guidano il Progetto “Percorsi
di Solidarietà: Brasile e Venezuela”.

Le Diocesi disponibili ad
accogliere gli immigrati attraverso questo Progetto possono registrarsi su il
Sito www.caminhosdesolidariedade.org.br

Il sito contiene informazioni dettagliate
ed è stato creato per aiutare l’accoglienza degli immigrati nelle diocesi di
tutto il Brasile. Il vescovo di Roraima, Dom Mario Antonio, sottolinea
l’importanza dell’integrazione degli immigrati. “Molti arrivano affamati e
hanno bisogno di cure mediche”. “Sono nuovi fratelli che vivono in
mezzo a noi”.

Audio di Dom Mario Antonio

Lanciato nell’ottobre 2018, il
progetto “Percorsi di solidarietà: Brasile e Venezuela” ha già coinvolto oltre
60 persone. Il 31 gennaio un gruppo di 17 venezuelani ha lasciato Boa Vista per
Paraíba. Nella città di João Pessoa, sono stati accolti dell’Arcidiocesi di
Paraíba e il Servizio Pastorale dei Migranti e saranno eventualmente inseriti
al lavoro.

La coordinatrice di Progetti nella
Caritas Diocesana, Gilmara Fernandes, vede la necessità di dare visibilità
all’azione.

Audio Gilmara Fernandes

La mancanza di occupazione, la
fame, l’insicurezza e la malattia sono per i migranti un test di sopravvivenza.
E in una città di 500.000 abitanti, con poche opportunità nel mercato di lavoro
e accesso ai servizi sanitari pubblici, trasporti e educazione, i migranti sono
molto facilmente considerati un problema. Sfortunatamente, di fronte a questa crisi
umanitaria, risorgono preoccupanti atteggiamenti di xenofobia. Questo scenario
non permette di vedere le potenzialità che questo fenomeno porta. E quanta
ricchezza portano i migranti quando arrivano nei nostri paesi. Quante abilità,
novità e conoscenze!

D’altra parte, ci sono molte
persone che aiutano e sono solidali. Famiglie che gli lasciano vivere a favore,
altri che abbandonano uno spazio nel cortile, danno lavoro e cibo. Le pastorale
della Diocesi, le parrocchie e comunità, congregazioni religiose e movimenti
con centinaia di volontari, aprono le loro porte e il loro cuore.

Davante la Casa delle Suoere
della Consolata ogni mattina si forma una fila che può raggiungere piu di 500
persone per ricevere un pane con il caffè.

Equipe Missionaria Itinerante

L’Equipe Missionaria Itinerante
del’Istituto Missioni Consolata (IMC) composta da P. Luiz Carlos Emer (RB), P.
Jaime Carlos Patias (DG) e Manolo Loro (RAM) sta dando priorità alle persone
più vulnerabili nella situazione di strada e agli indigeno Warao che sono fuori
dal rifugio. Dopo molte pressioni, il  01
febbraio, un gruppo dell’UNHCR si è recato in Piazza Augusto Germano Sampaio e
ha registrato più di 60 Warao di tutte le età che sono sensa rifugio. Ma finora
non hanno ancora avuto una risposta positiva.

La situazione di vulnerabilità
aumenta i rischi di sfruttamento, uso di droghe, illeciti, fame e malattie in
una popolazione già minacciata dal fatto di migrare.

Ecco perché, come Papa Francesco
ci invita, è urgente: “Accogliere, proteggere, promuovere e
integrare”.

P. Jaime C. Patias, IMC, Consigliere Generale per America.




Roraima, Brasile: le sfide dell’accoglienza e dell’integrazione dei venezuelani

Testo e foto di padre Jaime C. Patias

Warao, accampati in una piazza di Boa Vista

«Abbiamo bisogno di aiuto. Stiamo dormendo in piazza. Non
possiamo entrare nel rifugio». Questa richiesta di aiuto viene dal giovane
indigeno warao Jean Luís Jimenez, ed è inviata da Boa Vista, Roraima, a padre Vilson
Jochem, missionario del Consolata a Caracas. Jean Luís è uno dei 3 milioni di immigrati
che hanno lasciato il Venezuela per i paesi limitrofi.

A seguito di questa richiesta, andiamo al quartiere
Pintolândia, a Ovest della città, dove si trova il rifugio destinato agli
indigeni, e vi troviamo fuori 17 Warao, nove adulti e otto bambini accampati in
Plaza Augusto Germano Sampaio. Due giorni dopo, gli indigeni sono già 30, con
17 bambini sotto i 12 anni. Il rifugio può ospitare fino a 665 indigeni e non
riceve nessun altro.

La nostra attenzione è richiamata da Mardelia Rattia, 25
anni, arrivata qui con cinque bambini, compreso un piccolo di due mesi: «La
nostra situazione è difficile. Penso ai bambini», ci dice Mardelia preoccupata.
Vuole continuare il viaggio e raggiungere Manaus (nello stato brasiliano di
Amazonas), dove si trova già sua suocera con altri parenti.

Malato e indebolito, Jean Luís è stato ammesso all’ospedale
generale di Roraima, che è anch’esso pieno di gente. «Qui almeno sto meglio che
in piazza», osserva sdraiato su una barella nei corridoi accanto a diversi
pazienti, molti dei quali venezuelani. Quando lo dimetteranno sarà lui a essere
nuovamente in strada.

