Io sono tutte le donne


In queste pagine sono riportati alcuni dei racconti che hanno vinto il XIII Concorso Lingua Madre del 2018. Dello stesso Concorso, MC ha già pubblicato diversi testi nell’agosto 2016. Ringraziamo Daniela Finocchi, ideatrice del concorso, per averci offerto questi scritti. Siamo felici di pubblicarli proprio in questi giorni in cui le donne, a cominciare da quelle iraniane, sono protagoniste e promotrici di grandi cambiamenti.

Il Concorso letterario nazionale Lingua Madre

È un progetto permanente di Regione Piemonte e Salone internazionale del libro di Torino, ideato da Daniela Finocchi, nato nel 2005 per dare voce a chi spesso non ce l’ha. Diretto alle donne migranti (o di origine straniera) e alle italiane che vogliano raccontare l’incontro con l’altra, promuove la relazione. Si può partecipare con un racconto o/e una fotografia, da sole, in coppia o in gruppo e ci si può far aiutare da un’altra donna se non si ha dimestichezza con l’italiano scritto.

Ma non si esaurisce con il Premio letterario e fotografico (per chi volesse partecipare, è in corso la XVIII edizione che si concluderà il
15 dicembre). Durante l’anno, infatti, vengono realizzati incontri e iniziative proprie o sviluppate in collaborazione con altri soggetti pubblici e privati, che coinvolgono direttamente le autrici e le rendono protagoniste. E ancora un podcast, la sezione audioracconti, una borsa di studio annuale destinata a una giovane, speciali online, produzioni video e spettacoli teatrali tratti dai racconti.

A questo si aggiunge l’attività di ricerca su letteratura e migrazione femminile svolta da docenti – straniere e italiane – che fanno parte del gruppo di studio. Un lavoro poi divulgato con volumi di approfondimento, seminari, convegni.

Le 17 antologie con i racconti selezionati delle autrici – da cui sono tratti i racconti qui pubblicati – rappresentano un vero patrimonio della letteratura della migrazione, il 4 novembre verrà presentato il libro Lingua Madre Duemilaventidue – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27), presso il Circolo dei lettori di Torino.

Il bando e tutte le novità si possono trovare sul sito www.concorsolinguamadre.it

Daniela Finocchi

Sommario

 


Storie vere di donne migranti

Valeria Rubino

Nasce e cresce a Verona. Studia giornalismo e dopo una breve esperienza lavorativa a Londra, nel 2015 – al culmine dell’emergenza sbarchi dei richiedenti asilo giunti tramite la Libia – torna nella sua città. Da allora lavora per una Cooperativa sociale all’interno del progetto «Immigrazione», occupandosi dell’accoglienza dei cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale sul territorio di Verona e provincia.

Il suo racconto, «K.19», ha vinto il premio «Sezione speciale donne italiane» della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Per la capacità di raccontare senza sconti le violenze subite dalle donne migranti dall’Africa all’Europa. Per lo sguardo di lucida empatia con cui ogni storia è narrata nella sua unicità, mettendo tuttavia in evidenza la comune deumanizzazione che la violenza contro le donne in quanto donne produce in chi la subisce. Per l’azione politica svolta dalla denuncia di crimini contro l’umanità che chi racconta svolge con prosa attenta, senza concedere nulla al pietismo e alla commozione. Malattie, leggi, gravidanze, guerre, stupri diventano voci di tante piccole carte d’identità a cui si aggiunge quella dell’autrice che si riconosce in tutte e soprattutto nell’affermazione della dignità femminile presente in ogni storia».

K.19

K.

K. è nigeriana ed ha 19 anni. È cresciuta senza madre, della quale non sa nulla, con il padre. Il padre che, fin da bambina, la chiudeva a chiave in casa usciva per andare al lavoro, poi tornava la sera pretendendo che la figlia avesse preparato la cena e sistemato la casa. Beveva e si approfittava sessualmente di lei. Un giorno K. è riuscita a fuggire. Non avendo nessuno, ha vagabondato per le strade per mesi. Poi qualcuno le ha offerto la salvezza: un viaggio pagato per l’Europa e un lavoro al suo arrivo. Così K., attraversando Nigeria e Niger è arrivata in Libia. Poi i barconi. Poi la costa. È Italia.

K. arriva alla città cui è stata destinata, in qualità di richiedente asilo.
Una casa, dei pasti caldi, assistenza burocratica e sanitaria, scuola, scoperte.
E un uomo che inizia a chiamarla, per «quel lavoro» che le era stato promesso.
Prostituzione.
Io non sono una prostituta.

Devi restituire ventimila euro.
Per cosa.
Per il viaggio che ti è stato pagato.
Io non sono una prostituta.
Se non accetti faremo del male a tuo padre.
Non mi importa, è un uomo cattivo.
Faremo del male a tua madre.

Ho perso mia madre quando ero bambina, non l’ho mai conosciuta.
L’abbiamo ritrovata, se non vuoi che le venga fatto del male fai quello che ti viene chiesto. Puoi parlarle al telefono, se non ci credi.
A questo punto K. ha parlato con una donna per telefono. Piangeva. La pregava di ascoltarli, di fare quello che le stavano chiedendo, perché avevano minacciato di ucciderla.

K. è una bambina. I traumi che ha subito non le hanno permesso di crescere. Con l’ingenuità di chi ha dieci anni e la consapevolezza di chi ha vissuto la violenza si rivolge all’operatrice della struttura di accoglienza, e le chiede cosa fare.
Nulla. Quella non è tua madre. Vogliono fartelo credere per ricattarti. K., qui c’è qualcuno che può aiutarti.
Rete anti-tratta.

E.

E. è nigeriana e ha 21 anni. È rimasta nel centro di accoglienza dieci giorni, poi è scomparsa. Due mesi dopo ha contattato telefonicamente il centro.
Prostituta. Incinta di una violenza. Aiutami.

La rete anti tratta, contattata con il numero verde, l’ha trovata dove aveva detto di essere. Era fuggita da chi la stava costringendo a vendersi per restituire quello stesso debito che affligge tutte, o quasi tutte, le ragazze nigeriane che arrivano in Europa.

E. è stata inserita in una struttura protetta. I suoi sfruttatori non hanno più saputo nulla di lei, né nessun altro. Chi viene protetto semplicemente scompare.

D.

D. è burkinabè e ha 23 anni. Quando è arrivata in Italia era analfabeta. Ha lasciato in Burkina Faso le violenze della sua famiglia. E la tristezza.

In un anno ha imparato a leggere, scrivere, e l’italiano.
sorride sempre. Aiuta chiunque a fare qualsiasi cosa.
D. è forza e meraviglia.
Ha trovato con le sue sole forze un lavoro, e con il suo contratto in mano ha lasciato il programma di accoglienza, per occuparsi a tempo pieno di una signora anziana, che le vuole bene.

L.

L. è nigeriana e al suo arrivo in Italia ha dichiarato di avere 21 anni. Ma L. aveva il viso di una quindicenne.
Quando è arrivata era incinta. Non se n’era accorto nessuno, in Sicilia. Una ragazzina magrissima, chiusa in un giaccone troppo grande per lei.
Arriva al centro di accoglienza una sera di dicembre.

L., come stai? Di quanti mesi sei? Ti hanno controllata? Il tuo bambino si muove?
L. sorride e risponde bene. Sette. Sì. Sì.

Due ore dopo inizia a stare male. Ambulanza. Ospedale.
Altre due ore dopo L. partorisce un bambino. È maschio. Ed è morto da due o tre giorni.
Funerale.

L. torna al centro, e si aggira come un fantasma.
Dopo qualche tempo, raccoglie le sue quattro cose e senza dire nulla sparisce. Il numero di telefono già dal giorno dopo risulta staccato. L’ennesima carta sim buttata per non farsi più trovare.

S.

S. è nigeriana e ha 3 anni. Quando è arrivata, con i suoi genitori, ne aveva due ed era una bambina inavvicinabile. Respingeva qualunque tipo di contatto iniziando a graffiare, spingere, schiaffeggiare e urlare con tutta la forza della sua voce stridula. La madre sorrideva tristemente dei modi della figlia.

A un anno dal suo arrivo S. corre in braccio alle persone che ha imparato a riconoscere. Gioca, ride, è allegra e impara in fretta. Ha adottato a fratello un bambino di 10 mesi che ha vissuto con lei, e se ne è presa cura.

F.

F. e B. sono eritree e hanno 20 e 23 anni. Al loro arrivo F. era incinta di otto mesi e B. aveva partorito M. pochi giorni prima, in Libia. Si era imbarcata con questo bambino di sei giorni e la ferita del parto non curata, che si era infettata male.
Durante la loro permanenza nel centro F. ha avuto A., una bambina sana e bellissima.

F. è stata curata e il suo bambino ha lentamente preso peso.
Poco tempo dopo, secondo la deroga della legge «Dublino III» che prevede il ricollocamento di richiedenti protezione internazionale in uno degli stati che hanno aderito a tale legge, sono state rilocate e hanno raggiunto i loro parenti, in Europa.

P.

P. è nigeriana e ha 23 anni. Al suo arrivo era debole. Ha scoperto in un ospedale siciliano di essere positiva a Hiv ed Epatite B, probabilmente contratte a causa delle varie, troppe, violenze subite nel suo tentativo di arrivare in Europa.

P. oggi è in cura, e sta bene. È eccentrica e ha un carattere potente. È sorprendentemente positiva e trascina chiunque le si avvicini in una risata.

Si rabbuia quando va alle visite. Quando chi la segue le fa domande sulla sua situazione. Ma ha individuato di chi fidarsi, e queste poche persone godono del privilegio di poter entrare dentro la sua personalità trascinante.

In Italia questo tipo di infezioni, per quanto al momento incurabili, possono essere trattate. Le cure garantite permettono a chi ne beneficia di avere una vita assolutamente normale e di poter decidere di avere bambini senza infettare il o la partner.

P., con le cure e queste informazioni, è rinata. E investe le persone di benessere.

F.

F. è per metà ghanese e per metà nigeriana, e ha 2 anni. Quando è arrivata non li aveva ancora compiuti, e con lei c’era il papà. Storia strana. Le statistiche dimostrano che la stragrande maggioranza di minori che arrivano con un genitore solo sono con la madre.

S., il papà, fatica a prendersi cura della bambina.
Mia moglie è rimasta in Libia. È incinta. C’è stata un’incursione nella nostra casa, hanno iniziato a sparare. A casa c’eravamo solo io e mia figlia, mia moglie era uscita. Ho preso la bambina e sono scappato. Non so come fare. Ho bisogno di aiuto.
La moglie non si trovava.

Sei mesi dopo S. dice che C., sua moglie, è sbarcata in Sicilia.
Partono le pratiche per il ricongiungimento.
F. arriva, devastata dall’esperienza e dalla gravidanza di ormai otto mesi.

L’incontro con F. è emozione strana, perché la bambina sulle prime non la riconosce. È scettica, e si rifugia tra le braccia del padre.
Nei giorni successivi C. riconquista la fiducia di F., piano piano. E un mese dopo nasce S., minuto, ma sano.

M.

M. è nigeriana e ha 24 anni.
Non sto bene, non ho forze, dice.
Pronto soccorso. È malaria. E una gravidanza recente. La malaria non si può curare definitivamente in una persona in gravidanza, perché le cure danneggiano il feto.

M. sapeva. Temeva.
Mi hanno stuprata. In Libia. Non posso tenere il bambino.

Il passo successivo è l’accompagnamento per l’interruzione della gravidanza.
Poi la malaria è stata curata.

M. al suo arrivo era schiacciata dalla vita. Con lentezza si è ripresa.
In Nigeria ero infermiera, dice. Potrei esserlo anche qui.

M. ha iniziato a studiare. Ha ricostruito la sua vita passo a passo.
E avanza, fiera.

J.

J. è gambiana e ha 17 anni. È arrivata con colui che si era dichiarato suo fratello, e che non la lasciava sola un attimo. J. è stata subito ricoverata in ospedale per problemi vari. H., suo fratello, le è rimasto sempre appresso.

Due giorni dopo il rientro dall’ospedale J. è sparita.
H., interpellato, non ne so nulla, diceva.
Non c’era preoccupazione in lui.

Sale, negli operatori del centro, la rabbia. È rabbia di impotenza. È rabbia per aver perso una ragazza minorenne avendo la sensazione che colui che dice di essere suo fratello non lo sia, e l’abbia venduta.
Parte una denuncia che non porterà a nulla. J. è in un buco nero.
H., pressato dalle richieste, dopo qualche giorno scompare anche lui.

W.

W. è eritrea e ha 22 anni. Nel suo paese era un soldato.
Durante l’addestramento ha dovuto subire un’iniezione «per non rimanere incinta». Da allora non le viene la mestruazione.

Questo tipo di pratica viene applicata per evitare di perdere soldati per colpa delle gravidanze, sia che si tratti di una donna che ha avuto un rapporto consensuale sia che si parli di una violenza sessuale. Cose che succedono.

A causa delle esperienze vissute in addestramento (W. non è mai stata in guerra) ha dei problemi di vista e di udito. Dice di sentire qualcosa che le martella dentro la testa.
Le visite hanno escluso problematiche reali.
Traumi, dicono.

U.

U., V., C., H., U., J. sono chi della Nigeria, chi del Camerun e hanno tra i 21 e i 29 anni. Sono tutte mamme e mogli. Sono arrivate con i loro mariti e i loro bambini.

Nella grande casa che è il loro centro di accoglienza sono state fin da subito trattate come invasori. Il paese nel quale vivono non ha mai accettato queste sei famiglie, in tutto dodici adulti e undici bambini, di età compresa tra i due mesi e i tre anni.

Un giorno due uomini, italiani, hanno fatto irruzione nella casa spaventando i bambini, insultando le donne e aggredendo uno dei ragazzi. U. ha bloccato la porta e ha chiamato i carabinieri. Poi ha sporto denuncia, insieme agli altri.

Gli aggressori si sono difesi sostenendo di essere stati trascinati in casa dagli ospiti.
Video girati sul posto dimostrano la loro colpevolezza.

V.

V. è italiana e ha 30 anni. Da due anni e mezzo lavora come operatrice in diversi centri di accoglienza per richiedenti asilo. V. non è straniera, non in Italia, non nel senso stretto del termine. Ma per il tipo di lavoro che fa si ritrova a interiorizzare storie ed esperienze di donne straniere. A subire espressioni razziste per la parte presa in questa invasione.

Eppure, V. pensa che non ci siano parti da prendere. Che non ci sia un noi e un loro.
V. sono io. Io sono tutte le donne che hanno creduto di poter meritare una vita diversa.
Sono chi sa di valere quanto e come un uomo, e per questo non vuole vivere sottomessa.

Sono tutte le donne che sanno di avere diritto all’istruzione. Alla felicità. Alla salute. A un equilibrio mentale.
Sono quelle donne che sanno di non essere prostitute e di poter combattere per fermare il traffico di esseri umani.
Sono chi vuole poter decidere quando e come avere un bambino.
Sono chi ha partorito bambini morti o malati perché ha dovuto affrontare la gravidanza in viaggio.
Sono le donne che hanno dovuto abortire e quelle che hanno voluto abortire, perché era l’unica scelta che era rimasta nelle loro mani. Perché quando il corpo è oggetto e viene usato, e non è rispettato, alle donne rimane solo l’aborto.
Sono le donne che non hanno potuto abortire perché era troppo tardi. Sono le donne che hanno messo al mondo figli indesiderati, e li hanno amati.

Sono tutte le donne che trovano la forza di denunciare le aggressioni che hanno subito.
Sono coloro che sono sfruttate. Che sono state vendute. Che sono sparite. Che sono morte.
Sono le donne oggi bloccate nei centri di detenzione in Libia.

Sono le donne traumatizzate; traumatizzate e segnate, e quelle che dai traumi hanno trovato la forza di reagire. Sono le donne che conoscono i propri diritti e combattono per vederli rispettati.
Io sono tutte le centinaia di donne che ho incontrato, sfiorato, conosciuto in questi anni.
Sono le donne che non ho incontrato, che non incontrerò e che continueranno a prendere parte a questo fisiologico flusso mondiale di affermazione della dignità femminile.

Valeria Rubino


Sul filo della memoria e delle radici

Dunja Badnjević

Nasce a Belgrado nel 1945 e vive in Italia da più di cinquant’anni. Ha lavorato come redattrice e attualmente si occupa di traduzione e promozione della letteratura serba, croata e bosniaca. Ha tradotto per Adelphi, Guanda, Editori riuniti, Bordeaux ed., Newton Compton e altre case editrici. Per la collana meridiani della Mondadori ha curaro e tradotto Ivo Andric, romanzi e racconti. Con il suo primo libro, L’isola nuda, edito da Bollati Boringhieri, ha ottenuto diversi riconoscimenti nazionali.

