L’epopea dei migranti centro americani all’epoca di Trump

Sommario


Testo e foto di di Simona Carnino


Reportage da una carovana migrante

Umanità in movimento

Honduras, El Salvador, Guatemala, Nicaragua. Da questi paesi partono, senza sosta, donne, uomini, famiglie intere, con l’obiettivo di raggiungere gli Stati Uniti. Gente normale, in cerca di un futuro migliore, un sogno che sembra a portata di mano. Ma il viaggio è duro e pieno d’insidie. Così capita che si uniscano in decine, centinaia, diventando delle vere carovane migranti. Siamo andati in mezzo a loro.

Juan Rodríguez Clara, stato di Veracruz, Messico. Esmeralda si toglie le scarpe e le allinea vicino al materassino da campo, poi si siede sul suo sacco a pelo. Si prepara a trascorrere la notte in uno dei punti tappa che alcuni volontari messicani hanno organizzato lungo il cammino per chi, come lei, viaggia insieme a una delle carovane di migranti che dal Centro America si dirigono verso gli Stati Uniti.

Esmeralda ha trovato un angolo di pace tra una colonna e il muro di uno dei magazzini che a Juan Rodríguez Clara, un piccolo centro abitato nello stato di Veracruz in Messico, in genere sono adibiti alla fiera annuale dei bovini di allevamento. È una tappa di passaggio, ma è un luogo coperto in cui è possibile dormire e farsi una doccia. Divide il suo letto da campo con il marito Carlos, le sue due figlie gemelle Cecilia e Maria di 18 anni e il suo figlio maggiore Erin di 20 anni.

Le scarpe sono il bene più importante di Esmeralda. Nel suo piccolo zaino c’è spazio per due cambi di biancheria intima, due paia di pantaloni, due t-shirt e una felpa imbottita. Esmeralda sa che è meglio avere un indumento caldo, perché nelle zone desertiche del Messico, se di giorno il termometro può toccare i 35 gradi, la notte le temperature si irrigidiscono all’improvviso.

La mattina si sveglia prima che il sole sorga e prepara la sua borsa, arrotola il materassino e lo avvolge insieme al sacco a pelo in un unico fagotto che lega intorno alla testa. «In questo modo ho le mani libere per portarmi dietro una bottiglia d’acqua», dice ridendo.

Esmeralda è partita il 31 ottobre 2018 da San Salvador alla volta degli Stati Uniti, insieme a 2mila connazionali, uno dei molti gruppi di migranti che, in quel periodo, si sono organizzati in carovane per attraversare il Messico e raggiungere la frontiera Nord. Esmeralda non ha una destinazione chiara in mente. Sa solo che in Salvador non vuole tornare.

Carovane: organizzazione spontanea

«Un giorno, mentre navigavo su Facebook, ho visto che alcuni miei connazionali si davano appuntamento in piazza Salvador del Mundo, al centro di San Salvador, per partire insieme verso gli Stati Uniti – racconta Esmeralda -. Io e mio marito abbiamo spesso pensato di lasciare il nostro paese, ma non si era mai presentata un’occasione favorevole. Appena saputo della carovana, abbiamo fatto i bagagli e siamo partiti con i nostri figli».

La carovana che si è messa in marcia il 31 ottobre, è stata la quarta di un ciclo di migrazioni massive che si sono verificate tra ottobre e novembre del 2018 da Honduras, Salvador e Guatemala, i tre paesi dell’area denominata Triangulo norte centroamericano, la regione di origine della maggior parte del flusso migratorio latinoamericano diretto verso gli Stati Uniti.

La prima carovana è partita il 18 ottobre da San Pedro Sula in Honduras e a ruota sono seguiti tre gruppi partiti dal Guatemala e dal Salvador. Diecimila persone hanno deciso di autogestire il proprio viaggio, invece di affidarlo alle reti del traffico di persone dei coyotes (come vengono chiamati i trafficanti, ndr), che si occupano tradizionalmente del trasbordo di persone dal Sud verso il Nord America. «Sembra un numero enorme, ma se consideriamo che in Messico transitano più di 400mila persone all’anno, si tratta di un flusso equivalente a circa 10 giorni – spiega Marta Sanchez Soler, presidentessa del Movimento migrante mesoamericano -. La novità è che i migranti della carovana hanno deciso di essere visibili e viaggiare in forma più sicura ed economica, rifiutandosi di pagare un alto prezzo a un trafficante per poter arrivare negli Stati Uniti».

Migrare in gruppo è diventato uno nuovo modo di viaggiare per molte persone centroamericane, che si sentono più protette dalla minaccia di estorsioni e sequestri da parte dei narcotrafficanti e a volte degli stessi coyotes, che hanno trovato nella migrazione di migliaia di centroamericani una fonte di guadagno.

Le carovane sono un porto sicuro in particolare per famiglie, donne e bambini che sono più esposti a violazioni dei diritti umani sulla tratta migratoria messicana. Più del 50% delle persone che migrano in gruppo sono famiglie spesso con minori di età inferiore ai 5 anni. Dal 2018 la migrazione dal Centro America, storicamente rappresentata da uomini soli, ha il volto delle famiglie, come dimostrato dai dati delle detenzioni sulla frontiera con gli Stati Uniti. Nei primi sei mesi dell’anno fiscale 2019 (ottobre 2018 – marzo 2019) le pattuglie di frontiera statunitensi hanno detenuto 189.584 famiglie. Il più alto dato di sempre.

La frontiera

«Viaggiare in carovana è più sicuro che migrare con i coyotes – continua Esmeralda -. Ma è ugualmente molto duro e faticoso. A volte camminiamo dalle 10 alle 12 ore sotto il sole, altre volte facciamo l’autostop. Il momento più difficile è stato superare la frontiera tra Guatemala e Messico. Non potevamo passare sul ponte perché non avevamo il visto e allora abbiamo attraversato la frontiera nel fiume. La polizia ha cercato di fermarci, ma eravamo tantissimi e non c’è riuscita».

In America Latina, i migranti che non possono dimostrare i requisiti economici necessari per ottenere un regolare visto di entrata in Messico e Stati Uniti e che quindi devono muoversi di nascosto sulla rotta terrestre, usano l’espressione «irse de mojado» che letteralmente significa «viaggiare da bagnati», perché sanno che dovranno attraversare a nuoto dei fiumi per superare le frontiere. Il confine tra Stati Uniti e Messico è rappresentato, per una lunghezza di 3.034 km, dal Rio Bravo, mentre tra Guatemala e Messico è il fiume Suchiate a segnare una parte di frontiera per 161 km.

«A volte credo che una parte di me sia rimasta nel fiume Suchiate – racconta Cecilia, la figlia di Esmeralda -. Le gambe affondavano nel fango e non avevo energia né per andare avanti né per tornare indietro. Alcuni pescatori ci hanno aiutate, ma quell’esperienza mi ha segnata per sempre».

Sequestri e desaparicion

Camminare non è l’unico modo in cui si muove la carovana. Molti migranti hanno, infatti, provato a fare l’autostop e chi ha qualche soldo ha comprato un biglietto del bus. Numerosi camionisti si sono resi disponibili a dare un passaggio a gruppi di migranti, aiutandoli a compiere alcuni tratti di strada. A fine ottobre 2018, sebbene la migrazione in gruppo renda meno vulnerabili i migranti di fronte a violenze ed estorsioni, un camionista ha rapito 50 persone, e il furgone, con il suo carico di esseri umani, è scomparso nel nulla nella regione di Veracruz, a ovest del Messico. «Il sequestro di migranti è un affare multimilionario per i cartelli del narcotraffico che gestiscono il traffico di merci, di droga e, oggi, anche le rotte migratorie – spiega il difensore dei diritti umani padre Alejandro Solalinde (si veda MC ottobre 2017) incontrato in mezzo alla carovana -. Le persone che non hanno accesso a un visto sono invisibili e obbligate ad attraversare il Messico in punti isolati, purtroppo spesso controllati da narcos e briganti, per non essere catturate dalla polizia dell’Istituto nazionale di migrazione messicano che le può deportare nel paese di origine. Ogni 6 mesi si verificano 10mila sequestri di migranti, con un’entrata economica per il narcotraffico di 25 milioni di dollari al semestre».

Il sequestro dei migranti è una pratica realizzata negli ultimi anni in particolare dal gruppo di narcotraffico denominato Los Zetas e dal cartello del Golfo. Nonostante le condizioni economiche precarie dei migranti che viaggiano sulle rotte della clandestinità, in genere i narcotrafficanti richiedono un riscatto di 10mila dollari a persona che le famiglie nel paese di origine provano a pagare contraendo debiti con conoscenti, parenti e con le banche che spesso si appropriano delle loro case e terreni in caso di mancata restituzione del prestito. Chi non riesce a pagare il riscatto rischia di non vedere mai più il proprio caro che spesso viene ucciso.

Esmeralda e la sua famiglia sono consapevoli dei rischi del percorso migratorio, ma non vogliono tornare indietro. «San Salvador è una città pericolosa – ricorda Esmeralda -, ogni giorno c’è un omicidio. Tutti noi salvadoregni abbiamo un parente che è stato ucciso dalle bande criminali e non voglio che questo accada ai miei figli».

La vita in Salvador: las pandillas

Eriberto ha 22 anni e annuisce con la testa. Sta sistemando il suo piccolo bagaglio e intanto ascolta in silenzio le parole di Esmeralda. Il suo bene più importante è un inalatore. Eriberto ha l’asma e prima di partire si è comprato tre spray predosati, convinto che sarebbero stati una scorta sufficiente per il viaggio. È timido e rimane un po’ in disparte. Il suo sguardo è basso e il suo dolore è stretto tra le labbra che mordicchia nervosamente. «Avevo un autolavaggio a San Salvador – inizia a raccontare il ragazzo -. Poi le bande criminali mi hanno chiesto il pizzo. Non ho pagato. Ho chiuso il negozio per un po’ e quando l’ho riaperto due persone sono entrate e hanno ucciso un mio cliente. Poi non gli è bastato e hanno ammazzato anche mio fratello».

Secondo il Consiglio nazionale della piccola impresa del Salvador, il 92% del settore imprenditoriale è vittima di estorsione da parte di due bande criminali, las pandillas Mara Salvatrucha MS-13 e Barrio 18 (si veda dossier su MC aprile 2016). Le due fazioni sono antagoniste e alimentano una guerra intestina giocata sulla pelle dei cittadini che spesso si trovano coinvolti in sparatorie tra le vie della città. Il Salvador chiude il 2018 con un tasso di 51 omicidi ogni 100mila abitanti, un numero sicuramente inferiore alle quasi 83 morti violente ogni 100mila persone del 2016, ma si tratta comunque di una cifra superiore ai 10 omicidi ogni 100mila che, secondo i parametri dell’Organizzazione mondiale della Sanità, è il limite sopra il quale la violenza è considerata endemica. Il Salvador è uno dei paesi, dove non è presente un conflitto armato, più pericolosi del mondo insieme a Honduras e Guatemala. Molte ragazze e ragazzi tra i 12 e i 16 anni sono obbligati ad affiliarsi a una delle due bande criminali. Rifiutarsi equivale a dichiarare guerra al clan e la punizione è la morte.

Le due pandillas Mara Salvatrucha MS-13 e Barrio 18 sono nate negli Stati Uniti tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. I loro membri storici erano migrati in America del Nord negli anni precedenti e durante la guerra civile degli anni Ottanta. Con l’inasprimento delle politiche migratorie statunitensi degli anni Novanta, molti criminali sono stati deportati in Centro America, con un aumento di violenza nei paesi di origine.

La carovana e i diritti Lgbti

Tra i gruppi più vulnerabili alle violenze delle pandillas rientrano le persone appartenenti alla comunità Lgbti (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali, ndr). Eriberto non nasconde il suo orientamento sessuale e racconta le violenze subite per il fatto di essere stato un membro attivo della comunità lgbti nella capitale salvadoregna. Negli ultimi tre anni sono state assassinate 145 persone della comunità gay, secondo i dati dell’ufficio della Diversità sessuale del governo del Salvador. Numeri simili sono registrati anche in Honduras e Guatemala, dove la diversità sessuale deve fare i conti con la discriminazione e l’intolleranza che affonda le sue radici in schemi tradizionali e patriarcali. «Sono circa 700 le persone omosessuali partite con le carovane negli ultimi due mesi – continua Eriberto -. Tutti noi vorremmo chiedere asilo politico negli Stati Uniti o in Canada».

Da quando il presidente Donald Trump ha dichiarato di voler attuare una politica di tolleranza zero contro l’immigrazione illegale, alcuni migranti hanno deciso di provare ad attraversare clandestinamente gli Stati Uniti per raggiungere il Canada. Secondo i dati dell’Unhcr, nel 2017 il Canada ha registrato 47.800 richieste di asilo politico, il doppio rispetto all’anno precedente. Nel 2019, il governo degli Stati Uniti ha affermato che verranno accolti non più di 30mila rifugiati politici, a fronte di un tetto di 45mila per l’anno 2018. Coloro che non ricevono un permesso per rimanere negli Usa sono deportati nel paese di origine.

Nonostante la politica di tolleranza zero di Trump sembri bloccare le strade all’arrivo di nuovi migranti, il flusso centroamericano è in continuo aumento. Per molte persone ha più peso la volontà di fuggire dai propri paesi che il timore di essere rifiutati nello stato di destinazione. E quindi se anche molti sanno che forse non riusciranno a ottenere un permesso, sperano di superare il confine di notte, senza essere intercettati dalle pattuglie di frontiera statunitensi, per poi sparire da qualche parte negli Stati Uniti dove si augurano di non incrociare mai un agente che chieda loro i documenti.

La deportazione dei migranti, attività svolta anche dall’amministrazione Obama e dai presidenti precedenti, avviene non solo in frontiera, ma anche dall’interno del paese. Può succedere che una persona viva anni negli Stati Uniti senza una regolare documentazione e, in seguito a un illecito, anche minore, come per esempio un eccesso di velocità, sia identificato e deportato nel paese d’origine.

Secondo l’ultima statistica del Pew Research Center del 2016, 10,7 milioni di persone considerate irregolari vivono, lavorano e hanno costruito la propria vita negli Stati Uniti. Circa 4 milioni di bambini americani sono nati da genitori senza documenti, i quali non possono richiedere una regolarizzazione del proprio status migratorio per motivi di famiglia. Lo sa bene Teresa. Una donna salvadoregna di 29 anni che viaggia nella carovana da sola. Il suo bene più importante è una foto delle sue tre figlie che vivono negli Usa.

 

I figli statunitensi

Teresa è partita per gli Stati Uniti nel 2006. È riuscita a superare la frontiera senza essere intercettata dalla polizia ed è arrivata in Virginia. Ha lavorato come cameriera in un fast food fino al 2017. Teresa non è mai riuscita a ottenere un visto lavorativo, né la green card (permesso di lavoro, ndr). Durante gli 11 anni di vita negli Stati Uniti ha avuto tre figlie che sono americane, perché negli Stati Uniti vige lo Ius soli, il diritto alla cittadinanza di un paese per nascita sul suo territorio. Il 14esimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, approvato nel 1868, infatti recita che «tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggette alla sua giurisdizione, sono cittadine degli Stati Uniti e dello stato in cui risiedono». Il presidente Donald Trump ha pubblicamente dichiarato l’intenzione di battersi per l’abolizione dello Ius soli che interpreta come un incentivo alla immigrazione illegale, ma secondo un sondaggio condotto dal Wall Street Journal, il 65% degli statunitensi si è detto in disaccordo con lui.

«Sono felice che le mie bambine siano americane – racconta Teresa con la tenerezza che emerge dal sorriso -. Possono viaggiare in tutto il mondo e non devono vivere una vita come la mia». Nel 2017 Teresa è dovuta ritornare in Salvador per un’emergenza famigliare. Ha messo le sue figlie su un aereo e lei è tornata via terra, perché i controlli aeroportuali avrebbero svelato la sua mancanza di documenti. «Mi mancavano molto il Salvador e i miei affetti – racconta Teresa -. Ho colto l’occasione per capire se fosse possibile ritornare a vivere lì con le mie figlie. Siamo rimaste tre mesi, poi un giorno ho assistito a un omicidio per la strada e ho testimoniato in tribunale. Da lì ho capito che non sarei stata più sicura e ho rimandato le mie figlie negli Stati Uniti. Ora viaggio nella carovana perché voglio assolutamente tornare da loro che sono in Virginia con il loro padre».

Esmeralda, Eriberto e Teresa e tutti i migranti che non solo viaggiano in carovana, ma che ogni giorno migrano sulle rotte messicane con un coyote, sono uniti dallo stesso obiettivo. La volontà di cambiare, di migliorarsi, di vivere la vita che non hanno potuto costruire in un paese piegato dalla violenza, dalla precarietà e dall’abbandono da parte delle istituzioni. E non c’è un muro reale o virtuale che li può fermare. La violenza della polizia, il rischio di essere sequestrati dai narcos o la retorica anti migrante del governo degli Stati Uniti non sono motivi sufficienti a far cambiare i piani a chi ha deciso di lasciare la sua terra di origine.

E allora si torna a camminare. Teresa mette le foto delle sue tre bambine in un piccolo marsupio che appende al collo. La strada è ancora lunga. L’obiettivo è Tijuana e poi da lì si separeranno. Nei pressi della frontiera statunitense, le carovane si disgregano perché, quando è ora di attraversare la frontiera, tutti sanno che dovranno farlo in maniera nascosta e allora per sé. Eriberto ed Esmeralda sono convinti di voler chiedere asilo, ma Teresa sa già che è molto difficile ottenerlo. Lei pagherà qualcuno che la aiuti a fare l’ultimo pezzo di viaggio e la porti in Virginia. Perché deve arrivare a tutti i costi. «O sì o sì», come si dice in America Latina quando si è determinati a ottenere qualcosa. Non c’è spazio per l’opzione inversa. Teresa crede così.

Tijuana e oblio

Da novembre 2018 a oggi, Tijuana, città di frontiera, è diventata il punto nel quale i migranti della carovana aspettano prima di chiedere asilo negli Stati Uniti. Tijuana è un’area geografica controllata dal narcotraffico per la sua posizione strategica per il traffico di droga verso gli Stati Uniti.

Da gennaio 2019, l’amministrazione Trump ha proposto una nuova misura di contenimento della migrazione, denominata «Protocolli di protezione ai migranti». Stabilisce che i richiedenti asilo devono aspettare la conclusione del procedimento legale in territorio messicano. Nell’attesa, alcuni migranti hanno richiesto un visto umanitario in Messico e molti lo hanno ottenuto. Dal 1 dicembre 2018 il presidente messicano è Andrés Manuel López Obrador, che ha favorito la consegna di circa 10mila visti umanitari a migranti centroamericani che desiderano rimanere in Messico. Il governo di Obrador apparentemente dimostra una discontinuità rispetto all’amministrazione di Enrique Peña Nieto, tuttavia al momento non è stato smantellato l’Istituto nazionale di migrazione messicano che continua a esistere con 50 stazioni migratorie disposte sull’intero territorio nazionale, dove i migranti rischiano di essere incarcerati, prima di essere deportati. Fino a oggi, infatti, il Messico ha seguito le stesse direttive migratorie degli Stati Uniti e rappresenta il primo posto di blocco per i migranti senza documenti diretti in America del Nord. Viene chiamata frontiera verticale, perché tutto il territorio messicano è disseminato di centri di controllo migratorio.

A Tijuana si sono perse le tracce di molti migranti delle carovane. Qualcuno sarà arrivato a destinazione, riuscendo a evitare i controlli frontalieri. Qualcuno forse avrà deciso di rimanere in Messico e di provare a chiedere asilo in quel paese. Qualcuno sarà stato deportato nel suo stato d’origine dalle autorità statunitensi. Altri ancora vivono a Tijuana, in attesa di una risposta alla loro richiesta d’asilo.


La storia di Wilson, Francisco, Sabina

Nell’aprile del 2018, il governo degli Stati Uniti dichiarò di voler applicare una politica di tolleranza zero e perseguire penalmente tutti i migranti entrati senza documenti in territorio statunitense.

Le separazioni delle famiglie, catturate mentre provavano a superare la frontiera, sono state una delle conseguenze più dure dell’applicazione della politica di contenimento della migrazione considerata illegale. La pratica prevedeva che i genitori, in quanto maggiorenni, fossero trasferiti in carcere in attesa del processo. I bambini, invece, erano inviati in centri appositi per minori.

«Quando mi hanno strappato dalle braccia mio figlio Wilson di 7 anni, gli agenti della polizia di frontiera non mi hanno neppure detto dove lo avrebbero portato – ricorda Francisco Raymundo Bernal, giovane papà guatemalteco -. Wilson piangeva e anche io, ma in pochi minuti è scomparso dalla mia vista e io non sapevo cosa fare. La polizia mi diceva di stare zitto, perché mio figlio sarebbe stato bene, mentre io sarei andato in prigione». La storia di Francisco e Wilson è simile a quelle di altre famiglie centroamericane, che a partire da aprile 2018 hanno vissuto sulla propria pelle una delle conseguenze più dolorose della politica di tolleranza zero.

«Da aprile a settembre 2018, 6mila unità famigliari sono state separate in frontiera – spiega Carolina Jimenez di Amnesty International Las Americas -. Si tratta di tortura vera e propria che ha generato dei traumi insostenibili per i genitori e per i minori. E se per separare le famiglie è bastata una manciata di minuti, per poterle riunificare, invece, sono serviti mesi».

Il 20 giugno 2018, il presidente Donald Trump, sotto la pressione della comunità internazionale e di alcuni democratici del Congresso Usa, ha revocato la pratica di separazione delle famiglie con un ordine esecutivo, tuttavia, la procedura ha continuato a esistere fino a marzo 2019. La riunificazione delle famiglie è stata un procedimento complicato, perché il numero delle persone coinvolte era molto alto e la separazione è avvenuta in maniera frettolosa, aspetto che ha reso molto difficile dimostrare, successivamente, le parentele.

«Ho potuto parlare con mio figlio dopo tre settimane che ci avevano separato – spiega Francisco, il padre di Wilson -. Ero in carcere e mi stavano processando per poi deportarmi. Io volevo che mi rimandassero in Guatemala con mio figlio, ma non è stato così. Lui è ritornato a casa molto dopo di me».

Per poter riunificare le famiglie, le autorità migratorie statunitensi richiedono ai famigliari tutti i documenti anagrafici necessari per dimostrare la paternità. La madre di Wilson, che si trovava in Guatemala, ha dovuto cercare documenti non facili da reperire nel villaggio di cui sono originari. Le pratiche anagrafiche hanno un alto costo, aspetto che ha reso ancora più complicata e lunga la riunificazione.

«Ho fatto di tutto per riavere mio figlio tra le mie braccia – spiega Sabina Brito, la mamma di Wilson -. Ho mandato negli Stati Uniti diversi documenti, ma ci sono voluti 5 mesi prima di poter rivedere Wilson che è rimasto da solo per tutto quel tempo».

Wilson ha vissuto da settembre 2017 a fine gennaio 2018 in un centro per minori in Michigan. I genitori di Wilson, che avevano pensato di migrare in due gruppi, prima il papà con il bambino e, in una seconda fase, la mamma con la secondogenita, hanno saputo del luogo in cui è stato tenuto in custodia Wilson quasi un mese dopo la separazione.

Oggi Wilson vive in Guatemala con i suoi genitori, che stanno provando a ricrearsi una vita nel loro villaggio. «La ferita di questa vicenda non si può rimarginare – spiega Francisco -. Ora stiamo provando a sopravvivere qui, ma il lavoro è poco e malpagato. Non torneremo negli Stati Uniti, ma spesso pensiamo di migrare in Europa o, chissà, in Canada, perché qui non riusciamo a guadagnare sufficientemente per far studiare i nostri figli».


Il potere del passaporto

Molti centroamericani fanno domanda di visto per gli Usa. Ma per i poveri, gli indigeni, i senza reddito, è praticamente impossibile ottenerlo. E i loro passaporti non sono sufficienti per transitare in Messico, Stati Uniti e Canada. Viaggio in Guatemala, tra i Maya Ixil, per raccontare storie di chi ha tentato di rincorrere il sogno.

Nebaj, provincia di Quiché, Guatemala. Era un giorno di primavera in Guatemala. L’aria era calda e il cielo terso, come quasi sempre nei giorni della Semana Santa che precedono Pasqua.

Erano settimane che Petrona stava aspettando una risposta. Era emozionata e fiduciosa.

Qualche tempo prima, aveva fatto richiesta di un visto per viaggiare regolarmente verso gli Stati Uniti. In quell’occasione, era stata intervistata sulle sue motivazioni da un impiegato dell’ambasciata statunitense. Alla fine dell’incontro, il funzionario le aveva fissato un nuovo appuntamento per ricevere l’esito della sua domanda.

Nei progetti di Petrona c’era una vita statunitense, di duro lavoro, ma anche di tante soddisfazioni. Immaginava una terra nuova, dove poter guadagnare sufficientemente da riuscire, un giorno, a ritornare in Guatemala, costruire una casa per la sua famiglia e aprire una piccola attività commerciale. In più, il suo fidanzato, originario come lei della regione maya ixil nel Guatemala occidentale, era negli Stati Uniti da due anni e lei non vedeva l’ora di raggiungerlo.