Indigeni Warao a Boa Vista durante incontro col team itinerante dei Missionari della Consolata

L’insicurezza della piazza

Il 18 gennaio, di notte, alcuni soldati dell’esercito che
sono i responsabili della struttura e della sicurezza nei rifugi, passano nella
piazza e abbordano alcuni Waraos dicendo che non possono più dormire lì. La
minaccia spaventa tutti. La sera del 19 andiamo sul posto per evitare una
possibile ritirata. Dopo aver dialogato con i rappresentanti dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), responsabili della
protezione dei profughi, i Warao hanno ricevuto la garanzia di poter continuare
a restare nella piazza. Durante la notte i soldati arrivano in due auto, ma non
si avvicinano al gruppo. In ogni caso la situazione è insicura per i Warao, ed
è per questo che è urgente trovare una soluzione.

Tra gli immigrati ci sono diversi professionisti
qualificati, come da dottoressa Fiorella Lisenni R. Blanco, Warao arrivata qui
con un bambino, una sorella insegnate e un fratello formato in diritti umani.
Lei improvvisa consulenze con coloro che hanno bisogno e organizza un registro
del gruppo. «Perché il Brasile offre un’accoglienza di questo tipo? Senza un
dignitoso benvenuto? Stanno minacciando di buttarci fuori dalla piazza», dice
Fiorella. Le popolazioni indigene godono dei diritti garantiti dalla
costituzione e dalle leggi internazionali. Inoltre, gli antropologi ricordano
che i Warao dovrebbero poter esercitare la libertà transfrontaliera di andare e
venire grazie a una base culturale che storicamente precede la nascita delle due
nazioni Brasile e Venezuela.

Indigeni Warao accampati in una piazza di Boa Vista

Pablo Mattos, del coordinamento dell’Unhcr a Boa Vista,
spiega che «la decisione di creare nuovi rifugi è una responsabilità del
governo brasiliano». L’Unhcr monitora i flussi migratori, sostiene l’accoglienza
nei rifugi e l’integrazione. Per quanto riguarda i Warao, Mattos s’impegna a
proseguire la ricerca di soluzioni in dialogo con le istituzioni coinvolte nel
lavoro.

Il problema non è di oggi. Un rapporto pubblicato nel giugno
2018 dalle Nazioni Unite ha fatto 35 raccomandazioni per garantire i diritti
degli indigeni venezuelani su tre assi: i diritti universali, i diritti dei
migranti, e i diritti specifici dei popoli indigeni. Essi devono essere
trattati come immigrati, ma soprattutto come indigeni. Secondo i dati della Ong
Fraternidad
Humanitaria Internacional
, almeno 957 Warao e E’ñepá sono accampati
nelle città di Pacaraima e Boa Vista. Hanno viaggiato più di 900 chilometri su
una strada rischiosa.

Il posto di registrazione offre diversi servizi di
documentazione e indirizza verso i rifugi e il programma di integrazione. Gli
immigrati ricevono sostegno dalle istituzioni in altri sei luoghi diversi per
fare i documenti. È evidente la carenza di posti nei rifugi. Tutti i lunedì
sono disponibili solo 40 posti a fronte di una richiesta di oltre 200. Il 14
gennaio, dopo aver camminato per almeno 8 km fino al primo posto di identificazione,
un gruppo di Warao è dovuto tornare in piazza senza aver ottenuto niente.

Mamma Warao e figlio in una piazza di Boa Vista

La squadra di emergenza dei missionari itineranti

Dopo una pausa, il team missionario itinerante dei
Missionari della Consolata ha ripreso le sue attività il 12 gennaio 2019. I padri
Luiz Carlos Emer (missionario impegnato in brasile), Jaime Carlos Patias (della
direzione Generale dell’IMC) e Manolo Loro (impegnato in Amazzonia) fanno parte
del secondo gruppo. La priorità del gruppo è quella di accompagnare le persone
più vulnerabili e gli indigeni warao originari della regione del Delta Amacuro
in Venezuela, dove ci sono i missionari del Consolata. «Il poco che possiamo
fare ora è già molto per alleviare la sofferenza di coloro che hanno lasciato
tutto per sopravvivere», dice p. Luiz Emer tornando da una visita al gruppo
indigeno.

Il team sostiene e indirizza le varie situazioni agli
organismi competenti, sapendo che non è possibile risolverle tutte. Ciò che
conta sono gli atteggiamenti evidenziati da Papa Francesco: «Accoglienza,
protezione, promozione e integrazione».

La diocesi di Roraima con i suoi pastori, parrocchie e
congregazioni come le suore Scalabriniane, San Giuseppe di Chambéry, la Madonna
Addolorata, le figlie della carità, le missionarie dei Consolata, i gesuiti, i
Maristi, tra gli altri, prestano diversi Servizi.

Per il vescovo di Roraima, Monsignor Mário Antônio, oltre
alla logistica, «vediamo la necessità di accoglienza da parte delle Comunità
attraverso l’integrazione tra la popolazione locale e i venezuelani, nuovi
residenti che vengono con la prospettiva di una nuova vita. Hanno il diritto di
arrivare e noi abbiamo il dovere di accogliere, promuovere, proteggere e
integrare», ricorda il vescovo. «Vogliamo che le nostre comunità cerchino di
integrare gli immigrati nelle celebrazioni in Portoghese, spagnolo o in lingua
indigena. Vedo la migrazione come un’opportunità per vivere il Vangelo: amatevi
l’un l’altro, come li ho amati», ribadisce Monsignor Mário.