Il suo racconto, Ricordi rubati, ha vinto il Premio speciale Torino Film Festival della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Costruito in maniera secca ed essenziale, sa raccontare in poche pagine una storia complessa e animata da più personaggi, tutti con fisionomie ben definite. Ha ritmo, tempo, senso della narrazione. E non perde mai di vista il filo della memoria e delle radici, che rappresentano la base, intelligente e attuale, della storia».

Ricordi rubati

«Ha ucciso un uomo per delle foto?», chiese il poliziotto.
Rigirai i polsi stretti nelle manette: «Sì, l’ho fatto… Non potevo non farlo».

Sono arrivati al tramonto. Avevo chiuso le stalle e i pollai, stavo per preparare la cena. Il mio vecchio era in cortile, da quando i figli se ne sono andati si mette sempre sotto il ciliegio, dove una volta c’era la loro altalena. È lontana l’Australia, non possono venire a trovarci spesso. Ci mandano le fotografie, tutte a colori, con i nipotini che si vede che crescono bene. Noi le sfogliamo, le abbiamo tutte sistemate negli album e così li sentiamo più vicini. Ci bastano i ricordi. L’importante è questo, che loro stanno bene. La nostra è sempre stata una terra povera, difficile viverci.

Dicevo, sono arrivati senza preavviso. Una decina di uomini robusti, con i fucili in mano. Dietro a loro, nascosto, il mio vicino, Kresimir. Un uomo arcigno, mingherlino, la moglie come lui, inacidita, non hanno avuto figli. Veniva spesso a controllare: le vostre pecore sono più grasse, le vostre mucche danno più latte, i vostri alberi danno più frutti.

«Se hai bisogno serviti pure», gli dicevo. «Tanto a noi due vecchi ormai basta poco». Lui mugugnava qualcosa fra sé e se ne andava.

«Avete poco tempo per andarvene», ci ordinarono quelli in uniforme. «Siete serbi e questa non è più la vostra terra. Prendete il vostro carro e via!».

«Come, via, come andarsene? La nostra famiglia vive qui da secoli. Ci ha portato qui Maria Teresa per difendere i confini del suo impero e da allora è la nostra casa. La casa dei nostri padri, nonni, bisnonni…».

«Poche chiacchiere, vecchia! Le cose sono cambiate! Tu e i tuoi avete perso la guerra. Ora questa terra deve ripulirsi dai bastardi!».

«Sì, ripulirsi!», ripeteva anche Kresimir, gli occhi lucidi dalla contentezza.

«Dove ci porterete», chiesi, «e per quanto tempo? Il mio uomo è vecchio ormai, non ce la farà a fare molta strada».

«Prendete il carro e sparite. In Serbia, andrete, dove vi aspettano i vostri!».

I nostri, i loro. Questa guerra noi non l’abbiamo voluta. Ne sentivamo parlare, il vecchio teneva la radio sempre accesa e si faceva il segno della croce. «Basta che non arrivino qui», diceva.

Io ringraziavo Iddio che i figli erano lontani, molti giovani sono morti in questi pochi anni. Senza nemmeno sapere perché morivano.

«Forza», l’uomo in uniforme ormai si era spazientito. «Ci resta poco tempo». Ci fecero montare sul carro, io presi le redini e il cavallo si mosse. Feci per chiudere la casa, ma me lo impedirono. «Ora via, poi si vedrà!». Dietro a loro il vicino Kresimir ridacchiava.

Viaggiammo una notte intera. Un convoglio di vecchi, con poche masserizie accatastate sui carri. Fu il viaggio più lungo della mia vita. All’alba arrivammo alla periferia di una grande città. Qualcuno disse che quella era Belgrado. Ci fermarono e ci fecero spostare sul ciglio della strada.

«Mia moglie sta male!», si sentì da uno dei carri. Dalle case vicine cominciò ad arrivare la gente con brocche d’acqua e qualche panino. Ringraziammo con un groppo in gola.

«Che ci facciamo qui?», si lamentava un altro vecchio. «Voglio morire là dove sono nato. I giovani possono anche rifarsi una vita, per noi ormai è tardi…».

Ci fecero rimanere lì fermi per diverse ore. Non entrammo in città. La sera vennero dei soldati in altre uniformi. Ci scortarono, come vergognandosi, verso Sud, in campagna. Ci sistemarono nei prefabbricati tutti insieme, poi col tempo ci dettero case di mattoni. Vuote. Due letti, un fornello. Qualche coperta. I nuovi vicini senza tante parole portavano quel che potevano. Erano gentili, ma si vedeva che soffrivano anche loro.

Si fece qualche conoscenza. Si parlò delle nostre vite passate, dei figli. «Avete qualche foto?», ci chiesero.

«Le foto, le foto», ripeteva ormai in continuazione anche il mio vecchio. Ormai tutto ingobbito, seduto su uno sgabello davanti alla casa, lo sguardo fisso in lontananza. «Le foto!», supplicava.

Un giorno mi decisi. Presi il treno e dopo diverse ore mi ritrovai al confine. Dopo molte spiegazioni mi fecero un «passi» per l’estero. Quell’estero che era la casa in cui avevo vissuto. La vita che avevo vissuto. Un po’ a piedi, un po’ sui camion di brava gente, arrivai a casa mia.

Trovai il vicino Kresimir sotto il ciliegio e la sua famiglia in casa nostra. Non l’avevano nemmeno ripulita, tutto era rimasto uguale. Le piante si stavano seccando, i fiori erano appassiti. Mi si strinse il cuore ma mi avvicinai. Sulla sedia accanto all’uscio, un fucile. Cattiva coscienza?

«Finalmente ce l’hai fatta!», gli dissi. «Ora hai quello che hai sempre invidiato».

«Questa ora è casa nostra e tu te ne devi andare. Altrimenti chiamo la polizia!», mi rispose.

«Niente polizia, ormai l’ho capito e non chiedo giustizia. E non ti chiedo nemmeno quel poco di valori che sono rimasti fra quelle mura. Voglio solo i miei album, il vecchio ne ha bisogno!

«Quali album? Non li ho visti qui».

«Ce n’erano tanti, con delle foto, ben rilegati, tanto tu che ci fai con le foto della nostra vita?».

«Marija!», gridò Kresimir e uscì la moglie, piccola e mingherlina come lui. «La vecchia cerca le foto, le hai viste forse?».

«Le nostre foto», ripetei «quelle dei miei figli, dei miei nipoti, della nostra giovinezza, dei nostri giorni felici, della nostra casa, delle nostre vite». Ormai piangevo.

«Non ci sono», rispose Marija, incerta «e se c’erano le abbiamo buttate».

«Dove buttate, perché buttate?», balbettai.

«Dai, vecchia, vattene», mi apostrofò Kresimir. «Hai perso tutto, che te ne fai delle foto?».

Sentii la mia testa girare. Come stessi morendo. Qui, davanti alla mia casa, con degli estranei che mi negavano anche la memoria. Che uccidevano anche il ricordo. Che mi privavano della mia vita.

Non so come, presi il fucile. Non ho mai sparato in vita mia. Vidi Kresimir alzarsi e correre verso casa. Premetti il grilletto. Lui cadde e Marija gridò.

Poi siete arrivati voi. Fate quel che volete. Io sono già morta.

Dunja Badnjević

Immagini della città di Mostar distrutta dalla guerra – 1994


Adozioni internazionali: l’amore più forte del sangue

Dorota Czalbowska

Nasce a Varsavia, in Polonia, nel 1962. Compie gli studi in pieno regime comunista. Nel 1989 si trasferisce in Italia per lavoro, dove, con il tempo, forma anche la sua famiglia. Negli anni porta a termine la sua specializzazione linguistica ed entra in contatto con la complessa realtà delle adozioni internazionali. Il suo racconto La ragazza con le trecce, è pubblicato nell’antologia Lingua Madre Duemilaquattordici. Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27).

Con Parole perdute, ha vinto il secondo premio (Premio speciale consulta femminile regionale del Piemonte) della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Per la disinvoltura narrativa con cui l’impresa della genitorialità è rappresentata senza retorica e senza idealizzazione, ma quale occasione di comprensione dell’umano nell’esperienza dell’adozione: tema complesso, estremamente e da tempo connesso con la migrazione, sempre attuale. Per la capacità di narrare, con prosa evocativa, il valore delle origini senza farne una questione di appartenenza, bensì un passato da condividere fra genitori e figlio, perché «le storie irrisolte» non ostacolino le possibilità di esistenza».

Parole perdute

A tutti i genitori coraggiosi, che ho avuto il grande privilegio di conoscere e che mi hanno permesso di fare una piccola parte nella loro meravigliosa avventura di vita…

La macchina sobbalzava sull’asfalto malridotto, ma non mi importava nulla dei colpi che mi scuotevano, sorpassavo le vetture presenti quella mattina sul mio tragitto come se fossero avversari da sconfiggere. L’aria fuori dal finestrino era soffocante come lo erano i miei pensieri. Mi era venuta voglia di fumare. La ripetizione di quel gesto, un tempo usuale, mi era riapparsa con l’impetuosità di un uragano. Al cervello non erano bastati cinque anni di astinenza da quel vecchio vizio del quale non andavo fiero.

Nei momenti di panico più assoluto, la mente richiama automatismi a lei confidenziali; è un inganno in grado di calmare i nervi.

In testa mi rimbalzavano le parole della tua maestra: «C’è stata una rissa con i compagni di classe, suo figlio ha battuto la testa e ha perso i sensi. Abbiamo già avvisato sua moglie, sta andando in ospedale».

Dovevamo aspettarcelo, non era la prima volta che ci facevi preoccupare. Trovarsi a soli nove anni lontano dalla propria terra e doversi fidare di due sconosciuti, che neppure parlavano la tua lingua, sarebbe stato difficile per chiunque.

La corsa in ospedale sembrava interminabile, così come lo è il tuo cammino attraverso un paese a te sconosciuto, un transitare da una lingua a un’altra, un fluttuare tra idiomi vecchi e nuovi, una continua ricerca di parole capaci di riempire il vuoto della tua identità. Sei in un incessante tumulto di emozioni e laddove le tue fuoriescono con l’irruenza di un fiume in piena inducendoti a comportamenti a volte insopportabili, le nostre devono tacere per calmare le tue.

Correvo per salvarti un’altra volta. All’interno della macchina e con le mani serrate sul volante sembravo un animale in gabbia. Se solo fossi riuscito a trovare il modo per comunicare con te. Una violenta raffica di immagini affollava la mia mente che, senza alcuno sforzo, cercava di ripercorrere la tua vita prima di noi. Pensavo al tuo mondo, definito dalle mura della tua casa, dove gli odori della minestra e dell’alcool si confondevano in un tutt’uno e dove le urla e le violenze tra tuo padre e tua madre, ubriachi e ruvidi, facevano parte del tuo quotidiano.

Hai visto cose che nessun bambino dovrebbe mai vedere e che hanno fatto precipitare la tua vita in un abisso senza più riferimenti. La tua famiglia non era più in grado di crescerti e come un soffio di vento ti è stata portata via.

Sei rimasto solo e senza più parole.

Come esprimere così tanto indicibile smarrimento? Forse pensavi che dimenticando la tua lingua e sradicandoti da essa, avresti fatto scomparire anche i ricordi. Così, da quando sei stato portato all’orfanotrofio, ti sei ammutolito. Per non annegare nel vortice che ti ha inghiottito, hai fatto come hai potuto, sostituendo il parlare con singhiozzi, suoni stonati, inciampi, rabbia. Le parole d’affetto di un tempo le hai rimpiazzate con altrettante vuote e assordanti come tamburi nel deserto. È stato così che, solo osservandoti, ho capito che il cambiare la propria lingua è un processo paragonabile a una guerra. Per trovare un modo nuovo di esprimerti e per ricostruirti hai dovuto prima sacrificare pezzi di te; per te non è stata un’opportunità, è stato un incubo.

Ho abbandonato la macchina nel piazzale dell’ospedale ed ho attraversato le porte scorrevoli del pronto soccorso. Eri in coma.

In una frazione di secondo un pensiero mi ha abbagliato come fosse stato un lampo; quando ti risveglierai in quale lingua parlerai, in quale lingua ti dovrò parlare io? E se non fossi in grado di capirti? Il polacco risiede nelle viscere più profonde del tuo essere, è la tua conoscenza inconscia, la tua vera identità e nessuno potrà mai portartelo via, nemmeno tu.

Mentre stavo per telefonare ad Anna, la nostra insegnante di polacco, per dirle di tenersi pronta in caso di necessità, ho sentito una voce rassicurante che mi invitava a sedermi vicino al letto dove eri sdraiato. Tua madre era già lì, più silenziosa del solito, assorta nei suoi pensieri che sistemava meticolosamente le lenzuola del tuo letto. Ci avevano consigliato di parlarti, di farti sentire le nostre voci e di raccontare storie per cercare di risvegliare la tua memoria. Cosa potevamo raccontarti noi, mi domandavo? Un padre e una madre che non condividevano con te alcun passato, a cosa potevano appellarsi, cosa potevano rievocare? Non avevamo ricordi, soltanto la strada ancora da costruire e da percorrere insieme a te.

Ci sentiamo affaticati, stremati, impotenti ma sappiamo che quello che stai vivendo tu è mille volte peggio.

Sono rimasto immobile senza dire una parola. Fissavo i macchinari ai quali eri attaccato osservando la tua quiete del tutto insolita. Vederti in quello stato mi faceva uno strano effetto e accelerava in me il bisogno di trovare una storia da raccontare. All’improvviso mi è apparso il ricordo del nostro viaggio verso di te, il ricordo di quanto volessimo sentirci pronti ma anche di quanto non ci rendessimo conto dell’utopia delle nostre aspettative.

Non si è mai pronti del tutto per questo tipo di esperienze.

Volevamo che diventassi nostro figlio e che rimanesse traccia di quanto tenessimo a te e per questo abbiamo varcato la soglia del nostro coraggio iniziando a studiare il polacco. Una lingua difficile, è vero, ma non aveva importanza visto che era l’unico modo che avevamo per addentrarci nel tuo mondo, nella tua storia, nelle tue radici. Pensavamo che entrando in confidenza con essa sarebbe stato più facile comprendere le esperienze e i dolori che ti portavi dentro. Durante le lezioni, immaginavamo e improvvisavamo situazioni impensabili, dalle più divertenti alle più difficili, alternando frasi di uso comune e giornaliero a frasi più profonde e intime. Per noi Anna era diventata una specie di ponte che ci avrebbe aiutati a raggiungerti e ad accorciare le distanze. Gradualmente, insieme a lei, abbiamo incominciato anche ad apprezzare il tuo paese, nonostante fosse difficile farlo fino in fondo, ma allo stesso tempo sapevamo che il nostro compito, un giorno sarebbe stato anche quello di accompagnarti nel tuo passato. Saresti cresciuto e avresti cercato le tue origini, lungo un percorso inverso, ma necessario per fare pace con chi la pace te l’aveva negata.

Il nostro primo incontro con te è stato sorprendente, sei stato all’altezza della situazione e noi siamo riusciti a contenere le nostre paure e le nostre emozioni. Anna ci ha sempre raccontato di quanto il tuo popolo fosse ospitale e accogliente. E così è stato. Ci hanno fatto molti complimenti per il nostro polacco, anche per le parole pronunciate in modo buffo e goffo, ma piene di sentimento e di affetto. Ogni nostro tentativo di intavolare un discorso che avesse un minimo di senso, aveva come unico scopo quello di essere compresi da te. Ci scrutavi come se stessi facendo un calcolo di probabilità della riuscita dell’operazione, misuravi il grado di fiducia da concederci e parlavi con occhi attenti ai quali nulla sfuggiva, nemmeno la più impercettibile smorfia. A volte accennavi un sorriso. Eravamo avvolti da un uragano emotivo in grado di spazzare via un intero paese, tanto che mentre cercavamo di risultare disinvolti, i nostri nervi erano tesi come corde di violino.

Noi grandi siamo fatti così, spesso ci vergogniamo di mostrare le nostre fragilità per paura di risultare ridicoli.

L’averti conosciuto ci ha confermato ciò che già sapevamo, che saremo ritornati in Polonia a prenderti per portarti via con noi. Ci sentivamo leggeri e felici. Abbiamo continuato a studiare la tua lingua, ma questa volta tutto ci sembrava diverso, anche i suoni delle parole, una volta ostili, erano diventate la più bella delle musiche. La nostra motivazione e la determinazione erano cresciute a dismisura. Ci stavamo preparando con precisione ingegneristica a costruire non solo ponti, ma vere e proprie opere architettoniche, fatte di parole inedite e di sentimenti nuovi.