Il giorno della risposta, Petrona si era svegliata alle 2 del mattino per essere sicura di salire sulla prima corriera e arrivare in tempo al suo appuntamento all’ambasciata degli Stati Uniti. «Ero piena di speranza – racconta Petrona -. Ma quando l’impiegato mi ha chiamato, mi ha semplicemente consegnato dei fogli e mi ha detto che mi era stato negato il visto. Non mi ha spiegato nient’altro. Io non capivo perché e dalla disperazione ho rotto i fogli e mi sono messa a piangere. A quel punto ho capito che avrei dovuto trovare un altro modo per andare negli Stati Uniti».

Secondo i dati del 2017 dell’Organizzazione mondiale per le Migrazioni (Oim), solo un 21,3% dei guatemaltechi che vive negli Stati Uniti ha viaggiato verso il paese in aereo, con un regolare visto. Tutti gli altri hanno attraversato le frontiere terrestri per entrare in Messico e, in seguito, negli Stati Uniti.

Passaporti e visti: asimmetrie

Senza visto, a poco vale possedere un passaporto del Guatemala, Honduras, Salvador o Nicaragua, se l’intenzione è viaggiare verso gli Stati Uniti. Le persone centroamericane che intendono muoversi legalmente verso il Nord devono richiedere un visto direttamente alle ambasciate dei paesi di destinazione, che decidono chi ha accesso ai propri paesi sulla base di alcuni requisiti. Per transitare in Messico si può richiedere un permesso direttamente all’ambasciata del paese oppure mostrare alla frontiera un visto statunitense, che è accettato anche in territorio messicano.

«Per ottenere un visto regolare per transitare in Messico e Stati Uniti bisogna dimostrare alcuni requisiti economici, tra cui avere un lavoro formale con uno stipendio regolare e possedere alcune proprietà come casa, terreni e automobile – ci spiega Ursula Roldàn Andrade, coordinatrice dell’area migrazioni dell’Istituto di ricerca sociale dell’Università Rafael Landívar di Città del Guatemala -. Per un migrante economico è praticamente impossibile avere o provare tali requisiti e, di conseguenza, ottenere un visto. Se non lo ottiene, è facile che ricerchi modi alternativi per raggiungere gli Stati Uniti, come affidarsi alle reti di trafficanti, ma in questo caso il viaggio è molto caro e rischioso».

Nel mondo contemporaneo, non tutti i passaporti danno ai loro possessori lo stesso potere di circolazione. Nel 2019, ad esempio, con un passaporto degli Stati Uniti è possibile viaggiare liberamente, senza bisogno di visto in 165 paesi, inclusi il Messico e tutti gli stati dell’America Centrale. Al contrario, il movimento dal Sud al Nord è controllato dall’obbligo di visto.

Anche i passaporti europei hanno un elevato potere di circolazione visa free. Secondo i dati del Passport Index 2019, la classifica annuale dei passaporti secondo il loro potere di circolazione senza richiesta di visto, con un passaporto italiano è possibile viaggiare in 166 paesi, così come con quello portoghese, irlandese, olandese o svedese. Con un passaporto siriano, invece, ci si muove liberamente in 37 paesi e con uno afghano in 30. Molti passaporti dei paesi dell’Africa del Nord e centrale forniscono ai loro possessori una possibilità di viaggio molto limitata. Avere un passaporto dal basso potere di circolazione senza  visto non ha un effetto deterrente su chi si sente forzato a migrare, lo obbliga, anzi, ad affidarsi a reti illegali di trafficanti, esponendosi a conseguenze violente per la propria integrità fisica, psicologica e identitaria.

Con un passaporto europeo è possibile viaggiare facilmente anche negli Stati Uniti, usufruendo del Visa Waiver Program con una possibilità di permanenza di 90 giorni. In poche ore si può ottenere l’autorizzazione elettronica Esta a un costo di 14 dollari. Chi usufruisce del visto turistico non può lavorare nel paese, tuttavia ha una possibilità maggiore, seppur le procedure siano alquanto complicate, di modificare il proprio status migratorio in loco, magari ottenendo un visto lavorativo o di studio, rispetto a chi entra nel paese in forma irregolare.

Quanto costa il viaggio

In media il costo del viaggio dall’America Centrale agli Stati Uniti per chi possiede un visto oscilla tra i 500 e i 1.000 dollari, includendo il prezzo del biglietto aereo e delle pratiche burocratiche per la richiesta del documento. Chi si deve affidare alla rete del traffico di persone gestito dai coyotes paga tra i 12mila e i 15mila dollari per un trasbordo in parte realizzato in camion in parte a piedi. In genere, un viaggio dal Centro America dura tra i 15 giorni e un mese. Negli ultimi anni, i coyotes propongono un pacchetto chiamato «viaggio di tre tentativi sicuri» per un prezzo che si aggira intorno ai 15mila dollari. In questo caso, se il migrante viene catturato dalla polizia di frontiera messicana o statunitense, una volta deportato nel paese d’origine, ha ancora a disposizione due tentativi.

Anche Isabel vive a Nebaj e ha 25 anni. Non conosce Petrona, ma hanno una vita simile. Entrambe hanno tentato di andare negli Stati Uniti. Entrambe sono state forzate a scegliere di viaggiare affidandosi alle reti del traffico gestito dai coyotes. «Non c’era scelta – racconta Isabel -. Io non ho neppure il passaporto perché so che tanto poi non mi danno il visto, per cui non ha senso farselo. Ho speso circa 10mila dollari per il mio viaggio negli Stati Uniti con il coyote e ho dovuto chiedere un prestito a una banca». La maggior parte delle persone che migrano dall’America Centrale non ha la possibilità di pagare il viaggio, per cui richiede prestiti a banche e cooperative, fornendo come motivazione la necessità di ingrandire casa o comprare un terreno. Se viene ottenuto il prestito, la famiglia del migrante deposita sul conto bancario del coyote parte del costo del viaggio alla partenza e il resto all’arrivo.

In alcuni casi i coyotes si trasformano in usurai e permettono ai migranti di rateizzare il costo del viaggio e pagarlo mentre lavorano negli Stati Uniti, a fronte di interessi molto alti. Chi non paga rischia di rimanere indebitato tutta la vita e di perdere, in caso ne abbia, appezzamenti di terreni famigliari e piccole proprietà, aggravando le proprie condizioni economiche.

Perché migrare

«Qui in Guatemala, io ricamo, rammendo vestiti e cucio – racconta Isabel -. Guadagno circa 450 quetzales al mese (58 Usd). Con questi soldi riesco a comprare il cibo per me e mio figlio, ma niente più di questo».

Il Guatemala si situa al nono posto al mondo, e al terzo in America Latina, per disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Questo è evidente nei salari delle donne indigene che, lavorando come tessitrici informali, in genere guadagnano 50 dollari al mese a fronte di un salario minimo nazionale di 350.

«Tre persone su dieci dell’area maya ixil provano a migrare negli Stati Uniti – spiega Francisco Marroquin dell’organizzazione di diritti umani Asaunixil di Nebaj -. Lo stato guatemalteco non si è impegnato a generare nuovi posti di lavoro. Qui non ci sono attività commerciali e le infrastrutture, come le scuole e gli ospedali, sono mal gestite».

Il Guatemala ha vissuto un conflitto armato interno tra il 1960 e il 1996 (vedi MC giugno 2019). L’esercito, appoggiato dagli Stati Uniti, si è scontrato per più di 30 anni contro la guerriglia e la resistenza dei civili. Tra il 1982 e il 1983, l’esercito ha programmato una fase genocida contro il popolo indigeno maya ixil e la quasi completa distruzione del territorio. «Con la firma degli accordi di Pace nel 1996, in teoria lo stato guatemalteco avrebbe dovuto ricostruire le nostre comunità – continua Francisco Marroquin -. Ma purtroppo non ha fatto nulla e la gente ha cominciato a disperarsi e a cercare una via di fuga da qualche altra parte, come lavorare nelle piantagioni o, soprattutto negli ultimi 10 anni, migrare verso gli Stati Uniti».

L’Oim ha confermato un aumento della migrazione femminile guatemalteca in fuga da una situazione economica precaria, e dichiara che il 55,2% della popolazione è spinta a migrare verso gli Stati Uniti per ricerca di lavoro e mancanza di opportunità nelle proprie comunità di origine.

Il cammino in Messico

«Il viaggio attraverso il Messico è stato triste e faticoso – continua Isabel -. I coyotes si approfittano delle donne che viaggiano da sole. A volte obbligano qualche ragazza ad appartarsi e cercano di mettere loro le mani addosso. Una donna in questa situazione cosa può fare? Quando si viaggia con i coyotes non puoi neppure gridare o chiedere aiuto, perché loro comandano e se vogliono ti abbandonano in mezzo al deserto o ti ammazzano».

Nel 2017 la Commissione economica per l’America Latina (organismo Onu, ndr) ha riportato che il 50,1% dei migranti provenienti dalla regione centroamericana sono donne e Amnesty International ha confermato che 6 donne su 10, obbligate ad affidarsi alle reti del traffico umano per raggiungere gli Stati Uniti, sono vittime di violenza sessuale da parte del crimine organizzato e, a volte, anche delle forze di polizia messicana. «L’Istituto nazionale di migrazione messicano ha commesso numerosi crimini contro la popolazione migrante – dichiara Carolina Jimenez, vicedirettrice ricerche di Amnesty International Las Americas -. In particolare, la polizia ha spesso estorto denaro ai migranti e ha collaborato con il crimine organizzato nella gestione del traffico e della tratta».

Il viaggio attraverso il Messico per i migranti senza documento è una sorta di corsa a ostacoli guidata da uno o più coyotes che, in certi punti del viaggio, dividono il gruppo di migranti in sottogruppi, per essere meno visibili alle forze di polizia messicana. Molto spesso le reti di coyotes fanno accordi con i cartelli del narcotraffico che gestiscono le rotte migratorie e pagano una sorta di tangente per transitare nei loro territori, come spesso accade nei dipartimenti di Veracruz e di Tamaulipas.

In alcuni casi vengono consegnati interi carichi di persone ai narcotrafficanti che li usano per richiedere il riscatto ai famigliari. Nel 2010 a San Fernando di Tamaulipas i narcos Los Zetas uccisero 72 persone i cui corpi furono poi impilati uno sull’altro ed esposti alle intemperie perché i famigliari non avevano la possibilità di pagare il riscatto.

«In Messico abbiamo camminato spesso di notte – racconta Petrona -. Dovevamo vestirci di nero in modo che non ci vedesse la polizia. Abbiamo attraversato fiumi, camminato tra le sterpi, ci hanno buttato uno sull’altro in camion bestiami. Poi un giorno, attraversando un fiume, una ragazza che viaggiava con me è caduta e la corrente l’ha trascinata a valle. Avevamo paura, ma andavamo avanti. Dovevamo arrivare negli Stati Uniti».

Ultimamente pochi migranti usano il treno per muoversi dal Sud del Messico fino alla frontiera con gli Stati Uniti. Fino a qualche anno fa, il treno denominato La Bestia era il mezzo di trasporto più frequentato. I migranti si sedevano sul tetto del treno fino alla frontiera con gli Stati Uniti. Oggi non è più utilizzato perché è diventato un mezzo troppo pericoloso. Per scoraggiare l’immigrazione sulle rotte messicane, il governo di Enrique Peña Nieto aveva deciso di aumentare la velocità del treno, rendendo più difficile reggersi. Inoltre, La Bestia era spesso assaltato da narcos e dagli agenti dell’Istituto nazionale di migrazione messicano.

«I narcos organizzavano i sequestri in maniera rapida ed efficiente – commenta il professore e scrittore Rodolfo Casillas della facoltà latinoamericana di scienze sociali (Flacso) -. Con la complicità dei coyotes, tutte le persone che avevano una famiglia in grado di pagare il riscatto e le ragazze giovani che viaggiavano da sole erano fatte sedere nello stesso vagone. Quando i narcos fermavano il treno, sequestravano solo le persone di quel vagone. L’operazione durava pochi minuti e poi il treno riprendeva il suo viaggio».

L’arrivo (non-arrivo) negli Stati Uniti

Superare indenni il Messico non è garanzia di successo del viaggio. «Pensavo di essere arrivata – racconta Petrona -. Dopo aver attraversato la frontiera, ero piena di gioia, ma improvvisamente ci sono venute incontro delle moto e dei quad e abbiamo capito che era la polizia degli Stati Uniti».

Entrare in territorio statunitense senza un regolare visto, è considerato un reato, punito con la detenzione e, in molti casi, la deportazione nel paese d’origine. Da quando il presidente Donald Trump ha iniziato il suo mandato, le misure di contenimento della migrazione considerata illegale si sono indurite. Secondo i dati dell’agenzia statunitense per le dogane e la sicurezza delle frontiere Customs and Border Protection (Cbp), tra ottobre 2018 e marzo 2019 si sono verificate 361.087 catture di migranti in frontiera, che corrispondono al dato più alto dal 2007.

Oltre ad aver predisposto la costruzione di un muro di cemento lungo la frontiera con il Messico, il presidente degli Stati Uniti ha eliminato la pratica del catch and release, «cattura e rilascio», spesso attuata dai governi precedenti. In quel caso, la persona entrata nel paese senza documenti era rilasciata, durante il procedimento legale per discutere il suo caso.

Con la politica di tolleranza zero dell’amministrazione Trump, tutti i migranti catturati sul confine sono detenuti fino al momento della deportazione o della liberazione, nel caso di ottenimento di permesso negli Stati Uniti. «È una forma di detenzione arbitraria – spiega Carolina Jimenez di Amnesty International -. Non c’è nessun motivo per tenere in carcere i migranti durante il processo, ma è la forma che usa il governo di Donald Trump per scoraggiare le persone a migrare. L’obiettivo è che queste persone, una volta deportate, raccontino quanto hanno sofferto e i loro parenti o conoscenti intenzionati a partire, rinuncino a farlo».

Una volta catturate sulla frontiera, le persone sono trasferite in celle di detenzione, dove inizia il processo di identificazione gestito dalla Cpb. «Mi hanno chiuso in una cella freddissima – racconta Isabel -. L’aria condizionata era al massimo e io avevo solo una maglietta a maniche corte. Sono stata lì con la luce accesa di notte e di giorno, senza sapere che ora era, per 5 giorni. Ero disperata». Le celle in frontiera sono chiamate dai migranti hieleras, ghiacciaie, perché le temperature sono tenute basse con l’utilizzo di condizionatori. In genere, le celle in frontiera non sono attrezzate con letti, perché considerate luoghi di passaggio in cui le persone dovrebbero essere detenute per poche ore. «Numerosi migranti hanno dichiarato di essere stati detenuti per molti giorni nelle hieleras – spiega la professoressa Ursula Andrade -. Le temperature basse servono, ufficialmente, per evitare il rischio di contagio, ma si tratta di una pratica inumana e degradante molto simile alla tortura».

Durante il procedimento legale in cui le autorità verificano se i migranti possono essere considerati titolari di protezione internazionale, le persone vengono trasferite in strutture detentive all’interno del paese. «In carcere, ho indossato l’uniforme arancione – racconta Petrona -. Come se fossi una criminale, come se avessi ucciso qualcuno, come se avessi rubato qualcosa. A un certo punto l’avvocato che seguiva il mio caso mi ha detto che non avevo diritto a uscire dietro cauzione, ma potevo fare appello e chiedere che rivalutassero il mio caso. Erano già 5 mesi che ero in carcere e non me la sono sentita. Ho quindi firmato la mia stessa deportazione».

Durante l’amministrazione Obama era possibile essere rilasciati dietro cauzione durante il processo, ma molti migranti non potevano pagarne il costo, per cui firmavano deportazioni volontarie per evitare di rimanere ulteriormente in carcere. «In prigione stavo sempre a letto, non mangiavo, vivevo con detenute violente che avevano commesso dei crimini gravi e io mi sentivo morire – racconta Isabel -. Ho chiesto di rimandarmi in Guatemala. Non ce la facevo più a vivere così».

Per chi riesce a superare la frontiera senza essere catturato, inizia la vita negli Stati Uniti che, in parte, verrà vissuta nel timore della deportazione. Nell’anno fiscale 2018, l’Ice, Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia statunitense che si occupa del controllo di dogana e dell’immigrazione anche all’interno del paese, ha ordinato 287.741 deportazioni di persone senza documenti che vivevano nel paese. Si tratta del più alto numero di deportazioni dal 1992. Tra di loro c’erano persone che vivevano e lavoravano negli Stati Uniti da anni.

Secondo i dati Oim del 2017, il 37% dei migranti guatemaltechi non riesce ad arrivare negli Stati Uniti e viene deportato nel paese di origine. Oltre al peggioramento delle proprie condizioni economiche a causa del pagamento dei debiti di viaggio, la detenzione e la deportazione lasciano traumi individuali difficili da sanare e che spesso coinvolgono la dimensione collettiva, perché per molti la migrazione è un progetto di famiglia, più che personale.

Dopo la deportazione, Petrona e Isabel non hanno pensato di provare nuovamente a migrare negli Stati Uniti a differenza di molte altre persone che continuano a cercare una via di fuga dal loro paese di origine. Nonostante le violenze subite lungo il cammino e sulle frontiere, c’è chi vive più esperienze migratorie nel corso della propria vita, perché l’obiettivo rimane «arrivare dall’altra parte», come si dice in America Latina, anche se il prezzo è alto.

«Gli stati di origine, destinazione e transito della migrazione devono provare a collaborare per creare delle politiche a favore delle persone più vulnerabili economicamente in modo che non siano obbligate a migrare – conclude Carolina Jimenez di Amnesty International -. E in caso una persona volesse migrare, dovrebbero garantire che possa viaggiare in forma sicura, fornendole dei documenti regolari, invece di anteporre, come avviene ora, la protezione delle frontiere e della nazione ai diritti umani delle persone».


I nuovi desaparecidos

Maria Ceto Sanchez ha solo una fotografia di sua figlia. L’ha fatta plastificare in modo che non si rovini nel tempo. Ogni tanto la prende in mano e la lucida, quasi ad accarezzarla. Altre volte la ripone nell’unico mobile che ha in casa e la copre con un pezzo di stoffa. In quei momenti, Maria non ha la forza di guardare negli occhi sua figlia Angelina.

«Quando è partita per gli Stati Uniti, Angelina aveva 16 anni e 2 mesi. Nel nostro villaggio girava la voce che i minorenni riuscissero ad avere un permesso per vivere negli Stati Uniti – racconta Maria Ceto -. E allora mi ha detto che voleva partire. Io non ero d’accordo, perché è la più piccola delle mie figlie e sapevo che mi sarebbe mancata tantissimo, ma alla fine ho ceduto e le ho dato il permesso».

Angelina aveva il sogno di costruire una casa per sé e sua madre, perché l’abitazione dove era nata era di lamiera, ma a lei sarebbero piaciute le pareti di cemento. Aveva pensato a tutto. Sarebbe arrivata in Virginia, dove viveva una sua cugina, e avrebbe lavorato una decina di anni come cameriera in qualche ristorante.

«Dopo quel periodo voleva tornare – continua Maria -. Mi aveva detto che avrebbe avuto i soldi sufficienti per pagarsi la retta di una buona scuola a Città del Guatemala e saremmo state sempre insieme».

Angelina è partita per il suo viaggio, insieme a un coyote, il 24 maggio del 2014. Pochi giorni dopo ha telefonato a sua madre Maria per dirle che stava bene ed era in procinto di entrare nel deserto di Altar Sonora da dove avrebbe attraversato la frontiera.

«Quella è stata l’ultima volta che le ho parlato – continua Maria -. Mi diceva di pregare per lei, di credere che ce l’avrebbe fatta e io pregavo e pregavo, ma poi è sparita. Deve essere successo qualcosa nel deserto, ma non so cosa. Dopo qualche giorno che non ricevevo sue notizie, ho chiamato il coyote, ma aveva staccato il telefono. Nessuno mi ha mai detto come sono andate le cose. Ho cominciato a disperarmi».

Il limbo dei migranti desaparecidos è il luogo dove si trovano tutte le persone che hanno intrapreso un percorso migratorio sulle rotte messicane e improvvisamente sono sparite. Si suppone che alcune di loro siano morte durante il cammino a causa della fatica del viaggio e degli agenti atmosferici, altre siano state rapite a fini di tratta, altre siano state investite mentre camminavano di notte sul ciglio della strada, o uccise dai narcos per mancato pagamento del riscatto. Di loro non si sa nulla. «In Messico si stimano tra i 70mila e 120mila migranti desaparecidos – spiega Marta Sanchez Soler, presidentessa del Movimento migrante mesoamericano -. Ma sono invisibili. Anche se dovessero essere ritrovati i loro corpi, non è possibile l’identificazione, perché quasi nessuno di loro viaggia con un documento di identità per paura di essere riconosciuti durante un controllo migratorio in Messico o alla frontiera degli Stati Uniti».

Sebbene sia raro incontrare viva una persona desaparecida, Maria non perde le speranze e vive il suo tempo nell’attesa. «Quando guardo la sua foto, io sento che Angelina è viva – sussurra Maria -. Altre volte piango perché mi demoralizzo, ma io sono qui. Io l’aspetto e so che lei tornerà da me».


Hanno firmato questo dossier:

• Simona Carnino

Giornalista e documentarista, è specializzata in diritti umani, migrazioni e cooperazione internazionale. Ha scritto per anni di temi ambientali e politici. Nel 2015 ha realizzato il documentario «Aguas de Oro» (www.aguasdeoro.org) sulla lotta di Maxima Acuña Chaupe, vincitrice del premio Goldman, in Perù. Ha lavorato 5 anni per Amnesty International e ha maturato esperienza nella gestione di progetti di cooperazione in America Latina. In Italia ha lavorato nel sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati politici. È coautrice della serie «Passaggi», su cui MC ha pubblicato un dossier nel maggio 2017.

• A cura di:

Marco Bello, giornalista redazione MC.

• Frame Voice Report

La realizzazione di questo dossier rientra nell’ambito del progetto «The Power of Passport», eseguito da MAIS Ong, ed è stata possibile grazie al finanziamento dell’Unione Europea attraverso al bando «Frame, Voice, Report!» del Consorzio Ong Piemontesi (Cop). Il sito del progetto e un video sulla carovana:
www.thepowerofpassport.org
video.sky.it/news/mondo/sky-tg24-mondo-terra-promessa/v505199.vid

 

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Tutta colpa di…


testo di Gigi Anataloni, direttore di MC


Ne aveva fatte di tutti i colori quel giorno a scuola, tanto da farsi punire. Non semplicemente una sospensione, ma un buon numero di vergate di fronte a tutti dopo l’appello mattutino. Era poi venuto finalmente a parlarmi. «Che ti è preso?», gli ho chiesto. «Non lo so, ma non sono stato io. È stato il diavolo che me lo ha fatto fare».

È una storia di molti anni fa ormai, quasi una vita fa, quando ero nomade sulle piste del Nord del Kenya. Senza entrare nel merito della punizione corporale allora in uso in tutte le scuole, quello che mi interessa sottolineare ora è la scusa usata dal ragazzo per giustificare il suo comportamento: «Non sono stato io, ma il diavolo me lo ha fatto fare». Quando c’è di mezzo il diavolo, un poveraccio che può fare? Non è più lui il responsabile delle sue azioni.

I «poveri diavoli» di allora mi tornano in mente guardando a quanto succede oggi nel nostro bel paese. La caccia al colpevole sembra diventata uno sport nazionale. Le cose vanno male. Naturalmente «è colpa di…». Non mia, non nostra, ma colpa «loro», degli altri. In fondo, il diavoletto invocato allora dai «miei» ragazzi era una scusa su cui fare una bella risata, ma oggi non me la sento più di riderci sopra. Se qualcosa va storto non si cercano le cause, ma i colpevoli, i capri espiatori. E i colpevoli per antonomasia oggi sono i migranti (soprattutto se di pelle nera) e i rom che rubano il lavoro, le case, gli aiuti pubblici, la pace, la sicurezza, il buon nome.

Un paio di millenni fa, quando l’Italia era il «centro del mondo», non esisteva il problema dei migranti, ma si andava tranquillamente a conquistare altri paesi con guerra e razzie e si tornava a casa trionfanti con migliaia di schiavi esibiti come trofei e usati poi per coltivare i campi dei vincitori. E se per caso quei lavoratori stranieri avevano l’impertinenza di ribellarsi, ecco una bella crocifissione di massa come quella dopo la sconfitta di Spartaco: seimila crocifissi sulla via Appia tra Roma e Capua (uno ogni 30 metri circa), bel monito a chiunque osasse pensare che tutti gli uomini sono uguali.

Naturalmente i nostri antenati Romani non erano gli unici a pensarla così. Basta ricordare che il traffico di milioni di «migranti» dalle coste dell’Africa dell’Est verso la penisola arabica e il Golfo persico, iniziato da tempi immemorabili, non è mai finito (se si considera la libertà di cui godono le persone nella penisola). Per non essere da meno, noi europei (e cristiani) dell’età moderna, una volta «scoperta l’America» e capite le sue potenzialità economiche, ci siamo ben organizzati e abbiamo rifornito della necessaria manodopera, non proprio libera né volontaria, le nostre nuove colonie spogliando le coste dell’Africa dell’Ovest.

Ovvio, gli europei di oggi non hanno responsabilità delle cose fatte dai loro predecessori. Noi non siamo schiavisti come loro. Infatti, lo schiavismo di oggi non è colpa nostra, ma legge di mercato – per sopravvivere alla concorrenza -. Se oggi si trasferiscono le fabbriche in paesi dove i lavoratori costano meno e non hanno protezioni sindacali, e si riempiono i nostri campi di braccia fantasma controllate dai caporali, noi ci possiamo fare ben poco e, anzi, spesso diventiamo vittime a nostra volta. Se poi ci sono dei problemi, il sistema di sfruttamento ha una capacità di adattamento incredibile: giocando sull’indifferenza, sul bisogno, sulla lentezza delle istituzioni, sulla paura e sul potere della corruzione, si chiudono le tendopoli dei disgraziati, si fanno trasferimenti in massa, oppure si sistema il tutto con un bell’incendio. Non si risolve così anche il problema dei rifiuti?