José Miguel Pinto e sette altri amici e familiari, due donne
e due bambini, è venuto a piedi da Pacaraima, 215 km da Boa Vista. Quando sono
arrivati al posto di servizio della parrocchia Nostra Signora Consolata
mostrano le ferite sulle piante dei piedi e le scarpe rotte. Come tanti altri,
di notte il gruppo dorme sul marciapiede in una delle strade vicine al terminal
degli autobus. Il numero dei migranti nelle vie e nelle piazze impressiona. José
Miguel dice che una notte la polizia è passata e ha cacciato tutti. Questo è il
clima di insicurezza che molti di loro vivono.

Indigeni Warao a Boa Vista in un centro di identificazione e registrazione

Il secondo mandato di Maduro aggrava la crisi

Con l’inizio del secondo mandato del presidente Nicolas
Maduro, la cui elezione è contestata, e che non è riconosciuta dal Parlamento
venezuelano e da vari paesi e organizzazioni internazionali, la crisi in
Venezuela sta peggiorando. La previsione è che il flusso migratorio aumenterà.
Nel frattempo, cresce anche la pressione su Maduro. In Boa Vista, uno
striscione appeso su un viale chiede la fine del regime e il sostegno per il
leader dell’opposizione, il Presidente dell’Assemblea nazionale, Juan Guaidó perché
diventi il presidente del paese.

Cartello contro Maduro a Boa Vista

La situazione di vulnerabilità aumenta il rischio di
sfruttamento, consumo di stupefacenti, furto, insicurezza, fame e malattie in
una popolazione già minacciata dalla migrazione. Con così tante persone senza
occupazione e luogo per vivere, aumenta la tensione sociale. La recente visita
di cinque ministri governativi alla città di Boa Vista ha ratificato la prosecuzione
dell’operazione di accoglienza e internalizzazione.

I dati della Polizia federale mostrano che 85.000
venezuelani hanno cercato rifugio in Brasile dal 2015. Le stime del IBGE
sottolineano che più di 30.000 sono attualmente in Roraima.

Jaime C. Patias, IMC, consigliere generale per l’America.

Bambino Warao a Boa Vista assistito dal team itinerante dei Missionari della Consolata



Cari Missionari

Gli Evangelici e il sostegno a Trump e C.

In Italia gli evangelici ci sono, c’è cascata
anche la bravissima badante peruviana che ha assistito mia madre e poi un’altra
amica di famiglia. Ma, a quanto sembra, sono molto diffusi e potenti nelle
Americhe, e si ficcano in politica con un entusiasmo che sarebbe piaciuto a Pio
XII, sostenendo la peggio destra in Usa, Brasile e suppongo anche altrove in
Sudamerica. Forse ci starebbe un altro servizio (mi sembra che ve ne siate già
occupati, ma la situazione si è aggravata).

Claudio Bellavita
08/10/2018

Il termine «Evangelici» ha un significato molto vasto, forse qui è usato solo per indicare le frange più fondamentaliste e nuove della galassia protestante. Il loro influsso non è certo limitato agli Stati Uniti (vedi MC 1-2/2017) o al Brasile. Sarà nostro impegno approfondire questo tema.

Il Diritto di restare a casa propria

Caro padre,
mi rifaccio vivo […] dopo la lunga lettera che fu pubblicata solo in parte per mancanza di spazio (e anche questa è tagliata per lo stesso motivo, ndr). Nella chiesa del paese dove mi trovavo fu distribuito il foglietto di settembre dell’Apostolato della Preghiera sul quale era riportata anche l’intenzione di preghiera del papa: «Perché i giovani del continente africano abbiano accesso all’educazione e al lavoro nel proprio paese».

È
una delle cose che intendevo sostenere nella mia lunga lettera dicendo che era
un concetto insegnatomi dai missionari ma dirlo oggi, o meglio dirlo un anno fa
suonava come una cosa xenofoba, populista, intollerante, sovversiva, non
solidale, contro i diritti umani e – ed è ciò che mi irrita di più –
anticristiana. Ma se prego perché i giovani africani abbiano accesso
all’istruzione e al lavoro a casa loro sto pregando per eliminare l’esigenza
che li spinge a muoversi in massa per venire da noi. È tutto logico e
cristiano. Entrambe le cose sono ormai ridotte ad opinioni e neanche
particolarmente valide. 

[…] Rimanendo all’immigrazione penso che
nonostante tutto, molti non siano ancora convinti che il fenomeno migratorio
Africa-Europa, così come lo vediamo, non è per nulla spontaneo, come non lo è
quello nuovo dall’Honduras verso gli Usa (guarda caso ci sono le elezioni di
medio termine in Usa…) e credo che una buona parte della causa di ciò sia nei
mass media (diciamo almeno l’80% dei grandi media) che sembrano li apposta per
«formare» l’opinione pubblica invece che informarla. Sono più attori della
politica invece che osservatori.

Ancora rifacendomi a cose già dette, se Missioni Consolata fa giornalismo allora ha una gran responsabilità e c’è un gran bisogno di informare in modo ben ragionato i lettori. Se volete anche formare le pecorelle che credono di essere rimaste all’ovile ne sarò molto felice ma che sia formazione cristiana «sicura», basata non sulle ventate dell’attualità ma sulla Verità e ciò che la Chiesa ha sempre insegnato a ragion veduta.
Un saluto.