Purtroppo, con il tuo arrivo in Italia, inaspettatamente tutto è diventato difficile al punto di dare pugni contro i muri, fino a farci sentire svuotati; ci sfidavi, alzavi la voce, cercavi lo scontro, i tuoi improvvisi attacchi di aggressività erano diventati sempre più frequenti.

La tua rabbia era provocante, a volte addirittura autolesiva, sapevi che, facendo del male a te stesso, avresti ferito anche noi. Era il tuo modo di chiederci di non abbandonarti perché, al contrario di ciò che dimostravi, avevi bisogno di noi per cercare di cancellare quel senso di colpa che sentivi dentro. Volevi essere amato incondizionatamente, volevi essere accettato anche se picchiavi e mordevi, anche se non facevi i compiti e ritenevi stupide le tue maestre. Il tuo inconscio ti restituiva scenari impressi nella tua mente, come la mia che richiamava l’odore della sigaretta. In questo siamo uguali, smarriti, indifesi e spaventati, ma non possiamo più permetterci di lasciare al passato le nostre storie irrisolte. Non si può restare aggrappati alle cose, bisogna dare un senso a tutto, anche al dolore, per lasciarlo andare, per permettere alle parole di rifiorire e di scrivere un nuovo capitolo della stessa storia.

Sentivo la gola secca che strozzava ogni mio tentativo di dare forma verbale ai miei pensieri, come quando fai un brutto sogno e vorresti gridare ma rimani intrappolato nel tuo spasmo. Ma mentre stringevo la tua mano guardando il vuoto oltre il vetro della finestra, ho percepito le tue piccole dita agitarsi e poco dopo anche un filo della tua voce. Una scossa improvvisa ha attraversato il mio corpo e solo in quel momento ho avuto la chiarezza che il nostro e il tuo senso di appartenenza non sarebbe più stato soltanto un paese o una lingua, ma il sentire e percepire la vita insieme a te.

Dorota Czalbowska


Aicha Fuamba

Nasce nel 1994 in Congo. Giunta in Italia, nel 2014 si iscrive al liceo di scienze umane a Rovigo. Dopo un anno, per il desiderio di ricongiungersi con la sua famiglia, si trasferisce a Pantelleria, con l’intento di terminare gli studi liceali. Problemi economici costringono il nucleo familiare a ripartire per recarsi a Genova. Rimasta sola, accanto a sé ha una persona che la sta aiutando in attesa di sostenere gli esami di maturità, per poi cercare la sua strada, forse altrove.

Con Sofia Teresa Bisi (insegnate, nata nel 1970 a Rovigo) ha scritto a quattro mani il racconto Per Aspera ad Astra, vincendo il primo premio della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Per il racconto dell’orrore dell’esperienza dell’Africa, del Mediterraneo, dell’Europa, reso possibile dalla relazione di affidamento tra docente e discente. Per la capacità narrativa di trasformare, con il racconto, l’esperienza soggettiva di atrocità, a cui la cronaca drammaticamente abitua, in memoria collettiva. Per il senso civico che presiede all’idea che la condivisione del racconto del dramma migratorio attivi la sopportabilità del ricordo, nell’agire dell’ascolto in relazione. Il racconto è una sorta di Odissea al femminile, in cui la guerra è di altri e la patria e la famiglia sono luoghi frammentati dove non è possibile tornare. Una babele, anche linguistica, all’interno di rapporti di sangue; il tutto narrato in modo mosso e contraddittorio, dove le parole e lo stile ricalcano ed esprimono i sobbalzi dell’animo, le discordanze e le incongruenze dei sentimenti. Il modo in cui viene descritta la storia rispecchia il coraggio di chi lo narra, tenendo il lettore con il fiato sospeso fino alle ultime parole».

Per Aspera ad Astra

L’inizio

Mia mamma Leonnie è nata e cresciuta in Congo, cattolica; papà è del Niger, musulmano. Si sono conosciuti e innamorati in Congo; nel 1992 sono nati due gemelli: i miei fratelli hanno nomi islamici, Hassan e Housseini, e altri con cui li chiamava mamma: Rolly e Roland. Nel 1994 sono nata io e nel 1996 mia sorella Kerene.

Un giorno papà dice a mamma: «Voglio andare in Niger a far visita alla mia famiglia. Porto i bambini». Solo Kerene resta a casa, perché troppo piccola. Papà ha deciso: dobbiamo restare in Niger e avere una cultura come la sua. Mamma aspetterà sei anni il nostro ritorno.

Papà mi affida alla nonna paterna, che mi vuole bene, e anch’io inizio ad amarla. I gemelli invece restano dal fratello di papà, perché lui e sua moglie non hanno figli. Nonna insiste che papà si risposi con una donna musulmana. Così, per rispetto, accetta: è una festa bellissima, dove io non riesco a non essere felice. Poi papà porta tutta la sua famiglia in Niger, anche Kerene.

Mamma sembra impazzita, si dispera, rompe gli oggetti in casa, anche se è in gravidanza. Viani nasce dopo poco; mamma è sola a partorire. Quando il piccolo ha sei mesi, mamma e papà si vedono e litigano; lui la caccia e va a vivere in Francia. La situazione per mamma si fa gravissima: ha un figlio non riconosciuto, vivono per strada. Poi in Niger incontra Camille, un insegnante del Congo, si innamorano: lui accoglie lei con Viani; dalla loro unione nasce Raiss. Per cambiare vita decidono di andare in Libia, ma prima la mamma vuole vedere me e mia sorella: staccarsi da noi le dà un grande dolore. Ci diciamo poche parole, ma è davvero bello! Sento che il legame di sangue può sistemare tutto. In Libia mamma e Camille hanno aiuti e lavoro: la loro vita sembra perfetta.

Io mi rendo conto di non capire la lingua di mia madre, ma quando mi chiama le basta sentire la mia voce, nel dialetto Jarma che uso con la nonna.

Il villaggio

Arrivarci è un’avventura. Viverci una sfida quotidiana. Dove vivo non ci sono più di dieci capanne. Ogni giorno faccio provvista d’acqua e le pulizie; nei boschi invece cerco legna per il fuoco. Ho paura dei temporali: tremo perché potrebbero portarsi via tutto. Quando piove il paesaggio si fa lussureggiante, gli alberi crescono veloci offrendo cibi buonissimi che io corro a cercare.

In quelle comunità la vita trascorre metodica: gli uomini lavorano la terra e le donne si occupano di attività manuali come cucinare. Chi può tiene degli animali, ma la nonna è troppo anziana per accudirli. I negozi non ci sono, neppure la scuola. Qualche volta passa qualcuno con la stoffa, così le donne confezionano vestiti. Non ci sono neppure gli ospedali, ma le donne più esperte sanno curare con le piante. Ricordo una medicina amarissima ma eccezionale per farmi stare bene. Le donne partoriscono in casa, aiutate da abili levatrici. Ci si sposta con dei carretti trascinati da ann, simili agli asini; nessuno ha la bicicletta. Solo adesso mi rendo conto di aver perso tempo inutilmente. La nonna è vecchia e io la accudisco, la aiuto in tutto. Mi piace anche andare a trovare i miei amici, ma lei ha paura che qualcuno mi faccia del male, non vuole sentire odore di un ragazzo addosso a me.

La mia vita cambia nella più grande Kiota, che ha persino un ospedale: una struttura fatiscente e sporca. Una volta devo andarci perché sto male, ma mi rifiuto di stendermi sul lettino! A Kiota c’è il capo dei musulmani del Niger e mantiene salde le tradizioni legate a religione e famiglia.

Qui succede un fatto terribile. Vivo vicino a mio zio e a sua moglie, hanno cinque figli. Un giorno, tornando da scuola, la sua bambina di sette anni è presa e violentata: io e la zia la troviamo in un lago di sangue, con ferite sul corpo e nell’anima. A lungo discuto perché sono vittime di maldicenze. Rimasta di nuovo incinta, il giorno del parto, mia zia è accompagnata all’ospedale con problemi di salute: il bambino non respira; lei è distrutta e malata. Da quel giorno decido che da grande farò l’ostetrica.

Sposarsi?

A 15 anni i miei fratelli chiamano spesso la mamma e le chiedono di venire a prenderci: c’è il rischio che ci facciano sposare; là decidono le famiglie. Così mamma, da sola, riattraversa il deserto e ci chiede di seguirla in Libia. Non so descrivere l’emozione che provo in quel momento: sento la mia vita, le certezze, gli affetti, tutto in totale confusione! «Non so cosa fare», dico, con la bocca così secca che sembra legata con una corda. «Sto bene qui con la nonna. Lei mi ama».

La nonna mi conosce e avverte qualcosa di strano. «Cos’hai bambina mia?», mi chiede. «Cosa ti preoccupa?». Io provo un nodo in gola quando mi fa domande, mi sembra di tradirla. Nonostante ciò, siamo decise a partire.

La fuga

Il piano ha così inizio. Mamma ci invita ad accompagnarla nella capitale. «È solo per fare alcune commissioni», diciamo. Così usciamo da casa senza niente, ma un dolore e un senso di vuoto mi appesantiscono il respiro e le gambe. Di notte saliamo su un pullman che ci porta al famigerato camion per la traversata del deserto. Per il viaggio, mamma compera tutto il necessario, come gli spaghetti e il gari di manioca, cibi che si preparano velocemente, ma il bagaglio permesso è minimo.

Il guidatore è di poche parole, si sottopone a ritmi incredibili. Intorno a noi c’è solo deserto, raramente si vede qualche albero. Non avrei mai pensato di trovarmi in una situazione così difficile. Improvvisamente vedo la precarietà della vita, lo sforzo, la fame, il freddo, la sete, il sonno. Tutti insidiosi e insopportabili. Il mio carattere ottimista mi fa considerare tutto come un gioco, senza farmi domande. Mamma invece è terrorizzata. Spesso capita di dover fare dei tratti a piedi sulle dune di sabbia; lei è grossa e fa tanta fatica, così io e Kerene la aiutiamo. Per dormire ci si appoggia per terra, tutti vicini, sopra i vestiti di ricambio.

Il viaggio è lungo e a un tratto ho dolori lancinanti alla pancia: senza medicine inizio a temere il peggio. C’è però un ragazzo vicino a me, che parla un dialetto diverso dal mio: prende un tappo d’acqua, dice delle preghiere e me la fa bere. Non so se sia magia o miracolo, ma poi sto meglio!

I momenti più bui si presentano al centro del deserto, nella città di Dirq. I soldi sono finiti ma il viaggio è ancora lungo. Mamma finge che vada tutto bene, ma deve vendere gli oggetti più utili, anche la torcia.

A un controllo perdiamo le speranze. Le guardie non credono alla nostra parentela, perché mamma parla in francese e noi in dialetto e temono che ci abbia rapite. Dopo tanta paura, sono i gemelli a confermare per telefono la nostra sincerità. Ma le difficoltà non vogliono finire. Non torna nessuno a prenderci, a farci risalire sul camion. Bisogna avere soldi, molti soldi. E così ci troviamo rinchiusi in un recinto, dietro un muro altissimo. Dopo qualche giorno in quell’inferno, papà trova i soldi per il viaggio. Un suo amico ci permette di lavarci e cambiarci, ci dà vestiti puliti, cibo e un’auto.

In Libia

Siamo stanchissimi, ma alla frontiera ci aspettano nuovi problemi: siamo senza soldi e documenti. Rischiamo, preghiamo. Alla fine, arriviamo a Saba e si avvera un desiderio: ci laviamo e mangiamo tutti fino a scoppiare! Incontro i miei fratelli: Viani, Raiss ed Hernst, il più piccolino. «Sono bellissimi», penso, «ma non so come parleremo: non conosco la loro lingua». Ci sistemiamo con persone di tante zone dell’Africa, ma io soffro di nostalgia, vorrei tornare in Niger. Così io e Kerene pensiamo a salvarci con un gesto vile: rubiamo dei soldi a mamma e di nascosto andiamo a telefonare alla zia.

«Zia, sei tu?»

«Aicha, Kerene?» la voce le trema ma sembra felice.

«Chi vi ha portate via?» Le spieghiamo l’accaduto e le diamo informazioni per trovarci.

Il nostro unico pensiero è tornare, ma ancora oggi non mi so perdonare un gesto così vile.

Un’altra vita

Dopo poco io e mia sorella confessiamo a mamma il nostro gesto. Lei piange e basta. «Dobbiamo sbrigarci», dice «Non c’è un attimo da perdere». Lei sa quanto stiamo rischiando, così partiamo subito: un’altra avventura, un altro camion. Ricordo con terrore la sensazione di soffocamento là dentro. Prego, spero, aspetto. Sono giorni interminabili: fuori dalla città, in attesa di sconosciuti.

«Loro sono malvagi», sento dire degli uomini che gestiscono i camion.

«Vogliono soldi, tanti soldi».

«Non li abbiamo per tutti», sussurrano mamma e Camille. «Come faremo? Quelli là non hanno pazienza!».

Alla fine, è deciso: io, mamma e Viani stiamo alle porte di Tripoli ad aspettare il carico successivo. Così inizia il mio incubo. Di notte ci portano in un luogo lontano da tutto, orribile. Ci picchiano a sangue e abbandonano. «Mamma, dove siamo?» sussurro, nella speranza che lei mi conforti. La sua voce trema. «Corriamo, dai!», ci dice. Le ferite sarebbero rimaste per sempre, ma il dolore non la ferma. Corriamo piangendo e tenendoci forte per mano. Dopo un po’ ci separiamo: Viani è veloce e leggero come una piuma, mamma non ce la fa. Siamo senza scarpe e impauriti. «Ci saranno case, persone, animali feroci?»

A un certo punto vediamo un alto recinto.

«Dai, saltiamo!»

Io lo scavalco per prima, in fretta e agile.

«Coraggio!», dico. «Non è difficile».

Viani mi segue, ma la mamma si blocca.

«Andate. Vi raggiungo tra poco» ci dice. Ci vuole solo vedere salvi. Invece l’aspettiamo e andiamo insieme.

È tardissimo, abbiamo fame e sonno, non sappiamo quanti altri pericoli ci aspettano.

Camminiamo fino al giorno successivo, poi vediamo una casa.

«Sarà abitata?», ci chiediamo

«Non importa», risponde mamma. «Chi sa parlare l’arabo come me, qui è al sicuro bambini miei». Lei ci rassicura, non lascia trasparire lo sconforto.

Ci avviciniamo e troviamo qualcuno con cui parlare. Sono minuti lunghissimi, in cui ci pare di contrattare il nostro destino.

«Davvero ci portano?». Esultiamo io e Viani.

Forse è il nostro giorno fortunato. Troviamo un passaggio per la capitale, e anche un paio di scarpe! Ci sono tante persone, africani di diverse etnie, ognuno con una storia diversa, ma siamo preoccupate di non riuscire a trovare Camille e i miei fratelli. Che strano! Le amicizie fatte nei momenti più difficili sembrano destinate a essere più forti e a durare.

Dopo due giorni, ritroviamo i nostri familiari. Un’emozione immensa!

«Non dobbiamo più separarci!», è la nostra promessa.

La nuova amica del Congo ci ospita per un po’, mentre cerchiamo di sistemarci.

Mamma e papà trovano un impiego e noi una scuola. Mamma però mi preoccupa: mangia poco, dimagrisce, ha paura che qualcuno dell’ambasciata ci porti via. Cerchiamo allora di organizzarci un’identità nuova: decidiamo di non usare più la lingua del Niger e ci diamo dei nuovi nomi: Kerene diventa Habiba e io, invece di Aicha, mi faccio chiamare Bellevie.

Nuovi incubi

Sembra troppo bello per essere vero. Nel 2011 la Libia viene sconvolta dalla guerra.
I bombardamenti sono sempre più frequenti, così decidiamo di sospendere la scuola.
Intanto ci giunge notizia che ci sono dei ponti aerei per il ritorno degli stranieri nelle loro nazioni.

«Non ci torno più!», dicevamo tutti.

«Tornare in Niger vuol dire azzerare tutto. Ammettere di essere scappati. Essere puniti».

«Che ne dite dell’Italia?», dicono mamma e Camille.

«Italia» ci risuona nella mente a vuoto.

«La Francia è il mio sogno», dice mamma. Forse dall’Italia sarà facile arrivarci.

Bisogna sbrigarsi e preparare tutto. Il problema sono ancora i soldi: ne servono tantissimi. Iniziamo quindi la procedura per la partenza. Chi gestisce i migranti li ammassa fuori città, in case disabitate in attesa del momento per partire. Sono strutture terribili: usiamo gli alberi come bagno e stiamo in silenzio, anche se la solidarietà che si crea è unica.

È il 9 aprile 2011. È il cuore della notte. Nascondendoci dalla sorveglianza armata ci imbarchiamo mentre intorno a noi si sente minaccioso il rumore delle bombe che ci gela il sangue.