Ritengo che ci sia bisogno che ciascuno prenda le sue responsabilità tenendo presenti alcuni punti che mi sembra dovrebbero essere ormai diventati chiari per tutti:

  • su questa terra o ci salviamo tutti insieme o nessuno si salva (il riscaldamento globale ne è un esempio: non si risolve costruendo isole per privilegiati, come non ci si salva dalla guerra atomica con i rifugi ma solo eliminando le atomiche e la guerra);
  • non ci sono persone di serie A e altre di serie B: ogni uomo ha la stessa dignità, gli stessi diritti, gli stessi doveri;
  • educazione, lavoro, casa, salute, pace e il poter stare a casa propria o il muoversi liberamente non sono privilegi di pochi, ma diritti di tutti; se uno non può avere tutto questo, o addirittura gli è impedito, è facile che cerchi strade alternative e violente per ottenerlo;
  • solo se si mette al centro la persona, ogni persona – non l’economia, il profitto e il potere -, si costruisce veramente un mondo «umano» dove ciascuno può vivere bene da «cittadino»;
  • scaricare le colpe delle proprie difficoltà e sofferenze su capri espiatori non risolve i problemi; aumentare la sofferenza degli altri non aumenta la nostra felicità;
  • la pace e l’armonia si costruiscono erigendo ponti, aprendo porte e creando relazioni paritarie, non innalzando muri e chiudendo porti.

 




Viaggio in Norvegia: le scelte di Oslo

La ricetta norvegese


Testo e foto di Piergiorgio Pescali


Da molti anni la Norvegia si situa ai primi posti nella classifica dell’Indice di sviluppo umano. I suoi abitanti – poco più di 5 milioni – hanno un’elevata qualità della vita. Il Fondo sovrano norvegese – che gestisce i corposi proventi del petrolio – è ricchissimo, ma anche attento all’etica dei propri investimenti. Nonostante tutto questo, ci sono questioni aperte. Per esempio, anche a queste latitudini i problemi ambientali sono in rapido aumento. Inoltre, i norvegesi stanno cercando di porre un freno all’immigrazione, anche premiando partiti populisti anti immigrati. La ricetta complessiva rimane buona, ma oggi il paese deve trovare risposte adeguate alle nuove sfide.

«Guarda la mappa della Norvegia: un pugno con un dito indice che si allunga verso nord, quasi come a voler toccare l’inviolabile, le terre ostili che si frammentano nel Finnmark». Morten Andreassen mi mostra la cartina della Norvegia mentre è seduto su un masso addentando con gusto un panino. Sta studiando per ottenere un Master in Scienze della globalizzazione e sviluppo sostenibile all’Ntnu, l’Università norvegese di Scienze e tecnologia di Trondheim, l’istituto scientifico più prestigioso del paese dalle cui aule sono usciti cinque premi Nobel. Ogni anno l’Ntnu organizza il Big Challenge Science Festival, uno dei simposi scientifici più seguiti al mondo in cui, per quattro giorni, scienza e spettacolo si mischiano in una serie di eventi memorabili coinvolgendo moltissimi dei duecentomila abitanti di Trondheim e trasformando questa cittadina in una capitale della cultura scientifica, umanistica e artistica.

L’atmosfera tranquilla, ma al tempo stesso pregna di stimoli intellettuali di Trondheim, associata all’eccellente livello di insegnamento impartito nell’Ntnu ha fatto sì che i suoi ricercatori e studenti siano contesi da compagnie e centri di ricerca di tutto il mondo: «Potenzialmente abbiamo un tasso di disoccupazione inferiore allo zero», scherza Magnhild, la ragazza che viaggia con Morten.

Lei, dopo la laurea, è tornata a Tromso, la cittadina dove è nata, per lavorare in una compagnia che si occupa di energie rinnovabili. Magnhild è andata a Oslo a trovare la famiglia di Morten e quest’anno hanno deciso di tornare a Trondheim percorrendo a piedi i 643 chilometri del «Sentiero di Sant’Olav» (foto alle pagine 41-42), il cammino di pellegrinaggio che, partendo dalla Vecchia Chiesa di Aker ad Oslo termina alla cattedrale di Nidaros, dove nell’XI secolo fu sepolto Olav Haraldsson (995-1030), il Rex Perpetuus Norvegiae e patrono della nazione (nonché santo e martire per la Chiesa cattolica).

«Non siamo credenti, anzi siamo atei convinti, ma abbiamo approfittato di trascorrere quattro settimane a stretto contatto con la natura per raccogliere dati sui cambiamenti climatici per le nostre ricerche».

Il Sentiero di Olav, l’università di Trondheim, la passione di Morten e Magnhild per la natura – espressione del friluftsliv[1] che accomuna i norvegesi – e il rispetto verso l’ambiente sono le basi da cui parto per cercare di comprendere quale possa essere stata la chiave che ha portato, in pochi decenni, un popolo povero e circondato da una natura ostile ad occupare oramai da diversi anni, le prime posizioni nelle statistiche dell’Indice di sviluppo umano[2].

Una tigre in Norvegia: la città contro la natura

La statua della tigre che ruggisce – realizzata da Elena Engelsen e dal 2000 posta fuori dalla stazione ferroviaria di Oslo – è forse l’emblema di una città e una nazione che sta cambiando più velocemente di quanto vorrebbe. L’artista voleva rappresentare la vivacità e lo sviluppo della Tigerstaden, la città della tigre, il soprannome con cui oggi è conosciuta Oslo, ma a molti norvegesi il felino ricorda i versi scritti nel 1870 dal poeta Bjornstjerne Bjornson, premio Nobel nel 1903 e autore delle parole dell’inno norvegese, il quale contrapponeva l’immagine pericolosa, violenta e aggressiva della città a quella bucolica, pacifica e genuina della campagna[3].

Sicuramente ai turisti orientali che sempre più numerosi affollano la capitale norvegese, quella statua ricorderà le «tigri asiatiche», le quattro economie dell’Asia (Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud) che negli anni Novanta bruciavano le tappe dello sviluppo crescendo a dismisura sino a diventare il simbolo di quella riscossa asiatica che, più tardi, avrebbe trovato nella Cina la sua locomotiva.

L’economia norvegese non viaggia quanto le tigri asiatiche (ormai anch’esse sedate) ma la crescita del Pil continua ad aggirarsi attorno ad un onorevole 2% ed Oslo – con circa 700mila abitanti – è considerata la città che si espande più velocemente tra le capitali dell’Europa[4].

Definire la capitale della Norvegia una bella città è una forzatura e il paragone con le «colleghe» scandinave è impietoso: la sua storia è sempre stata offuscata dalle più regali Copenaghen e Stoccolma, i cui regni si sono succeduti pressoché ininterrottamente alla guida della Norvegia dal IX secolo al 1905, quando la nazione trovò la sua indipendenza. Città prettamente operaia e industriale, Oslo non ha certo la grazia di Bergen o il fascino dell’art nouveau di Alesund. Al contrario, la città, che riacquistò il nome originario solo nel 1925 abbandonando il toponimo di Christiania affibbiatole dal re di Danimarca Cristiano IV, è sempre stata quella descritta, con un misto di sagacia e melanconia, da Luigi Di Ruscio, il poeta-operaio emigrato dall’Italia nel 1957 e morto ad Oslo nel 2011: «Poi ci sono i lunghi inverni gelati con le giornate cortissime e le lunghissime notti, le nevi che persistono per mesi e alla fine da bianche che erano diventano nere ed Oslo diventa la città dalla neve nera»[5].

Eppure, l’amministrazione locale è riuscita a realizzare quello che, sino a pochi anni fa, sembrava impossibile: conferire una fisionomia e una personalità unica alla metropoli. Sapendo di non poter competere sul piano monumentale e storico con altri centri scandinavi ed europei, si sono scelti altri campi per rendere Oslo città appetibile al turismo e alla finanza: l’architettura moderna, la cultura e la natura. Gli amministratori norvegesi, con la collaborazione di architetti provenienti da tutto il mondo, hanno trasformato una città anonima e grigia in un interessante esperimento di design urbanistico quasi senza stravolgerne l’assetto storico e valorizzando gli edifici esistenti. Le gru che si innalzano da numerosi quartieri stanno rivoluzionando lo skyline di Oslo che, dal 2020 si doterà di nuovi spazi abitativi, finanziari e culturali offrendo a turisti e abitanti un nuovo volto, più moderno e accattivante.

Accanto all’Opera House stanno sorgendo centri residenziali e lavorativi hi-tech: il Barcode, il Sorenga, il Museo Munch, la Biblioteca nazionale, mentre nell’Aker Brygge tra pochi mesi verrà inaugurata l’immensa Galleria nazionale che si affiancherà al Nobel Peace Centre. Al tempo stesso i polmoni verdi, vero vanto del rispetto ambientale di cui si fregia la città, sono stati mantenuti. Un efficiente e relativamente poco costoso sistema di mezzi pubblici collega 24 ore su 24, sette giorni su sette, anche i quartieri più periferici. In meno di un’ora è possibile raggiungere piste da sci, rifugi immersi nella natura, sentieri montani lasciando la propria auto nel garage. Oslo non è bella, ma è sicuramente la città ideale in cui vivere.

Le sfide ambientali: cambiamento climatico, petrolio, disboscamento, turismo

Quello norvegese è tradizionalmente un popolo culturalmente coeso, che ha fatto del rispetto per la natura uno dei suoi cavalli di battaglia.

«Se chiedi ad un turista medio cosa vorrebbe vedere andando in Norvegia ti risponderebbe “i fiordi”; un turista un po’ più accorto aggiungerebbe Capo Nord o Lofoten. Pochi si aspettano di vedere città come Oslo o Stavanger» mi spiega Gunn Wadzynski, attivista ambientalista di Greenpeace, che poi continua: «Lo stereotipo della Norvegia è che sia un territorio selvaggio, inesplorato, incontaminato e, soprattutto, non inquinato. Purtroppo, la realtà sta cambiando molto velocemente: l’ambiente soffre sempre di più e non solo per i cambiamenti climatici, ma anche per lo sfruttamento che noi norvegesi operiamo sul nostro territorio».

Ogni anno dieci milioni di turisti arrivano in Norvegia, di cui tre milioni su navi da crociera ed oramai il 4,2% del Pil dipende dal loro[6].

L’aumento del turismo è sicuramente una delle cause del degrado ambientale, ma il danno più evidente è dovuto ad un fattore esterno – i cambiamenti climatici mondiali – e uno interno, il continuo dissanguamento delle risorse naturali, causato in particolare dall’estrazione petrolifera e dal disboscamento.

Nel 2016 la temperatura media nelle Svalbard, il piccolo arcipelago situato più a settentrione del paese, è stata di 6,6°C superiore a quella normale[7]. Anche se i dati relativi a questa statistica sono stati contestati da molti ricercatori in quanto basati su una rilevazione effettuata presso l’aeroporto di Longyearbyen e quindi falsati dal microclima esistente in quella specifica parte dell’isola, è un dato di fatto che la coltre di ghiaccio in tutto il Circolo polare artico si sta assottigliando[8].

Per contrastare l’aumento di temperatura, la Norvegia si è data come obiettivo di ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 del 40% rispetto al 2005.

Uno studio preliminare ha individuato che il 74% delle emissioni di gas serra proviene da due settori: trasporti e agricoltura[9]. È quindi in queste due attività che il governo ha cercato di intervenire con più incisività.

Tra il 1990 e il 2013 sono stati disboscati 140mila ettari di foresta, cosa che ha contribuito per il 4-5% dell’emissione della CO2. Il 33% della deforestazione è stato effettuato per costruire nuove strade, ferrovie e abitazioni, l’11% per linee elettriche e impianti sciistici e il 31% per usi agricoli[10].

«Il 21% dell’abbattimento avviene prima che l’albero raggiunga lo stadio V, la fase oltre la quale il fusto ha ormai sorpassato il tasso di massimo assorbimento di anidride carbonica ed è pronto per la sostituzione», specifica Sigurd Sivertsen, del dipartimento di ingegneria ambientale all’Ntnu[11].

Durante il XX secolo la Norvegia ha implementato una politica di rimboschimento e nei prossimi anni le foreste piantate negli anni Cinquanta e Sessanta raggiungeranno la loro completa maturazione con una diminuzione del tasso di assorbimento di CO2. Per ripristinare la fotosintesi clorofilliana necessaria per mantenere l’equilibrio naturale, nel 2013 la Norwegian environment agency ha proposto la riforestazione di 100mila ettari di terreno per i successivi venti anni che, una volta completata, potrebbe rimuovere 1,8 milioni di tonnellate annue di CO2 nel 2050[12].

Per accelerare l’accrescimento del tronco fino ad un 10-15%, i laboratori di ricerca norvegesi hanno sviluppato un programma di modificazione genetica che, sommato alle tecniche di inseminazione, potrebbe permettere di stare al passo con il programma di assorbimento dei gas serra senza aumentare la superficie boschiva del paese.

Naturalmente questa tecnica invasiva ha riscontrato l’ostilità di numerose organizzazioni ambientaliste: Turid, dell’associazione radicale (e per molti versi cospirazionista) Green Warriors di Bergen afferma che «Il 75% dei nuovi semi utilizzati per la sostituzione degli alberi abbattuti in Norvegia sono geneticamente modificati. In questo modo le politiche ambientaliste del nostro paese sono un palliativo per permettere comunque alle compagnie che contribuiscono all’aumento delle temperature mondiali di continuare a operare le loro politiche distruttive». La critica di Turid ha un fondo di verità, ma la realtà norvegese ci offre una visione molto più variegata che è osservata con interesse da molti attori internazionali: nel 2015 le energie rinnovabili rappresentavano il 46% dell’energia totale fornita al mercato norvegese. Certamente la bassa densità di popolazione e la ricchezza del territorio (il 40% dell’energia utilizzata è idroelettrica[13]) gioca un ruolo determinante nel successo del modello Norvegia, che comunque è ancora lontana dall’escludere le fonti fossili dalla sua dipendenza energetica (il petrolio fornisce il 36,8% dell’energia e il gas naturale il 18,2%[14]).

Al tempo stesso l’utilizzo di fonti naturali permette alla nazione di avere un prezzo al consumatore tra i più bassi in Europa nonostante una tassazione del 38%: 38 euro/MWh (megawattora) contro i 54 euro/MWh che paga un italiano[15].

Così, nonostante un norvegese consumi 5,20 «Tonnellate di petrolio equivalente» (Tep) ogni anno contro una media europea di 4,11, l’impatto ambientale diretto è inferiore rispetto ai cittadini del Vecchio continente[16].

Elettrico sì, ma senza incentivi

Una delle principali azioni espresse dal governo di Oslo per contenere e ridurre l’impatto ecologico nella nazione è stata quella di sostenere l’uso dell’auto elettrica (Ev) mediante un programma di incentivi statali, introdotti sin dalla fine degli anni Novanta per aiutare lo sviluppo della Kewet, una macchina elettrica prodotta da una fabbrica danese che nel 1998 era stata venduta alla norvegese Elbil Norge As[17]. Nel 1997 le macchine Ev[18] hanno ottenuto l’esenzione completa dai pedaggi stradali, nel 1999 dal pagamento dei parcheggi (dal 2017 la gratuità è a discrezione di ogni municipalità), dal 2001 l’esenzione dell’Iva e dal 2009 vengono trasportate gratuitamente sui traghetti.

Qualcosa però sta cambiando anche nel paese: nel 2018 il 31,2% delle nuove auto vendute in Norvegia era Ev e Phev (auto ibride)[19], con queste ultime in costante ascesa[20]. Lungi dal rappresentare una coscienza ecologica popolare, le auto Ev vengono comprate per una questione economica più che ambientale: il 63% dei norvegesi che hanno un’auto completamente elettrica ha anche una seconda auto ibrida o a combustibile fossile.

I motivi sono diversi: in primo luogo lo sviluppo del sistema delle colonnine di ricarica che, pur essendo il più capillare d’Europa, è ancora insufficiente per rendere indipendente la circolazione sull’intero territorio. Al 2 aprile 2019 in Norvegia vi erano 12.612 ricariche (di cui 2.361 a carica veloce, 616 dedicate alla Tesla supercharges[21]); un incremento importante rispetto al 2011 (allora c’erano 3mila colonnine), ma che non segue quello delle vendite e questo ha disincentivato l’acquisto di auto esclusivamente Ev[22].

In secondo luogo, gli incentivi funzionano da motore per chi deve usare l’auto su strade a pedaggi e su traghetti: la più alta concentrazione di auto elettriche al mondo la si trova a Finnoy, un’isola di fronte a Stavanger. Qui il pedaggio del tunnel che connette l’isola alla terraferma costa 150 nok sola andata: un sondaggio della Neva (Norwegian Electric Vehicle Association) ha constatato che gli acquirenti hanno comprato le Ev per non pagare il pedaggio (300 nok al giorno).

Tutto questo, però ha un costo che comincia a diventare troppo ingente per l’economia norvegese: l’Istituto per l’Economia dei trasporti nel 2015 ha stimato che i mancati introiti per lo stato erano pari a 4 miliardi di nok, ancora sostenibili per l’economia norvegese, ma dovranno essere ben presto rivisti. Per ora il governo ha stabilito che le agevolazioni per l’acquisto di auto elettriche verranno mantenute fino al 2020 anche per permettere, entro quella data, alla città di Oslo di rispettare il programma di eliminare completamente i trasporti pubblici a carburante fossile utilizzando solo quelli elettrici.

Le prime voci di dissenso verso questa politica si fanno già sentire dagli scranni dell’opposizione parlamentare: «Non possiamo continuare a finanziare le macchine elettriche», dice Andreas Halse, portavoce per l’ambiente del Partito labourista. Anche le compagnie navali hanno cominciato ad alzare i toni della protesta, così come le società che gestiscono le infrastrutture stradali.

Paradossalmente gli stimoli economici hanno avuto un effetto deleterio sulla circolazione: oltre a non eliminare le macchine a combustibile fossile, disincentivano l’uso dei mezzi pubblici.

Oggi, dunque, il governo si trova di fronte al dilemma su come rendere il mercato delle auto elettriche appetibile al consumatore senza dover offrire promozioni.

Socialità e risparmio energetico

La Norvegia sta cercando di far fronte all’emissione di gas serra anche affrontando la questione del costo della vita che rende problematico per le giovani generazioni l’affrancamento dalle famiglie.

L’affitto medio mensile di un monolocale in centro a Oslo costa circa 1.000 euro, mentre l’acquisto varia da 4.000 euro al metro quadro per un appartamento fuori dal centro a 6.000 euro al metro quadro in centro[23]. Un salasso anche per uno stipendio medio norvegese che si aggira sui tremila euro netti al mese[24].

Dal 2020 le nuove costruzioni dovranno essere energeticamente completamente autonome così da risparmiare, entro il 2030, dieci TWh (terawattora) di consumo, mentre verrà vietato l’uso di riscaldamento fossile per tutti i restanti edifici (attualmente solo il 20% del parco immobiliare è dotato di riscaldamento con energia rinnovabile). Queste direttive (costose e impegnative) hanno indotto gli architetti norvegesi a cercare soluzioni alternative trovandole nelle abitazioni collettive, edifici in cui si cerca di coniugare l’indipendenza del nucleo famigliare con il taglio dei costi e la diminuzione dello spreco energetico. Il co-housing o collective-housing non è una novità nei paesi nordici essendo già praticato negli anni Settanta-Ottanta, ma con l’arrivo del benessere e della ricchezza era andato via via scomparendo. L’esigenza di una propria vita privata è stata preservata garantendo ad ogni famiglia un proprio spazio indipendente e riservato, mentre ci si affida alla gestione collettiva per quelle attività prettamente socializzanti, come una stanza comune per la mensa, le attività ricreative, il giardino.

Una trappola per l’anidride carbonica

Il governo, però, non si affida solo ai singoli cittadini per combattere l’effetto serra: dagli anni Ottanta la nazione ha intrapreso un percorso di ricerca e sviluppo nel campo del Ccs (Carbon capture and storage, Cattura e stoccaggio del carbonio), un processo che, dopo aver liquefatto l’anidride carbonica la inietta in una trappola geologica dove viene stoccata per centinaia di anni. È un metodo utilizzato per ridurre la quantità di CO2 liberata nell’aria, tanto che Oslo ha individuato nel Ccs una delle cinque priorità per contenere l’aumento di CO2 entro il 2030, ma il processo ha anche diverse problematiche evidenziate dagli ecologisti: il gas, che viene iniettato in sacche di terreno cavo (spesso dopo avere estratto petrolio o gas naturale), potrebbe liberarsi improvvisamente a seguito di terremoti avvelenando e asfissiando gli esseri viventi che stanno nelle immediate vicinanze.

Gli scienziati e tecnici norvegesi stanno sfruttando due siti offshore adatti al Ccs: Sleipner and Snøhvit, in cui la CO2 è insufflata a migliaia di metri di profondità (800-1.000 metri a Sleipner e 2.000 metri a Snøhvit), mentre un terzo giacimento esaurito (Troll, nel Mare del Nord) ha avuto il benestare del governo per il suo sfruttamento lo scorso gennaio[25]. «Sino ad oggi sono stati immagazzinati 21 milioni di tonnellate di CO2», spiegano alla Gassnova, l’azienda leader nella ricerca e sviluppo del Ccs, la cui esperienza ha permesso di esportare le tecniche Ccs maturate in Norvegia in diversi paesi (Cina, Indonesia, Sud Africa, paesi del Golfo Persico) e iniziare una collaborazione con molte istituzioni internazionali.

I centri di ricerca Ccs sono tre: il Tcm (Technology Centre Mongstad), Climit e il Norwegian Ccs Research Centre (Nccs). Tra questi il Tcm, operativo dal 2012, è il più grande al mondo ed è di proprietà di un consorzio di aziende guidate dalla Gassnova (77,5%), Equinor (7,5%), Shell (7,5%) e Total (7,5%)[26].

Il peso del petrolio sul Pil norvegese

In tutto questo bel programma ambientale il petrolio continua ad occupare una posizione rilevante nell’economia e nelle società norvegesi. Lungi dall’esserne indipendente, la Norvegia è ancora fortemente vincolata alle fonti fossili che contribuiscono per il 12% al Pil, per il 13% agli introiti erariali del governo centrale, per il 37% alle esportazioni e per il 21% agli investimenti nonostante la produzione sia diminuita del 40% rispetto al 2001 (due milioni di barili al giorno nel 2017 rispetto i 3,4 del 2001, ma nel frattempo la produzione di gas naturale è salita a 120 miliardi di metri cubi all’anno)[27]. E con riserve stimate in 90 miliardi di barili l’economia norvegese e i 200mila lavoratori impiegati nel campo petrolifero possono guardare con relativa tranquillità il proprio[28].

L’industria petrolifera norvegese è tra le più efficienti del mondo e viene vista come modello per altre economie.

Ogni anno si concedono licenze per esplorazioni già in atto e ogni due anni vengono messe all’asta licenze per esplorazioni in nuovi giacimenti. Nel maggio 2016 sono state vendute dieci licenze a tredici compagnie. Alla fine del 2015 la Equinor possedeva 259 licenze, mentre altri cinquantatré operatori ne avevano 182[29].

L’obiettivo a medio-lungo termine del governo non è solo quello di evitare il più possibile l’utilizzo delle fonti fossili nell’ambito nazionale, ma anche di rendersi paese trainante verso un programma etico e ambientale che coinvolga tutto il globo che escluda, nel limite del possibile, lo sfruttamento di energie provenienti da combustibili a base di carbonio.

L’industria petrolifera norvegese ha iniziato a decollare nel 1971, quando la Phillips Petroleum Company cominciò a sfruttare il giacimento di Ekofisk, nel Mare del Nord. Da allora l’oro nero ha rappresentato il carburante che ha alimentato lo sviluppo economico e sociale della nazione la quale, sebbene già relativamente più ricca rispetto al resto dell’Europa, ha cominciato letteralmente a essere inondata di denaro.

L’esportazione dell’oro nero frutta ogni anno alle casse di Oslo 210 miliardi di nok, ma la ricchezza derivata dall’estrazione off-shore non è mai stata ostentata dai protagonisti norvegesi che, in questo senso, si distinguono nettamente dai concorrenti arabi e asiatici.

A differenza della pacchianeria e della ridondante esibizione di questi ultimi, le compagnie petrolifere norvegesi si sono sempre distinte per il loro basso profilo comunicativo e la loro propensione sociale. L’esempio più evidente è visibile nell’eleganza e la linearità dell’enorme sede della Equinor, l’ex Statoil[30], la più grande e facoltosa azienda petrolifera del paese con un fatturato di 61 miliardi di dollari. L’edificio, a basso impatto ambientale, sorge a Fornebu, alla periferia di Oslo ed è stato costruito ad un costo di 1,5 miliardi di nok tra il 2009 e il 2012 dallo studio di architettura A-lab, lo stesso che ha realizzato l’avveniristico Barcode che si affaccia sul fiordo di Oslo[31].