Andrea Sari
29/10/2018

Caro Sig. Andrea,
non me ne voglia se ho dimezzato la sua lettera.
Sul fatto che «i giovani africani abbiano accesso a educazione e lavoro nel proprio paese» non c’è niente di anticristiano. Il diritto a rimanere a casa propria (ma anche ad averne una) è fondamentale per ogni uomo. Tutta la storia biblica gira attorno alla «terra» promessa da Dio al suo popolo.
Noi missionari, da sempre, abbiamo investito tanto (e continuiamo a farlo) per aiutare i più poveri del mondo a vivere meglio a casa propria.

Quanto all’informazione: è nostro impegno – con i nostri poveri mezzi – offrire articoli documentati e ragionati, senza seguire lo stile sensazionalista e litigioso di moda oggi nel rispetto dell’intelligenza dei nostri lettori.

Chevron Texaco

Forse ho inteso male ma la Chevron Texaco, in vent’anni o giù di lì, è riuscita a scaricare in 450 chilometri quadrati di Amazzonia equadoregna circa 60 chilometri cubi di petrolio (acqua tossica da lavori di estrazione, ndr), provocando danni enormi.
Condannata dai giudici di Quito (Corte Costituzionale ecuadoriana, ndr) a risarcire gli indios e i campesinos con una somma di oltre 9 miliardi di dollari, la multinazionale è riuscita a farla franca grazie alla Corte europea (Corte permanente di arbitrato dell’Aja, realtà completamente indipendente dalla Unione europea, ndr), che avrebbe (uso il condizionale perché anche in questo caso potrei aver inteso male) ordinato all’Ecuador di annullare la sentenza di condanna, in quanto trattasi di un giudizio che viola i «diritti della Chevron Texaco» (perché l’Ecuador è accusato di aver violato un articolo del «Trattato Bilaterale sugli investimenti» [Bilateral Investment Treaty] esistente tra Ecuador e Stati Uniti dal 1993 e quindi di essere corresponsabile con la multinazionale, ndr).https://lospiegone.com/2018/07/28/ecuador-vs-chevron-texaco-ambiente-sentenza/

Una cosa però sono sicuro di averla ben chiara in mente: giudici così, che assolvono multinazionali così, non mi rappresentano e non rappresentano né le radici cristiane, né le altre radici dell’Europa, né lo spirito e le idee di chi vive in Europa oggi e, di conseguenza, non so come facciano a occupare il posto che occupano. […] Non so se inorridire di più di fronte alle immagini di quel Tg2 Dossier o per le sentenze pro Chevron Texaco. […] Distinti saluti

Letizia Valnigri
25/10/2018

Il nostro Paolo Moiola ha scritto più volte sull’argomento. Emblematico l’articolo pubblicato in MC 7/2016 «La maledizione del petrolio».

Santità

Caro padre Gigi,
oggi ho iniziato la giornata, festa di tutti i Santi, leggendo l’editoriale «Cuori aperti» del tutto appropriato alla circostanza. Mentre lo leggevo tanti pensieri hanno affollato la mia mente e tanta tristezza ha invaso il mio cuore, prendendo in considerazione l’attuale contesto culturale in cui viviamo, soprattutto pensando allo sfregio che subisce il messaggio evangelico sia da chi se ne serve strumentalmente senza una vera adesione personale e sia da chi, a dispetto del ruolo e dell’incarico, esercita, all’interno della comunità ecclesiale, un’azione demolitrice e denigratrice. La festa odierna, in ogni caso, mi/ci ricorda che la santità è da un lato un dono gratuito ma dall’altro richiede il rinnovo della personale adesione ad essere «beati» secondo la logica di Gesù e non «spettatori o giudici». […]
Buona festa dei Santi!

Milva Capoia
Collegno, 01/11/2018

La caduta del cielo

Oggi mi sento come in un giorno di festa: ho
appena ricevuto in regalo la versione italiana de «La caduta del cielo». L’ho
ricevuta dalle mani di Davi Kopenawa Yanomami, l’autore, che me l’ha dedicata
con queste parole: «Per Hokosi (nome indigeno di Carlo Zacquini, ndr),
una freccia per toccare il cuore della società non indigena».

Il libro, scritto con (l’antropologo) Bruce
Albert, è un’opera che, tra le tante cose, stimola riflessioni, apre porte per
la comprensione delle scienze sociali, della filosofia, delle religioni, dei
mondi mitici e della natura. Più di mezzo secolo fa ebbi la fortuna di iniziare
la mia «avventura» con il popolo Yanomami. A lungo, il cruccio più grande, il
tormento, l’afflizione lancinante fu di non essere all’altezza della sfida per
comunicare, diffondere, rendere virali le scoperte che stavo facendo, la
necessità che sentivo di divulgarle, di far conoscere ad altri il mondo magico,
la filosofia, la religione, non per mero sensazionalismo, ma semplicemente per
suscitare un po’ di rispetto, se non di ammirazione per quel popolo. Per un
popolo, tra i tanti in Amazzonia, che sembrava destinato a scomparire,
lasciando poche tracce delle sue ricchezze, ben più importanti di quel po’ di
oro che si estrae (illegalmente) dalle loro terre, a un costo che il Brasile e
la stessa umanità mai riusciranno a pagare.