All’inizio il mare è calmo e il vento appare buono. L’arrivo a Lampedusa è previsto per la mattina successiva. L’indomani, però, la barca è ancora in alto mare. Gira voce che sia rotta o che chi la sta guidando abbia perso la rotta.

All’improvviso ci arriva l’ordine di liberarci di gioielli e oggetti preziosi, perché siamo vittima di un incantesimo e dobbiamo gettare in mare tutto. Adesso mamma è davvero spaventata.

Da musulmana inizio, dunque, a pregare con il Corano in mano e mia sorella accanto. Per questo litigo con mamma, che è cattolica e attribuisce la colpa dei problemi di viaggio al Corano.

«Buttatelo in mare se volete arrivare sani e salvi». Ci dice sempre più forte.
«No! Non faremo un gesto simile. Se vuoi buttare qualcosa, lancia in mare la tua Bibbia», diciamo offese.

La lite fa emergere vecchie tensioni; il nostro legame non è mai stato del tutto «normale»; ho vissuto troppo a lungo lontana da lei; non riesco nemmeno a darle del tu.
Affrontiamo quattro lunghi giorni in condizioni spaventose. Già dal terzo non c’è più da mangiare: la fame e la sete si aggiungono a sonno e paura.

All’improvviso si scorgono delle luci: sembra uno scoglio, invece si delinea l’aspetto di una piccola città.

«È Pantelleria! Siamo arrivati!».

Il mare però sembra fare di tutto per non permetterci di sbarcare: è agitatissimo, ci fa urtare tra di noi. Le onde sbattono contro la barca che si impenna vistosamente. 192 vite si sentono più fragili che mai; poi da una piccola imbarcazione pochi marinai di Pantelleria ci vedono in difficoltà, ci raggiungono e ci invitano a seguirli al porto. Ma la nostra barca sembra non voglia essere guidata: in un’ora e mezza le nostre vite vengono segnate per sempre.

Il mare è davvero troppo agitato: ci fa sbattere tra di noi e colpisce spaventosamente il barcone che sembra impazzito. Mamma è pallida e non parla: guarda Camille. Dopo poco mi dà la mano: sento che mi è impossibile rifiutare quel gesto, che poi fa anche con Kerene.

Le onde sono sempre più alte, impediscono di vedere intorno; ma vicino ci sono gli scogli: un impatto forte, terribile causa uno squarcio sulla fiancata dell’imbarcazione. Trattengo il fiato, ho il cuore in gola, mi sento viva e quindi mi metto a pregare: «Dio, ti prego, fa’ che non succeda più…». La barca incontra un’onda enorme, tutto cambia prospettiva in un attimo: siamo catapultati in mare. È tutto un gridare, agitarsi, aggrapparsi a qualunque cosa. Chi si cerca, chi nuota, chi resta immobile: molti di noi non sanno nuotare e sopportano il loro atroce destino. Io ho un salvagente che papà ha comprato prima di partire; all’improvviso sento che qualcuno me lo vuole strappare. Per reazione decido di afferrarlo con più forza: non so nuotare.

La Guardia Costiera e i volontari arrivano e ci aiutano a uscire dall’acqua. «Non mi sembra vero», mi viene da dire. «Grazie», dico in un modo che forse si capisce solo nel mio sguardo.

«Kerene! Camille! Mamma!» iniziamo a cercarci.

«Mamma! Mamma! No!»

Non l’ho salvata, nessuno la trova. Sento sirene e vedo ambulanze. Mi mancano le forze, Kerene sviene, ci portano in ospedale. Vedo un’amica di mamma, lei mi abbraccia forte, in silenzio. Poco dopo vedo un ragazzo conosciuto in Libia. «Prega», mi dice, ma io sento al petto un male cattivo e profondo. Non riesco a prendere sonno: i capogiri, la paura, le tensioni sembrano sfogarsi su di me tutti insieme. Incontro i bambini, salvi per fortuna, e poi papà, su una sedia a rotelle, con lo sguardo perso e senza forze. Nessuno però ha visto mamma.

Nell’isola dobbiamo ripensare la nostra vita, anche se non ci fanno mancare niente. Il giorno peggiore è quando ci accompagnano in obitorio per riconoscere la nostra mamma bella e giovane, stesa in un tavolo, ghiacciata, con i suoi vestiti addosso. È la prima volta che vedo una persona morta. «Non c’è più, non la rivedremo mai più», è tutto quello che riesco a pensare. Al funerale ci sono tante persone: i militari, il sindaco e gli altri superstiti.

Dopo pochi giorni, decido di telefonare a papà per informarlo della scomparsa della mamma. Lui è dispiaciuto ma non dice altro, neanche che ha voglia di incontrarci.

Per un po’ restiamo ospiti da una famiglia di Pantelleria: Mariano e Giuseppina ci trattano come parenti. Dopo sei mesi, andiamo a Trapani per i documenti di soggiorno. A me sembra una specie di prigione: si sta nelle stanze e si mangia tutti assieme in una sala grandissima. Qualche volta si fanno i turni per mangiare. Nel campo di Trapani, dopo qualche settimana, arriva papà dalla Francia, con la nuova moglie e una figlia.

«Ho già parlato con l’assistente sociale: ha detto che è giusto che veniate con me».

Io, Kerene e Viani siamo preoccupati. Al telefono con la nonna ho capito che papà vuole riportarci in Niger, non in Francia con lui. È difficile dirgli di no: lo dobbiamo fare in tribunale a Palermo, per restare con Camille, che ora lavora in aeroporto e così è riuscito ad affittare una casa per tutti noi.

Io e Kerene ci iscriviamo in terza media, Viani e Raiss alle elementari ed Ernest all’asilo. Per noi la lingua italiana è difficilissima, l’assenza di mamma è penosa e abbiamo tante responsabilità. Io e Kerene vogliamo prendere i sacramenti, come desiderava la mamma, ma soffro perché io e Camille litighiamo spesso.

Il mio più grande desiderio è andare a trovare la nonna per Natale: lei mi dà pace e affetto. Il visto è difficile da avere; aspetto notizie dall’ambasciata. Al telefono dico: «Nonna, tra un po’ ritorno da te!».

«Bambina mia, che notizia meravigliosa. Ho voglia di abbracciarti!».

Ma l’ennesima tragedia non si fa aspettare: lei muore l’11 novembre. Non serve più il visto. Dolori e rimpianti mi creano incubi e crisi di pianto. Non riesco a trovare pace, e la scuola, iniziata con ritardo, è una preoccupazione forte.

Oggi frequento il Liceo delle scienze umane a Pantelleria. La mia famiglia è sparsa per il mondo. Resto con i miei sogni: laurearmi, diventare ostetrica, sposarmi, avere dei gemelli e vivere in una città movimentata.

Aicha Fuamba
e Sofia Teresa Bisi


Hanno firmato il dossier:

Daniela Finocchi, ideatrice e direttrice del Concorso nazionale Lingua Madre.

Dorota Czalbowska (Polonia), Aicha Fuamba (Rd Congo) e Sofia Teresa Bisi (Italia) Dunja Badnjević (Serbia), Valeria Rubino (Italia), partecipanti e concorrenti al Clm 2018.

Gigi Anataloni, direttore di MC, ha curato e coordinato questo dossier.

___________________

Il prossimo concorso sarà nel 2023. I racconti vanno presentati entro il 15 dicembre 2022. Per maggiori informazioni:

 

 




Messico. Un sogno che unisce o divide

Alla città di frontiera messicana arrivano migranti da ogni dove. Da tempo, anche ucraini e russi, che lasciano i loro paesi in guerra per tentare di entrare negli Stati Uniti. È un sogno di tanti, ma non per tutti. Con l’aiuto dei «Border Angels» di San Diego abbiamo cercato di capirne i motivi.

«Verso Nord» dice il cartello indicante le strade della California. Foto Ana Pietres – Unsplash.

Tijuana è una città dai molti record. È il centro urbano di frontiera più grande e dinamico del Messico. Accoglie la sede di centinaia di multinazionali del settore manifatturiero attratte da condizioni fiscali vantaggiose. Ha l’ambizione di diventare un vivace polo culturale del paese. Per contro, con circa cento omicidi al mese (sei al giorno, ottocento tra gennaio e giugno 2022), presenta uno dei tassi di violenza più alti al mondo. Tijuana raccoglie in se stessa le contraddizioni tipiche di una città in moto perpetuo, in una crescita scomposta e senza regole. Con i suoi 24 km di confine segnati da una lunga barriera, simile a un moderno muro di Berlino, condivisi con la città gemella di San Diego, in territorio statunitense, Tijuana è anche la città di frontiera più trafficata del mondo. Ogni giorno circa 80mila persone l’attraversano per svariati motivi, per raggiungere il posto di lavoro, fare un acquisto o abbracciare un amico che vive dall’altra parte.

A Tijuana il mondo si incontra, fiducioso e disperato allo stesso tempo. Sullo stemma della città c’è scritto «Qui inizia la patria», ma per molti, in realtà, è proprio qui che finisce lo stato e, con esso, i diritti umani.

Tijuana è la città dove migliaia di migranti provenienti dall’America Latina si ammassano con la speranza, spesso delusa, di ricevere asilo politico negli Stati Uniti, presentandosi in una delle dogane di cui è costellata la città. E non si tratta soltanto di latinoamericani. A Tijuana arriva gente anche dall’Africa, dall’Asia e dai confini dell’Europa. Qui si spinge chi ha un sogno, ma anche chi sta scappando, magari da un disastro ambientale, dalla violenza, da mancanza di opportunità lavorative o da un conflitto armato. Contro il muro della città messicana sbattono i rifugiati di ogni dove. Negli ultimi mesi, sono arrivati anche migliaia di russi e ucraini. Accomunati dallo stesso sogno: mettere piede negli Stati Uniti.

Anche dalla Russia e dall’Ucraina

Ben prima del 24 febbraio, data di inizio dell’offensiva militare russa in Ucraina, Tijuana ha assistito all’arrivo di un inizialmente invisibile, ma poi sempre più consistente, gruppo di cittadini russi che hanno cominciato a lasciare il proprio paese quando per loro erano già evidenti le avvisaglie del conflitto. A fuggire verso la frontiera Sud degli Stati Uniti sono stati proprio gli oppositori del regime di Putin che, a partire da ottobre 2021, si sono imbarcati, insieme alle proprie famiglie e grazie a un visto turistico, su voli intercontinentali con scalo in Turchia e arrivo a Città del Messico o, più spesso, a Cancún, centro dei Caraibi storicamente frequentato dal turismo russo. Da qui, affittando un’automobile è possibile arrivare a Tijuana in qualche giorno di viaggio.

L’aumento del numero di persone provenienti dalla Russia non è passato inosservato alle organizzazioni di volontari che a Tijuana si occupano di dare un sostegno umano ed economico ai migranti.

«Nell’autunno scorso centinaia di russi sono stati fermati e detenuti dalle autorità di frontiera statunitensi – spiega Dulce García, la presidente dei Border Angels, un’associazione che fornisce assistenza legale ai migranti tra San Diego e Tijuana -. Abbiamo aiutato alcuni di loro a pagare la cauzione necessaria per uscire dalle strutture detentive durante la fase di valutazione della loro richiesta di protezione internazionale. La maggior parte delle persone russe che arrivano a Tijuana cercano rifugio negli Stati Uniti, dove hanno familiari o amici».

E i dati parlano chiaro. Secondo le statistiche della U.S. Customs and border protection, l’agenzia di dogana degli Stati Uniti, a ottobre 2021 sono stati registrati in frontiera 1.577 passaporti russi, mentre nello stesso mese del 2020 i fermi erano stati sette. Il numero di arrivi ha toccato il suo apice a dicembre 2021 con 2.105 russi in frontiera contro i 53 dell’anno precedente. Dallo scorso ottobre fino ad aprile 2022, la polizia degli Stati Uniti ha registrato la presenza di 10.089 cittadini russi, un numero che va ben oltre il doppio dell’intero anno precedente.

I cittadini ucraini hanno cominciato ad arrivare in massa a Tijuana a partire da marzo 2022. Con 20.118 persone registrate sulla frontiera sud dagli Stati Uniti solamente nel mese di aprile, il numero di ucraini è aumentato esponenzialmente, se si considera che allo stesso mese dell’anno precedente erano state registrate 31 persone. Per loro il viaggio passa attraverso la Moldavia e la Romania da dove è possibile imbarcarsi per Città del Messico e, da lì, verso Tijuana, via terrestre o aerea.

L’arrivo sulla frontiera di persone in fuga dall’Ucraina ha generato scompiglio e destrutturato in parte il sistema di accoglienza degli Stati Uniti che, negli ultimi due anni, era stato caratterizzato da una chiusura pressoché totale.

Il muro di Tijuana finisce sulla spiaggia del Pacifico, dividendo la città messicana da quella statunitense di San Diego. Foto Max Böhme – Unsplash.

Il diritto d’asilo cancellato

Nel 2021, il paese del Nord America ha registrato circa 1 milione e 700mila arresti di persone migranti, un milione delle quali è stato espulso direttamente dalla frontiera senza avere l’opportunità di chiedere asilo. Nonostante la Convenzione di Ginevra (1951) obblighi i paesi a garantire il diritto d’asilo e, di conseguenza, a dare a qualsiasi individuo la possibilità di richiedere protezione internazionale, gli Stati Uniti hanno scavalcato le normative internazionali appellandosi al Titolo 42, una vecchia legge di politica sanitaria di quarantena reintrodotta, con alcune modifiche, dall’ex presidente Donald Trump a marzo 2020. Dall’inizio della pandemia, la misura è stata utilizzata per espellere direttamente dalla frontiera i migranti, ufficialmente per motivi sanitari, anche in assenza di sintomi di Covid-19. Questo procedimento, travestito da politica di sanità pubblica, non ha fatto altro che rendere il confine più inespugnabile impedendo a più di un milione di persone di far richiesta di asilo.

«Negli ultimi anni la frontiera è stata chiusa per tutti, soprattutto per chi arrivava da Haiti, Venezuela e Centro America – spiega Dulce García -. Da marzo abbiamo assistito a un cambiamento della politica migratoria degli Stati Uniti, ma solo in favore di cittadini ucraini e, successivamente, anche di russi che, per lo meno, hanno potuto fare richiesta di asilo politico. Ma anche le persone di Haiti stanno scappando da una situazione terrificante, che potremmo considerare una guerra interna. Tutti dovrebbero avere il diritto di richiedere asilo politico, ma le persone afrodiscendenti, latine e indigene sono ancora sottoposte al Titolo 42 ed espulse in forma immediata».

A Tijuana, proprio vicino ai punti di ingresso negli Stati Uniti, ogni giorno si accampano migliaia di persone che provano a fare richiesta di asilo politico, vengono respinte dalla polizia di frontiera statunitense e successivamente riprovano, in un rituale circolare che pare non avere fine.

Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, il presidente Joe Biden ha dichiarato di essere aperto ad accogliere i profughi provenienti dal conflitto e nei mesi di marzo e aprile i cittadini ucraini hanno potuto beneficiare di programmi di accoglienza speciale, mentre le persone di nazionalità russa, nonostante alcune iniziali espulsioni, hanno avuto la possibilità di fare richiesta di asilo politico, risultando in grande parte esenti dall’applicazione del Titolo 42.

Dal 21 aprile, inoltre, il presidente degli Stati Uniti ha lanciato il programma «Uniting for Ukraine», che permette ai cittadini ucraini con uno «sponsor» nel paese di arrivare sul suolo nazionale direttamente in aereo e ricevere un permesso di soggiorno di due anni. Questo procedimento punta ad azzerare gli arrivi dalla frontiera terrestre del Messico, ma genera un problema per chi si trova già a Tijuana. Secondo le regole del programma, le persone di nazionalità ucraina ferme sul confine Sud dovrebbero ritornare in Europa e da lì fare richiesta d’ammissione online, oppure rivolgersi all’ambasciata a Città del Messico. In attesa di uno sblocco della situazione sulla frontiera Sud, centinaia di ucraini sono stati ospitati presso la palestra comunale di Tijuana e la solidarietà è arrivata anche dalla popolazione locale messicana che ha aperto le proprie case fornendo un rifugio temporaneo a numerose famiglie.

«Da fine aprile abbiamo notato che pure i cittadini ucraini hanno cominciato ad avere problemi a entrare negli Stati Uniti. Tuttavia, anche se ci vuole del tempo, in qualche settimana le loro richieste di protezione internazionale vengono accolte – continua Dulce García -.  Siamo felici di vedere che il Titolo 42 non viene applicato alle persone ucraine o ai russi e ci auguriamo che questo sia il primo passo verso l’eliminazione completa di una legge che lede i diritti umani».

Border Angels, l’organizzazione di volontari di cui Dulce è presidente, da due anni lotta e manifesta per l’eliminazione del Titolo 42 che, in pratica, ha permesso agli Stati Uniti di smantellare quasi completamente il sistema di asilo vigente.