Il Fondo pensioni norvegese, potenza finanziaria alla ricerca dell’etica

L’edificio della Statoil è l’esempio con cui la Norvegia ha amministrato i ricavi derivati dall’esportazione del petrolio. Sin dagli anni iniziali dello sfruttamento dei pozzi, il ministero delle Finanze pubblicava il documento «Il ruolo dell’attività petrolifera nella società norvegese» in cui si avanzava la domanda su come dovessero essere utilizzati i proventi dell’estrazione petrolifera[32].

Nel 1990 è stato fondato il Fondo petrolifero e il 1° gennaio 1998 lo stesso ministero ha affidato alla Banca di Norvegia la gestione delle azioni con la clausola che non si dovesse utilizzare una quantità di denaro superiore ai proventi degli investimenti, stimato nel 3% del capitale di 900 miliardi di euro distribuito in 73 paesi e in 9.158 compagnie[33].

Vi sono delle guide etiche che escludono dagli investimenti da parte del Fondo le ditte responsabili di violazioni di diritti umani, produzione di alcuni tipi di armamenti, produzione di tabacco, di carbone, inquinamento[34].

Così sono bocciate ditte come la Philip Morris, la Posco, Rio Tinto, la Loockheed Martin Corp. (ma la Norvegia è partner nella produzione dell’F-35[35]). Nel solo 2018 sono state escluse dal fondo ditte come l’Aecom, la Bae System, la Fluor Corp., l’Huntington Ingalls Industries Inc. (impegnate nella produzione di armi nucleari), la polacca Atal SA, la cinese Luthai Textile (violazione diritti umani), la Evergreen Marine Corp. Taiwan, Korea Line Corp., Precious Shipping Pcl, Thoresen Thai Agencies (violazione diritti umani e inquinamento ambientale), l’Evergy Inc. la PacifiCorp, Tri-State Generation and Transmission Association, Washington H. Soul Pattinson & Co Ltd (produzione di carbone), l’Halcyon Agri Corp. (inquinamento ambientale), la JBS South Africa (corruzione)[36].

Nel 2017 la Banca di Norvegia ha invitato il ministero delle Finanze a rivedere gli investimenti del Fondo pensioni consigliando di escludere azioni derivate da collocamenti petroliferi. Il consiglio del gestore è stato recepito dallo Storting[37] il quale ha deciso di eliminare 134 compagnie che hanno interessi nell’industria di esplorazione e estrazione petrolifera per un totale di settanta miliardi di nok.

Le critiche, però non mancano, a partire dalle organizzazioni anti Nato, che contestano il coinvolgimento norvegese nel progetto F-35, a compagnie private che si occupano di fondi d’investimento, come la Storebrand Asa, la principale agenzia norvegese che amministra 70 miliardi di dollari affidati da 1,2 milioni di norvegesi.

Jan Erik Saugestad, vice presidente della Storebrand Asa, è critico verso il pacchetto di investimenti effettuati dal Fondo nazionale. Secondo lui il Fondo dovrebbe impegnarsi con più incisività a convincere le compagnie petrolifere a promuovere maggiormente le tecnologie per energie rinnovabili escludendo completamente quelle che hanno ancora attività nel settore dei combustibili fossili. Nel suo ultimo rapporto, la Storebrand Asa ha individuato una lista di società su cui ha deciso di non investire[38].

Per la verità la lista è molto simile a quella del Fondo governativo, dato che la stessa Storebrand non esclude a priori queste società, ma solo quelle che, nel loro portafoglio, hanno guadagni provenienti da attività considerate critiche per l’ambiente superiori a una certa percentuale (ad esempio esclude compagnie che hanno entrate superiori al 5% in tabacco, al 25% in attività collegate al carbone, 20% in attività collegate a sabbie bituminose)[39].

La Storebrand, inoltre, ha recentemente accusato alcune compagnie petrolifere di boicottare le politiche di energie rinnovabili investendo milioni di dollari per impedire o rallentare la successione delle energie alternative da quelle petrolifere. Tra le società accusate vi sono la Bp (53 milioni di Usd – dollari Usa – annui per boicottare queste politiche), la Shell (49 milioni Usd), Exxon Mobil (41 milioni Usd), Chevron (29 milioni Usd), Total (29 milioni Usd). I metodi utilizzati dalle imprese includerebbero pressioni su politici, amministrazioni locali e sull’opinione pubblica[40].

Il rapporto della Storebrand, però, contrasta nettamente con quello di altre agenzie. La Reuter ha recentemente pubblicato una ricerca da cui si evince che le compagnie petrolifere, con in testa la Shell, hanno investito circa tre miliardi di dollari in acquisizioni di energie rinnovabili negli ultimi cinque anni, mentre uno studio della WoodMackenzie, una società di ricerca e consulenza energetica, ha evidenziato che Total, Shell e Equinor sono tra le compagnie petrolifere che investono maggiormente in energie rinnovabili. La sola Equinor investirà in questo settore entro il 2020, il 25% del suo budget di ricerca[41]41.

È stata ancora la Equinor ad aver sviluppato l’Hywind Scotland Pilot Park, il primo centro di produzione eolica mobile off-shore che si trova a venticinque chilometri dalle coste scozzesi di Peterhead, nell’Aberndeenshire. L’Hywind è un complesso di sei turbine eoliche con una capacità energetica di 30 MW (megawatt). Secondo la Windeurope, la Equinor fornisce con i suoi impianti eolici il 7% dell’intera capacità energetica eolica prodotta in Europa nel 2018[42].

La Norvegia e l’ondata migratoria: l’affermazione dei partiti populisti

Con la scoperta del petrolio in Norvegia sono iniziati ad arrivare immigrati estranei alla cultura scandinava: erano pachistani, iugoslavi, maghrebini che non hanno fatto fatica a essere assorbiti nella nascente industria petrolifera. Al tempo stesso, però, la caduta del Muro di Berlino, le crisi politiche ed economiche dell’Europa dell’Est, accompagnate dagli sconvolgimenti militari ed etnici del Centro Asia, Vicino Oriente e Africa hanno messo la Norvegia di fronte a un’ondata migratoria che ha contribuito a sviluppare scetticismo nei confronti all’Unione europea e sospetto verso i nuovi arrivati.

All’inizio del 2018 su 5.400.000 abitanti 746.700 erano immigrati stranieri a cui vanno aggiunti 170mila nati da genitori stranieri[43]43. In totale gli immigrati sono il 17,3% della popolazione e contribuiscono per il 58% all’incremento demografico della nazione[44].

«Il petrolio è stata la fortuna e, al tempo stesso, la sfortuna della Norvegia», sentenzia Bente, una ragazza di Tromso la quale ritiene, come molti suoi connazionali, che il paese dovrebbe porre un freno all’immigrazione.

Questa percezione è stata cavalcata con successo dai partiti populisti di destra e antieuropeisti, in particolare dal Partito del progresso (FrP, Fremskrittspartiet)[45] che, nato nel 1973 come movimento liberista per l’alleggerimento della tassazione con il nome di Anders Lange’s Party for a Drastic Reduction in Taxes, Fees and Public Intervention («Partito di Anders Lange per una drastica riduzione delle tasse e dell’intervento pubblico»), nel 1989, sotto la guida di Carl Hagen si è trasformato in partito anti-immigrati. Dal 2013 l’FrP, oggi capeggiato da Siv Jensen[46], è entrato a far parte della coalizione di governo guidata da Erna Solberg, del Partito conservatore (chiamato «Høyre», destra).

Da allora l’FrP, che nelle ultime elezioni parlamentari del 2017 ha ottenuto un consenso del 15,2%, ha sempre guidato il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) gestendo la politica migratoria della Norvegia. Tutti i sondaggi effettuati dagli anni Novanta che chiedevano quale partito avesse la migliore politica migratoria, hanno visto la netta prevalenza del Partito del progresso. Uno dei politici più popolari nel paese è Sylvi Listhaug, ministro dell’Immigrazione fino al 2018, la quale ha dato una svolta alla politica norvegese definendo «tirannia del buonismo» l’approccio europeo verso l’immigrazione e dichiarando che sarebbe stato più cristiano e ragionevole aiutare più gente possibile nei loro paesi attraverso programmi di aiuto.

Per la verità la stretta sulla migrazione non è prerogativa solo della destra: il primo passo in questo senso è stato fatto dal governo laburista di Gro Harlem Brundtland che con l’Immigration Act del 1988 ha gettato le basi per un maggiore controllo frontaliero, facili respingimenti e rimpatri forzati.

Dove nasce la strage di Utoya

L’attentato di Anders Breivik del 22 luglio 2011, che colpì gli uffici del governo e poi portò alla strage di Utoya, non attenuò l’ondata di risentimento anti immigrati che, anzi, si andò rafforzando anche con l’aiuto di una classe intellettuale aggressiva e critica nei confronti della politica nazionale ed europea. Le idee di Peder Are «Fjordman» Nostvold Jensen che avevano nutrito la mente di Breivik sono oggi rappresentate da scrittori come Kent Andersen, che nel 2011 tacciò il Partito laburista di kulturquislinger («traditore della cultura norvegese») affermando che il governo aveva trasformato la Norvegia in una «Disneyland multiculturale»[47].

Tra i politici di destra si è fatto largo anche il concetto di Eurabia, mutuato dai libri di Bat Ye’Or (soprannome di Gisèle Littman) e di Bruce Bawer[48]. Secondo questa teoria l’Europa sarebbe al centro di una manovra islamico-progressista-comunista il cui fine ultimo sarebbe quello di trasformare il continente in una colonia islamica con l’aiuto della stessa Unione europea. Nel 2009 Per-Willy Amundsen, ministro della Giustizia tra il dicembre 2016 e il gennaio 2018, dichiarò che i musulmani sarebbero diventati la maggioranza in Norvegia entro un ventennio.

Nonostante la Norvegia non abbia aderito all’Unione europea, il paese ha comunque condiviso la Convenzione di Dublino generando critiche da parte di quella fetta di popolazione che vorrebbe un isolamento maggiore della propria nazione.

L’immigrazione: numeri e problemi

La Norvegia di oggi è dunque molto distante da quella che nel 1921 ha visto l’esploratore Fridtjof Nansen diventare il primo Alto Commissario per i rifugiati nella Lega delle Nazioni. Dall’inizio del nuovo secolo i governi che si sono succeduti alla guida del paese (qualunque fosse il loro orientamento) hanno adottato la politica della qualità piuttosto che della quantità accettando solo un determinato numero di migranti economici in base alle proprie esigenze e disponibilità di mercato del lavoro, scolastico e abitativo. Il parlamento ogni anno stabilisce un numero massimo di rifugiati che possono essere accolti nel paese, mentre il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) identifica i paesi di provenienza e la tipologia di rifugiati escludendo a priori coloro che hanno comportamenti e attitudini indesiderate o problemi di tossicodipendenza.

Così nel 2018 il 28% delle domande d’asilo politico è stato respinto (in totale gli immigrati nello stesso periodo sono stati 49.800[49]) mentre 6mila persone senza permesso legale sono state espulse, di cui 5.400 costretti a rientrare a forza nei loro paesi d’origine (4mila per aver commesso un crimine[50]).

Una politica che rigetta l’idea che molti hanno di una Norvegia come paese aperto e accogliente verso chi cerca asilo. L’atteggiamento oggi prevalente è quello utilitaristico mischiato alla retorica dell’«aiutiamoli a casa loro». I migranti economici sono accuratamente scelti tra coloro che dimostrano di essere professionalmente preparati a svolgere determinati lavori perché, come ha detto nel giugno 2018 l’allora ministro dell’Immigrazione Tor Mikkel Wara: «L’immigrazione va a beneficio della comunità solo sino a certi livelli e certe composizioni. Lavoratori con competenze professionali, provenienti da società con valori moderni e liberali, con competenze che sono richieste dal nostro mercato del lavoro sono utili. Ma i benefici si tramutano in danni per i loro stessi paesi, se questi lavoratori professionalmente validi lasciano la loro terra, privando la loro stessa società di elementi validi»[51].

«La vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda sul principio dell’io ti do e tu mi dai», scriveva il norvegese Henrik Ibsen[52].

Così la politica migratoria norvegese è dettata da due fattori: la consapevolezza che il welfare ha risorse limitate, ma al tempo stesso il diritto degli immigrati di godere degli stessi diritti e opportunità dei cittadini norvegesi. «Questo è il punto che ci distanzia da altri paesi dell’Europa», spiega Roger Jensen, teologo e direttore del Centro di pellegrinaggio del sentiero di Sant’Olav, a Oslo. «A differenza della Svezia e della Danimarca, che hanno ghettizzato gli immigrati, noi li abbiamo accolti e li abbiamo aiutati a inserirsi nella società diminuendo i fattori di rischio criminalità».

Un’affermazione, quella di Jensen, che non incontra l’appoggio di parte degli abitanti delle periferie cittadine.

In effetti, visitando alcuni quartieri di Oslo, sembra di sentire il già citato Luigi di Ruscio quando scriveva «Ovunque l’ultimo / per questa razza orribile di primi / ultimo nella sua terra a mille lire a giornata / ultimo in questa nuova terra / per la sua voce italiana / ultimo ad odiare / e l’odio di quest’uomo vi marca tutti / schiodato e crocifisso in ogni ora / dannato per un mondo di dannati»[53].

Nel sito document.no, uno dei tanti critici nei confronti dell’immigrazione e che raccoglie le idee degli intellettuali vicini al FrP, sono apparsi diversi articoli sulle baby gang. Un’area particolarmente critica è Drammen, un quartiere dormitorio alla periferia di Oslo dove opererebbero sette bande giovanili in cui «la maggior parte dei componenti è immigrata»[54].

È stato anche criticato il logo stilizzato di Oslo, dove, secondo il sito document.no, «non rimane molto né di St. Hallvard né del simbolismo cristiano (…) così i nostri nuovi connazionali (immigrati e musulmani, ndr) possono identificarsi con il nuovo simbolo. Nessuno si potrà offendere per un logo così anonimo»[55].

Per chi rimane: integrazione e diritti

Dalla fine degli anni Novanta si è introdotto l’obbligatorietà di partecipare a programmi di insegnamento della lingua e della conoscenza culturale, storica e sociale della Norvegia e nel dicembre 2018 il governo ha lanciato il programma Integration through education and competence il cui principale obiettivo è inserire gli immigrati nel mondo del lavoro e nella società attraverso l’istruzione pubblica, il lavoro, l’integrazione sociale e l’educazione civica.

Le nuove regole implementate dal governo impongono agli immigrati dei doveri tra cui la frequenza gratuita a 175 ore di scuola di lingua norvegese e a 50 ore di studi sociali, mentre ai rifugiati politici in possesso di un diploma scientifico e tecnologico dei corsi professionali che li indirizzino verso il mercato del lavoro. A tutti gli immigrati, dopo la schedatura e il test obbligatorio Tbc viene offerto un alloggio temporaneo (nel settembre 2018 c’erano circa 4mila residenti, nel 2016, 13.400). Una persona che aiuta uno straniero a entrare illegalmente in Norvegia rischia fino a tre anni di prigione, mentre chi sfrutta l’immigrazione per profitto rischia fino a sei anni. In cambio agli stranieri vengono garantiti gli stessi diritti dei norvegesi.

Ognuna delle 422 municipalità della Norvegia ha diritto di decidere il numero di rifugiati che ritiene di poter accogliere ogni anno. Nel 2018 meno di 250 municipalità hanno offerto la loro disponibilità (136 in meno rispetto al 2017). Il governo concede ai comuni una somma di denaro per ogni rifugiato accolto per 5 anni (nel 2018 era di circa 80.000 euro per ogni adulto e 75.000 per altri adulti famigliari[56]).

Dopo tre anni di soggiorno nel paese senza aver commesso crimini, dopo aver passato un test di lingua A1 (che richiede tra le 300 e le 600 ore di lezione a carico dell’utente) e uno di storia e legislazione norvegese, il candidato può ottenere la residenza permanente, mentre per la cittadinanza occorre risiedere ininterrottamente nel paese per sette anni senza aver commesso reati gravi e passare il test di lingua A2.

Le politiche di integrazione, da qualunque parte le si guardi, sembra comunque stiano funzionando: nonostante quello che molti esponenti della destra xenofoba vanno dicendo e scrivendo, il rispetto tributato dalla società norvegese verso culture provenienti dall’esterno è contraccambiato dall’amore per la nuova patria da parte degli immigrati. Lo dimostra anche un recente rapporto compilato da Statistics Norway in cui si evidenzia che il 76% dei figli di immigrati che sono nati in Norvegia parlano il norvegese oltre alla lingua dei genitori, ma la quasi totalità degli immigrati di seconda generazione sente come propria nazione e cultura più la Norvegia che il paese dei loro padri.

La lezione che la Norvegia può darci è quella di un paese che, in cambio del rispetto reciproco, è possibile che culture tanto diverse in ambito storico, politico, geografico, religioso possano convivere e progredire per lo sviluppo di una sola comunità dalle mille sfaccettature.

Piergiorgio Pescali


Note

[1] Il friluftsliv è l’abitudine dei norvegesi a spendere il proprio tempo libero all’aria aperta.

[2] Undp, Human Development Indices and Indicator, 2018 Statistical Update: Table 1, pag. 22 e Table 2, 1990-2017 pag. 26.

I versi di Bjornstjerne Bjornson sono tratti da Sidste Sang (L’ultima canzone): «Una volta ho sentito di una festa in Spagna: / Un cavallo brado venne lasciato libero nell’arena, / poi una tigre fuori dalla sua gabbia / si aggirò un po’ intorno di soppiatto, / poi si pose sulla pancia».

[4] Statistics Norway, Economic Survey 2019/1 – Economic Development in Norway, Main economic indicators 2007-2022, pag. 31.

[5] Luigi Di Ruscio (Fermo 1930 – Oslo 2011), La neve nera.

[6] Innovation Norway, Key Figures for Norwegian Tourism 2017, The importance of tourism for Norway, pag 6; pag 10; pag. 30.

[7] Nordli et al. (2014). Long-term temperature trends and variability on Spitsbergen: The extended Svalbard Airport temperature series, 1898-2012, Polar Research (http:// dx.doi.org/10.3402/polar.v33.21349).

[8] Norwegian Polar Institute, SvalGlac: Sensitivity of Svalbard glaciers to climate change, 2010-2016.

[9] Statistics Norway, citato. Vedi anche:
https://www.pre-sustainability.com/news/updated-carbon-footprint-calculation-factors.

[10] Norwegian Ministry of Climate and Environment, Norway’s Climate Strategy for 2030: a transformational approach within a European cooperation framework (2016-2017), 16 giugno 2017, pag. 104.

[11] In Norvegia gli alberi sono suddivisi in cinque categorie dalla I alla V. Solo quando le piante raggiungono la V categoria l’assorbimento di gas serra diminuisce repentinamente e sarebbe quindi necessaria la sostituzione.

[12] Miljødirektoratet, Statens landbruksforvaltning og Nibio (2013) Planting av skog på nye arealer som klimatiltak [Afforestation of new areas as a climate mitigation measure], M26-2013.

[13] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, Capitolo 8. Renewable Energy, §Supply and Demand – Renewable energy in the TPES, pag. 126.

[14] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, 1. General Energy Policy, §Key data (2015 estimates) pag. 15.

[15] European Commission, Directorate General for Energy, Quarterly Report on European Electricity Markets, DG Energy, Vol 11, issue 1, first quarter of 2018, Capitolo 2, pag.7.

[16] International Energy Agency, Key world energy statistics 2018, Selected indicators for 2016, pp. 29-33.

[17] Oggi la Kewet e la sua successiva evoluzione, la Buddy, sono scomparse dal mercato. Avevano un’autonomia massima di 150 km, erano piccole, ospitavano al massimo tre adulti, non avevano bagagliaio e somigliavano ad un Sulky, una minicar squadrata degli anni Ottanta.

[18] Ev, «Electric vehicle», veicolo completamente elettrico che si differenza dal Phev, «Plug-in Hybrid Electric Vehicle», veicoli elettrici ibridi.

[19] https://ofv.no/bilsalget/bilsalget-i-2018

[20] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, citata, pp. 52-53.
L’ibrido (Phev) rappresenta il 40% delle auto elettriche vendute nel 2018, nel 2016 era il 35%.

[21] https://info.nobil.no/eng

[22] La direttiva europea consiglia una colonnina di ricarica ogni 10 Ev; in Norvegia la proporzione è di 0,65 colonnine/Ev.

[23] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[24] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[25] https://www.gassnova.no/en/the-government-has-granted-permission-for-co2-storage-in-the-north-sea

[26] http://www.tcmda.com/en/About-TCM/Owners/

[27] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 9

[28] Il Mar del Nord ha il 51% delle riserve petrolifere, il Mar di Norvegia il 23% e il Mar di Barents il 26%. Dal 2009 l’estrazione di petrolio del Mare del Nord è diminuita del 7%, mentre nel Mare di Barents è aumentata del 7%. La Norvegia aveva nel 2016 80 campi di produzione petrolifera off-shore: 62 nel Mare del Nord, 16 nel Mare di Norvegia e 2 nel Mare di Barents.

[29] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 66.

[30] Statoil è diventata Equinor il 15 maggio 2018 con la fusione della Statoil con la Norsk Hydro. Il principale azionista è il governo norvegese (67,0%).

[31] A-lab, Statoil Regional and International Offices, §Fakta.

[32] Hillmar Rommetvedt, The Rise of the Norwegian Parliament, Ed. Frank Cass and Company Limited, Londra, 2003, pp. 189-190.

[33] https://www.nbim.no/en/

[34] Guidelines for observation and exclusion of companies from the Government Pension Fund Global.

[35] https://www.f35.com/global/participation/norway

[36] Norge Bank Investment Management, Responsible Investment Government Pension Fund Global, 2018 – Divestments, §Ethical exclusions, p. 113.

[37] Il parlamento norvegese.

[38] Storebrand, Sustainable investments in Storebrand Q4 2018, Companies that Storebrand does not invest in.

[39] https://www.storebrand.no/en/sustainability/exclusions

[40] Niall McCarthy, Oil And Gas Giants Spend Millions Lobbying To Block Climate Change Policies [Infographic], Forbes, 25/03/2019

[41] https://www.reuters.com/article/us-shell-m-a/shell-buying-spree-cranks-up-race-for-clean-energy-idUSKBN1FF1A8; vedi anche:
https://www.theguardian.com/business/2017/nov/28/   shell-doubles-green-spending-vo ws-halve-carbon-footprint
https://energypost.eu/how-attractive-are-renewables-for-oil-companies/

[42] Windeurope, Offshore Wind in Europe-Key and trend statistics 2018, Capitolo 3 – Industry Activity and Supply Chain, §3.2 Wind Farm Owner, febbraio 2019.

[43] worldpopulationreview.com/countries/norway-population/

[44] Espen Thorud, membro OECD, Expert Group on Migration on Norway, Immigration and Integration 2017-2018, 2018, pag. 38 e pag. 6. – Al 31 dicembre 2017, in Italia la popolazione straniera residente era di 5.144.440 su un totale di 60.483.973 abitanti pari all’8,50% (fonte Istat).

[45] Il FrP rifiuta l’etichetta di partito populista.

[46] Siv Jensen è anche ministro delle Finanze nell’attuale governo Solberg

[47] http://www.aftenposten.no/meninger/kronikker/Drom-fra-Disneyland-6270375.html

[48] Ye’or Bat, Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007. Vedi anche: Bruce Bawer, While Europe Slept: How Radical Islam is Destroying the West from Within, Random House, 2006.

[49] Espen Thorud, citato, pag. 10.

[50] Espen Thorud, citato, pag. 7.

[51] EMN Norway Conference, Challenges – introduction by Tor Mikkel Wara, Oslo, 21 giugno 2018.

[52] Henrik Ibsen, Casa di bambola.

[53] Luigi di Ruscio, Ovunque l’ultimo.

[54] https://www.document.no/2019/03/30/gjenger-gjor-drammen-til-et-helvete-pa-jord/

[55] https://www.document.no/2019/03/31/ny-logo-for-oslo-kommune/

[56] Espen Thorud, citato, pag. 32.




Libri: Restare umani


Testi di Chiara Brivio


Tre libri, tre punti di vista diversi, un obiettivo comune: riportare un po’ di equilibrio e di spessore nella
narrazione pubblica dell’immigrazione. Il primo ci accompagna dal chiasso della piazza mediatica al silenzio del lavoro di un medico forense che tenta di restituire un’identità a corpi senza nome recuperati nel Mediterraneo. Il secondo tra le mura della casa di una famiglia semplice che ospita sei ragazzi rifugiati (in mezzo a intolleranza, insulti social, ma anche tanta solidarietà). Il terzo tra le pieghe della vicenda personale di Kaled, prima miliziano anti Gheddafi, poi trafficante di uomini in Libia.

«Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Una frase che per molti risuonerà come uno dei principi fondamentali della dottrina cristiana: accogliere lo straniero, il migrante, il senzatetto, il pellegrino.

Oggi, purtroppo, l’accoglienza, una delle questioni fondamentali del nostro tempo, si trova al centro di un infervorato (quando non inferocito) dibattito pubblico e politico. Tre libri di recente pubblicazione affrontano il tema con grande sensibilità e compostezza, e con un pregio comune: dare voce a chi non ce l’ha.

Tre volumi, opera di tre scrittrici che, offrendo una riflessione seria e pacata sulla questione migranti, interpellano le coscienze di tutti, credenti e non.


Naufraghi senza volto

Impegnata da anni nell’identificazione e nel riconoscimento delle vittime dei naufragi nel Mediterraneo, in particolar modo quelli del 3 ottobre 2013 (che fece 366 vittime) e del 18 aprile 2015 (quasi 1000), Cristina Cattaneo, medico legale e direttrice del Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense) dell’Università statale di Milano, ci parla della sua esperienza.