© Paolo Moiola

Nel 1971, l’incontro fortuito con Claudia Andujar
(una fotogiornalista) mi diede un’opportunità unica di collaborare alla ricerca
«immaginifica» dell’anima di questo popolo. L’occasione fu per me un invito a
nozze. Così, mentre da un lato cercavo di scoprire il mondo fantastico nascosto
dietro quei corpi «nudi», dall’altro mi sentivo felice di poter offrire a quella
donna quel poco che stavo imparando. I tempi lunghi e solitari nella foresta mi
aiutavano a trasmettere nozioni e sensazioni. E, successivamente, insieme alla
stessa Claudia e alla sua eccelsa arte fotografica, di scoprirne altre.

Le tragedie che seguirono non mi permisero di
approfondire oltre le mie conoscenze della cultura Yanomami e mi forzarono a
percorrere altri sentieri per cercare di arginare il massacro. Le immagini di
Claudia ebbero, tra i tanti meriti, quello di trovare percorsi nuovi che furono
determinanti nella lotta contro lo sterminio degli Yanomami. Eppure, nonostante
le fotografie, nonostante il poderoso libro di Davi, il massacro e la lotta
continuano ancora oggi. E le autorità, che avrebbero l’obbligo di arginarlo,
stanno affondando in un mare di corruzione e vergogna.

Fratel Carlo Zacquini
Boa Vista (Roraima), 13/11/2018

Dalla valle Susa

Gentile Direttore,
le scriviamo dalla Valle Susa. Siamo un gruppo di donne e uomini impegnati a vario titolo in diverse parrocchie della diocesi e da alcuni anni seguiamo l’evolversi del progetto Torino-Lione riunendoci nel Gruppo Cattolici per la Vita della Valle. Vorremmo condividere con lei e i lettori della rivista alcune riflessioni e considerazioni che abbiamo sviluppato su questo tema, alla luce della dottrina sociale della Chiesa e della Parola di Dio che interpella i credenti sulle situazioni concrete della vita.

Riteniamo
che l’espressione usata nel Vangelo di Matteo 16,3, «Leggere i segni dei
tempi», e circolata con convinzione negli anni postconciliari, sia un compito
sempre attuale e particolarmente incalzante nella nostra epoca. Epoca che il
chimico premio Nobel Paul J. Crutzen ha definito «Antropocene» per indicare
l’impatto senza precedenti dell’azione umana sull’ambiente terrestre. La
definizione è largamente condivisa dagli scienziati più avveduti e anche il
Magistero della Chiesa ci offre molti spunti al riguardo, ne citiamo un paio:

«L’antropocentrismo
moderno, paradossalmente, ha finito per collocare la ragione tecnica al di
sopra della realtà, perché questo essere umano non sente più la natura né come
norma valida, né come vivente rifugio… La mancanza di preoccupazione per
misurare i danni alla natura e l’impatto ambientale delle decisioni è solo il
riflesso evidente di un disinteresse a riconoscere il messaggio che la natura
porta inscritto nelle sue stesse strutture», (Laudato Si’, 115-117, papa
Francesco).

«Invece
di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione,
l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della
natura», (Centesimus annus, 37, papa Giovanni Paolo II).

Il processo di antropizzazione della Terra (la de-
forestazione, l’urbanizzazione incontrollata, l’estrattivismo, la
cementificazione del territorio, l’invasione dei rifiuti…)
esercita un’alterazione sempre maggiore degli ecosistemi dando origine a
fenomeni preoccupanti quali il riscaldamento del clima, lo scioglimento dei
ghiacciai, la desertificazione…

Il filosofo e teologo cattolico Raimon Panikkar
utilizzava il termine «Ecosofia» per indicare la saggezza di chi sa «ascoltare
la Terra» e agire di conseguenza; per lui la crisi ecologica attuale è
questione di vita o di morte per l’umanità e ciò la rende un fenomeno
religioso.

Le Chiese cristiane si mobilitano per
sensibilizzare i fedeli sulla necessità di riflettere, pregare e promuovere
iniziative per la salvaguardia dell’ambiente. Nel 1989 il patriarca ecumenico di Costantinopoli Dimitrios I proclamò
il 1° settembre «Giornata mondiale di preghiera per la creazione», nel 2001
aderirono all’iniziativa le principali chiese cristiane europee, con papa
Francesco nel 2015 vi aderì anche la Chiesa Cattolica. Ora i cristiani di tutto
il mondo sono invitati alla «Preghiera per la creazione» nel periodo liturgico
che va dal 1° settembre al 4 ottobre.

Il
movimento No Tav, composito nelle sue espressioni culturali, non contrasta solo
il progetto, ma si riconosce come coscienza critica dell’attuale modello di
sviluppo che pervicacemente mette il pianeta alle corde, mentre «non c’è
sviluppo in un popolo che volta le spalle alla terra» (papa Francesco tra i
Mapuche
, Cile 17/01/2018).

Si
potrebbe dire che la Valle di Susa si distingue per mettere a confronto due
opzioni esistenziali: quella del culto economico della «crescita infinita», di
cui le «Grandi Opere» sono paradigma; e quella di un approccio filosofico in
cui l’uomo vuole uscire dalla condanna di una visione esclusivamente economica
della vita e comprenda che la Terra nel suo insieme è un organo vivente che ha
bisogno di cura e attenzione.