Scritte benauguranti su un tratto del muro di Tijuana. Foto Barbara Zandoval – Unsplash.

Joe Biden e il Titolo 42

«Ciascuno è benvenuto», ricorda la frase scritta sul muro. Foto Katie Moum – Unsplash.

Il presidente Joe Biden ha mantenuto il Titolo 42 fino a oggi, considerandolo essenziale per prevenire la diffusione del Covid-19, nonostante numerosi rappresentanti della comunità scientifica abbiano messo in evidenza che questa politica discriminatoria non ha un effetto diretto sulla diffusione della pandemia. Spinto dalle numerose critiche provenienti da organizzazioni dei diritti umani e dalla sua stessa parte politica, ad aprile 2022, il presidente degli Stati Uniti ha provato a mettere fine al programma entro il 23 maggio, ma un giudice federale della Louisana (Robert Summerhays) ha ordinato che la misura rimanesse in atto, dopo una causa mossa da alcuni stati repubblicani, per cui, al momento, la politica viene ancora attuata.

«Espellere i migranti dalla frontiera secondo il Titolo 42 significa obbligarli ad ammassarsi a Tijuana, una città pericolosa e dominata in parte dai narcos – continua Dulce García -. Molti migranti latinoamericani o africani respinti in Messico sono stati rapiti o uccisi proprio dopo il respingimento».

Secondo l’organizzazione Human rights first, si sono verificati 9.886 casi di rapimento, tortura, violenza sessuale, furti e altre violazioni ai danni delle persone migranti espulse secondo il Titolo 42 durante l’amministrazione Biden.

Questi respingimenti hanno reso Tijuana un grande campo profughi a cielo aperto, nel quale chiunque arrivi si accampa come riesce: all’angolo di una strada, a pochi metri dalle dogane, sotto qualche tettoia o nelle zone pedonali. In queste condizioni migliaia di migranti continuamente respinti assistono a un’applicazione sommaria e discriminatoria del Titolo 42 da parte della polizia di frontiera che decide chi ha diritto di chiedere protezione internazionale e chi no in base alla nazionalità delle persone.

«Non c’è violenza tra i migranti, perché nessuno si arrabbia con gli ucraini o i russi se loro passano e gli altri no – spiega Dulce García -. La frustrazione dei migranti a cui viene applicato il Titolo 42 si rivolge contro il governo degli Stati Uniti che non accetta le loro domande di asilo politico e contro quello del Messico che non garantisce standard di sicurezza sul suo territorio. Noi lottiamo per richiedere che vengano rispettati i diritti delle persone che stanno vivendo un percorso migratorio, indipendentemente dalla loro nazionalità».

Mentre gli arrivi dei cittadini russi e ucraini sulla frontiera terrestre sembrano diminuire, proprio nel mese di giugno è partita una nuova carovana di circa 15mila migranti centroamericani, provenienti in particolare dall’Honduras e dal Guatemala, che viaggiano verso gli Stati Uniti in fuga da contesti di povertà, corruzione e violenza.

Logo degli «Angeles de la frontera», associazione d’aiuto con sede a San Diego.

Migranti di «serie a» e migranti di «serie b»

Ad attenderli sul piede di guerra un fermo Joe Biden che, al IX Summit of the Americas dello scorso giugno, ha dichiarato che «la migrazione irregolare è inaccettabile» e il confine statunitense è chiuso per chi arriva senza un regolare visto. A dargli una mano ci sarà anche il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador che ha deciso di schierare 30mila militari sulle sue frontiere proprio nei giorni in cui la carovana è partita.

«È appunto questo che lamentiamo: non esistono persone di serie A e di serie B. I richiedenti asilo non sono solamente coloro che fuggono da una guerra in Europa. Qui arrivano persone di diverse etnie e da diverse parti del mondo che si lasciano alle spalle conflitti militari, economici, sociali o politici e meritano di ricevere protezione così come qualsiasi essere umano», conclude Dulce García.

Simona Carnino

I capi di stato americani al IX «Summit of the Americas», tenutosi a Los Angeles lo scorso giugno.
Foto Alan Santos – PR.

Archivio MC

Gli ultimi articoli sulla frontiera Sud degli Stati Uniti:




Messico. Per un nome, un volto, una storia


Da anni i buscadores attraversano il Messico in cerca di figli e familiari desaparecidos andando a scavare nelle fosse comuni in cui sono stati gettati da narcos, poliziotti corrotti o semplici delinquenti. Quest’anno la búsqueda (ricerca) ha avuto una dimensione internazionale. Vi ha partecipato anche Ugo Zamburru, psichiatra torinese.

«Tremi lo stato, il cielo, le strade/ Tremino i giudici e la magistratura/ A noi donne oggi tolgono la calma/ Hanno seminato paura, ci sono cresciute ali».

Cantano con dolcezza e determinazione, mentre si preparano per la giornata di ricerca. Sono madri, sorelle, padri che non si rassegnano e da anni attraversano il Messico in cerca dei familiari desaparecidos. Secondo il Prodh (Centro de derechos humanos Miguel Agustín Pro Juárez A.C, fondato dai gesuiti), il Messico sta per raggiungere le 100mila persone scomparse, con oltre 50mila corpi e resti non identificati negli obitori. «Ma i dati ufficiosi parlano addirittura di 200mila desaparecidos, tra messicani e migranti stranieri», dice Ugo Zamburru, psichiatra torinese che ha preso parte alla prima Brigada internacional de búsqueda, svoltasi dal 16 febbraio al 4 marzo negli stati settentrionali di Sonora e Baja California.

«La novità di questa búsqueda (ricerca) è che hanno partecipato familiari e volontari provenienti da tutto il Centroamerica, dal Canada, e il sottoscritto in rappresentanza di una cordata europea – Carovane migranti, Abriendo fronteras, LasciateCIEntrare e la basca Ongi Etorri – continua Zamburru -. Ma soprattutto è stata la prima volta che, oltre alla búsqueda en campo, cioè la ricerca collettiva dei cadaveri gettati nelle fosse comuni, si è realizzata una búsqueda en vida, per ritrovare alcune delle persone scomparse ancora vive».

I buscadores viaggiano su un bus messo a disposizione dalle autorità locali. Foto Ugo Zamburru.

Madri in prima linea

Mappa con gli stati messicani di Sonora e Baja California dove si è svolta la Prima Brigada internacional de búsqueda.

Come in Cile, con l’Associazione delle famiglie dei detenuti scomparsi, e in Argentina, con le madri e le nonne di Plaza de Mayo, le protagoniste delle búsquedas in Messico sono all’80 per cento donne, soprattutto madri in cerca dei figli o delle figlie vittime di sparizioni forzate.

La violenza e le desapariciones in Messico si sono intensificate dalla fine degli anni ‘90 quando, in un paese già egemonizzato dai cartelli della droga, si sono inseriti Los Zetas: soldati scelti dell’esercito nazionale addestrati in Usa e Israele che hanno creato un’organizzazione criminale tra le più spietate e ramificate, «specializzata» nel narcotraffico, nei rapimenti a scopo d’estorsione, nella prostituzione (anche minorile) e in altre attività illecite in tutto il Centroamerica.

Malgrado i tentativi del governo di reagire (come la «guerra alla droga» avviata nel 2006 da Felipe Calderón), negli ultimi vent’anni si è assistito a un crescendo di omicidi, torture e sparizioni. «Molti messicani sono gente onesta, ma c’è una parte significativa di funzionari e poliziotti corrotti, attratti da facili guadagni o spinti dalla paura – spiega Zamburru -. Non di rado delitti e desapariciones sono opera loro».

Com’è stato per il figlio di Cecilia Delgado Grijalva, una delle partecipanti alla Brigada internacional: la sera del 2 dicembre 2018, mentre stava chiudendo il suo negozio a Hermosillo, Jesús Ramón Martínez Delgado, allora trentaquattrenne, è stato caricato su un furgone bianco della polizia di stato e da allora è svanito nel nulla. «Ho subito fatto denuncia al pubblico ministero, ma per due anni nessuno ha indagato; malgrado la telecamera di sorveglianza e i testimoni, hanno sempre negato l’esistenza della pattuglia 073, responsabile del sequestro (in seguito rintracciata e fotografata da Cecilia stessa, nda)», racconta lei, che da allora ha percorso tutto il Messico in cerca del figlio. «Ho perlustrato ospedali, obitori, prigioni, centri d’accoglienza, ho cercato tra la gente di strada, sotto i ponti e nelle discariche, sono entrata nei rifugi dei drogati, mi sono unita ad altre donne che scavavano in cerca dei cadaveri».

E scavando con le sue mani, il 25 novembre 2020, Cecilia ha trovato i resti di Jesús nel quartiere di Altares. «Non ho dovuto aspettare il test del dna, ero certa che si trattasse di lui per l’apparecchio ai denti e perché sul cranio aveva ancora i capelli, i suoi capelli castani con quei ricci che non gli piacevano e che copriva di gel». Jesús Delgado ha lasciato tre figli, la più piccola oggi ha 5 anni. «È lei che soffre di più, piange e mi domanda perché ci ho messo così tanto a ritrovare il suo papà».

Come Cecilia, molte altre madri continuano a partecipare alle búsquedas durante tutto l’anno, pur avendo già ritrovato i propri cari o quel che ne resta. «Finché si va in cerca dei familiari, si riesce a dare un senso alla propria vita perché c’è la speranza di ritrovarli, vivi o morti, pur di non restare nell’incertezza, che è devastante (vedi box). Una volta raggiunto questo obiettivo, allora la missione diventa aiutare le altre donne – spiega Zamburru -. È un meccanismo psicologico di sublimazione per cui si investe in qualcosa di superiore: lo spirito del gruppo, che crea appartenenza, spezza la solitudine e permette di condividere dolore, rabbia e impotenza».

La madre di una scomparsa mostra un cartello con foto e dati della figlia durante una manifestazione a Guadalajara, il 10 maggio 2022; alle sue spalle, decine di manifesti di scomparse e scomparsi. Foto Ulises Ruiz – AFP.

Resti umani e Dna

«Cantiamo senza paura, chiediamo giustizia/ Gridiamo per ogni scomparsa/ Che risuoni forte: Ci vogliamo vive!».

L’inno della cantautrice Vivir Quintana contro i femminicidi echeggia nello scuolabus giallo messo a disposizione dei búscadores dalle autorità di Hermosillo, la capitale di Sonora: uno degli stati con il maggior numero di segnalazioni di scomparsi, oltre 600 l’anno. Inghiottiti dal deserto, 300mila km² (vale a dire quasi quanto l’Italia) dove bastano cinque minuti per perdere l’orientamento, dov’è facile venire aggrediti da criminali o animali pericolosi, oppure morire di sete e stenti mentre si viaggia verso Nord, verso la frontiera con gli Stati Uniti.

In questi territori inospitali «le búsquedas – organizzate di concerto dalle associazioni dei familiari e dalle istituzioni pubbliche – si svolgono con la scorta di polizia, esercito, protezione civile, Comisión nacional de búsqueda ecc., per il rischio sempre incombente di venire assaliti dai narcos e da delinquenti comuni», racconta Zamburru. Già molti genitori sono stati uccisi per aver cercato i propri figli, ma «quando ti tolgono un figlio, non hai più paura di niente», dice Cecilia Delgado. «Le nostre armi sono la pala, il piccone e la varilla».

Quest’ultima è un’asta di metallo appuntita a forma di «T», che si conficca nel terreno per poi annusarne l’estremità: se emana cattivo odore è un «buon» segno, lì sotto potrebbero trovarsi dei cadaveri. A quel punto l’area viene transennata e iniziano gli scavi, fino a un metro e mezzo di profondità. Nel deserto si usano le pale, mentre nelle zone collinari, dove il suolo è più duro (e dove i narcos costringono le vittime a scavarsi la propria fossa), si utilizza il piccone e a volte la scavatrice.

Spesso i buscadores scavano in punti segnalati da telefonate anonime, talvolta attendibili ma più spesso dovute a depistaggi o tentativi di estorcere denaro. Quando vengono individuati resti umani – membra, parti dello scheletro, oppure resti carbonizzati o sciolti nella soda caustica – l’antropologo forense effettua una serie di verifiche, mentre le madri si fanno prelevare il dna, che viene registrato nella banca dati della Comision nacional de derechos humanos.

«Sono rimasto colpito dall’euforia con cui le madri accolgono il ritrovamento dei resti. Sotto il sole a picco, a quasi 50 gradi, io sentivo la fatica, mentre quelle donne esili, provate da anni di sofferenze, continuavano a scavare per giorni, energiche e instancabili», racconta Zamburru.

«L’amore che abbiamo per i nostri figli è più forte del clima, della fame o della paura», dice Charlín Unger, 62 anni, alla ricerca del figlio Carlos Antonio rapito nel 2019 da un commando armato. «I “pezzi” che riusciamo a trovare sono i nostri cari, i nostri tesori preziosi, da trattare con cura e con amore per restituire loro umanità, per dare loro un nome, un volto, una storia».

Gli antropologi forensi effettuano rilievi in un’area in cui sono stati individuati resti umani. Foto Ugo Zamburru.

La polizia messicana

Charlín Unger è cofondatrice insieme a Cecilia Delgado delle Búscadoras por la paz, uno degli oltre settanta collettivi di familiari nati per reazione all’inerzia dello Stato, incapace di garantire la sicurezza dei cittadini e il diritto alla verità e alla giustizia. Sebbene dal 2013 sia stata promulgata in Messico la Ley general de víctimas [vedi box] per contrastare le sparizioni forzate. Tuttavia, le vittime di questi reati sono in continuo aumento e il 99% delle desapariciones rimane impunito.

Come nel caso di Juan Hernández, agente scelto della polizia federale, «prelevato» dal suo albergo nel Nuevo León nel 2011, all’età di 22 anni. La «colpa» di Juan è stata respingere un tentativo di corruzione da parte di un suo superiore in combutta con Los Zetas. «La polizia, senza indagare, voleva che firmassi subito la presunzione di morte, ed è iniziata la tortura delle menzogne, per impedirmi di cercare. Mi hanno anche mostrato un video in cui alcuni criminali tagliavano la gola a quattro poliziotti», racconta la madre di Juan, Patricia Manzanares Ochoa. «In più, quando sparisce un poliziotto federale, non si fanno denunce di scomparsa. La polizia si limita a un verbale interno e, dopo tre giorni, archivia il caso come “abbandono del lavoro”».

Così la donna ha dovuto rimboccarsi le maniche e fare ciò che sarebbe toccato alle autorità, cercare Juan. «All’inizio credi che il governo compia il proprio dovere. Ma non fanno che trascrivere pezzi di carta, non s’impegnano mai in una vera ricerca, così si perde tempo prezioso, sembra quasi lo facciano apposta per far sparire le prove», dice Patricia. «Ho dovuto documentarmi e acquisire conoscenze che non avevo. Se avessi saputo tutto quel che so adesso, avrei trovato mio figlio. Ma noi familiari non siamo avvocati né antropologi, non sappiamo nulla di diritto». In occasione delle búsquedas «le autorità ci accolgono, assistono agli scavi, ma siamo noi che dovremmo osservarli mentre fanno il loro mestiere. Abbiamo uno stato fallito, che viola i nostri diritti».

Parole amare, confermate dai numeri: a fronte di decine di migliaia di desapariciones, in questi anni sono state emesse appena una quindicina di condanne. In aggiunta, le persone scomparse e le loro famiglie vengono ulteriormente vittimizzate. «Succede spesso che si sparga la voce secondo cui, se sono stati uccisi, è perché erano coinvolti in qualcosa di losco, traffico di droga o altro – dice Cecilia Delgado -, ma è una menzogna, io stessa conosco decine e decine di vittime totalmente innocenti: uomini, donne, giovani e anche bambini». Sono 7mila oggi i minori desaparecidos in Messico, quasi tutti vittime di violenze e omicidi (Registro nacional de datos de personas extraviadas o desaparecidas).

Antropologi forensi al lavoro in una zona di scavo. Foto Ugo Zamburru.

la ricerca in ricoveri, discariche, carceri

«Suo figlio si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato», ha concluso la Procura della Repubblica a più di dieci anni dalla scomparsa di Oscar Javier Muñoz Cortés, studente universitario di 21 anni. Il giorno prima di sparire, nel novembre 2008, Oscar aveva difeso una ragazza che stava subendo molestie per strada. L’indomani un poliziotto municipale di Pachuca fu visto mentre lo consegnava a un gruppo armato, che lo prese a botte e lo caricò su un furgone. Il padre, anche lui di nome Oscar Javier, non ha ottenuto nulla di concreto dalle autorità statali né da quelle federali: «Dopo più di dieci anni, hanno anche preso a pretesto la pandemia per bloccare le indagini. Alla fine, sono stati individuati due colpevoli del sequestro, uno è stato scagionato grazie alla madre avvocato e l’altro liberato per presunti motivi di salute».