«Naufraghi senza volto» è il racconto del viaggio, fisico e simbolico, che porta le identità degli scomparsi dal fondo del mare alla terra ferma – tra Milano, Roma e Melilli -, attraverso la minuziosa ricerca e identificazione di oggetti, vestiti, corpi, ossa.

Succede che, nel descrivere il suo lavoro, la studiosa racconti del ritrovamento di una lettera dell’Unhcr che attesta l’«autentico» status di rifugiata politica di una vittima, della pagella scolastica di un ragazzino di 14 anni del Mali cucita ai vestiti (protagonista della vignetta di Makkox successivamente divenuta virale), di un sacchetto di terra conservato in una tasca, di un rosario buddista, una croce e un corano insieme. Tutti segni di una disperazione che supera ogni barriera ideologica e religiosa.

Succede anche che il racconto della missione di ridare un’identità e una storia a chi l’ha persa, passi dai volti e dai ricordi di quei parenti che mai si sono rassegnati, che mai hanno smesso di cercare i loro cari, in barba a ogni «ma chi vuoi che li cerchi questi morti?».

Prima di ogni cosa, però, il libro di Cristina Cattaneo è un monito contro l’indifferenza e contro le logiche campanilistiche del «ma con tutti i problemi che abbiamo in Italia siamo pazzi a occuparci anche di questo?».

Come sottolinea l’autrice, le tragiche storie delle vittime che ha incontrato, scolpite indelebilmente sui loro corpi e le loro ossa, ci ricordano come sia fondamentale per noi «pensare ai loro morti» come se fossero nostri, per comprendere che siamo tutti esseri umani.

Un monito che l’autrice lancia ai singoli, ma anche alle istituzioni, puntualizzando come soltanto attraverso la cooperazione e la collaborazione tra i governi si potrà affrontare efficacemente il problema.

«Naufraghi senza volto» è un libro dallo stile sobrio e pacato, nonché ben scritto. Un vero antidoto al chiasso che oggi circonda la questione migranti.


A casa nostra

Nicoletta Ferrara e il marito Antonio Calò, insieme ai loro quattro figli, dopo il naufragio nel Mediterraneo del 18 aprile 2015 che provoca quasi mille morti, decidono di accogliere in casa sei ragazzi africani, tutti musulmani: Ibrahim, Tidjane, Sahiou, Mohamed, Saeed e Siaka.

«A casa nostra» è il diario che Nicoletta, maestra di scuola primaria di Treviso, ha tenuto negli anni. Vi racconta una «straordinaria» avventura che sin dal principio sembra figlia di un «disegno più ampio». Come i Calò, tra lingue che si mescolano, una pastasciutta e un piatto africano, stentati racconti delle torture subite in Libia, sono diventati una vera e propria famiglia «allargata» che tuttoggi vive unita e affiatata.

Quelle di Nicoletta Ferrara sono pagine profonde, che rispecchiano la fede granitica della sua famiglia che non vacilla mai, nemmeno davanti all’ennesimo rifiuto di una protezione umanitaria, all’ennesimo insulto sui social, alla diffidenza di amici e vicini.

Oggi i ragazzi lavorano tutti, parlano la nostra lingua, si stanno costruendo una vita in Italia. Sono sei volti, sei nomi, sei storie che ritrovano dignità attraverso la voce dell’autrice: «Ho pensato alle immagini degli sbarchi e a come ciascuno nella massa si confonda, mentre invece ciascuno porta su di sé una storia, degli affetti lasciati, una mamma e un papà che aspettano un ritorno, una moglie in attesa, delle speranze e una voglia di vita che nessuno ha il diritto di negare. Nessuno».

Il libro, scritto con grande sensibilità, dolcezza e una buona dose di ironia, è soprattutto il racconto della sua personale vicenda di madre di dieci figli. Un punto di vista inedito che forse ancora mancava nell’ampia letteratura disponibile oggi sul tema dell’immigrazione.

«A casa nostra» è un inno alla solidarietà, che richiama tutti a farsi artefici di una società migliore.

Io Khaled vendo uomini e sono innocente

Khaled è un ex combattente delle milizie di Misurata che hanno partecipato alla rivoluzione contro Gheddafi. Nel caos della Libia del dopo regime, dove non ci sono né vinti né vincitori, si ritrova a diventare trafficante di esseri umani. A volte stupra, a volte uccide. «Io Khaled vendo uomini e sono innocente», romanzo d’esordio di Francesca Mannocchi, giornalista, documentarista ed esperta di migrazioni, è uno sconvolgente viaggio nella mente del suo protagonista, nel quale il confine tra il bene e il male, tra vittima e carnefice, tra innocente e colpevole si fa poroso.

Ingegnere mancato, ribelle tradito dalla rivoluzione, perseguitato dalla morte in battaglia dell’amato fratello Murad, Khaled non ha mai assaporato il gusto della «libertà», perché la «guerra non è mai davvero finita».

Con una prosa asciutta e scarna, l’autrice descrive in prima persona un personaggio che si ritrova sempre al «limite» in un paese che «puzza» come la corruzione dei ministeri, come «i negri» nelle stive dei barconi («il vero oro della nostra Libia»).

I migranti che Khaled traffica non hanno volti né nomi, sono quasi una massa indistinta, la merce che gli serve per raggiungere il suo obiettivo: una vita comoda e tranquilla a Istanbul. L’unica a lasciare un segno è Fouzieh, la siriana di Homs annegata insieme al piccolo Bilal perché priva del denaro necessario per pagare i salvagenti. Fouzieh lo perseguita nelle sue notti agitate, forse simbolo di una pietas dalla quale Khaled pensava di essersi «salvato».

«Io Khaled vendo uomini e sono innocente» è un libro coinvolgente, a tratti inquietante, nel quale la vera protagonista è l’ambiguità, quella di Khaled e quella della stessa Libia, dilaniata da guerre intestine, mai veramente liberata, né dai vecchi colonialisti né dalla feroce dittatura del rais. È un profondo chiaroscuro, dove tutti, in qualche modo, sono complici del male – «siamo tutti piccoli Satana (Gheddafi), tutti piccoli dittatori di noi stessi», conclude Khaled -, e dove nessuno può sentirsi davvero libero e innocente.




Cari missionari, lettere a MC


Messaggi alienanti?

Gent. direttore
riportare su una rivista missionaria ciò che il sito Raiawadunia, curato dal comunista Montanaro (che ho letto anch’io), gestito da gente che non ha mai fatto niente per gli internati veri dei gulag sovietici, non quelli fasulli girati da blogger nigeriani guarda caso, è alienante. Se fosse vero che Scaroni ha dato tanti milioni per sondare l’esplorazione di greggio in Nigeria, perché il governo non li ha impiegati per far lavorare i maschi nigeriani? In fondo gli africani reclamano tasse per far usare il loro territorio alle multinazionali e questa non è una tassa? Uno stato è libero di chiamare chi vuole o lo devono fare solo le multinazionali americane e olandesi? Che il franco Cfa sia una convenzione vecchia lo sapevano solo gli addetti ai lavori e non le brave persone del parlamento europeo che hanno sfruttato e sfruttano l’Africa senza pagare nulla vedi Belgio nel Congo, ecc. Che questo giornale riduca la sua missione a scagliarsi contro questo governo lo trovo per nulla cristiano. Ogni stato ha diritto di accogliere chi vuole, inoltre con tutto il denaro che viene dato ai governi africani e le ricchezze del loro territorio, dovrebbero essere gli europei ad andare in Africa e non viceversa. L’Italia ha sempre avuto una sola grande ricchezza: la volontà di lavorare. E non dimentichiamo che il cristianesimo ha fondato l’Europa diventata lurida per colpa di atei, protestanti, calvinisti e banche e di finti cattolici che cadono nelle trappole dei relativisti. Riguardate le visioni di Leone XIII e le parole di Pio IX. Saluti.

Emiliano Errico
20/03/2019

Caro sig. Emiliano,
questo direttore o qualche giornalista di MC a volte segnalano su MC(e sullla sua pagina FB) anche degli articoli di Raiawadunia perché trovano che sono ben fatti e documentati. Grazie di avermi dato l’occasione di approfondire chi è Silvestro Montanaro che non conoscevo. I gulag della Libia non sono frutto della fantasia di blogger nigeriani, ma realtà ben documentate da rapporti dell’Onu e aggravatesi ancor prima di questo governo dopo la sciagurata campagna euroamericana contro Gheddafi interessata più a mantenere i nostri privilegi che al bene di quella gente.

I soldi che le multinazionali (petrolifere e non) investono in Africa putroppo non vanno nelle casse di quei paesi, ma nelle tasche dei corrotti per poter portare via a prezzi irrisori le materie prime che interessano al nostro sistema industriale e produttivo. È grazie a questa corruzione che si mantengono dittatori e oligarchie che rimpinguano le proprie casse a spese della loro gente e chiudono gli occhi di fronte ad abusi come smaltimento di rifiuti tossici, estrazione del petrolio e altre risorse energetiche, del coltan e altri minerali strategici (vedi articolo a pag. 12) , disboscamento dissennato di foreste e land grabbing. Questo rende possibile il furto sistematico di risorse strategiche pagate all’Africa «noccioline» in confronto al loro reale valore di mercato. Un esempio: il coltan sul mercato vale almeno 100$ al chilo, mentre ai minatori vanno solo 18 centesimi.

Questa rivista non si scaglia contro il governo, che rispetta come istituzione legittima e necessaria della nostra nazione. L’essere critici di comportamenti, decisioni ed esternazioni di alcuni dei nostri governanti fa parte del nostro diritto di cittadini di questo paese che, grazie a Dio, non è una dittatura ma una democrazia.

Che poi un paese abbia il diritto e dovere di vegliare su chi entra e chi esce, non è in discussione. È anche vero però che un paese non è isolato e come tale accetta tradizioni, usanze e leggi di valore universale codificate da trattati e convenzioni internazionali che sono fatte per proteggere le persone, non per dividere il mondo in buoni e cattivi, amici e nemici.

Denaro dato ai governi africani. Questo riporta a quanto già detto sopra per le multinazionali. Le statistiche dicono impietosamente che quanto abbiamo preso e prendiamo
(italiani, europei, americani, russi e cinesi) dall’Africa è molto ma molto di più di quello che diamo come contributo allo sviluppo, che spesso è ben al di sotto dei parametri che noi stessi ci siamo dati (dovrebbe essere almeno lo 0,7% del Pil di ogni paese; l’Italia dà il 0,26%). Basterebbe che pagassimo all’Africa il prezzo giusto delle materie prime che là prediamo e non ci sarebbe bisogno di alcun aiuto. In realtà oggi è l’Africa che aiuta noi e ci permette di mantenere il nostro livello di vita, e non noi che aiutiamo l’Africa.

Italiani grandi lavoratori. Non metto in discussione questo mantra. Probabilmente è stata questa voglia di lavorare che ha portato milioni di italiani a emigrare nelle Americhe e nei paesi del Nord Europa. O forse sono state anche le guerre. Cinque milioni sono emigrati dal Sud Italia dopo la cosiddetta unificazione. Milioni sono partiti dopo la vittoria della prima guerra mondiale. Altri milioni dopo la seconda. Oggi se ne vanno a decine di migliaia a causa della crisi economica che attanaglia il paese.

Non entro nel merito delle cosiddette radici cristiane dell’Europa, ma dopo papa Leone XIII e papa Pio IX abbiamo avuto molti altri papi e perfino un Concilio ecumenico.

Forse anche leggere criticamente Raiawadunia (che in swahili vuol dire «cittadino del mondo») può aiutare a disintossicarci da un’informazione a senso unico che ci lava il cervello e non ci aiuta a pensare.


Qualche riflessione

Buongiorno padre Gigi,
MC di marzo, appena ricevuto, mi offre l’opportunità di alcune riflessioni, nonché l’invio di un paio di testimonianze raccolte nel mio lungo peregrinare per il mondo alla ricerca di usi, costumi, tradizioni diverse, ma soprattutto di nuovi contatti umani.

Rinnovi e cancellazioni. Condivido pienamente il suo consiglio al signore che preferisce destinare i suoi aiuti a una fra le più conosciute (forse la più conosciuta) e reclamizzate Onlus. Nessuno mette in dubbio quanto questa organizzazione e altre che occupano stabilmente larghi spazi pubblicitari, facciano in positivo. Ma quando le percentuali sotto la voce «spese di rappresentanza» superano a volte il 70% qualche dubbio resta. E quando, viste le mie ripetute esperienze in terre di missione, qualcuno mi chiede consigli, rispondo di controllare sempre i bilanci (normalmente pubblicati) prima di dare il proprio contributo. Le spese non destinate all’obbietivo principale non dovrebbero mai superare il 15-20%.

Migrazioni, Viaggio della speranza.

Ho raccolto la testimonianza che riporto sotto in pieno deserto del Niger nel gennaio 2000 (19 anni fa), quando Gheddafi era ancora saldamente in sella e il sogno di una vita migliore in Europa era già diffuso nei paesi del Nord Africa, mentre da noi se ne parlava pochissimo. Per i politici italiani ed europei era un fenomeno irrilevante destinato a scomparire nel giro di poco tempo viste le difficoltà.

Come sempre, «avevano visto giusto».

© Mario Betrami

«Arriviamo in Libia, faccio un po’ di soldi e poi… via in Italia». Mi guarda e sorride Mohamed. Nei suoi occhi l’entusiasmo di chi sta per aprire un importante capitolo della sua vita, lasciando alle spalle un mondo che gli ha dato la vita, ma che non gli sa offrire i mezzi per continuarla. Dice di avere 18 anni, ma ne dimostra 16. Con lui, una trentina di giovani; suoi coetanei o poco più. Nei pressi, un vecchio autocarro di fabbricazione libica. È il loro Concorde, il loro treno, il loro autobus di linea.

Mohamed è uno dei tanti che lasciano l’Africa per il «viaggio della speranza». Lui è di qui. È nigerino. Ma, sulla pista che da Agadez porta a Bilma e a Dirkou, ne abbiamo incrociati parecchi di questi autocarri, sempre stracarichi, con giovani provenienti da altri stati di questa zona africana. Paesi anche non confinanti direttamente col Niger. Autocarri che, come autotrasportatori, fanno regolarmente la spola con la Libia. Mezzi già carichi di merce, su cui trovano posto 20-30 persone. In equilibrio precario. Appollaiate a grappoli. Aggrappate alle corde che reggono la merce, per non essere sbalzate fuori ogni 10 metri dalle enormi buche. In quelle condizioni viaggiano giorni e giorni. Allegramente. Senza lamentarsi. Tutto è accettato con filosofia africana, che non significa necessariamente rasse-
gnazione.

È solo un modo di vivere di chi, da generazioni, deve aspramente lottare per sopravvivere. Di chi ha la sofferenza come inseparabile compagna di viaggio. E non è che questa scomodissima tradotta venga regalata. È pagata profumatamente. La sola tratta Agadez-Libia costa circa 200mila lire (ca. 100 euro, ndr). E, per chi viene da altri paesi, la cifra è ben maggiore. Cifre spropositate per chi non ha di che vivere.

Arrivati in Libia, dicono, possono trovare qualcosa da fare. Ben pochi, però, hanno intenzione di fermarsi lì. La Libia sembra conceda una sorta di lasciapassare, di salvacondotto, per tentare poi il gran balzo verso l’Europa. L’Italia in particolare. Il paese dei loro sogni. La realizzazione dei loro progetti. La fine dei loro problemi.

È convinto Mohamed nel ribadirmelo in un più che accettabile francese. È l’unico del gruppo a parlarlo, anche se è la lingua ufficiale del Niger.

Stanno per ripartire. Non ho il coraggio di dirgli che, in Italia, le cose non stanno proprio così. Che non è così facile. Soprattutto per chi entra come clandestino. Sarebbe inutile. Sicuramente, non mi crederebbe. E, in ogni caso, il peggio che troverà da noi, potrebbe essere molto meglio di ciò che lascia qui.

Mario Beltrami
19/03/2019


Populismo?

Carissimo padre
ho letto il suo editoriale (agosto-settembre 2018) e sono molto perplesso sul suo contenuto.

Sono Veneto, faccio l’imprenditore, sono sposato con due figli. La nostra terra è sempre stata generosa, qui accogliamo tutti, non c’è alcun populismo, nessuna violenza o traccia di razzismo nei confronti delle persone di colore o verso altri extracomunitari. Anzi loro stessi si sono inseriti nella nostra cultura e sono sul libro paga di molti imprenditori come me che li pagano per il lavoro che fanno. Certo, ci sarà qualcuno che li sfrutta, spero pochissimi. Come facciamo a essere sicuri che tutti i nostri conterranei siano onesti? Se non lo sono non sarà certo per il colore della pelle, la disonestà non guarda al colore della pelle.

Il Veneto è una terra amministrata bene, che insieme alla Lombardia e al Piemonte ha contribuito a fare dell’Italia quella che è, un paese moderno per cui rammarica sentir parlare di populismo perché sappiamo che si parla di partiti politici fortemente radicati qui.

Ma le ripeto, il Veneto è amministrato bene, la sanità funziona, i trasporti funzionano, non è questo quello per cui aleggiano i politici? Venga qui da noi, a parte certe zone di degrado a Padova zona stazione, gli immigrati sono accolti, lavorano, pagano le tasse.

Detto questo, di cosa stiamo parlando quando si parla di populismo? Scandire con fermezza diritti e doveri non è il dovere di ogni buon padrone di casa? A presto

Carraro Francesco
08/03/2019

Caro sig. Carraro,
sono andato a rileggermi l’editoriale che lei cita.

    • Non ho accusato nessuna regione italiana né in particolare né in generale, anche se mi dispiace che proprio nelle regioni in cui sono nato e vissuto, oggi la voce più grossa la faccia una minoranza xenofoba nel silenzio di una maggioranza sana e generosa, ma confusa e un po’ impaurita.
    • Ho un grande rispetto e stima per chi si guadagna il pane col sudore della fronte e pratica la giustizia tirando avanti la carretta con fedeltà, amore e compassione nonostante le difficoltà. Sono queste le persone che rendono bella l’Italia.
    • Quanto alla maggiore o minore simpatia per questo governo, è chiaro che non condivido un modo di governare che si legittima con l’uso smodato di social, che è perennemente in campagna elettorale e usa un linguaggio perlomeno discutibile se non incitatore di odio e discriminazioni. Plaudo a quegli amministratori – come il sindaco di Riace – che davvero hanno a cuore il bene comune, sono attenti all’ambiente, a ogni persona e in particolare ai gruppi più deboli.
    • Scandire con fermezza diritti e doveri è più che giusto. Ma è sicuro che tutti i doveri siano davvero rispettati, anche quelli più onerosi, o invece si applicano solo quelli che fanno più comodo?
    • È vero che la disonestà non guarda il colore della pelle, ma spesso nei media questo è dimenticato e le persone vengono trattate con pesi e misure diverse. Prostituzione, caporalato, consumo di droga, abusi edilizi, evasione delle tasse, inquinamento dell’ambiente, corruzione… sono tutte «cose nostre», non ce le hanno portate i migranti che piuttosto ne sono diventati vittime o capri espiatori.

Non solo perdenti

Carissimo direttore,
ho letto con molto piacere su MC di marzo 2019, «4 chiacchiere con i perdenti» che mi ha stimolato ad inviare questi pensieri per richiamare il valore della memoria storica. Da sempre ne sono un cultore, non tanto per essere diventato «vecchio», ma perché nella memoria, come ricorda papa Francesco, ci sono le radici della nostra fede. Detto questo, voglio sottolineare perché mi ha molto colpito il suddetto articolo. Nel rileggere in questo periodo quaresimale un vecchio libro, «Vivere in Cristo» di Mario Corti S.J. (Edizioni La Civiltà Cattolica, 31/12/1951) nel capitolo «La preghiera è infallibile», a pag. 193 si legge: «Il 17 marzo 1649 tra torture inaudite, S. Gabriele Lallemant S.J., a trentanove anni, consumava l’olocausto della sua vita col martirio nel Canada. Appena caduto in terra, sfigurato con il capo spezzato dall’ultimo colpo di scure, un selvaggio gli spaccò il petto, ne estrasse il cuore palpitante, ne sorbì il sangue e lo divorò, certo di appropriarsi così dell’eroico coraggio del martire». Segue poi la descrizione del martirio così come è riportato fedelmente in MC da don Mario Bandera. Ecco, ho pensato «queste sono più di 4 chiacchiere con i perdenti», e non è solo pura coincidenza se ritroviamo, dopo quasi 70 anni, in un libro pur datato in molte parti per ragioni storiche (in quanto scritto prima del Concilio Vaticano II) dove viene richiamato il valore della preghiera. In questo senso richiamo il valore della memoria storica che ritrovo con piacere in «4 chiacchiere con i perdenti». Chiudo con un augurio a tutti i missionari ed un ringraziamento per don Paolo Farinella.

Pino Cadiani
28/03/2019


Mozambico: Ricardo

Il signor Ricardo è seduto in un angolo all’ombra, nella «Scuola industriale» di Tete, dove con sua moglie e i suoi 5 figli è alloggiato alla meglio con le altre 656 famiglie dopo la grave alluvione che ha colpito la nostra città di Tete, e i comuni di Doa, Mutarara, Angonia, Ikondezi. Ricardo aspetta che i funzionari della protezione civile distribuiscano il pranzo. Dopo una timida presentazione mi parla di sé e della sua storia.

Il suo terreno è lontano dal letto del fiume. Lo ha comprato e il comune lo ha autorizzato a costruire. La sua casa in mattoni aveva tre stanze e una sala grande, costruita con sudore e amore. Lui se la cava come falegname e idraulico. I bambini sono piccoli, il più grande frequenta la 6ª elementare, e la più piccola ha appena 5 giorni: è riuscito a portarli via dalla furia delle acque uno per uno, addormentati. Mezz’ora dopo ha visto la casa cadere, muro per muro, e le sue cose sparire sott’acqua. Letti, vestiti, cucina, frigorifero, sedie… tutto. «Non so come farò nel futuro».

Il caso di Ricardo è simile a quelli di centinaia di famiglie nella nostra diocesi di Tete, che ancora non sanno come e cosa faranno per alzarsi da questa tremenda disgrazia. Alcuni sono tornati alle loro terre, alloggiati in tende, altri ancora nella Scuola industriale; tutti aspettano che il governo assegni loro un terreno in un luogo più sicuro, ma con il timore si essere portati lontano da scuole e ambulatori.

Tutto è iniziato nella notte tra il 7 l’8 di marzo scorso. Le abbondanti piogge cadute nei comuni dell’altopiano di Tsangano e Angónia, dove hanno distrutto campi, villaggi, scuole e sei chiese, si sono riversate sul fiume Rowubwe, a marzo normalmente secco e senza un filo d’acqua. Il Rowubwe, non riuscendo a defluire nel fiume Zambesi già in piena, ha invaso  in poco tempo villaggi e campi, in un crescendo violento e drammatico.

Si parla di una trentina di morti accertati, ma anche di decine di dispersi. Resta ancora da sapere con esattezza la situazione dei comuni di Doa e Mutarara ancora coperti dalle acque, e dove l’accesso per strada è impossibile.

Dopo appena una settimana, le regioni del centro del Mozambico hanno vissuto un dramma ancora peggiore.

Il ciclone Idai (Idai è un nome di ragazza in Hindi, significa svegliarsi o amore, ndr) formatosi nel Canale del Mozambico, con una velocità fino a 220 Km/h ha raso al suolo la grande città di Beira, la città di Dondo, e centinaia di paesi e villaggi, e tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Pioggia e venti hanno devastato il centro del paese. Una vera catastrofe per ambiente, persone e strutture.
Una intera regione sommersa dall’acqua. Manca energia elettrica, comunicazioni telefoniche, acqua potabile. Strade interrotte. Villaggi isolati e sommersi. Scuole, ospedali, chiese, fabbriche, università… nulla è rimasto in piedi. Morti? Più di mille. Il colera ne sta mietendo altri.

In mezzo a tanta sofferenza, il paese intero, dal presidente all’ultimo cittadino, vive un momento di bellissima solidarietà. Aiuti da tutte le parti stanno arrivando a Beira perché non manchino cibo, acqua  e il necessario finché le cose possano tornare se non come prima, almeno vivibili e dignitose.

Padre Sandro Faedi,
amministratore apostolico di Tete

 




Niger: Siamo in un mondo al contrario


Nei paesi del Sahel l’islamismo sta assumendo varie forme. Gli stati non riescono a controllarlo. La strategia (imposta dall’Occidente) è quella di fargli la guerra, senza tentare il dialogo. Inoltre, si tende ad assimilare jihadismo e migrazione. In questa confusione qualcuno ne approfitta per mantenere lo status quo. L’analisi di un grande intellettuale nigerino.

Testo e foto di Marco Bello

Sguardo vivace, voce calda e accogliente. Moussa Tchangari, ci riceve nel suo piccolo ufficio, alla sede dell’associazione che ha fondato nel lontano 1994, Alternative espaces citoyens (Asc). «Un’associazione apolitica senza fini di lucro, la cui missione è operare per l’avvento di una società fondata sull’uguaglianza dei diritti umani e dei sessi, preoccupata per la preservazione dell’ambiente e della promozione della gioventù, e la valorizzazione della solidarietà tra i popoli», si legge sul sito.