Con l’opposizione alla Torino-Lione la valle è stata inserita tra i teatri dei 2931 conflitti ambientali del pianeta censiti nel 2016 (con il contributo dell’Unione europea attraverso l’European Research Council) dal sito www.ejolt.orghttp://www.ejolt.org

Le
lotte ambientali sono ormai di dimensione planetaria e mobilitano una
moltitudine di persone. In alcuni paesi l’epilogo raggiunge esiti drammatici:
l’Ong Global Witness il 2 febbraio di quest’anno ha dato notizia che nel
2017 sono stati assassinati 217 attivisti/e, a livello mondiale, per essersi
opposti a governi e aziende predatori delle loro terre. Le motivazioni che le
innescano, seppure con intensità differenti, sono ovunque molto simili:
progetti calati dall’alto con seguito di cantieri invasivi e devastanti,
imposizioni senza serio contraddittorio, indifferenza verso le istanze delle
amministrazioni locali, controllo militare della vita quotidiana sul
territorio, forti limitazioni e restringimenti delle libertà personali dei
residenti, iniziative giudiziarie nei confronti dei soggetti più
rappresentativi tra gli oppositori.

Il
progetto Torino-Lione ricalca puntualmente le stesse dinamiche; un osservatore
inesperto potrebbe scambiare il cantiere di Chiomonte, insediato nel 2011 per
la perforazione di un tunnel geognostico, per una base militare.

[…] La forza del movimento No Tav risiede nella coscienza di impegnarsi per una causa comune e smascherare quegli inganni che si nascondono dietro le «grandi opere» inutili, imposte con l’uso della forza e inclini alla presunzione di assumere il controllo sulla natura.
Fraterni saluti

Cattoxvalle@gmail.com
(seguono undici firme), 23/11/2018

Cari amici,
la nostra rivista non è indifferente alle battaglie in difesa dell’ambiente, e alla situazione della Valle Susa ha dedicato due inchieste già nel dicembre 2005 e gennaio 2006. «Si era ben lontani dal clima attuale, inquinato purtroppo da infiltrazioni para politiche, eversive e di dubbia provenienza», come ha scritto padre Ugo Pozzoli, ex direttore di MC, su questa rivista, nell’ottobre 2014 in un articolo dedicato all’impegno dei missionari per l’ambiente.

Non vogliamo entrare nei dettagli del dibattito del pro e contro la Tav, perché – pur interessati – non ne abbiamo la competenza. Il nostro augurio è che davvero prevalgano verità e bene comune e non gli interessi di questo o quel partito o di questa o quella lobby economica. Questa è la nostra responsabilità come credenti. Per questo vi siamo vicini nel vostro impegno civile basato sull’ascolto della Parola, il confronto con i documenti della Chiesa e l’amore per la «nostra madre Terra», per fare sì che la «lotta» non venga sequestrata dagli opportunisti, dai faziosi o dai violenti.




Decreto Sicurezza è una legge repressiva anche nei confronti degli italiani

Cimi (Conferenza Istituti missionari Italiani)
Fesmi (Federazione stampa missionaria italiana)

Comunicato

7 dicembre 2018


Come rappresentanti degli Istituti (esclusivamente) missionari italiani (CIMI) e delle riviste missionarie aderenti alla Fesmi,
condividiamo e sosteniamo l’appello del nostro confratello padre Alex Zanotelli, comboniano, contro il Decreto Sicurezza approvato recentemente che «prevede per i migranti l’abolizione della protezione umanitaria, il raddoppio dei tempi di trattenimento nei Centri per il Rimpatrio(CPR), lo smantellamento dei centri SPRAR (Sistema per i richiedenti asilo e rifugiati) affidati ai Comuni (un’esperienza ammirata a livello internazionale, per non parlare di Riace), la soppressione dell’iscrizione anagrafica con pesanti e concrete conseguenze, l’esclusione all’iscrizione del servizio sanitario nazionale e la revoca di cittadinanza per reati gravi».

Ricordiamo che come missionari

  • Siamo impegnati anzitutto nei paesi di provenienza dei migranti a sostenere tutta una serie di attività orientate a garantire alla gente di quei paesi il diritto di restare nella loro terra;
  • siamo impegnati in Italia con la Chiesa italiana e le sue organizzazioni (Caritas, San Vincenzo, Uffici Migrantes e quanto altro) in una miriade di iniziative a favore dei migranti con l’impegno di personale con grande esperienza di servizio ai popoli più diversi;
  • tramite le nostre riviste offriamo una informazione puntuale, corretta, approfondita e documentata sul fenomeno migratorio senza fare di questo uno strumento di propaganda.

Invitiamo le nostre consorelle e i nostri confratelli

  • a esprimersi con chiarezza su questa realtà, anche a rischio di diventare impopolari;
  • a sostenere tutte le iniziative della Chiesa locale sul territorio per venire incontro a coloro che soffriranno (e già soffrono) le conseguenze di questo decreto;
  • a firmare l’appello pubblicato da padre Alex su Change.org e qui sotto riportato.

CIMI e Fesmi

 



Testo dell’appello di padre Alex Zanotelli

«Il 27 novembre 2018 sarà ricordato come il Martedì Nero della Repubblica italiana perché il Parlamento ha trasformato in legge il Decreto Sicurezza che è in netta contraddizione con i principi della nostra Costituzione. E questo è avvenuto senza una discussione parlamentare e senza la possibilità di inserire emendamenti.
Altro che centralità del Parlamento! È un brutto segnale per la nostra democrazia!

Infatti il Decreto Sicurezza è una legge repressiva anche nei confronti degli italiani. Rende reato, per esempio, il blocco delle strade o delle ferrovie (strategia nonviolenta attiva), proibisce l’assembramento di persone (elemento costitutivo della stessa democrazia), impone il daspo e gli sgomberi. È forse l’inizio di un sistema poliziesco guidato dall’uomo forte?