Oscar è tra i più attivi nella búsqueda en vida che si snoda tra i centri urbani e rurali, distribuendo e affiggendo i volantini con la foto a colori del figlio, la sua descrizione e il numero di telefono se qualcuno avesse notizie. Insieme a lui, le madri e gli altri búscadores cantano, tappezzano muri, pali della luce e alberi con i ciclostilati, fermano e interrogano ogni persona, ripetono la loro storia alla stampa, alla tv locale, alle Ong, a chiunque possa aprire un varco verso la verità. «A noi europei questo modo di procedere un po’ naïf può sembrare una follia – dice Zamburru -, ma è una maniera per non rassegnarsi: alla perdita dei propri cari, alla violenza, al senso d’impotenza che può sottomettere e abbattere».

Una capacità di resistenza che anima il convoglio dei búscadores mentre attraversano i vari punti nevralgici: dal ricovero per migranti Giovanni Bosco di Nogales alla discarica di Puerto Peñasco, dal carcere di Mexicali al Centro per le dipendenze di Rosarito… mai stanchi di domandare, di cercare nel volto di tanti disgraziati tracce di somiglianza con un marito scomparso, con una figlia o una sorella perdute. «In ogni incontro scattano anche dinamiche di solidarietà: le madri spesso portano cibo e abiti ai migranti affamati, ai recicladores delle discariche, a chi vive negli anfratti ai bordi delle autostrade – racconta Zamburru -. È terribile pensare a queste donne, con i figli scomparsi per politiche criminali, e ai tanti infelici abbandonati qui a causa di un sistema economico altrettanto criminale, costretti a lasciare paesi invivibili per la violenza e finiti a vivere nel nulla».

Migliaia di persone in attesa di valicare il confine con gli Usa o deportados che, una volta arrivati nel «paese pavimentato d’oro», sono stati rispediti indietro e ora vivono in strada perché si vergognano di tornare a casa, o perché sono diventati tossici o alcolisti.

Scarpe, pantaloni e uno scheletro umano. Foto Ugo Zamburru.

Una fede incrollabile

Durante la búsqueda internacional sono stati ritrovati 29 desaparecidos morti e 4 in vita, e si sono individuate alcune piste su cui la Comisión nacional de búsqueda sta proseguendo le indagini. Ma le búscadoras e i buscadores non si fermano, vanno avanti nelle loro ricerche per tutto l’anno. «Per fare una vita così, occorrono un coraggio e una fede incredibili. Sono quasi tutti molto religiosi, hanno una grande fede in Dio e fiducia di ritrovare i loro cari malgrado siano passati anni», dice Zamburru. «Ogni mattina, prima di mettersi all’opera, si riuniscono per pregare insieme. Una volta ho domandato come facecessero a credere ancora in Dio, e una madre mi ha risposto che se lei, povera donna ignorante, era lì a impegnarsi insieme a tutti gli altri, doveva per forza esserci un senso».

«A Dio chiedo di darmi la forza per continuare a cercare, perché l’incertezza ti consuma dentro e non ti restano che la tua fede e la speranza, da non perdere mai», dice Patricia Manzanares. «A Lui chiedo soltanto di non lasciarmi morire senza aver prima conosciuto la verità su quanto è successo a mio figlio».

Stefania Garini

Una buscadora con la varilla, l’asta a forma di «T» per sondare il terreno. Foto Ugo Zamburru.

Buone leggi, cattive prassi

Negli ultimi anni, le istituzioni pubbliche messicane hanno tentato di reagire alla violenza e alle sparizioni forzate mediante una serie di misure a sostegno delle vittime e dei loro parenti. Lo stato di Baja California ad esempio, secondo le parole del segretario generale di governo Amador Rodríguez Lozano, si è impegnato nello stanziamento di un «Fondo per la riparazione globale dei danni» con un budget di circa 4 milioni di pesos (circa 186mila euro).

A livello federale, dal 2013 la Ley general de víctimas garantisce la tutela delle vittime con riferimenti circostanziati al rispetto della loro dignità, alla salvaguardia del benessere fisico e psicologico, alle condizioni di sicurezza, al sostegno economico e occupazionale, ecc., sottolineando il diritto fondamentale a ricevere «assistenza, protezione, attenzione, verità, giustizia, riparazione integrale (individuale, collettiva, materiale, morale e simbolica)».

La legge prevede anche un sussidio per i familiari – messicani e stranieri – costretti ad abbandonare casa e lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla ricerca dei desaparecidos. «Un’ottima norma, che però rimane spesso lettera morta», spiega Ugo Zamburru del collettivo Carovane migranti.

Durante la Brigada internacional de búsqueda, insieme ad Ana Gricelides Enamorado, madre e attivista del Movimiento migrante mesoamericano, ha accompagnato alla procura della repubblica di Città del Messico una donna salvadoregna, Silvia Artiga Castaneda, che anni prima aveva denunciato la scomparsa del figlio. «All’epoca Silvia era convinta di aver fatto tutto il necessario, ma abbiamo scoperto che la procura non aveva neppure aperto il fascicolo d’inchiesta. Ufficialmente quel caso di desaparición non esisteva. Quindi, oltre a non fare nulla per cercare il ragazzo, non le avevano riconosciuto alcun sostegno economico».

Attraverso l’intervento di Ana Enamorado e del Movimiento migrante mesoamericano, impegnato nella ricerca dei desaparecidos, nella lotta contro le reti di violenza e le politiche di oppressione dei migranti, e nella capacitación (empowerment) dei familiari, «dopo lunghe trattative e la minaccia di far intervenire un avvocato, si è ottenuto che a Silvia venisse pagato il viaggio e fornito il visto, e si sono attivate le ambasciate di Messico ed El Salvador per occuparsi del caso. Malgrado ciò che le leggi prescrivono, la strada per il rispetto dei diritti resta lunga e difficoltosa».

S.Ga.

Su YouTube

Videopillole della I Brigada internacional de búsqueda di Ugo Zamburru sono disponibili sul canale YouTube di Carovane Migranti: htpps://bit.ly/35dphCg

Scarpe e ossa umane emerse dallo scavo. Foto Ugo Zamburru.

Il lutto impossibile

«Ogni giorno non faccio che pensare a dove possa trovarsi mio figlio, se mangia, se lo picchiano, se è vivo o morto. Voglio trovarlo, ma non voglio trovarlo». Patricia Manzanares Ochoa esprime così quella costante e tormentosa ambiguità che colpisce tutti i buscadores: in bilico tra la volontà di ritrovare le spoglie dei propri cari, uscendo dall’incertezza, e il desiderio di non trovarli per serbare la speranza che siano ancora vivi. Un vortice di pensieri e sentimenti contrastanti tipico di ogni «perdita ambigua», come l’ha definita la psicoterapeuta Pauline Boss negli anni ’70 in riferimento ai familiari dei soldati dispersi in Vietnam. Nella perdita ambigua, l’indeterminatezza della situazione accresce il dolore e ostacola la normale elaborazione del lutto, con possibili esiti patologici (senso d’impotenza, depressione, ansia, conflitti relazionali). Diventano quindi fondamentali la ricerca di significato e la speranza, per sviluppare un approccio costruttivo alla vita e darsi obiettivi realistici.

In questi casi la certezza della morte risulta più accettabile del dubbio continuo. Il riconoscimento ufficiale e i riti collettivi che l’accompagnano possono essere di grande aiuto. Come dice Cecilia Delgado Grijalva, «quando ho ritrovato mio figlio ho provato un dolore straziante; ma sapere che è morto, mettere fine all’incertezza e offrirgli finalmente una cerimonia funebre, in un certo senso ha mitigato le mie sofferenze. Tutte le famiglie e le mamme dovrebbero avere la possibilità di compiere questi gesti di cura postuma, perciò non mi stanco di aiutare gli altri nella loro ricerca».

S.Ga.

Lo psichiatra torinese Ugo Zamburru con Oscar J.M. Cortés (in maglietta bianca), il cui figlio è sparito nel 2008 (due dei rapitori sono stati identificati, ma restano a piede libero).




Una foto per cambiare il mondo


Ha incontrato la fotografia per caso. Così come i suoi primi soggetti: i migranti. Ora vede il suo lavoro come una missione. Al centro c’è l’essere umano, con la sua storia. E non come mezzo per fare soldi o diventare famosi.

Francesco Malavolta è un fotogiornalista. Vive a Roma, dove lavora come addetto stampa per un viceministro, ma è originario della Calabria: «Sono nato a Corigliano Calabro, ho vissuto 22 anni a Palermo e ora sono a Roma per lavoro, ma in realtà non sento di appartenere a nessun luogo specifico. Stando sempre in giro, i posti in cui vivo sono come dormitori, appartengo a tutti i mondi che ho raccontato e non a uno in particolare», racconta Francesco.

È impegnato da oltre vent’anni nella documentazione dei flussi migratori che interessano il nostro continente.

Un lavoro svolto in un contesto spazio temporale in costante mutamento che lo ha portato a viaggiare lungo i confini di una Europa sempre più blindata e difficile da raggiungere via terra o via mare. Da molti anni collabora con l’Unione europea, varie agenzie di stampa internazionali, come Associated Press, nonché organizzazioni internazionali quali Unhcr (Alto commissariato per i rifugiati) e Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni).

Un incontro

L’incontro con la fotografia è stato casuale. Si potrebbe dire – per usare le sue parole – che è stata la fotografia a «sceglierlo». Da sempre appassionato di immagine in senso lato, non aveva sviluppato una vera consapevolezza oltre la passione.

Ricorda se stesso ragazzo quando, a 14 o 15 anni, internet non c’era e la sua finestra sul mondo erano le riviste, che sfogliava e dalle quali strappava gli articoli contenenti notizie e immagini che lo colpivano particolarmente. Francesco, infatti, è sempre stato attratto dall’immagine, dalla sua potenza evocativa, specialmente quando è unita a una storia che va oltre la foto.

Poi un giorno la fotografia è entrata a far parte della sua vita, trasformandosi in un lavoro.

Francesco paragona questo incontro a un altro, altrettanto casuale e altrettanto carico di significato: quello con il primo soggetto delle sue fotografie.

Si trovava in Puglia, al porto di Brindisi, quando ha assistito a  uno sbarco di albanesi in fuga dalla dittatura. Era una coda del grande esodo iniziato nel 1991.

Francesco si è sentito immediatamente attratto da quella moltitudine di persone che, scappando, aveva deciso di inseguire un sogno di libertà.

Per questo, da oltre vent’anni, la sua fotografia è legata quasi interamente – ma non esclusivamente – alla documentazione dei flussi migratori in tutta Europa e paesi limitrofi lungo le rotte di terra e di mare.

La migrazione, lo spostamento, sono tratti peculiari della natura umana. L’umanità è da sempre in movimento, e questo movimento assume tratti tanto più drammatici quanto più si cerca di ostacolarlo amplificando paure e posizioni illogiche e anacronistiche. Gli scatti di Francesco recano testimonianza delle migrazioni e del loro evolversi concentrandosi sui loro protagonisti. Ogni scatto è il racconto di una storia. Ogni storia, un tentativo di salvare la peculiarità della vita ritratta, sfuggendo alla logica spersonalizzante che presenta le migrazioni come «fenomeni idraulici» e anonimi. L’obiettivo di Francesco è, infatti, rendere omaggio a un’umanità caparbia che, un passo alla volta, guadagna centimetri di libertà.

La fotografia necessaria

Davanti a quello sbarco di albandesi, a quell’umanità disperata e disorientata, Francesco non ha potuto far altro che porsi delle domande fondamentali.

«Chi sono queste persone? Perché scappano? Che storia hanno alle spalle? Perché fanno una scelta così importante come lasciare la propria terra e la propria casa? Cosa li spinge a muoversi verso l’ignoto rischiando così tanto?».

Francesco ha capito che l’unica cosa che poteva fare era approfondire: «Guai se un fotografo si muove in un qualunque posto del mondo senza saperne la storia profonda. È necessario studiare, confrontarsi, andare a fondo nelle storie e nella vita delle persone per poter poi raccontare con la giusta cura e il giusto approfondimento, altrimenti si rischia l’approssimazione, che equivale a una mancanza di rispetto».

Francesco ha iniziato così a studiare: cultura, usi, pensiero, politica, modo di vivere. Tutto ciò che caratterizzava la realtà che desiderava conoscere e raccontare.

Pur amando e apprezzando tutti i generi di fotografia, perché ognuno è una forma d’arte e, come tale, importante, ritrarre gli esseri umani, per lui, è l’unico tipo di fotografia necessaria, anzi fondamentale. Attraverso un «frame», infatti, si congela un attimo di un’intera esistenza, ma se insieme alla fotografia si trova il modo giusto per raccontare la storia che le sta alle spalle e la giusta informazione, allora quello scatto diventa eterno, e può fare la differenza.

Le storie che i fotogiornalisti raccontano sono tutte diverse l’una dall’altra, come diverse sono le identità delle persone raccontate. Questo ci tiene a sottolineare Francesco. Egli, infatti, dedica la stessa cura, la stessa attenzione e lo stesso amore a ogni storia raccolta.

L’identità di ogni individuo è al centro della sua fotografia. Allo stesso tempo Malavolta ha capito che, sebbene le storie di migrazione siano tutte diverse, condividono qualcosa di fondamentale: il dolore, la perdita, la mancanza.

Egli, con la sua macchina fotografica, cerca di raccontare «la verità più vicina alla verità», per usare le sue parole, e lo fa partendo dalle origini della storia raccontata.

Questo implica un enorme sacrificio, perché significa immergersi totalmente in ogni storia. Aprire ogni canale possibile per dare e ricevere. Il fine ultimo è quello di restituire al pubblico che vedrà le sue immagini la storia più completa, chiara e dettagliata possibile, al netto di preconcetti e disinformazione.

Definendo se stesso, Francesco parla di sé come «un mezzo», nulla di più. Una sorta di amplificatore in grado di divulgare storie che altrimenti finirebbero nel silenzio.

Una missione

Per portare avanti questo mestiere, che è prima di tutto passione e missione vera e propria, Francesco tiene incontri nelle scuole o in qualunque ente sia interessato a comprendere come i popoli si muovono e perché.

I flussi migratori, infatti, vengono spesso narrati in maniera contorta, sbagliata. Si concentra il racconto su uno spazio temporale che va dall’emergenza – la barca in difficoltà, i morti, il salvataggio – alle polemiche successive allo sbarco, senza però concentrarsi su ciò che avviene prima.

In questo modo le persone che si muovono per via terrestre, spostandosi da un punto A a un punto B, difficilmente si vedono.

Francesco ha lavorato principalmente nel bacino del Mediterraneo, nel Canale di Sicilia, nello stretto di Gibilterra, nel Mar Egeo e sulle terre più vicine, quindi Italia, Spagna, le isole greche e i confini terrestri come la rotta balcanica. Ma ha reputato necessario spostarsi poi nei paesi di partenza dei flussi migratori come l’Etiopia, lo Sri Lanka, il Senegal, il Burkina Faso.

Racconta le migliaia di sfollati interni che spesso non arrivano alle coste europee e che sono, in realtà, la gran parte delle persone in movimento. Di loro spesso non si sa nulla.

Alcune storie hanno richiesto a Francesco molta energia come quelle raccolte in Burkina Faso, dove si è trovato a documentare i giovani sfruttati per trovare oro scavando nella roccia a 20-25 metri di profondità.

Calati in miniere, con l’utilizzo di semplici corde, totalmente sprovvisti di sicurezza, fanno un lavoro usurante e sfinente che permette loro appena di sopravvivere. Non è difficile allora immaginare il motivo che li spinge a cercare una vita migliore.

Muoversi, fuggire, cercare un’altra possibilità, è qualcosa di strettamente legato all’animo umano, alla necessità, e non avviene solo in tempi di guerra, ma anche quando la vita diventa impossibile e intollerabile.

Il fine ultimo

Il reportage non è morto, come non è morto il fotogiornalismo, ma sempre di più l’editoria ha problemi a resistere. Oggi il contenitore principale dal quale trarre foto del mondo è il web e bisogna spesso accontentarsi di immagini fatte approssimativamente. Eppure, nell’ultimo decennio il numero di persone che si sono avvicinate al fotogiornalismo è maggiore rispetto a qualsiasi altro momento.

Francesco continua a credere fortemente nel potere del buon fotogiornalismo e porta come esempio ciò che è avvenuto dopo la famosa fotografia di Alan Kurdi: è tato per quell’immagine che la Germania ha aperto i propri confini a oltre mezzo milione di siriani e poi anche ad altri profughi.

C’è una cosa però a cui Francesco tiene particolarmente: il fine ultimo.