Conosciamo Moussa dal 2009, ma in questi anni il contesto è molto cambiato. Tutta l’area del Sahel è sconvolta come non mai dal fenomeno degli attacchi terroristici. Tanti sono i gruppi jihadisti sul terreno, come abbiamo descritto in precedenti articoli (vedi archivio MC). Inoltre, nell’area, è diventato cruciale il fenomeno dei flussi migratori. Fenomeno che già esisteva, ma che gli occidentali hanno scoperto solo da qualche anno. Così diversi eserciti delle potenze ricche sono ora presenti nei paesi del Sahel: Francia, Usa, Germania, Belgio, contingenti misti dell’Unione europea e perfino poco meno di un centinaio di militari italiani proprio in Niger (Cfr MC marzo 2018). I contingenti hanno la doppia scusa di combattere il terrorismo e bloccare i flussi migratori.

Moussa Tchangari è molto conosciuto nel suo paese, come leader della società civile, come uno che non si piega nel difendere i suoi ideali. E per questo negli ultimi anni è stato anche incarcerato più volte, da un governo, quello di Issoufou Mahamadou, che si dice socialista. Con lui abbiamo parlato delle grandi preoccupazioni dell’area e delle sfide della società civile.

Gli islamisti, perché?

Moussa ci spiega quali possono essere le cause profonde dell’insediamento dei gruppi jihadisti in tutta l’area. «Gli islamisti sono la forza antisistema più visibile, più evidente e più attiva in questo momento storico. Nella maggior parte dei paesi del Sahel, Mali, Burkina e Niger, sono loro che fanno parlare di sé. Sono armati e portano avanti una sorta di guerriglia, compiono attentati contro obiettivi civili e militari». Ma, ci spiega Moussa, con la sua voce calma e calda, non è l’unico fenomeno importante di questi anni. «Vediamo anche una corrente islamista non armata, che sta progredendo nella società. I suoi adepti fanno un lavoro paziente di educazione, formazione, sensibilizzazione, inquadramento».

Si tratta di un movimento più morbido, ma egualmente molto incisivo in un paese al 98% musulmano. Chiediamo a Moussa se si può parlare di radicalizzazione dell’islam.

«Non so se il termine radicalizzazione dell’islam sia appropriato. Il fenomeno che osserviamo è un ritorno in forza di religiosi, nella vita di ogni giorno, anche in ambienti dove non erano presenti. Ad esempio, nelle università i temi dominanti sono cambiati. Qualche anno fa i discorsi erano di sinistra, oggi sono sorte ovunque zone di preghiera, e gli studenti sono più legati a questo aspetto. Nella società ci sono alcune correnti che si stanno imponendo, come i Salafiti, che predicano il ritorno ai valori di base, alla “società islamica primaria”, così la chiamano. Una pratica che segue alla lettera il Corano e non ammette sincretismo. Prima dominava la corrente sufi della Tijanyyah, più incline a coabitare con altre pratiche, con una certa tolleranza. Adesso la corrente Izala1 (un movimento salafita originario della Nigeria del Nord), che era minoritaria, si è propagata e ha molti adepti. Vedete le donne velate in modo diverso, un differente stile di vestirsi, di portare la barba».

Ci chiediamo come sia successo questo. «Oggi c’è un reflusso della sinistra tradizionale. In passato c’erano correnti marxiste leniniste che proponevano qualcosa di diverso. Assistiamo quasi alla scomparsa di queste forze che erano quelle anti sistema. Si è creato un vuoto che gli islamisti stanno riempiendo».

Due movimenti dunque, uno che ha scelto la via della lotta armata e l’altro quella della penetrazione sociale. Che contatti ci sono tra di loro?

«Non osserviamo ancora un’unione tra queste due correnti. Se si unissero, l’islamismo costituirebbe una forza notevole nei nostri paesi. Entrambi si oppongono a chi è al governo e propongono un loro progetto, che è un progetto antisistema. Essi dicono di essere contro la democrazia, anche se non è proprio la democrazia quello che stiamo facendo qui, la chiamiamo così anche se è imperfetta. Loro propongono qualcosa di diverso. Anche dal punto di vista legislativo, vogliono delle società rette dalla legge islamica».

Islam e politica

«Ma è anche un movimento politico, incoraggiato dall’interno come dall’esterno. Osserviamo l’ampliamento di una dinamica riformista della religione che introduce nuovi modi di pensare, di vivere, di intendere i rapporti tra le persone. È una trasformazione nel campo delle pratiche religiose e una proiezione del religioso sul campo politico».

Queste correnti islamiste sono in forte crescita, con un numero di seguaci in aumento continuo e quindi un peso politico sempre più importante.

«Ma le Costituzioni dei paesi del Sahel impediscono che i partiti siano creati su base religiosa, mentre è possibile in altri, come quelli arabi e nordafricani. Questo vuol dire che il sistema degli esclusi si sviluppa al margine di quello ufficiale, il quale non offre loro la possibilità di una partecipazione politica.

E alcuni (degli esclusi) hanno fatto la scelta della lotta armata, perché non ci sono possibilità legali per loro. Presto o tardi, si andrà allo scontro, e secondo me siamo già un po’ a questo».

I governi della regione stanno facendo la guerra ai gruppi che hanno scelto la lotta armata, i cosiddetti jihadisti. Hanno costituito il «G5 in Sahel», un coordinamento degli eserciti di Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, con l’appoggio della Francia.

Ma Tchangari ci spiega: «Oggi gli stati saheliani sono molto deboli rispetto a tutte queste correnti sia armate che non armate. Questo perché non hanno la capacità di ingerenza negli affari religiosi. Forse non dovrebbero neppure farlo. In ogni caso non riescono a regolamentare questo settore, proprio perché questi movimenti non sono riconosciuti come entità legittime.

I problemi dei paesi saheliani si riassumono oggi in una formula: crisi di legittimità degli stati. Lo stato non è riconosciuto come entità legittima, quindi ci sono cose che non può fare, come intervenire sulle questioni religiose. Sarebbe criticato, perché tocca il sacro, e non ne ha la forza.

Gli stati hanno anche difficoltà ad adottare certi tipi di leggi, come il codice della famiglia in Mali, la legge sulla protezione delle ragazze qui, il dibattito sulla laicità.

Il Niger non è uno stato laico ma si definisce “non confessionale”. Ci sono stati dibattiti nei quali abbiamo visto l’influenza molto grande delle differenti correnti religiose sulla politica.

Se la crisi di legittimità dello stato non sarà risolta, esso non potrà regolamentare il settore religioso, che diventa una bomba a orologeria».

E questo fatto fornisce agli stati stranieri l’occasione d’ingerenza. Continua Moussa: «A livello politico si vuole continuare a tenere chiuso il sistema, senza offrire aperture a queste correnti. In alternativa si potrebbe dar loro un riconoscimento legale, al di là di associazioni apolitiche, caritative o culturali. Ma non so se sia la cosa migliore. Oggi non hanno la possibilità di avere un partito di tipo islamico». Ad esempio, in Algeria il Fronte islamico di salvezza (Fis), partito religioso, vinse le elezioni di fine 1991. Ma le forze laiche non lo lasciarono governare, così iniziò la guerra civile algerina con la nascita dei Gruppi islamici armati (Gia) che poi si propagarono, nel decennio successivo anche nei paesi saheliani. «Questa storia in parte spiega quello che è avvenuto qui. Ma almeno in linea teorica in Algeria le correnti islamiste hanno potuto avere un partito. Qui, invece, si fa la scommessa di vincere tutti questi gruppi unicamente per la via militare. Non si vuole riformare il sistema né politico né economico nel paese. Secondo me voler vincere senza cambiare nulla è una scommessa folle».

Quale può essere la soluzione? «Se possiamo avere cambiamenti politici importanti che vanno incontro alle aspirazioni profonde della gente, allora forse si potrebbe fermare l’avanzata di queste correnti, perché ci sarebbe un cambiamento che va verso quello che la gente chiede».

La doppia trappola

Ma questa non sembra essere la tendenza attuale. «Oggi i paesi del Sahel sono doppiamente in trappola: primo, i paesi occidentali dettano la condotta da seguire, non solo sul piano politico e pratico, anche dal punto di vista della riflessione. Ad esempio, nessun governo saheliano può cercare il negoziato con questi gruppi armati. Il solo momento in cui si attiva un dialogo è quando ci sono ostaggi occidentali. In quei casi si conoscono i nomi, gli indirizzi, si hanno contatti, ecc. Ma si considera che non ci siano discussioni politiche da fare.

Secondo: l’opzione di distruggere questi gruppi è irrealizzabile. Ma nessuno dei nostri governi osa dire che non abbiamo i mezzi per combattere i terroristi sul piano militare. Gli occidentali sono pronti a farlo, a dispiegarsi sul terreno, ma non a dare agli stati saheliani i mezzi per fare la guerra e neppure i mezzi per cercare altre soluzioni possibili, come il dialogo.

La strategia degli occidentali è mantenere lo status quo, che permette loro di essere presenti. Non hanno vinto, non hanno negoziato, ma sono qui. Questo è quello che interessa. Non so cosa vogliano fare nel futuro».

In realtà si dice che siano i jihadisti a non voler negoziare. «Loro dicono: noi abbiamo un progetto, opposto al vostro. Il rapporto di forza deciderà. Non hanno detto che vogliono negoziare. Vuol dire che sarebbero totalmente ostili a qualsiasi trattativa? Io penso di no».

La gente qui in Niger dice: visto che quello che chiedono è inaccettabile (ovvero la costituzione di repubbliche islamiche), cosa fare? «Si dice che è impossibile dialogare, e dunque facciamo la guerra. Però vediamo che altrove negoziano: in questi giorni gli Stati Uniti stanno negoziando con i Talebani (si riferisce ai negoziati in corso a Doha, in Qatar, per mettere fine al conflitto afghano, ndr). È normale: erano amici fino dall’inizio. Si conoscono hanno molti contatti, amicizie tra loro. Ed è la stessa cosa con i jihadisti nel Sahel: non sono certo caduti dal cielo, qualcuno li conosce e probabilmente è possibile discutere. Ma si preferisce fare la guerra. Ma la vinceremo questa guerra?».

Il business del secolo

Un altro tema fondamentale per il Sahel degli ultimi 5-8 anni è quello dei flussi migratori verso il Nord Africa e quindi l’Europa attraverso il Mediterraneo. Un tema che sta facendo muovere molti capi di stato e ministri degli esteri europei verso il Niger e non solo. L’Italia, ad esempio, ha aperto un’ambasciata in Niger (inaugurata nel gennaio 2018) e un’altra in Burkina Faso (entro il 2019), due paesi che erano sempre stati totalmente trascurati dalla nostra geopolitica.

«Per lo stato nigerino è una fortuna insperata, un’opportunità importante. L’interesse degli occidentali sulla migrazione è una risorsa diplomatica importante per il governo. Per essere più riconosciuto sul piano internazionale. Ed è pure una risorsa economica. Può negoziare dei fondi.

Ma il primo punto è quello che importa di più, perché questo governo è andato al potere con le elezioni del 2011 e poi è stato riconfermato con quelle dubbie del 2016, quindi è in cerca di legittimità internazionale. Oggi è riconosciuto come campione della lotta alla migrazione clandestina, minicampione della lotta al terrorismo. Inoltre, fa i discorsi che piacciono agli occidentali, come quello sul controllo demografico».

L’Europa non è la destinazione principale dei migranti (Cfr. Mc aprile 2019). I flussi migratori all’interno del continente africano sono molto più importanti. E anche i nigerini migrano per lavoro verso il Nord (Libia) e soprattutto la vicina Nigeria.

«Gli europei si sono imposti e il Niger ha messo in piedi un dispositivo per impedire ai migranti di circolare. Con Frontex, le cooperazioni, le basi militari. Così i militari lottano contro due pericoli, e si identificano migrazione e terrorismo come se fossero la stessa cosa. E si fa la caccia all’uomo. Ad esempio, anche Eucap Sahel Niger si interessa alla migrazione2.

Il Niger è diventato un paese tagliato in due: nel Sud le persone possono circolare liberamente, mentre il Nord è come facesse parte dell’Europa. Qui si cercano, si arrestano, si deportano migranti, in barba a tutte le leggi di diritto internazionale e nazionale».

L’attivista di lungo corso ha la sua idea precisa sulla migrazione: «Per me bisogna lasciare circolare la gente, le persone hanno il diritto di muoversi, andare dove vogliono. Abbiamo un pianeta per tutti gli esseri umani, non ci sono illegali, nessuno è straniero. Io difendo l’idea che le persone debbano poter circolare dappertutto. Le risorse ci sono per tutti, per fare vivere ognuno in modo felice».

Un mondo al contrario

Siamo in un mondo al contrario, analizza Moussa Tchangari: «È un peccato che oggi nei paesi ricchi siano i poveri a essere considerati una minaccia e non i potenti, ovvero quell’1% della gente che si accaparra l’essenziale delle ricchezze. Vedi il povero e pensi sia lui il pericolo, non quelli che posseggono fabbriche e banche, sfruttano e si arricchiscono sulla pelle degli altri. In passato era il contrario. Oggi si chiudono gli occhi sulle devastazioni del capitalismo e della borghesia mondiale che saccheggia e concentra la ricchezza nelle proprie mani e si guardano i poveri, che non hanno niente, come le minacce dell’umanità. È il mondo al contrario».

Oggi si sono fatti tanti progressi, ma al tempo stesso si è regrediti, sostiene l’intellettuale nigerino: «Esiste tanta informazione, ma la gente non è informata e può essere facilmente manipolata, e questo anche nei paesi dove esiste tutto. Dove si ha a disposizione tutta l’informazione che si vuole, stampa, libri, statistiche. Il sistema capitalista è capace di alienarti: osserviamo questa ondata di razzismo, xenofobia, il ritorno delle forze di estrema destra. Ma come è possibile, mi domando, nonostante tutti gli strumenti che si hanno per capire?

La questione essenziale – continua – è l’educazione: come educhiamo l’uomo, come formiamo l’uomo. Educhiamolo alla differenza, a comprendere, ad avere spirito critico. Senza questo, possiamo ancora rivivere tutte le cose gravi che abbiamo già vissuto in passato, le guerre.

Se accumuliamo tutte le guerre in corso oggi è come una guerra mondiale. Solo che non succede sul teatro europeo o nordamericano. Ma tutto il mondo vi partecipa».

E continua: «Abbiamo risorse, intelligenza, capacità a sufficienza, eppure vediamo lo stato del mondo oggi: abbiamo creato una situazione in cui pensiamo che la minaccia per il mondo sia il fatto che la gente possa circolare. Ma per gli esseri umani è essenziale spostarsi, donne e uomini hanno sempre viaggiato. E non è solo la povertà che fa muovere la gente, ma anche la prosperità.

Nei paesi ricchi, abbiamo delle sacche di povertà, milioni di persone disoccupate, ma non è perché non si ha la possibilità di farli lavorare. Negli Stati Uniti ci sono 40 milioni di poveri che se si ammalano possono morire perché non hanno l’assicurazione sanitaria. Gli Usa non hanno la possibilità di fare qualcosa su questo tema?

Il grande problema è che «non stiamo facendo il vero dibattito, quello sul sistema, ma un dibattito periferico. La migrazione è il “cache sex” del capitalismo (letteralmente: perizoma, qualcosa che nasconde, ndr). È questo che si mostra per non parlare di problemi di fondo».

Moussa Tchangarai

Che fa la società civile?

Moussa è impegnato per i diritti umani e per una società più equa dagli anni ‘90, quando con altri studenti nel 1994 fondò Asc. Gli chiediamo oggi che ruolo può giocare la società civile, ad esempio per far sì che si affrontino i veri problemi. «Informare, sensibilizzare e stimolare i dibattiti. Ma la società civile non è molto forte, ha diversi problemi, cerchiamo di fare delle piccole cose. Non è sufficiente, ma cerchiamo di parlare di questi temi, aiutare le persone a capire, dare dei nuovi orientamenti. È molto difficile. Occorre costituire una massa critica con un gran numero di organizzazioni e avere i mezzi per farsi sentire per portare avanti il messaggio. Esistono radio e televisioni, ma occorre avere accesso, organizzare discorsi strutturati. Tutto questo non è ancora acquisito.

Inoltre, dobbiamo essere capaci di portare il dibattito in posti dove non c’è, come nei nostri villaggi. È un lavoro di educazione, risveglio di coscienze, che presuppone molta mobilità, immaginazione, per riuscire a spiegare, convincere, coinvolgere.

Al tempo stesso il sistema ha la sua rete per fare il contrario. I paesi occidentali che vogliono diffondere un tipo di messaggio hanno i soldi, la tecnologia, le risorse. C’è molto da fare e dobbiamo intensificare questo lavoro. Dobbiamo sforzarci di essere creativi. È la grande sfida che abbiamo oggi».

Marco Bello
con la collaborazione di Sante Altizio

NOTE

(1) Movimento salafita originariodel Nord della Nigeria e poi diffuso nel resto del paese e in Niger, Ciad e Camerun. Si contrappone all’innovazione
e alle correnti sufi.
(2) Eucap, European union capacity building, è un corpo misto europeo composto da forze di polizia con la missione di formare le forze di sicurezza nigerine – si legge sul sito ufficiale – allo scopo di combattere il terrorismo e il crimine organizzato, e di meglio controllare i flussi migratori e contrastare la migrazione illegale.
(3) Il Niger è il quarto produttore mondiale di uranio, lo precedono Kazakistan, Canada e Australia. Nel 2017 in Niger si sono prodotte 3.449 tonnellate di uranio (dati francesi) per il 7,5% della produzione mondiale.


Parla l’esperto in sfruttamento delle risorse minerarie

Paese ricco per gente povera

Il Niger è un paese dal clima ostile ma dalla grande ricchezza del sottosuolo. È poco abitato e ci sarebbero risorse per tutti. Ma perché si trova sempre tra i tre ultimi posti della classifica dello sviluppo umano, stilata annualmente dall’Onu? Incontriamo l’attivista Maman Sani a Niamey che ci spiega questo.

Maman Sani Adamou, si definisce militante altermondialista, collabora con diverse associazioni della società civile nigerina, ed è specializzato sulla tematica dell’industria estrattiva. Ma Sani è un signore pacato, tranquillo, con le idee chiare e competenza da vendere. Il suo lavoro ordinario è di ispettore al ministero dell’Educazione.

Dottor Sani, il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo3, perché è anche uno dei paesi più poveri del pianeta?

Incontro con l’attivista Maman Sani a Niamey

«Occorre partire dagli accordi di difesa dell’aprile 1961, che legano Niger, Benin e Costa d’Avorio alla Francia. In un allegato c’è un contratto di esclusività. I tre paesi si impegnano, nel caso non possano essi stessi utilizzare le risorse strategiche, come petrolio, berillio, uranio, a dare priorità alla Francia per sfruttarle. Sono inoltre autorizzati a cercare un altro partner solo nel caso in cui la Francia si dice non interessata. È un patto di tipo coloniale che ha fatto sì che dal ‘61 tutte le nostre risorse sono destinate in modo prioritario alla Francia.

Nel ‘68 è iniziata la realizzazione della prima miniera di uranio, la Somair ad Arlit. È stata firmata una convenzione di lunga durata, che dava alla Francia la possibilità di sfruttare tutto il minerale. È da notare che il Niger guadagnava molto poco, a livello forfettario solo un miliardo di Fcfa all’anno (circa 1,5 milioni di euro, ndr), quando i prezzi dell’uranio, sul mercato internazionale erano molto elevati. Nel ‘74 è stata aperta una seconda miniera, la Cominak. Il governo dell’epoca si era reso conto che dall’inizio dello sfruttamento dell’uranio nel ‘71 non aveva avuto abbastanza profitto. Tentò quindi di rinegoziare, per avvicinarsi al valore delle risorse come il petrolio. Si era fatto uno studio che equiparava le due materie prime: un kg di uranio produce tanta energia quanto 10mila kg di petrolio. Ma quel governo è stato rovesciato da un colpo di stato nel ’74. Dopo l’apertura della seconda miniera, si era riusciti ad avere 20 miliardi di Fcfa, ma senza negoziare sulla base dell’equivalenza energetica tra il petrolio e l’uranio.

La Francia prendeva tutto l’uranio, e pagava un prezzo fisso, anche se a livello internazionale c’era una fluttuazione, con prezzi nettamente migliori, il Niger non poteva chiedere un adeguamento.

Inoltre lo stato non aveva alcuna possibilità di controllare i prezzi e neppure il tonnellaggio definitivo estratto, che era controllato da Areva (la multinazionale francese che opera nel campo dell’energia in particolare nucleare. Dal 2017, in seguito a ristrutturazioni, prende il nome di Orano, ndr)».

Fino a quando il presidente Mamadou Tanja ha cercato di aprire il mercato…

«Questo fino a quando negli anni 2005-2006 con un aumento generale del costo delle materie prime, i dirigenti dell’epoca hanno voluto rivalorizzare l’uranio ed è stata promulgata una nuova legge mineraria che aumentava un po’ il livello delle royalties.

Ci sono stati tentativi di diversificazione dei partner di sfruttamento a partire dal 2006. Tutto questo spiega la fine del regime della VI repubblica con il colpo di stato di febbraio 2010. Ufficialmente il motivo è che il presidente Mamadou Tanja aveva forzato la Costituzione per ricandidarsi dopo due mandati, ma di fatto le ragioni del rovesciamento sono da cercare nel dossier uranio.

Dopo la caduta del regime e le nuove elezioni la legge mineraria non era ancora applicata. Possiamo parlare di sotterfugio, riferendoci all’accordo di partenariato strategico che rimpiazza la legge. Nell’accordo Areva propone qualche sussidio e realizza qualche opera intorno ad Arlit. Inoltre il mega giacimento di Imourarene, che avrebbe dovuto produrre 5mila tonnellate all’anno, la più grande miniera di uranio del continente, e doveva partire nel 2011-12 non è ancora in sfruttamento. Curiosamente il governo non cerca di riprendere il titolo di sfruttamento ad Areva per affidarlo a un altro potenziale concorrente».

Quindi nessun beneficio per la popolazione?

«Lo sfruttamento dell’uranio in Niger non ha permesso di creare sviluppo nel paese, al contrario, produciamo circa 3.500 tonnellate/anno di uranio, ma sono i dati di Areva, non possiamo fare una contro verifica nazionale. Possiamo dire che questa risorsa non ha permesso di avere un beneficio per la popolazione, ma al contrario ha aggravato alcuni problemi, come quello ambientale. Inoltre, il fatto che il mega giacimento di Imourarene non sia stato sfruttato ha causato delle perdite per i contratti delle società dell’indotto già firmati. Areva ha l’abitudine di dare in subappalto un certo numero di prestazioni perché le conviene economicamente non pagare direttamente i lavoratori.

Ad Arlit c’è del radon, rilevato da una Ong francese che ha fatto queste misure e ha trovato un tasso di radiazione anormalmente elevato. L’acqua è contaminata, la popolazione è malata, ma il Niger non si è creato nessuna competenza sull’energia nucleare. Siamo rimasti in una divisione del lavoro di tipo coloniale. Produciamo ma non trasformiamo, e consumiamo quello che non produciamo.

Lo sfruttamento dell’industria dell’uranio si è rivelato qualcosa di nocivo per il Niger, quando invece per la Francia che alimenta in elettricità nucleare la maggior parte del suo territorio è fondamentale.

(La Francia produce oltre il 70% del suo fabbisogno di energia elettrica con il nucleare, e detiene il primato al mondo con questa percentuale, ndr)».

Cosa ci dice del petrolio, scoperto dai francesi e ora sfruttato dai cinesi?

«Sono i cinesi che lo sfruttano sotto la forma di un “contratto di condivisione di produzione”, ma sfortunatamente anche in questo caso il Niger non è stato in grado di trarne il vantaggio che gli spettava. Il governo non ha saputo leggere tutto l’interesse geopolitico che il continente iniziava ad avere nel settore in quel momento e mettere in competizione i diversi attori. È la Cina che fa l’esplorazione, valuta le riserve e fa lo sfruttamento. Anche in questo caso il Niger non ha sviluppato alcuna competenza in materia e il peggio è che non siamo neppure stati capaci di onorare i nostri impegni. Ad esempio la Soras (società di raffinazione costruita dai cinesi a Nord di Zinder, vedi foto a pag. 17, ndr) è detenuta per il 40% dal Niger e il 60% dalla Cina, ma è stata costituta praticamente con fondi cinesi. La Cina ha pagato anche la parte nigerina. Non c’è alcuno sforzo per fare della nostra industria il punto di partenza di un decollo economico.

Il petrolio raffinato in Niger dà qualche beneficio allo stato, ma la popolazione che ha chiesto un abbassamento dei prezzi del carburante e del gas da cucina non ha avuto benefici.

Quando comprate benzina che arriva di contrabbando dalla Nigeria, spesso è benzina della Soras venduta in quel paese a un costo inferiore, che ritorna da noi e costa molto meno di quella alla pompa. Possiamo vendere all’estero a un prezzo basso, ma non all’interno.

Inoltre il petrolio ha creato degli appetiti e il Niger si è indebitato, perché si è lanciato in lavori di infrastrutture la cui scelta è dubbia e oggi ci troviamo richiamati da Fondo monetario e Banca mondiale che ci dicono che siamo molto indebitati.

I cantieri che vediamo a Niamey non hanno carattere strutturante perché quello che si sta costruendo non risolve i problemi della popolazione. Ad esempio nel campo dell’educazione abbiamo molte classi nella scuola secondaria con più di 100 studenti, seduti in terra, e ci sono ancora aule con il tetto di paglia. Qual è lo sviluppo in questo caso? Fare un’infrastruttura per dire che è molto bella, oppure risolvere dei problemi come l’accesso all’educazione e alla salute?».