Ma la gravità di questo Decreto sta nel fatto che nega i principi di solidarietà e di uguaglianza che sono alla base della nostra Costituzione. Infatti questo Decreto prevede per i migranti l’abolizione della protezione umanitaria, il raddoppio dei tempi di trattenimento nei Centri per il Rimpatrio (CPR), lo smantellamento dei centri SPRAR (Sistema per i richiedenti asilo e rifugiati) affidati ai Comuni (un’esperienza ammirata a livello internazionale, per non parlare di Riace), la soppressione dell’iscrizione anagrafica con pesanti e concrete conseguenze, l’esclusione all’iscrizione del servizio sanitario nazionale e la revoca di cittadinanza per reati gravi.

Trovo particolarmente grave il diniego del diritto d’asilo per i migranti, un diritto riconosciuto in tutte le democrazie occidentali, menzionato ben due volte nella nostra Costituzione. Questa è una legge che trasuda la ‘barbarie’ leghista e rappresenta un veleno micidiale per la nostra democrazia. Di fatto il decreto è profondamente ingiusto perché degrada la persona dei migranti e crea due classi di cittadini, rendendo lo ‘straniero’ una minaccia, un nemico e sancendo così la nascita del ‘tribalismo’ italiano, come lo definisce G. Zagrebelsky. Anzi crea l’apartheid giuridica e reale. E questo conduce alla separazione e la separazione è peccato. Per di più questo Decreto che si chiama sicurezza, ma sicurezza non offre, perché moltiplicherà il numero dei clandestini e degli irregolari che verranno sbattuti per strada. E l’effetto è già sotto i nostri occhi: tre migranti su quattro si sono visti negare l’asilo, migliaia di titolari di un permesso di soggiorno sono stati messi alla porta, circa quarantamila usciranno dagli SPRAR. E sono spesso donne con bambini che hanno attraversato l’inferno per arrivare da noi! Così entro il 2020 si prevedono oltre 130.000 irregolari per strada. E gli irregolari verranno rinchiusi nei nuovi lager, i CPR. A questi verrà ingiunto, entro sette giorni, di ritornare nei loro paesi. Ma né i migranti né il governo hanno i mezzi per farlo. Così rimarranno in Italia mano d’opera a basso prezzo per il caporalato del nord e del sud.

E’ questa la conclusione amara di un lungo cammino xenofobo di questo paese, iniziato con la Turco-Napolitano (i CIE!), seguito dalla Bossi-Fini, dai decreti Maroni e dalla legge Orlando-Minniti, oltre che al criminale accordo di Minniti con la Libia. Questo Razzismo di Stato è poi sfociato in una guerra contro le ONG presenti nel Mediterraneo, per salvare vite umane, e alla chiusura dei porti, in barba a leggi nazionali e internazionali! Non c’è più Legge che tenga, la legge la fa la maggioranza di turno al governo! È in ballo il diritto, la legge, la nostra stessa democrazia. È grave che ora anche il Presidente della Repubblica abbia firmato questo Decreto. Non possiamo più tacere. Dobbiamo reagire, organizzare la resistenza per salvare la nostra comune umanità.

Per questo ci appelliamo a:

  • Corte Costituzionale, perché dichiari il Decreto sicurezza incostituzionale;
  • Giuristi, perché portino queste violazioni dei diritti umani alla Corte Europea di Strasburgo;
  • Conferenza Episcopale Italiana perché abbia il coraggio di bollare questo Decreto e la politica razzista di questo governo come antitetici al Vangelo;
  • Istituti missionari, perché facciano udire con forza la loro voce, mettendo a disposizione le loro case per ‘clandestini’ come tante famiglie in Italia stanno facendo;
  • Parroci, perché abbiano il coraggio di offrire l’asilo nelle chiese ai profughi destinati alla deportazione, attuando il Sanctuary Movement, praticato negli USA e in Germania;
  • Responsabili degli SPRAR, CAS e altro, perché disobbediscano, trattenendo nelle strutture i migranti, soprattutto donne con bambini;
  • Medici, perché continuino a offrire gratuitamente servizi sanitari ai clandestini;
  • Cittadinanza attiva, perché in un momento così difficile e buio, si oppongano con coraggio a questa deriva anti-democratica, xenofoba e razzista anche con la ‘disobbedienza civile’ così ben utilizzata da Martin Luther King che affermava: «L’individuo, che infrange una legge perché la sua coscienza la ritiene ingiusta ed è disposto ad accettare la pena del carcere per risvegliare la coscienza della comunità riguardo alla sua ingiustizia, manifesta in realtà il massimo rispetto per la legge!»

Coraggio, inizia ora la Resistenza civile!

Alex Zanotelli

Napoli, 4 dicembre 2018

 




AIUTIAMOLI A CASA LORO /1


Dal sentito dire al toccare con mano, dai facili slogan alla conoscenza della realtà. “Aiutiamoli a casa loro” è una facile risposta quando non solo non si conosce, ma addirittura si tenta di allontanare un problema. Per noi è una provocazione che porta a impegnarci per una vera conoscenza della realtà.