«Ai giovani fotografi che decidono di avvicinarsi alla fotografia giornalistica dico sempre di non avere fretta, e di tenere chiaro in mente l’obiettivo finale del proprio lavoro che non è diventare fotografi di successo, ma creare una narrazione che possa cambiare le cose. Non fare foto fini a se stesse per ottenere premi, mostre o pubblicare un libro. Quelli non sono punti di inizio o di arrivo, ma possono essere una distrazione se diventa l’unico fine della propria fotografia.

Bisogna fotografare pensando prima di tutto di ascoltare, raccogliere la storia con responsabilità verso gli altri e verso noi stessi. Se vogliamo fare fotogiornalismo, questo ci deve guidare: la voglia di cambiare le cose, nel nostro piccolo. La fotografia è politica, e può accendere una fiammella là dove il buio avanza e sembra fagocitare tutto».

Francesco ha diversi ricordi di immagini che non avrebbe voluto vedere, fotografie che non avrebbe voluto scattare. Una su tutte è quella delle 368 bare del naufragio di Lampedusa nell’ottobre del 2013. Da quell’immagine in poi, molte saranno le bare che Francesco si troverà a fotografare. Vite disperate, vite stroncate.

È per questo che oggi a 46 anni di cui 44 vissuti in riva al mare, non riesce più a guardare quella distesa di acqua così familiare e così amata con lo stesso sguardo che aveva da ragazzo. Il mare Mediterraneo, con i suoi 40mila morti negli ultimi 20 anni, gli appare come un grande cimitero e pur amandolo, oggi non riesce più a farsi un bagno senza pensare a ciò che «c’è sotto», come ci dice.

Francesco nelle sue presentazioni, mostre, incontri, parla con tutti, ma in particolare ama parlare con i bambini. Nella loro ingenuità, nella loro purezza non vedono differenze tra le persone, e ogni volta che parla con loro, la prima cosa che dice è che devono proseguire proprio su quella strada, su quell’idea di fratellanza che vede le differenze di usanze, tradizioni, luoghi di origine, come ricchezze e non come motivi di discriminazione.

I profughi dell’Ucraina

Dall’inizio del conflitto Russia – Ucraina, Malavolta è impegnato a documentare le migliaia di profughi in fuga dalla guerra sui confini di Polonia, Ungheria e Slovacchia. «Questo conflitto ci mette a dura prova perché in questo nuovo secolo in Europa nessuno si sarebbe aspettato una tale violenza così vicina. Ci sentiamo in pericolo. Vedo una gara di solidarietà incredibile verso i profughi ucraini, questo perché li sentiamo molto più vicini a noi in quanto bianchi e cristiani. Allo stesso tempo mi rendo profondamente conto di quanto altre guerre, come ad esempio quella in Siria, in Afghanistan, in Yemen, non vengono guardate con la stessa attenzione. Proprio lo scorso novembre al confine tra Polonia e Bielorussia, un bimbo siriano è morto assiderato senza che la sua famiglia potesse salvarlo. Non ci sono gli stessi riguardi verso chi viene dalla parte “sbagliata” del mondo».

La speranza di Francesco per il futuro è poter finalmente scattare immagini di luoghi senza muri. Vorrebbe poter fotografare mari senza dover raccontare persone disperate aggrappate a relitti, mentre tendono le mani per essere salvati.

Spera, in futuro, di fotografare persone felici accolte negli aeroporti, con un passaporto in mano.

Valentina Tamborra

 




Oujda, Oltre frontiera


Da poco più di un anno la Consolata ha portato i suoi missionari in Marocco. In una città snodo fondamentale della rotta migratoria. È iniziata una missione complessa, che ha caratteristiche e potenzialità tali da attivare tanti ambiti missionari.

«L’idea nasce dal lavoro che i laici della Consolata (Lmc) di Malaga portano avanti da anni con i migranti», ci racconta Silvio Testa, laico italiano, da una vita trapiantato nella città costiera a Sud della Spagna. Silvio, pur essendo originario di Torino, ha una forte pronuncia spagnola, che rende la sua parlata ancora più calorosa. «Dal 2005 i Lmc, attraverso la loro associazione Uyamaa (che significa famiglia allargata in kiswahili, uyamaa.org, ndr), sono presenti nella Piattaforma di solidarietà con gli immigrati, una rete che si occupa da oltre 20 anni dei migranti nella provincia di Malaga». In quegli anni, i barconi, chiamati «pateras», con il loro carico di vite umane e di sogni, partiti dalle coste africane, arrivavano nei pressi della città e nel suo porto. «Il nostro sguardo – ricorda Silvio – è quindi andato fino all’altro lato del Mediterraneo. Quegli arrivi ci interpellavano: “Cosa possiamo fare?”. Insieme a padre Luis Jiménez Fernández, all’epoca superiore Imc in Spagna, è maturata l’idea di avviare un qualche intervento a Melilla, città di fronte a Malaga, ma sul continente africano».
Melilla, insieme a Ceuta, costituisce una piccola porzione di territorio spagnolo in Africa, fa parte della diocesi di Malaga. Entrambi i territori sono frontiere molto calde tra Africa e Unione europea, che spagnoli e marocchini presidiano, e dove sono presenti alte recinzioni, «muri» tra Sud e Nord. «Volevamo prestare attenzione a quello che stava succedendo da una parte e dall’altra delle frontiera», continua Silvio.

In questa dinamica, nel 2014, Uyamaa ha proposto alla Piattaforma di creare l’Osservatorio frontiera Sud (Osf), un’iniziativa orientata a seguire la situazione dei migranti in transito tra Marocco e Spagna. «Questo impegno ha portato noi Lmc a incontrare altri attori coinvolti nell’appoggio ai migranti sia a Ceuta e Melilla che nelle città del Nord del Marocco, nella diocesi di Tangeri». La comunità di missionari della Consolata di Malaga ha seguito da vicino questi sviluppi coinvolgendo la regione Spagna dell’Istituto.

Intanto l’Imc stava preparando la ristrutturazione che avrebbe portato alla creazione della Regione Europa (Reu), nella quale il tema dei migranti e rifugiati sarebbe diventato a tutti gli effetti la nuova frontiera missionaria.

Le visite

Tra il 2018 e il 2019 un’équipe mista Imc-Lmc, della quale faceva parte anche Silvio, ha compiuto tre viaggi in Marocco, due nella diocesi di Tangeri e uno nella diocesi di Rabat. Durante quei viaggi, l’équipe ha contattato diverse istituzioni ed enti coinvolti nel lavoro con i migranti.

«Durante il terzo viaggio (aprile 2019, ndr), il cardinale Cristóbal López, arcivescovo di Rabat, ci ha proposto di assumere la parrocchia di Oujda, vicino al confine con l’Algeria. Le condizioni erano buone, e sembrava la missione giusta». Silvio ricorda che, nei due viaggi precedenti, molti degli enti contattati, avevano citato Oujda come punto nevralgico di passaggio del flusso di migranti in arrivo dal Sahara, ma anche di quelli espulsi dalle autorità marocchine. «Così ci siamo andati, e quando ho visto la parrocchia e il lavoro, mi sono detto: secondo me è questo il posto giusto. Da quando è stata presa la decisione, le cose sono andate molto in fretta». Silvio era con padre Edwin Osaleh Duyani e padre José Luis Pereyra Quintián, superiore della Spagna.

A Oujda operava un sacerdote diocesano francese, che però doveva rientrare al suo paese. «Abbiamo visto il lavoro che si stava facendo, la frontiera chiusa ufficialmente per problemi diplomatici tra i due paesi, ma attraversata clandestinamente da migranti subsahariani, mentre altri, arrestati in altre zone del paese, venivano portati lì per essere espulsi in Algeria (anche se formalmente non sarebbe lecito)».

La scelta per l’arrivo dell’Imc in Marocco è caduta su padre Edwin, che avrebbe dovuto fare alcuni viaggi con permanenze limitate nel 2020, senza però riuscirci a causa della pandemia.

Il pioniere

«Sono arrivato a Oujda nel novembre del 2020 e ho iniziato a lavorare con il sacerdote francese che mi ha affiancato per diversi mesi», ricorda Edwin, che abbiamo raggiunto telefonicamente a Oujda.

«Da due anni ero in missione a Malaga, e pensavo di starci di più. Non credevo di venire qui subito, come pioniere. Ma alla fine ho capito, perché il lavoro è molto importante».

«Molti migranti vengono qui a chiedere aiuto dopo un viaggio sofferto nel deserto. Ho trovato una realtà nella quale si vive come in famiglia, si cerca di fare le cose insieme, affinché si ritrovi, almeno in minima parte, quell’atmosfera persa durante il viaggio. Questo approccio mi è subito piaciuto».

Edwin non nasconde le difficoltà iniziali, come le due lingue da imparare, francese e arabo (lui è keniano), o lo stupore iniziale dei migranti, nel vedere un prete africano occuparsi di loro, migranti africani: «Abituati a un europeo, all’inizio erano diffidenti, e non volevano che il sacerdote francese andasse via. Ma poco a poco si sono abituati». Edwin è stato poi affiancato da padre Francesco Giuliani e, alla fine di febbraio 2022, è arrivato finalmente anche il congolese padre Patrick Mandondo.

Il lavoro è molto, la struttura di accoglienza è aperta 24 ore su 24: «25 su 24», dice Edwin. Di solito è lui che apre la porta di notte. I locali della parrocchia sono grandi e sono aperti a chi ha bisogno di un riparo, un posto per lavarsi, dormire, mangiare, ma anche ricostruirsi mentalmente. «Stiamo accogliendo mediamente 50-60 persone, ma sovente sono di più. Nel 2021 sono stati 2311. Alcuni si fermano pochi giorni, altri settimane oppure anche mesi».

La salute, prima di tutto

Uno dei problemi maggiori sono le condizioni di salute nelle quali arrivano i migranti.

Ci racconta Silvio: «Tutti i giorni, a tutte le ore, arriva gente con i piedi sfracellati, le ossa rotte, la testa aperta. Devi essere lì ad accogliere queste persone e dare loro delle cure.

Una missione così, è difficile trovare gente che la voglia assumere. È un lavoro massacrante. Il fattore umano è fondamentale. Inoltre l’impegno è molto esigente perché devi avere tante relazioni: con la sanità pubblica, la polizia, le autorità. Fai da mediatore. Non è un classico lavoro da prete».

Ma Edwin è contento e ci spiega come è composta l’équipe di lavoro. «Il progetto va avanti anche grazie alla chiesa protestante evangelica. Siamo due coordinatori, io e un evangelico. C’è un’ottima collaborazione ecumenica. Prestiamo anche i locali della chiesa a questi fratelli cristiani per il loro culto, perché non ne hanno.

Poi ci sono due medici, arrivati come studenti, uno cattolico e uno protestante. Sono molto importanti a causa dei frequenti problemi di salute di chi bussa alla nostra porta. Loro poi, hanno contatti negli ospedali, e si adoperano per far prendere in carico i migranti.

Della équipe fanno inoltre parte due suore spagnole di due differenti congregazioni. Sono incaricate delle donne e delle attività di formazione».

Poi Edwin ci racconta una storia di speranza: «Tra i responsabili dell’accoglienza c’è un ragazzo del Camerun, arrivato come migrante sei anni fa. Dormiva qui fuori. In quel periodo hanno iniziato ad accogliere nei locali della parrocchia, e il prete gli ha chiesto di aiutarlo. Così si è integrato e ora si adopera per gli altri migranti. Ci aiuta moltissimo, perché lui sa riconoscere le varie situazioni. Un ospite ti dice che è appena arrivato dall’Algeria, invece magari arriva da Casablanca o Rabat, oppure vive nel quartiere. Lui capisce tutto, io sto imparando da lui. A volte i migranti, quando arrivano, sono intercettati da una mafia locale. Dicono loro che li aiutano, invece li chiudono in appartamenti, poi li torturano e fanno chiamare loro le famiglie perché mandino soldi per liberarli. Arrivano da noi con brutte ferite. Lui si interessa, e cerca di capire chi è stato».

Dover scegliere

Edwin ci dice che i migranti arrivano numerosi, «non andiamo noi a cercarli, purtroppo dobbiamo selezionare. In alcuni casi diamo un po’ da mangiare e poi devono andare via».

Chi è di turno all’accoglienza deve capire la situazione di chi arriva. Si registrano i dati, le condizioni di salute, le informazioni sul viaggio. Chi è più vulnerabile, stanco o ferito viene subito accolto.

Come detto, molti sono da curare, per cui vengono accompagnati in ospedale. Ma spesso le cure sono molto costose. «In quel caso si deve valutare, perché se curiamo un migrante, togliamo dei soldi all’acquisto di cibo, ma talvolta è necessario. Allora speriamo nella Provvidenza».

E poi ci sono i minori non accompagnati: «A volte è difficile capire: dicono di essere minori e non lo sono, o viceversa, a seconda di cosa vogliono ottenere. Altri danno nomi falsi alla polizia, poi noi li recuperiamo e i dati che abbiamo noi non coincidono.

Aiutiamo i minori a capire meglio il mondo. Arrivano qui persi, non sanno cosa fare, dove vogliono andare. Hanno un sogno, che però è sbagliato. Pensano che in Europa trovi tutto appena arrivi. Noi gli diciamo la verità. Rimangono qualche settimana, qualche mese. Quelli che non sanno leggere e scrivere, li aiutiamo con dei corsi. Cerchiamo anche di contattare le loro famiglie. Sono in tanti, tra i 14 e i 16 anni».

I missionari danno anche la possibilità agli ospiti di frequentare corsi di formazione professionale, a chi fosse interessato (elettricità, meccanica, cucina, ecc.). Inoltre, collaborano con le ambasciate dei vari paesi quando ci sono problemi di
documenti.

«Quando arrivano qui, ci sono per loro tre possibilità: andare in Europa, ma pochissimi riescono; rimanere in Marocco, ma anche ottenere i documenti per lavorare qui è complicato. La terza possibilità è quella di ritornare al proprio paese. Ci sono quelli che vogliono fare lo stesso viaggio a ritroso, ma è complesso. Con diversi di loro iniziamo il processo di rimpatrio con l’Oim (Organizzazione mondiale per le migrazioni, ndr), che può prendere settimane o mesi. In questo tempo i migranti rimangono qui, e facciamo loro dei corsi di formazione».

Edwin ci racconta la storia di uno dei tanti. «È con noi un ragazzo di 15 anni della Sierra Leone, arrivato 5 mesi fa. Il suo sogno era di andare in Europa. Ha un fratello maggiore in Spagna. Ho cercato di dissuaderlo, ma lui ha insistito, e così ho fatto una ricerca per trovare il numero del fratello. Siamo riusciti a telefonargli. Lui gli ha sconsigliato di proseguire, dicendogli di tornare a casa: “Qui le cose non sono come pensi”. Il ragazzo ha iniziato a piangere, dicendo: “Non mi vuole bene”. Io gli ho detto: “Guarda, sono stato in Europa e sta dicendo la verità”. Poi c’era anche una divisione nella famiglia, perché la madre voleva che continuasse. Alla fine, hanno accettato, e ora abbiamo iniziato le pratiche per il rimpatrio con l’Oim».

Le donne che arrivano sono invece rare: «Non si possono fermare da noi, non siamo attrezzati, ma le suore se ne occupano e trovano loro una sistemazione. Poi le seguono e propongono dei corsi di formazione».

Una missione… europea

Questa missione è stata ideata e voluta dal gruppo di padri e laici di Malaga e dipende dalla Regione Europa, anche se si trova in Africa. Edwin, inoltre, è consigliere regionale (ovvero uno dei cinque membri del consiglio che guida i Missionari della Consolata del continente). Gli chiediamo in che modo si sente parte dell’Europa: «Penso sia stato lo Spirito che mi ha spinto a questa decisione. Io creo il legame con la regione, questa missione ne fa parte. Siamo ad gentes, lavoriamo e parliamo con non cristiani. Viviamo la consolazione e parliamo di Gesù, non tanto con le parole, ma con le nostre azioni, con la nostra vita».

La missione ha un legame stretto con la comunità di Malaga. Ora che è più difficile viaggiare, a causa della pandemia, viene organizzato un incontro online ogni due settimane. Vi partecipano i missionari di Oujda e alcuni membri dell’équipe, insieme ai laici e ai padri di Malaga. Ogni incontro riguarda un aspetto specifico del lavoro: sanità, prima accoglienza, formazione, ecc.

Secondo Silvio, questa missione può offrire molti spunti: «A parte le attività in sé, essa si può convertire in un fuoco eccezionale di animazione missionaria. Abbiamo previsto di andare d’estate con un gruppo di giovani. I classici campi di lavoro, per fare qualcosa. Si programma e si preparano incontri con i migranti, che sono anche loro giovani. Si respira veramente il lavoro e la spiritualità missionaria. È una missione di frontiera, in senso fisico e tematico.