Le risorse minerarie del Niger, sfruttate ormai da 50 anni, non hanno quindi prodotto sviluppo?

«L’industria estrattiva non è servita come leva per far partire un processo di sviluppo, ma è piuttosto il contrario, il paese continua a sprofondare nella povertà. Uno studio recente fatto per Afro barometre indica che c’è un peggioramento della situazione economica, un’esplosione della corruzione, e un continuo aumento delle disuguaglianze. Osserviamo inoltre una sorta di disaffezione della popolazione verso la politica, preparando così il terreno per altri tipi di problemi, come quello del jihadismo».

Marco Bello

SAHEL – JIHAD – MIGRAZIONE su MC

Marco Bello, Africa «coast to coast», aprile 2019.
Marco Bello, La faticosa via del cambiamento, gen-feb 2019.
•Marco Bello, Tra jihad e fibra ottica, dicembre 2018.
Marco Bello, «Ci legavano con corde e catene», aprile 2018.
Marco Bello, Niger, frontiera d’Europa,marzo 2018.
Marco Bello, Di male in peggio, giugno 2017.
Marco Bello, Chiesa, dialogo contro terrore, dicembre 2015.
Marco Bello, Transizione: missione compiuta, giugno 2011.




Comunicare la cooperazione nel tempo delle fake news


In vista della 53ª giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebrerà il prossimo 2 giugno, affrontiamo il rapporto fra comunicazione e cooperazione, ragionando sulle fake news che riguardano sviluppo, migrazioni e cambiamento climatico e sul perché è più difficile smontarle.

Testo di Chiara Giovetti

«Ti è mai capitato di sentire il bisogno irresistibile di inoltrare agli amici o di condividere sui social network una notizia che ti è piaciuta o ti ha fatto indignare soltanto perché ne hai letto il titolo? Capita a tutti: è un effetto naturale del pregiudizio di conferma (o bias di conferma), cioè la tendenza comune a credere che sia vero quello che vogliamo che sia vero (anche quando non è vero)».

Così Paolo Attivissimo, giornalista e studioso della disinformazione nei media, apre Come diventare detective antibufala@, una guida commissionata dal Miur e dalla Camera dei Deputati.

Le fake news sono agili, immediate, semplici. Spesso sono perfino rassicuranti, anche quando diffondono un’informazione allarmante, perché confermano una nostra opinione e ci fanno sentire scaltri, persone capaci di scoprire la verità anche oltre ciò che «loro non dicono».

Le fake news on devi cercarle, ti trovano loro: ti aspettano sui social, ti inseguono su whatsapp, ti raggiungono passando di bocca in bocca, si mimetizzano fra le altre notizie.

Il debunking e il fact-checking – traducibili come demistificazione e verifica dei fatti – sono invece più lenti, articolati e impegnativi per chi li legge o ascolta. Per verificare le informazioni che ti raggiungono, inoltre, devi volerlo, non puoi essere di fretta e devi essere disposto a farti venire un dubbio, che per definizione non è rassicurante.

Le cose si complicano parecchio quando le fake news si applicano a un ambito poco conosciuto, complicato e eticamente delicato, come è il caso della cooperazione allo sviluppo e dei temi ad essa collegati, dalle migrazioni al cambiamento climatico, dalla povertà e ai diritti umani. Un esempio è la presa di posizione del 4 febbraio 2018 dell’allora eurodeputato Matteo Salvini, che durante un’intervista a Non è l’Arena di Massimo Giletti citava la relazione di una deputata svedese nella quale si introduceva la figura dell’immigrato climatico: «Adesso», commentava sarcastico Salvini, «dovremo ospitare anche gli immigrati climatici: cioè se uno ha freddo, se uno ha caldo… […] A Milano c’è la nebbia, a me non piace la nebbia, e allora mi sposto perché sono un immigrato climatico»@.

Sulla stessa falsariga ci sono state, successivamente, altre interviste televisive di diversi esponenti politici sul franco Cfa (vedi Cooperando su MC di marzo) e sulla Dichiarazione di New York per i migranti e i rifugiati, nota anche come Global Compact. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha definito quest’ultimo accordo internazionale «una vera e propria fregatura» perché «garantisce qualunque tipo di immigrazione: non solo chi scappa dalla guerra, dalla violenza e dalla tortura, ma anche chi scappa dalla povertà, chi scappa dal caldo e chi si muove semplicemente perché gli va».

Sarebbe bastato opporre a Salvini che un migrante climatico non scappa dal caldo o dalla nebbia, ma da fenomeni estremi che rendono invivibile il luogo in cui abita; sul Global Compact sarebbe stato sufficiente controbattere a Giorgia Meloni – come ha fatto Nino Sergi sul giornale online La Voce di New York@ – che «non si tratta di un patto vincolante né intacca la sovranità degli stati. Ma la sua adozione, anche da parte dell’Italia, potrebbe mettere le basi per potere iniziare un cammino, difficile ma possibile, verso un governo ordinato, regolare, sicuro della migrazione».

Tuttavia, in nessuno dei casi citati gli intervistatori sono stati in grado di contestare nel merito le affermazioni dei leader politici proprio perché si tratta di temi scarsamente o per nulla frequentati nei talk show e nei tg del nostro paese. E le informazioni errate contenute in quelle affermazioni, se non vengono immediatamente arginate finiscono per dilagare, amplificate dai social network. Dimenticando, tra l’altro, che ci sono diversi italiani «migranti climatici», secondo la definizione salvianiana, in altri paesi, come a Malindi in Kenya o in Portogallo.

© Daniele Biella

Perché cooperazione e temi limitrofi sono tanto indigesti?

Il problema principale nel correggere un’informazione imprecisa sulla cooperazione, sulla migrazione e sugli ambiti a esse vicini è che non basta opporre un’argomentazione corretta, bisogna anche spiegare un sacco di cose. Non si parla di pensioni, di partite Iva o di reddito di cittadinanza, argomenti con cui la stragrande maggioranza delle persone viene a contatto direttamente o attraverso le esperienze di amici e parenti. Si parla viceversa di un tema che, per quanto negli ultimi anni ampiamente trattato e fortemente sentito@, rimane percepito come lontano dal quotidiano e dai bisogni immediati dei cittadini italiani.

A sua volta, chi si trova a comunicare la cooperazione e il suo funzionamento deve avvalersi di strumenti che tengano conto della delicatezza dell’argomento. Deve, cioè, evitare sia quella che in un acceso dibattito di qualche anno fa venne definita la pornografia del dolore, sia la troppa leggerezza@.

A questo proposito il Saih, Fondo degli studenti e accademici norvegesi per l’assistenza internazionale, ha monitorato fino al 2017 gli spot promozionali delle organizzazioni attive nello sviluppo, istituendo premi – ironicamente chiamati golden radiator o rusty radiator, il radiatore d’oro o arrugginito – per i migliori e i peggiori messaggi pubblicitari. Nell’ultima edizione, il vincitore del radiatore arrugginito è stato lo spot del Disasters Emergency Committee, organizzazione che riunisce 14 agenzie britanniche per l’aiuto umanitario. Il video promozionale, che aveva l’obiettivo di raccogliere fondi per la crisi in Yemen@, è stato giudicato «didascalico e stereotipato, lesivo della dignità di coloro che soffrono, uno spot che ci riporta agli anni ottanta e che sottintende: noi siamo i buoni, voi gli egoisti». Viceversa, il radiatore d’oro è andato allo spot di War Child Holland@, organizzazione attiva nella protezione e assistenza ai bambini in zone di conflitto. Il video ritrae un bambino in un campo profughi mentre gioca e svolge le sue attività quotidiane insieme a un Batman grosso e rassicurante ma anche divertente e un po’ buffo che lo accompagna e lo protegge, con il sottofondo musicale di You’re my best friend dei Queen. Solo nelle ultime inquadrature cessa la musica e il Batman si rivela essere il papà del bambino, un supereroe del giorno per giorno che porta in braccio il figlio allontanandosi dalle macerie fumanti di una città in guerra. Il video si conclude con una frase che recita: per alcuni bambini la fantasia è l’unico modo per scappare dalla realtà.

Comunicare la cooperazione significa muoversi all’interno di questi confini, per delineare meglio i quali la rete nazionale di Ong irlandesi ha elaborato nel 2015 un Codice di condotta@ in cui si raccomanda di evitare gli stereotipi, di dar precedenza alla testimonianza delle persone direttamente interessate e ottenerne comunque sempre il consenso prima di usarne immagini e parole, favorire una comunicazione in cui le immagini e situazioni non illustrino solo l’immediato – un bisogno, un problema – ma anche il più ampio contesto in cui si colloca, così da permettere al pubblico una miglior comprensione delle realtà e delle complessità dello sviluppo.

© AfMC / Beppe Svanera – Marialabaja, Colombia / È l’olio di palma che fa male o il modo di coltivarlo?

Le fake news sulle Ong

Una efficace sintesi delle principali notizie false che circolano sulle Ong era stata fornita lo scorso marzo da Paolo Dieci, il compianto presidente della Ong Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) e della rete Link2007 scomparso nell’incidente aereo del 10 marzo, quando il Boeing diretto a Nairobi su cui volava insieme ad altri 156 passeggeri è caduto poco dopo il decollo da Addis Abeba. La rete Link2007 ha dedicato a Paolo Dieci un documento dal titolo Ong e trasparenza. Realtà e normativa in essere, che si chiude con il testo di una mail inviata dal presidente ai colleghi la sera prima dell’incidente. Nel messaggio, individuava cinque falsi miti secondo i quali le Ong «fanno ciò che vogliono; nessuno le controlla; fanno politica di parte; sottraggono risorse alla collettività; favoriscono la migrazione irregolare».

Paolo Dieci smentiva questi luoghi comuni precisando i seguenti punti:
«a) non esiste un singolo progetto realizzato che non sia stato approvato da soggetti rappresentativi dei paesi, inclusa l’Italia;
b) in media un’Ong della nostra dimensione riceve 30-40 audit annuali oltre a 2 livelli di verifica del bilancio;
c) le Ong non si schierano per “partiti” ma per “cause” e ho fatto l’esempio del Global Compact sulla Migrazione;
d) le Ong di Link 2007 portano molte più risorse al sistema Italia di quante ne ricevano, impattando anche sul piano occupazionale e formando giovani;
e) le Ong, concretamente, sono spesso sole a prevenire la migrazione a rischio, ma sempre avendo come riferimento i diritti umani»@.

© Paolo Moiola / moschea in Pakistan / È la religione che fa diventare violenti o i violenti che usano la religione per giustificarsi?

Il messaggio del Papa sulla comunicazione

Siamo membra gli uni degli altri (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana: questo il titolo del messaggio di papa Francesco per la 53a giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebrerà il prossimo due giugno@.

Pubblicato il 24 gennaio – giorno in cui si ricorda San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti – il messaggio parte dall’invito del pontefice a riflettere sul nostro essere «in relazione» e a riscoprire «il desiderio dell’uomo che non vuole rimanere nella propria solitudine».

La rete in sé è uno strumento neutro: può essere un veicolo di incontro con l’altro ma anche di autoisolamento, «come una ragnatela capace di intrappolare», di cui sono vittima specialmente i ragazzi, più esposti all’illusione che la rete da sola possa soddisfare le loro esigenze relazionali.

«È chiaro», prosegue il messaggio, «che non basta moltiplicare le connessioni perché aumenti anche la comprensione reciproca», che può crescere solo nella comunione, la quale si nutre della verità mentre al contrario la menzogna divide e «smembra».

Il riferimento all’essere membra gli uni degli altri rimanda poi anche a un secondo aspetto, quello dell’importanza dell’incontro in carne e ossa. Se la rete è funzionale a questo incontro, lo facilita e lo arricchisce, allora è una risorsa.

«Questa è la rete che vogliamo», conclude il papa, «una rete non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere».

Il tema della precedente giornata mondiale delle comunicazioni era illustrato da una frase del Vangelo di Giovanni: la verità vi renderà liberi. Se è così, allora la post verità – in cui l’emotività sostituisce i fatti oggettivi nella formazione delle opinioni delle persone – prelude alla post libertà. E non ha l’aria di essere uno scenario da augurarsi.

Chiara Giovetti




Torre Maura: calpestare il pane – spezzare il pane

Quei Rom che vivono nei campi, sotto le diverse denominazioni: attrezzati, abusivi, istituzionalizzati, micro insediamenti, villaggi… sono sostanzialmente stigmatizzati da tutti, lo fanno i partiti di ogni tendenza, dalle stesse organizzazioni che vorrebbero tutelarli, dall’opinione pubblica in generale. Il risultato è sempre lo stesso, una disparità pericolosa e dannosa per i Rom che vivono nei campi, chi per scelta, per costrizione o per mancanza di alternativa. I Rom dei campi sono di fatto accusati come fossero dei “parassiti”, dei privilegiati, approfittatori, incapaci di volersi integrare. Cosa poi significhi integrare è ancora tutto da valutare e capire. I fatti di Torre Maura di Roma sono la conseguenza di questo e di altro ancora, soprattutto decenni di esclusioni, di pregiudizi e di un clima di odio che ha portato a gettare per terra e calpestare il pane destinato a quel gruppo di Rom, collocati provvisoriamente in un alloggio, dopo lo sgombero del loro campo.

Spezzare il pane è sempre stato il gesto carico di significato, esprime condivisione, accoglienza, il riconoscimento della dignità umana dell’altro, senza esclusione di ceto, classe, religione ed etnia. Nel dare un pezzo di pane, non solo riconosco la dignità dell’altro, ma valorizzo anche la mia, la nostra.” Un pezzo di pane non lo si nega a nessuno!” Era un dato di fatto indiscutibile fino a qualche anno fa, ora non più!

Questo principio, quello di non negare il pane, piano piano ha cominciato a sgretolarsi, già da diversi anni: vedi le ordinanze di diversi sindaci (di ogni orientamento politico) che vietano di dare una semplice bevanda calda con una brioche ai clochard che gravitano attorno le stazioni, o ai migranti che cercano di attraversare il confine: vietato aiutarli! Tutto per il così detto “decoro cittadino” da salvaguardare! Dare del pane a chi è nel bisogno, da qualche anno a questa parte, è diventato una minaccia al decoro cittadino. Il decoro sembra ormai avere la priorità sul quel sentimento umano, primordiale che ha caratterizzato il genere umano e l’Occidente stesso, quello di garantire e donare il pane a tutti.

Ma spezzare il pane per un cristiano o per chi vive una sua fede religiosa, ha dei significati immediati, chiari: rimandano al Mistero stesso di Dio. La Bibbia, La Torah e il Corano sono ricchi di richiami e di messaggi “teologici” riguardo il pane da spezzare, da condividere soprattutto di fronte all’affamato, al bisognoso, come all’ospite e al viandante di passaggio.

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo!” (Gv, 6, 41) Pane come dono di Dio, Gesù pane spezzato per la salvezza di tutti: buoni e cattivi, meritevoli o meno. “Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo.” Gettare a terra il pane e calpestarlo perché non sia dato ai Rom è come calpestare il volto di Gesù, figlio di Dio che si è identificato con l’affamato, il povero, la vedova, il forestiero… Come tale è un gesto sacrilego che offende Dio e l’Uomo allo stesso tempo, umiliando non solo i Rom, ma l’intera umanità. Per il cristiano Cristo è presente in tutti, ma nei poveri tale presenza acquista una importanza tale, da essere paragonata allo stesso Mistero Eucaristico. Che senso può avere, non solo per coloro che hanno profanato il pane o per i tanti che si definiscono i “difensori della civiltà cristiana”, ma soprattutto per le nostre comunità cristiane, celebrare l’Eucarestia domenicale, se poi nella vita non riusciamo a spezzare il pane dell’amicizia e della giustizia con i privilegiati del Regno che Gesù stesso ci ha annunciato? Che senso può avere rimanere ancora distanti, indifferenti, appollaiati sui nostri balconi, assistendo passivi alla sorte di questi “poveri Cristi”, gettati per terra e calpestati?

“Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc, 18, 8)

don Agostino Rota Martir (campo Rom – Pisa)
p. Luciano Meli (Lucca)
12 Aprile 2019




Attraverso il Niger, Africa «coast to coast»

Testo e foto di Marco Bello |


Il Niger è un paese di origine ma soprattutto di transito di migranti. Molti sono quelli che passano di qui per tentare la traversata del Sahara. Succede che non ci riescano, oppure che vengano respinti e riportati alla frontiera. Il flusso dei «ritornati» è in aumento. La chiesa cattolica del Niger si è organizzata per dare loro un’assistenza più «umana» possibile.

Niamey. La capitale sabbiosa del Niger sta cambiando volto. Nella sua zona centrale sono ben visibili alcuni grandi cantieri. Enormi edifici in costruzione, hotel e palazzi governativi di un’altezza mai vista qui, e poi il terzo ponte sul fiume Niger.

Guardando bene vediamo molti cinesi al lavoro sotto i caschetti gialli, e in alcuni cantieri sventolano bandiere turche. Sono questi i due sponsor ufficiali della speculazione edilizia a Niamey.

Ma in altre zone della capitale ci sono ancora quartieri con le case di mattoni in fango e paglia essiccati (banko), quasi «edifici storici», si direbbe da noi. Case da villaggio si dice in Niger.

Ci spingiamo nella periferia Est. In questa zona relativamente recente ci sono case basse e qualche edificio più alto, di banche o compagnie telefoniche. Noi cerchiamo i locali della parrocchia San Gabriel Garbado, della chiesa cattolica, minoritaria nel paese a grande maggioranza musulmana. A San Gabriel, l’arcidiocesi di Niamey – una delle due del paese, l’altra è la diocesi di Maradi – ha concentrato le attività di accoglienza e ascolto per i migranti.

Entriamo nella bassa costruzione in colore ocra, quasi mimetica, e nel cortile interno incontriamo Laurent Tindano, l’animatore principale della pastorale migranti. Laurent è un migrante lui stesso, perché burkinabè, ma vive qui da decenni e si sente nigerino a tutti gli effetti.

Un centro di ascolto

«Questo è un piccolo centro di accoglienza. Con pochi mezzi facciamo un accompagnamento dei migranti.

Ci occupiamo di coloro che stanno ritornando, dopo aver attraversato il deserto e tentato di passare il mare, senza successo, e ora vorrebbero rientrare nei loro paesi. Arrivano a Niamey sfiniti, privati di qualsiasi mezzo, smarriti e traumatizzati dell’esperienza durissima. Noi li accogliamo, ma non facciamo un lavoro amministrativo.

Parliamo con loro, li riceviamo come fratelli, non come stranieri, dando loro valore umano. Lasciamo tutto il tempo per parlare e cerchiamo di creare un rapporto di fiducia. Così ci raccontano il loro vissuto.

Li compatiamo nella loro sofferenza.

Quando un essere umano sente che lo capite, vi dà fiducia, e accetta di aprirvi il suo cuore e vi dirà molte cose. È diverso dal fargli delle domande per compilare un formulario».

Al centro di Garbado viene dato ai migranti anche un piccolo aiuto materiale «per facilitare il loro passaggio»: qualche soldo, una coperta, un kit igienico. Una volta la settimana un medico volontario visita le persone di passaggio. E, grazie alla convenzione con una farmacia e una clinica, si riescono a dare farmaci e far visitare i casi più gravi.

Un fenomeno nuovo

Laurent ci racconta che tutto è iniziato intorno all’anno 2011: «Con gli avvenimenti della Libia, del Mali e della Costa d’Avorio, alcuni sbandati arrivavano a Niamey e cercavano una parrocchia, perché è noto che dove c’è la chiesa è probabile ricevere un aiuto. Il fenomeno era nuovo e creammo dei comitati in ogni parrocchia. Ma poi ci rendemmo conto che c’erano migranti che facevano il giro. Si decise di concentrare l’attività a Garbado, che è in un luogo logisticamente vicino alle stazioni degli autobus di lunga percorrenza».

Gli chiediamo perché l’accoglienza è in prevalenza a chi torna dal tentativo di traversata. «Quelli che partono verso il deserto di solito sono in forma e hanno ancora il morale alto e mezzi economici. Hanno meno bisogno di noi. Inoltre noi siamo per la libertà di circolazione. Se ci chiedono informazioni sulla strada, diamo loro almeno qualche indicazione sui pericoli della traversata».

Seduto su una panca, poco più in là, sotto la tettoia di lamiera che ora ripara dal sole implacabile e per (soli) tre mesi all’anno dalla pioggia torrenziale, sta Micheal Johnson. Liberiano, di 37 anni, Michael è un vero globe trotter dell’Africa. Ma non per turismo.

Michael il «globe trotter»

Durante gli anni ‘90 in Liberia infuria una cruenta guerra civile (dall’89 al 2003 con una pausa nel ‘97-‘98). Come molti suoi connazionali Michael fugge e si ritrova in Costa d’Avorio, in un campo profughi. Nel paese lavora per dieci anni. Parla molto bene anche il francese. «Finita la guerra sono tornato nel mio paese, ma ho visto che la situazione era pessima. Volevo qualcosa di meglio dalla vita. Allora sono ripartito».

Michael passa da Guinea, Senegal, Mali, Burkina Faso e poi Niger. Da qui arriva in Ciad e si dirige verso il Sudan. «A questo punto è stato molto difficile. Ad Abéché ho trovato molti altri migranti che facevano il mio stesso viaggio. Siamo partiti insieme con un camion, ma passata la frontiera, verso le tre di notte, ci hanno assalito i ribelli Janjawid». Michael si trova nel Darfur. I ribelli sparano ai pneumatici del camion, fanno scendere tutti e puntano un’arma alla testa dell’autista. «Ci hanno fatti sdraiare nel deserto, hanno iniziato a torturarci e ci hanno preso tutto». Poi compare una pattuglia di caschi blu della missione di pace Onu, Unamid, che, sparando in aria, mette in fuga i Janjawid. Michael e gli altri sono salvi.

I caschi blu recuperano i malcapitati e li portano alla città di Al Fasher. «Hanno visto che non avevo nulla e mi hanno pagato il biglietto dell’autobus per Khartum. Il mio obiettivo era andare in Arabia Saudita».

A Khartum Michael non conosce nessuno, però da viaggiatore ormai esperto, si infiltra nel campus universitario, dove si riesce a vivere con poco e si trova sempre qualcuno che ti aiuta. «Sapevo dell’esistenza dell’università Jama Africa. Ci sono rimasto qualche tempo, intanto ho cercato un lavoro perché avevo finito i soldi». Appena ha abbastanza soldi Michael si rimette in viaggio e è arriva a Port Sudan, città sul Mar Rosso.

Ultimo passaggio

«C’erano delle barche che attraversavano il mare per andare in Arabia Saudita. Le barche erano sovraccariche. Ho visto gente di Etiopia, Eritrea, Nigeria, Camerun, Mali, Liberia. Ho pagato 1.500 dollari e mi hanno portato in un luogo nel deserto, dove molti altri erano in attesa. Ho così scoperto che c’erano molti migranti clandestini. Ci hanno detto di non farci vedere in città. Dovevamo aspettare di essere 150 per riempire una barca e i trafficanti sarebbero venuti a cercarci. Nel frattempo ci portavano cibo e acqua acquistata in città. Sono rimasto in quel luogo circa un mese».

Poi finalmente una mattina all’una, all’improvviso i trafficanti vanno a cercarli per partire. Ma Michael non ha fortuna. Una motovedetta della guardia costiera saudita blocca la sua nave. Non li fa attraccare e li rimanda in Sudan. Da allora Michael diventa come un pacchetto, espulso dai diversi paesi che ha attraversato. Lo portano a Nguigmi, in Niger al confine con il Ciad.

Ma lui non si arrende. «Allora mi sono detto, passerò dall’Algeria per andare in Francia». Dopo aver lavorato riesce ad attraversare il Sahara e arrivare a Oran, città algerina sulla costa. Qui trova un lavoro per mettere insieme un po’ di soldi ma «una sera, uscito dal lavoro, mi ferma una pattuglia della polizia. Io non avevo i documenti. Mi hanno portato all’ufficio immigrazione. Chiesi che cosa avevo fatto, ma mi dissero che dovevo partire. Volevo passare da casa a prendere le mie cose, ma non lo consentirono». Rinchiuso in un locale con altri clandestini, dopo alcuni giorni Michael viene messo su un camion «quelli che portano fino a 150 persone», e trasferito verso Sud. I migranti respinti sono quindi scaricati in Niger, nei pressi della frontiera. In qualche modo arriva poi a Niamey. «Qui la situazione è peggiorata, non riesco a trovare lavoro. Ho deciso di tornare in Liberia ma non posso arrivare senza un soldo. Nel mio paese la guerra ha rovinato tutto, ha ucciso i miei genitori. Anche per questo me ne sono andato».

Famiglia migrante

Nella parrocchia di Garbado, questa mattina ci sono una decina di persone. Tutti uomini o ragazzi. Unica eccezione è una famiglia, padre, madre e bimba piccola. Accettano di parlarci.

Biko (nome di fantasia) parla un ottimo francese. Lui e la famiglia vengono dal Ciad, in particolare da Ndjamena, anche se, ci tiene a precisare, sono originari del Sud, Doba, dove ci sono i pozzi di petrolio. Lui ha tentato più volte di studiare giurisprudenza all’università, nel vicino Camerun. Prima nel 2007, poi dieci anni dopo. In entrambi i casi ha dovuto lasciare a causa delle cattive condizioni di sicurezza.