Iniziamo un percorso di conoscenza delle realtà e dei paesi del mondo affinché possiamo comprendere bene che “casa loro” è già a casa nostra: dai prodotti dell’agroalimentare ai minerali, dal “land grabbing” al turismo… tante, tantissime materie prime che il mondo occidentale usa quotidianamente, che provengono da altrove e che troppo spesso sono frutto di sfruttamento più che di scambio alla pari, generando così anche conflitti che di volta in volta sono tacciati di essere scontri tribali o di religione, ma che, purtroppo, sottostanno a un potere economico delle nazioni ricche e delle loro multinazionali.

In questo primo appuntamento (Modica, Domus S. Petri – mercoledì 7 novembre 2018) desideriamo renderci conto delle tantissime risorse provenienti dai “paesi del terzo mondo” la cui economia però è gestita essenzialmente dai “paesi del primo mondo”, casa nostra appunto!

Padre Gianni Treglia
Comunità Missionaria Intercongregazionale di Modica

Incontro su “Aiutiamoli a Casa loro” /1 nella Domus Sancti Petri di Modica il 7 novembre 2018 con Mohamed Ba, senegalese, organizzato dalla Comunità missionaria intercongregazionale.


Si parla di immigrazione, se ne parla spesso. Purtroppo, ci si concentra solo sulla presenza dello straniero sulle nostre terre, vicino alle nostre case… e l’altro, il diverso, il forestiero, lo straniero di cui non conosciamo nulla, solo e semplicemente perché diverso, ci fa paura, è altro da noi, è altro da me. La nostra “sicurezza” si sente minacciata, il timore di rimanere espropriati del proprio buon vivere diventa ansia e questo genera in noi un istinto di protezione da cominciare a ergere muri, barriere, divisori e divisioni, col solo risultato, però, di non vivere sereni, di morire isolati.

Parlare di numeri, offrire statistiche, dati reali che dovrebbero demolire il pensiero di una “invasione dello straniero”, sembra non bastare ad arginare la percezione dell’uno che diventa cento, del due che sembra ventimila! Non volendo però passare per gente cattiva, men che meno razzisti, ci si rifugia in facili slogan: sarebbe bello che ognuno potesse vivere serenamente nei propri luoghi di origine, dove è nato e cresciuto, quindi “Aiutiamoli a casa loro”.

Se questo slogan nascondesse anche una buona intenzione da parte di chi lo pronuncia (più verosimilmente è un tentativo di allontanare e non volere il problema), cosa effettivamente significa? Basterebbe offrire un contributo economico ai paesi di provenienza degli stranieri per non averli più a casa nostra? Casa loro e casa nostra, qual è la distanza, quale l’interdipendenza? Forse che casa loro non è già presente a casa nostra nelle “cose” che usiamo? Quanto di casa nostra siamo proprietari a casa loro?

Aiutiamoli a casa loro! Il facile modo di dire, nato più dal sentito dire che da una reale volontà di fare qualcosa, diventa per noi, Comunità Missionaria Intercongregazionale di Modica, occasione per dare inizio a Percorsi di formazione all’Accoglienza e all’Integrazione, offrendo spunti di riflessione che conducano a una reale conoscenza dell’altro, dello straniero. Temi che ci facciano scoprire i popoli e le nazioni del mondo, la mobilità umana e le sue ragioni di cui, forse inconsapevoli, ne facciamo pienamente parte.

Il primo appuntamento di tali percorsi ci ha visti presenti in alcune classi di due scuole superiori di Modica, l’Istituto G. Verga e il Liceo Scientifico Galilei-Campailla, e in un incontro pubblico presso la Domus S. Petri, sempre a Modica.

L’Africa, la cui estensione è oltre tre volte superiore all’Europa, è fonte di immense risorse naturali, ricchissimo quindi per natura: petrolio, oro, diamanti, coltan, cotone, caffè, frutta… solo per citare qualcosa. Eppure, nell’immaginario collettivo, l’Africa è vista come il paese della povertà. Perché? In questo primo incontro si è cercato di rispondere proprio a questa domanda, perché? Perché tanta povertà in luoghi così ricchi?

Scoprire che tanta ricchezza è quotidianamente usata a “casa nostra”, dal caffè che mi risveglia al mattino al carburante che mi permette di usare l’auto, dalla maglietta bella che indosso al gioiello che porgo in regalo, forse non è novità. Sapere che tanta ricchezza non solo è usata a “casa nostra”, ma “casa nostra” ne è anche il proprietario “a casa loro”, forse non conviene dirlo ad alta voce. Proprio questo “inconveniente”, invece, dovrebbe stimolare le coscienze a pensare che per aiutarli a casa loro occorre una conversione nel senso della redistribuzione, della restituzione, della giustizia a partire da casa nostra.

La riflessione e testimonianza di Mohamed Ba, attore, scrittore, musicista, educatore, senegalese da vent’anni in Italia, ha aiutato giovani e adulti a ripercorrere secoli di presenza occidentale in Africa, presenza che ha via via generato schiavitù, colonialismo, accaparramento, sfruttamento… in nome di una sfrenata corsa al possedere che ci porta tutt’oggi a pensare che “chi non ha non è”. Senza alcuna vena rivendicativa ha invitato a fare memoria di tutto questo proprio per non ripetere gli errori commessi, piuttosto dare inizio a una nuova generazione che sappia cogliere le diversità come ricchezza, che sappia porre la persona al centro, prima dei beni materiali. Accogliere diventa così arricchimento e non più paura di perdere cose, casa e libertà. Accogliere l’altro ci fa diventare quello che realmente siamo, umani!

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