Biko è molto critico con il suo paese: «Sono nato nella guerra, cresciuto nella guerra e le conseguenze sono nefaste, non mi hanno permesso di studiare». La famiglia è composta anche da altri tre figli, ci raccontano entrambi, di 10, 6 e 4 anni. L’ultima, qui con loro, ne ha 2. «Sappiamo che è un rischio lanciarsi in una migrazione con una grande famiglia. Ma ci ha spinto il fatto che il nostro paese non è stabile. La gente vive sempre in mezzo a conflitti armati, intercomunitari, c’è la repressione dei governi, la cattiva gestione. Le ricchezze del paese non sono condivise in modo che tutti ne beneficino per vivere in pace».

La moglie, Evelyn, in un francese più impacciato, aggiunge: «Abbiamo lasciato il Ciad per cercare una vita migliore per noi e i nostri figli. Il nostro obiettivo è cercare fortuna in Marocco». E continua raccontando il loro viaggio, iniziato quasi un anno fa: «Siamo partiti da Ndjamena con un camion e siamo arrivati in Nigeria. Poi da lì è stato complicato, anche a causa della polizia. Abbiamo spesso dovuto negoziare e alla fine abbiamo pure perso i documenti». Entrati in Niger si sono diretti a Nord, fino ad Agadez, la città nigerina alle porte del Sahara, nella quale tutti i flussi dei migranti s’incontrano: da Est, da Sud e da Ovest. E dalla quale si parte per l’Algeria o la Libia. Qui, qualcuno in «uniforme» ha avuto compassione della famiglia e ha sconsigliato loro di proseguire: «Con questi bambini farai la loro tomba nel deserto», hanno detto. E poi li ha aiutati a tornare a Niamey.

Tra l’incudine e il martello

«Siamo qui da quasi otto mesi – dice Biko -, i bambini non vanno a scuola, e non abbiamo neppure una casa. Viviamo all’aperto. Quando piove ci lasciano mettere sotto una tettoia adibita a moschea, poi però dobbiamo sloggiare. Non abbiamo provato a fare i visti per il Marocco, perché non so come fare e non ho soldi. Non abbiamo più nulla».

Chiediamo alla coppia se non pensano sia meglio tornare in Ciad. Risponde Biko: «Sì, ma abbiamo paura di quello che succede nel nostro paese, in particolare il terrorismo. Inoltre mi hanno detto che se sei stato all’estero più di tre mesi, quando ritorni ti sospettano di terrorismo. Devi giustificare cosa hai fatto, altrimenti ti sospettano di essere con Boko Haram. Siamo tra l’incudine e il martello».

Il Ciad fa parte della coalizione militare con Niger, Nigeria e Camerun, che combatte i terroristi di Boko Haram (Cfr. MC ottobre 2016). La capitale Ndjamena è molto vicina al Nord Est della Nigeria, zona storica di questo gruppo che ormai interviene nei quattro paesi nei pressi del lago Ciad.

L’amaro in bocca

Dopo aver parlato con diversi ragazzi, ascoltato le loro storie incredibili, di viaggi e di atrocità subite, prendiamo la nostra telecamera e li salutiamo. Sono contenti di aver condiviso la loro storia con noi, nonostante all’inizio ci fosse una certa diffidenza. Ce ne andiamo con l’amaro in bocca, per non potere far nulla di più che scambiare gli indirizzi mail. Biko ci scriverà una mail qualche tempo dopo. Alla fine sono rientrati in Ciad attraverso l’aiuto dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). Ora stanno aspettando degli aiuti per la «reintegrazione».

Epilogo

Torino, due settimane dopo.

È sera. Sto rincasando, quando sul bordo della strada scorgo un ragazzo africano che fa l’autostop. Mi fermo e lo carico.

Mi ringrazia. Subito un odore dolciastro invade l’abitacolo. Deve essere qualche profumo che utilizza. È un ragazzo molto giovane, con lo smartphone e le cuffiette. Come tutti i giovani ascolta musica. Dopo i primi minuti di silenzio gli chiedo come si chiama e da dove viene. «Vengo dalla Sierra Leone e mi chiamo Jo».

«Freetown?», chiedo io. Il nome della capitale del suo paese lo fa sussultare: «Sì – risponde sorridente – la conosci?».

Ammetto: «Non ci sono mai stato, ma conosco dov’è. Io ho vissuto in West Africa, in Burkina Faso». Il giovane si scioglie, nel tempo di un istante si crea una sorta d’intesa. Mi racconta che è in Italia da due anni e due mesi, e lo dice con precisione. Ha fatto il viaggio del deserto e poi del Mediterraneo. Ce l’ha fatta, lui. «Mi trovo bene qui», garantisce in un italiano mediocre.

Le nostre strade si dividono e lo deposito sul marciapiede. È molto contento e non fa che ringraziare. Lo saluto e vado via veloce nella notte. Ma subito penso a Michael, Biko, Evelyn e gli altri. I suoi conterranei che meno di due settimane fa ho incontrato a Niamey. Infognati in una terra di mezzo, senza più soldi e senza speranza. Con il sogno di una vita migliore infranto e nessuna voglia di tornare a casa a mani vuote. Loro non ce l’hanno fatta.

Marco Bello
con la collaborazione di Sante Altizio


Incontro con l’arcivescovo di Niamey

Essere luce nella società

La piccola ma vivace chiesa cattolica del Niger ha due pastori: monsignor Laurent Lompo e mons. Ambroise Ouedraogo. Il rapporto con l’islam è vitale, così come la comunione con le chiese protestanti. L’insegnamento è un canale importante per diffondere i valori della pace e della tolleranza, mentre la Caritas interviene in aiuto di tutti.

Incontriamo monsignor Laurent Lompo nei suoi uffici dell’arcidiocesi di Niamey. Lo avevamo conosciuto nel 2015, fresco di nomina. Lui è il primo vescovo nigerino del Niger (MC dicembre 2015).

Da quando hanno rapito padre Pierluigi Maccalli nella sua parrocchia nei pressi del confine con il Burkina Faso, il 17 settembre scorso, le preoccupazioni sono aumentate. E le riunioni di coordinamento pure. Ha poco tempo, ma accetta di parlare con noi. Notizie del missionario non ce ne sono. O meglio, il silenzio stampa è d’obbligo, per non disturbare eventuali trattative per il rilascio.

Rispetto alla problematica migratoria, cosa fa la chiesa del Niger?

«Sia nella diocesi di Niamey che in quella di Maradi abbiamo creato delle “cellule di ascolto”, per i migranti che passano. Perché il Niger è un paese di passaggio. Molti sono rimandati indietro da Algeria e Libia, tornano qui in capitale ma vogliono ripartire. Noi facciamo la pastorale dell’ascolto. Perché sono persone ferite, e credevano che migrando qualcosa sarebbe cambiato. Ritornano e sono scoraggiati. Il primo aspetto è dunque ascoltarli e ridare loro il gusto della vita e la dignità di persone. Non è perché siamo migranti che non siamo persone. Siamo pellegrini sulla terra e ognuno è chiamato ad andare all’incontro dell’altro. Il fenomeno migratorio che aumenta nei nostri paesi è il segno che le difficoltà portano la gente a cercare qualcosa in più. Ma sarà la migrazione a dare questo di più? Dobbiamo mettere il focus sui nostri paesi e su come fare in modo tale che la vita delle persone sia decente. Affinché il viaggio sia deciso effettivamente perché vogliono partire e non perché non hanno nulla e sono costretti a spostarsi.

Dobbiamo prendere la migrazione in questo doppio senso: chiunque ha diritto di viaggiare, ma se partiamo perché siamo costretti, perché non abbiamo nulla per vivere, forse dovremmo restare, qualunque sia la condizione. La maggior parte della gente che parte non ha mezzi e non sa dove andare. Molti ritornano. È con loro che lavoriamo cercando, con i mezzi che abbiamo, di ascoltarli, aiutarli a ritornare ai loro paesi. Alcuni trovano del lavoro qui, ma in Niger c’è disoccupazione, è difficile. In ogni caso noi cerchiamo di accompagnarli, soprattutto per fare in modo che ritrovino il loro equilibrio come esseri umani».

Come Chiesa, in un paese islamico, cosa fate per il dialogo interreligioso?

«Facciamo molto per il dialogo, soprattutto a partire dalla base, non solo a livello dei grandi leader. Ovvero partiamo dalle persone comuni affinché la coabitazione tra cristiani e musulmani sia buona, si abbia conoscenza di se stessi e dell’altro e ci sia mutuo rispetto. E facciamo molto attraverso una Commissione per il dialogo interreligioso e intra religioso, che ha intensificato i lavori in questi ultimi anni. Nella commissione ci sono cristiani evangelici e cattolici, e lo facciamo in direzione dei fratelli musulmani, che sono più forti. Abbiamo bisogno di stare insieme, perché siamo tutti figli di questo paese e più ci rispettiamo, più la pace avviene nel cuore, più viene nella società nigerina.

Abbiamo fatto diversi seminari su questi temi, uno nel 2016 sul dialogo, e un altro a novembre scorso concentrandoci sulla gioventù, che è uno strato sociale fragile, e manipolabile a tutti i livelli. Diciamo che se i giovani sono integrati, capiscono la propria fede, se hanno un’apertura verso il dialogo, allora noi costruiamo la pace nel nostro paese».

Lavorate molto con i musulmani, e frequentano le vostre scuole?

«Nelle nostre scuole la maggioranza degli insegnanti è musulmana, e non abbiamo avuto mai difficoltà. Tramite l’insegnamento cerchiamo di educare a dei valori che ci permettono di rispettarci gli uni gli altri, e a valori della vita che permettano a questi bambini, finita la scuola, di avere questa apertura.

A livello della Caritas del Niger, lavoriamo molto con i musulmani e i nostri aiuti sono indirizzati a tutta la popolazione senza alcuna distinzione etnica e religiosa. Operiamo per il bene di tutti. E tutti apprezzano questo nostro lavoro ancora di più, perché non facciamo proselitismo».

C’è anche l’islam radicale che si diffonde nella regione. In Niger ci sono stati episodi di violenza anticristiana nel 2015, quando alcune chiese furono date alle fiamme. Cosa fare?

«Sentiamo che un certo islam si sta radicalizzando. La gran parte sono persone che vengono da fuori, legate a certe scuole coraniche. Ma sia da parte del governo che della chiesa, lottiamo affinché l’islam nella sua generalità non prenda la forma dell’islam radicale, per evitare che ci siano dei conflitti. Facciamo questo sforzo. Negli avvenimenti del 16 e 17 gennaio 2015, non abbiamo accusato la comunità musulmana. I responsabili erano persone manipolate. Noi lavoriamo affinché questo non accada, sia da parte dei cristiani, sia dei musulmani, perché il radicalismo si può vivere in tutte le religioni. È la comprensione estremista delle nostre religioni che chiude le porte all’apertura all’altro. La negazione dell’altro rispetto a noi: è questo che porta conflitto. Noi facciamo di tutto affinché questo non capiti, non raggiunga i diversi strati sociali. E vegliamo, nelle nostre due diocesi, che si mantenga tra i cristiani uno spirito aperto e non si generalizzi rispetto all’islam. Il radicalismo, qualsiasi sia il gruppo da cui nasce, diventa un qualcosa che interroga e inquieta».

Mons. Laurent, lei è il primo vescovo del Niger di nazionalità nigerina. Chi sono i cattolici in questo paese?

 

«I cattolici sono presenti in Niger dal 1932 e penso che essi abbiano contribuito molto all’educazione in questo paese. Attraverso l’insegnamento, attraverso il dialogo della vita, la vicinanza alla popolazione. E continuiamo, malgrado il nostro numero limitato, a essere luce in questa società attraverso il lavoro ben fatto, il rispetto e l’accoglienza dell’altro senza pretese di convertire. Proclamiamo la nostra fede in Gesù Cristo che è il centro della nostra vita. Noi cerchiamo di imitarlo vivendo come lui ha vissuto, stando vicini alla gente come faceva lui.

Collaboriamo molto con le altre chiese, le chiese protestanti evangeliche, da qualche anno sentiamo un certo ecumenismo. Questo è importante per noi, perché siamo minoranze in un periodo difficile, allora ci uniamo per proclamare la nostra fede, restando aperti al popolo nigerino. Facciamo questo sforzo e siamo molto contenti della collaborazione con gli evangelici.

Realizziamo diverse attività insieme. Vogliamo che la nostra unità interroghi, in modo da essere portatori della buona notizia in questo popolo».

Che rapporti avete con le chiese vicine?

«Siamo in Conferenza episcopale con il Burkina quindi collaboriamo molto con loro. Abbiamo rapporti con la chiesa della Nigeria. Ci hanno chiesto come fare per vivere ancora più vicini ai nostri fratelli musulmani. Siamo stati io e monsignor Ambroise Ouedraogo (vescovo di Maradi) nella diocesi di Jos e siamo stati meravigliati nel vedere il lavoro che fanno i vescovi. Continuiamo nella stessa linea per essere anche noi portatori di pace nel nostro paese. Collaboreremo, perché condividiamo le stesse esperienze. Abbiamo avuto contatti anche con la chiesa algerina per le questioni della migrazione. Perché loro lavorano sul tema, e il passaggio di migranti in Algeria è importante».

Marco Bello


Archivio MC – Niger

• Marco Bello, «Ci legavano con corde e catene», aprile 2018.
• Marco Bello, Niger, frontiera d’Europa, marzo 2018.
• Marco Bello, Chiesa, dialogo contro terrore, dicembre 2015.




Aiutarli a casa loro:

dalle parole ai fatti

Testo di Chiara Giovetti |


Negli ultimi anni si susseguono le dichiarazioni di intenti dei governi sull’impegno per lo sviluppo. Spesso si tratta di declinazioni più o meno esplicite dell’idea «aiutiamoli a casa loro» e si concentrano principalmente sull’Africa. Ma, ancora una volta, gli slogan allontanano, non avvicinano, i cittadini dalla comprensione dei fatti.

Diciamolo subito: ci vorranno anni, decenni probabilmente. Anche volendo prendere sul serio lo slogan «Aiutiamoli a casa loro», anche cominciando subito e anche mettendoci il doppio delle risorse che ci mettiamo ora, ci vorranno anni prima che il livello di sviluppo nei paesi di provenienza dei migranti sia tale da ridurre i flussi migratori.

Qualunque politico che affermi: stiamo lavorando per creare lavoro e opportunità in Africa, dovrebbe aggiungere almeno tre cose: la prima è che ci vorrà tempo prima che l’aiuto mondiale allo sviluppo sia in grado di incidere in modo decisivo sulle economie dei paesi a cui è diretto. La seconda è che, comunque, questo aiuto può essere efficace a patto che si riducano le spinte in senso contrario e che gli sia consentito di orientare in senso redistributivo l’aumento di ricchezza che i paesi a basso reddito tenteranno di raggiungere con le proprie forze. La terza, di cui solo da pochi anni si è cominciato a parlare, ma che ha il potenziale di minare alle fondamenta le tesi degli anti immigrazionisti, è che potrebbe andare peggio prima di andare meglio. Diversi studi, infatti, mettono in discussione l’equazione «più sviluppo uguale meno migrazione» e suggeriscono, al contrario, che il miglioramento delle condizioni di un paese potrebbe spingere i suoi cittadini a emigrare di più, non di meno.

Secondo il sondaggio dell’Eurobarometro pubblicato lo scorso settembre, gli italiani nel 2017 erano più convinti rispetto all’anno precedente che affrontare il problema della povertà nei paesi in via di sviluppo dovrebbe essere una priorità sia per l’Unione europea che per il governo italiano. Rispetto alla rilevazione del 2016, inoltre, gli intervistati favorevoli a che l’Ue e i suoi stati membri spendessero di più per aiutare i paesi poveri erano aumentati del 10%@.

La crescente sensibilità verso questo tema è con tutta probabilità legata al fenomeno migratorio e all’urgenza di trovare soluzioni per gestirlo: l’arrivo di migliaia di esseri umani sulle coste europee ci ha spinti a chiederci quali siano i motivi che portano i migranti ad affrontare un viaggio così drammatico e i rischi mortali ad esso connessi. A fronte di questa maggior sensibilità verso lo sviluppo, lasciare intendere – con affermazioni pressappochiste – che la cooperazione sia lo strumento per una soluzione raggiungibile nello spazio di una legislatura rischia di peggiorare, e di molto, le cose. Perché crea aspettative che, semplicemente, non possono che essere disattese e getta le basi per un pericoloso passaggio successivo: se la cooperazione non serve, non facciamola più.

A che punto siamo

Il mondo dello sviluppo non solo è lontano dall’essere una bancarella di bacchette magiche capaci di risolvere velocemente i problemi se solo ci si decidesse a usarle; è anche un mondo inquieto e percorso in profondità da dubbi e contraddizioni. Sono passati dieci anni da quando il libro Dead Aid (in italiano: La carità che uccide), scritto dall’economista zambiana Dambisa Moyo, ha ferocemente criticato il sistema degli aiuti. «Negli ultimi cinquant’anni», scriveva Moyo nell’introduzione, «più di mille miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo sono stati trasferiti dai paesi ricchi verso l’Africa. Questa assistenza ha migliorato la vita degli africani? No. In realtà, in tutto il globo, i beneficiari di questo aiuto stanno peggio. Molto peggio». E solo quattro anni fa la comunità internazionale si sedeva (simbolicamente) intorno a un tavolo per constatare che gli Obiettivi di sviluppo del Millennio, trionfalmente lanciati nel 2000, non erano stati completamente raggiunti@.

Oggi, mentre gli Obiettivi di sviluppo del Millennio hanno lasciato il posto agli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2015-2030, gli addetti ai lavori nelle agenzie internazionali, nei governi e nelle Ong stanno ancora ponendosi molte domande non solo sugli interventi sui quali concentrarsi ma anche su come misurare i risultati.

Euractiv, rete di media europei che segue l’attualità e il dibattito sui temi rivelanti per l’Ue, ne ha parlato con Sarah Holzapfel, economista e ricercatrice specializzata sull’agricoltura all’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo (Die). Non basta, sottolinea Holzapfel, citare come risultati il numero di chilometri di strade costruiti o l’acqua fornita con i progetti idrici. «Le vite dei gruppi beneficiari sono cambiate? Il loro reddito è cresciuto? La sicurezza alimentare è aumentata?». Queste sono le domande da porsi per capire qual è l’impatto della cooperazione. E, in mancanza di criteri comuni e di sforzi coordinati fra tutti i donatori, compiere queste misurazioni è a oggi estremamente complicato@.

Non bisogna inoltre dimenticare che parte delle difficoltà a misurare non solo i risultati ma anche i problemi da affrontare deriva dalla molto variabile disponibilità di dati statistici e dalla loro non sempre immediata comparabilità. È un’informazione che fatica a farsi strada fino alle pagine degli esteri dei quotidiani nazionali e, meno ancora, dei Tg della sera, eppure è fondamentale.

Haishan Fu, direttrice della sezione della Banca Mondiale che si occupa dei dati dell’economia dello sviluppo, ammoniva lo scorso febbraio che «ci sono ancora molti spazi vuoti sulla mappa dei dati a livello globale», e che «fino a pochi anni fa, 77 paesi ancora non disponevano dei dati adeguati a misurare la povertà. Quel che è peggio è che spesso i dati sono più scarsi proprio nelle zone dove sarebbero disperatamente necessari»@.

D’altro canto, da paesi che, come vedremo fra poco, non riescono a finanziare sanità e istruzione non ci si può aspettare che investano fondi per potenziare i propri istituti nazionali di statistica.

Questo significa che la cooperazione è uno strumento eccessivamente fragile ed è meglio non contarci troppo? No, il contrario. Significa che va fatta a meglio. Con più risorse e anche più coordinamento.

L’Overseas Development Institute (Odi), centro di ricerca con sede a Londra, sottolineava lo scorso autunno che ci sono ancora 800 milioni di persone in povertà estrema, ma il grosso dell’aiuto va ai paesi a medio reddito, non ai più poveri, perché in questi ultimi è più rischioso investire. Anche quando si tratta di aiuti@.

In un rapporto del settembre 2018@ l’Odi individua 48 paesi nei quali l’aumento (stimato) del gettito fiscale nei prossimi anni non arriverà comunque a coprire del tutto i costi per finanziare i tre settori chiave: istruzione, sanità e protezione sociale. Fra questi 48, il rapporto ne isola poi 29 in forte difficoltà economica (severely financially challenged, in inglese): tutti africani tranne Afghanistan, Corea del Nord e Haiti. Si tratta di paesi che non riescono a coprire nemmeno la metà dei costi per far funzionare i tre settori. Se almeno 33 dei 40 miliardi di dollari in aiuti che ora vanno a paesi già in grado di far fronte da soli ai quei costi venissero invece spostati su quei 29 Paesi più deboli, la spesa di questi ultimi per sanità, istruzione e protezione sociale sarebbe coperta.

Inoltre, se tutti i paesi donatori destinassero come da accordi internazionali lo 0,7% del loro Pil alla cooperazione, 184 miliardi di dollari all’anno in più sarebbero disponibili. Ipotizzando che anche solo metà di questi fossero utilizzati dai 48 paesi di cui sopra, tutti potrebbero far fronte al 94% dei costi per i tre ambiti cruciali.

È ovvio che un aiuto efficace richiede coordinamento, assunzione (e mantenimento) di impegni a livello internazionale e, lo ripetiamo, tempo per produrre e consolidare gli effetti.

Le spinte in senso contrario

Non è colpa solo di quell’arpia della Francia o dei malvagi cinesi. Le spinte in senso contrario allo sviluppo e alla riduzione della povertà sono forti e arrivano da molte direzioni. Honest accounts@, un rapporto prodotto nel 2017 da un gruppo di Ong britanniche e africane, rileva che nel 2015, a fronte di circa 162 miliardi di dollari ricevuti in prestiti, rimesse dei migranti e aiuto allo sviluppo, l’Africa subsahariana ha visto uscire dal continente risorse per 203 miliardi. Il saldo, per gli stati a Sud del Sahara, è negativo di circa 40 miliardi.

Come sono usciti questi soldi? Attraverso fatturazione irregolare e altri illeciti finanziari, rimpatrio dei profitti delle grandi aziende (realizzati sul continente africano ma poi riportati nei paesi dove le multinazionali hanno sede o nei paradisi fiscali), rimborso degli interessi sul debito e contrabbando di legno, prodotti ittici e piante o animali selvatici. A questo si aggiungono i fondi che una manciata di milionari africani mettono al sicuro nei paradisi fiscali. Secondo Gabriel Zucman, studioso della London School of Economics, nel 2014 gli africani ricchi detenevano 500 miliardi di dollari in conti offshore. Questi denari non tassati provocano una perdita fiscale per il continente di circa 15 miliardi.

Altra nota dolente è quella della svendita delle risorse naturali: sono numerosi e documentati i casi di funzionari pubblici o membri dei governi africani che, in cambio di tangenti, hanno ceduto a imprese straniere i diritti sullo sfruttamento delle risorse minerarie a prezzi stracciati.

Un esempio per tutti: il rapporto cita uno studio pubblicato nel 2013 dalla Ong britannica Global Witness e dall’Africa Progress Panel, un gruppo di studiosi e leader africani all’epoca presieduto dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan. Lo studio si concentrava su cinque grandi concessioni per estrazione mineraria in Repubblica Democratica del Congo e riportava che lo stato congolese aveva accettato di cedere i diritti di estrazione alle compagnie acquirenti – tutte società offshore con sede nelle Isole Vergini Britanniche – per un miliardo e 360 milioni in meno rispetto al valore di mercato, praticando alle aziende «sconti» fino al 95%. I diritti sono poi stati acquistati da due grandi multinazionali, la Enrc (Eurasian Natural Resources Corporation, fondata in Kazakistan e quotata in borsa a Londra) e l’anglo-svizzera Glencore, mentre le società offshore sono risultate legate a Dan Gertler, uomo d’affari israeliano membro di una delle famiglie più influenti nel mercato dei diamanti. Il miliardo e 360 milioni di mancato introito per le casse dello stato congolese, conclude il rapporto, equivale al doppio di quanto il Congo ha speso nel 2012 per istruzione e sanità.

Più sviluppo meno migrazione?

Sulla rivista dei gesuiti Aggiornamenti Sociali, il sociologo delle migrazioni Maurizio Ambrosini segnala che secondo diverse ricerche sul rapporto fra aiuto e migrazione «in una prima non breve fase lo sviluppo incrementa le partenze: più gente accede alle risorse per muoversi, accresce l’istruzione, si apre a nuovi orizzonti e aspirazioni. Solo in seguito, dopo diversi anni, l’emigrazione cala»@.

È la cosiddetta «gobba della migrazione» o migration hump: studi storici e comparati, si legge in un documento dell’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo, hanno mostrato che quando la crescita economica e l’innalzamento del livello dei redditi sono tali che un paese non è più definibile a basso reddito, l’emigrazione inizialmente aumenta. Solo quando il paese diventa a medio reddito è ragionevole aspettarsi una diminuzione del fenomeno@.

Per riassumere: chi ci dice che il problema della migrazione degli africani si risolve aiutandoli a casa loro, in sostanza, ci sta dicendo che bisogna almeno raddoppiare i fondi italiani per lo sviluppo, mettersi d’accordo con una trentina di altri paesi donatori perché il denaro sia usato al meglio, convincere la parte corrotta delle élites africane e la parte corruttrice delle grandi aziende internazionali – italiane comprese – a piantarla e, fatto questo, metterci comodi e pazientare ancora qualche anno perché lo sviluppo nei paesi africani sia sufficiente a far diminuire l’emigrazione invece che incrementarla. «Sapevatelo», diceva un famoso comico.

Chiara Giovetti