Ha un potenziale in altri ambiti che bisogna sfruttare, come quello del dialogo interreligioso e dei diritti umani. Ci sono agganci con il mondo esterno.

Il potenziale di Oujda è che riporta la regione Europa all’essenza della spiritualità missionaria, e questa è un punto per ricominciare molte cose».

Marco Bello

Archivio MC


La voce del cardinale

Missione speciale

Monsignor Cristóbal López Romero, arcivescovo di Rabat (una delle due diocesi del Marocco con Tangeri), è stato nominato cardinale il 5 ottobre 2019 da papa Francesco. Salesiano, spagnolo della regione di Almería, è di una simpatia straripante. Ha scritto questo testo per MC per presentare la missione di Oujda, alla quale tiene molto.

Oujda è la città più orientale del Marocco, la porta dell’Algeria. È pure la porta di entrata in Marocco per migliaia di persone migranti, provenienti da diversi paesi africani, ma tutti con una destinazione comune: l’Europa.

La chiesa di Oujda è la più antica di quelle attualmente presenti nella diocesi di Rabat: fu costruita nei primi anni del protettorato francese (durato dal 1912 al 1956).

In quell’epoca, la comunità cristiana era composta da europei che si stabilivano in Marocco per le opportunità di lavoro che c’erano.

Oggi la piccola comunità cristiana è fatta di studenti universitari subsahariani e di alcune persone di passaggio durante l’avventura migratoria.

Fin dall’inizio di questo fenomeno, la parrocchia si è aperta all’accoglienza di queste persone che arrivano a Oujda sfinite, ferite, in situazione di vulnerabilità, dopo aver attraversato il deserto e la frontiera algerina, in mezzo a difficoltà e pericoli.

Quattro verbi, quattro azioni

La parrocchia di Oujda cerca di mettere in pratica le quattro azioni che papa Francesco propone in relazione a questi fratelli: accogliere, proteggere, promuovere e inserire.

Accogliere e proteggere. Tutte le persone che arrivano sono accolte e ascoltate. Se hanno fame, possono mangiare. Se sono stanche possono riposare. Se sono malate, le si cura. Se sono prese nella rete mafiosa, si fa il possibile per liberarle.

Questo porta, ogni anno, ad accogliere diverse migliaia di persone nei locali della parrocchia, che sono arrivati a ospitare fino a 150 persone contemporaneamente. La permanenza va da alcune ore a diversi mesi, fino a un anno.

Promuovere e inserire. Per i giovani che scoprono la necessità di formarsi prima di fare il salto verso l’Europa oppure di tornare al proprio paese, esiste la possibilità di fare corsi brevi di formazione professionale.

Però la cosa più importante è che a tutti si offre un ambiente di serenità e sicurezza, e un accompagnamento personale che li porta a recuperare la propria dignità, il proprio equilibrio emotivo, e li aiuta a ripensare un progetto di vita, permettendo loro di andare avanti più coscienti e con un più alto grado di libertà. Possiamo dire che queste persone passano a Oujda attraverso un processo di recupero della dignità.

L’inserimento è difficile, perché son pochi che scelgono di fermarsi in Marocco. Però la formazione ricevuta li aiuterà a inserirsi in Europa oppure a reinserirsi nel proprio paese di origine, se decidono di tornare (e sono molti che scelgono questa opzione).

Una missione ecclesiale importante

Quello che la comunità cristiana di Oujda fa in favore delle persone in migrazione è il miglior servizio che la chiesa sta prestando loro in tutta la diocesi. Esso consiste innanzitutto nell’offrire un ambiente famigliare, nel quale le persone si sentano accolte, valorizzate e amate, come requisito per potere aumentare la propria autostima e recuperare la dignità.

È un servizio ecumenico perché lo facciamo in comunione di azione con i cristiani protestanti presenti nella Chiesa evangelica del Marocco.

È un servizio inter congregazionale, perché integra i Missionari della Consolata, e due congregazioni di religiose, le suore del Sagrado Corazon e quelle di Jesus-Maria.

È un servizio interreligioso, perché in esso si coniuga il lavoro di cristiani e musulmani, e si indirizza a qualsiasi persona in necessità, indipendentemente dalla sua religione. E i musulmani sono la maggioranza.

È un servizio integrale perché accompagna la persona, specialmente i giovani e minori non accompagnati, in tutti i suoi bisogni e finché non diventa autonoma e in grado di proseguire da sola.

Ho affidato la responsabilità della direzione del centro di accoglienza e della parrocchia di Oujda ai Missionari della Consolata, per dare una continuità istituzionale, ma soprattutto perché il carisma della Consolazione è di pertinenza e necessità estrema per le persone in migrazione.

Inoltre, una comunità ha le caratteristiche giuste per creare il clima di famiglia.

Segni e testimoni

Essere vescovo, essere cristiano in Marocco, presuppone e implica convertirsi in segno e testimone dell’amore che Dio ha per l’umanità. Quello che facciamo ha un valore relativo, l’importante è quello che siamo e che viviamo, la testimonianza che diamo.

San Giovanni Paolo II, in una brevissima visita a Casablanca, disse: «Le opere che fate qui, continueranno o non continueranno, però quello che certamente rimarrà è l’amore con il quale fate ciò che fate».
L’amore non passa mai, in verità, ed è la vocazione comune di tutti i cristiani, ovunque sia e qualunque cosa facciano.

La nostra sfida principale in questo ambiente nel quale viviamo, di maggioranza assoluta musulmana, è essere segno e testimoni della tenerezza e della misericordia di Dio; essere parola vivente e convertirci nel quinto Vangelo, l’unico che i musulmani potranno leggere: essere apostoli della bontà, affinché, come diceva (il beato, presto santo, ndr) Charles de Foucauld, chi ci conosce possa pensare o dire: «Se il discepolo è così, come sarà il maestro».

cardinale Cristóbal López Romero
arcivescovo di Rabat
(liberamente tradotto dallo spagnolo) 

Nota

Il cristianesimo (cattolici e protestanti) in Marocco è una minoranza, valutato in circa 1% della popolazione, meno di 40mila. I fedeli sono per lo più stranieri.

mde




Tra dubbi e profezia


Il 2022 è iniziato un po’ in sordina, azzoppato dalla variante Omicron che sta condizionando la vita di mezzo mondo. Omicron, nell’alfabeto greco, è la lettera «o», presente due volte nella parola mondo e nel suo omologo greco cosmo. Invece di essere come le ruote di una bicicletta (o di una moto), è diventata come due macigni che appesantiscono e frenano.
Ventuno anni fa siamo entrati in pompa magna nel terzo millennio, ma guardando a quanto sta succedendo nel mondo, verrebbe da dire che siamo tornati alla preistoria. Con tutto il rispetto per la preistoria, quando forse si viveva più «umanamente» di quanto facciamo noi oggi, quando un guaio combinato da qualcuno aveva conseguenze solo locali. Nonostante oltre cinquemila anni di storia documentata, nonostante la conoscenza e lo studio di religioni e filosofie di tutti i popoli, nonostante il progresso scientifico e tecnologico e gli incredibili sviluppi della comunicazione, nonostante tutto questo, stiamo vivendo la distruzione ambientale, l’aumento delle ingiustizie sociali e delle guerre, con i ricchi che diventano più ricchi a spese dei poveri, degli sfruttati e della salute del nostro pianeta, e i potenti che, invece di investire nella pace, usano la guerra e l’intolleranza per dominare, sostenuti dalle derive fondamentaliste delle grandi religioni, anche del cristianesimo.

Viene da domandarsi: perché questo imbarbarimento? Perché non abbiamo imparato nulla dalla storia? Perché duemila anni di cristianesimo sembrano persi nel dimenticatoio di fronte alla logica del profitto, del consumismo, del benessere, del materialismo? Com’è che moltiplichiamo leggi e regolamenti e non cambiamo il cuore?

Come può succedere che un capo di stato chieda – applaudito – che l’aborto diventi un diritto umano universale pari al diritto alla vita, alla libertà in tutte le sue espressioni, alla sicurezza, all’istruzione, al riposo e al gioco, al cibo, alla casa e al lavoro?

Sappiamo poi molto bene che se ci fosse una guerra atomica tutti e tutto ne pagheremmo il prezzo. Perché, allora, sembra impossibile liberarsi dalle armi atomiche? Perché troppe nazioni rifiutano di ratificare il Trattato di non proliferazione nucleare, promosso dalle Nazioni Unite?

Terribile è poi l’ipocrisia sui migranti. Si trovano i soldi per costruire muri, per armare e mantenere reparti di polizia specializzati contro i migranti, come la discutibile guardia costiera libica, si costruiscono campi che diventano il limbo in cui sono fatti sparire, ma poco viene fatto per curare le cause che sono all’origine di un così grande esodo di genti: povertà, sfruttamento, dittature, guerre, persecuzioni, cambiamento climatico. E poi si chiudono tutti e due gli occhi sul caporalato, la tratta delle persone, il traffico della prostituzione, lo sfruttamento dei lavoratori in nero, il lavoro dei bambini, le nuove forme di schiavitù. E si rifiuta lo jus soli. Fa poi comodo usare i migranti per la propaganda politica come se essi fossero la causa di tutti i mali, come se davvero tenerli fuori dai nostri confini risolvesse i nostri problemi di lavoro, sicurezza, sanità, giustizia sociale, invecchiamento della popolazione, spopolamento.

Nell’elenco ci sarebbe da aggiungere il rinascere del razzismo, la manipolazione della storia, il crescere dell’ignoranza, l’incapacità di dialogo, il narcisismo sociale e politico, l’illusione che l’avere di più dia più felicità, l’aggressività sui social, la contraffazione mediatica, l’invasione della privacy.

Mentre scrivo mi arrabbio con me stesso, perché sono bravo a elencare, a fare liste, a piangermi addosso. Ma a cosa serve?

In tutto questo c’è una luce di speranza, una profezia di vita e libertà. Ci è offerta dai poveri del mondo, con i quali vivono tanti dei miei confratelli e consorelle missionari. Poveri che hanno una resilienza incredibile e un’infinita voglia di riscatto. Viene dal guardare a quella croce che domina nelle nostre chiese, che è sui muri di tante stanze, che è al collo di tante persone. Una croce, un crocefisso, che durante questo tempo di quaresima siamo invitati a reincontrare perché non rimanga solo un segno esterno. Il «prendere la croce e seguirlo» deve diventare un modo di essere e uno stile di vita che promuova la vita, ogni forma di vita, tutta la vita. Che sia una via alternativa al tran-tran disumanizzante e cosificante del consumismo, alla logica del più forte e del più ricco, alla rassegnazione alla paura, all’ansia per il futuro, alla chiusura all’altro. Una verità che decodifichi le fake news, gli inganni, le alienazioni dell’uomo e, invece, promuova un uomo libero e liberante, creativo, resiliente e soggetto della storia, non spettatore rassegnato.

 




Missione AMO, quattro ruote per servire

Progetto sostenuto dagli Amici Missioni Consolata


Aiuto migranti Oujda

Esteso poco meno di mezzo milione di chilometri quadrati (una volta e mezzo l’Italia, ndr.), il Marocco è un paese montagnoso al Nord e desertico al Sud. La popolazione conta circa 37 milioni di abitanti, dei quali il 58% vive nelle città. Rabat, capitale politica, e Casablanca, capitale economica, sono le due più importanti. Le lingue ufficiali del paese sono l’arabo, il berbero e il francese.

L’economia è fondamentalmente agricola e di allevamento, ma il paese dispone anche di importanti miniere di argento, fosfato, piombo e zinco, e oggi ha un’industria turistica fiorente.

La religione dominante è l’Islam. La presenza cristiana è minima, anche se ha origini antichissime risalenti al terzo secolo d.C.

Oggi il paese conta due diocesi, Rabat e Tangeri, 35 parrocchie e 50 sacerdoti residenti.

Il paese è stato visitato da papa Francesco nel marzo del 2019 e in quello stesso anno, a ottobre, il vescovo Cristóbal López Romero, arcivescovo di Rabat, è stato nominato cardinale.

Il numero totale dei cristiani è comunque molto esiguo, circa 25mila in tutto, e tra le comunità cristiane che vivono oggi in Marocco, si possono censire quasi novanta nazionalità, soprattutto studenti che provengono in gran parte da altri paesi dell’Africa subsahariana.

Dormitorio accanto alla chiesa di Oujda, Marocco

Crocevia di migranti

Il Marocco che nella seconda metà del Novecento ha esportato circa cinque milioni di emigrati, soprattutto verso i paesi industrializzati dell’Europa, oggi, con l’economia in forte crescita (almeno fino allo scoppio del

Covid), è diventato punto di attrazione e transito per migranti provenienti dall’Africa subsahariana.

Questo perché la fascia del Sahel, regione con radici antichissime e un tempo agognata da mercanti e viaggiatori, è ora un territorio complesso. Tutti i numerosi paesi che vi si affacciano, Senegal, Mali, Burkina Faso,
Niger, Ciad, Sudan e altri, infatti, si trovano in una situazione di grande precarietà a causa della crisi ambientale che provoca desertificazione e grave impoverimento.

Tutta l’area, poi, è anche uno snodo della politica internazionale sommersa. Qui avviene il traffico dei nuovi schiavi verso l’Europa, il commercio illecito di armi e droga, il terrorismo. Il tutto aggravato da cattivi governi e corruzione che impediscono lo sviluppo economico e, quindi, le misure per combattere il terrorismo jihadista che fa leva sulla povertà per reclutare nuovi seguaci.

Da anni si susseguono irruzioni nei villaggi, massacri e reclutamenti forzati di giovani. Questi sono costretti a diventare terroristi o a fuggire, e il Marocco è una delle vie di fuga preferite, perché più sicuro della Libia.

I Missionari della Consolata a Oujda

Entrata ufficiale del Missionari della Consolata nella parrocchia di St Louis a Oujda – La Messa è stata presieduta da S.E. Cristobal card. Lopez Romero, arcivescovo di Rabat

Negli ultimi anni, i Missionari della Consolata in Spagna hanno cercato un maggiore impegno nell’opera di accoglienza degli immigrati, la quale è un’opzione ad gentes della congregazione in Europa. Così hanno aperto una comunità a Oujda su invito del cardinale Cristóbal López.

Lo scopo della missione è di accogliere i migranti in questa città che si trova all’estremo Est del paese, a circa 15 km dal confine con l’Algeria, e a 60 km a Sud del Mar Mediterraneo.

Oujda è un luogo di transito per molte persone provenienti dai paesi dell’Africa subsahariana che vogliono raggiungere l’Europa. Qui vi arrivano dopo aver attraversato il deserto e sofferto molte difficoltà.

Nella parrocchia di Saint Louis, già cattedrale al tempo del protettorato francese, chiesa enorme per una settantina di cristiani, quasi tutti di origini subsahariane, nel 2020 è arrivato padre Edwin Osaleh, keniano,
e nel 2021 padre Francesco Giuliani, in attesa che un terzo missionario riesca a ottenere tutti i necessari permessi per stabilirsi con loro e completare la comunità.

Dal 26 settembre 2021, giorno in cui la Chiesa ha celebrato la Giornata mondiale dei migranti e dei rifugiati, la parrocchia di Saint Louis è stata consegnata alla piena responsabilità dei  Missionari della Consolata.

L’impegno con i migranti

Padre Edwin sintetizza in quattro verbi l’impegno con i migranti: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.

ACCOGLIERE significa innanzitutto offrire a migranti e rifugiati possibilità più ampie di ingresso sicuro e legale nei paesi di destinazione. Questo impegno comune è necessario per non accordare nuovi spazi ai mercanti di carne umana che speculano sui sogni e i bisogni dei migranti.

PROTEGGERE vuole dire assicurare la difesa dei diritti e della dignità dei migranti e dei rifugiati, indipendentemente dal loro status migratorio. Guardando la realtà di questa regione, la protezione va assicurata anzitutto lungo le vie migratorie, che sono spesso, purtroppo, teatri di violenza, sfruttamento e abusi di ogni genere.

PROMUOVERE significa assicurare a tutti, migranti e locali, la possibilità di trovare un ambiente sicuro dove realizzarsi integralmente. Tale promozione comincia con il riconoscimento che nessuno è uno scarto umano, ma è portatore di una ricchezza personale, culturale e professionale che può recare molto valore là dove si trova. Ma non dimentichiamo che la promozione umana dei migranti e delle loro famiglie inizia anche dalle comunità di origine, là dove deve essere garantito, insieme al diritto di emigrare, anche quello di non essere costretti a emigrare, cioè il diritto di trovare in patria condizioni che permettano una vita degna.

INTEGRARE vuole dire impegnarsi in un processo che valorizzi al tempo stesso il patrimonio culturale della comunità che accoglie e quello dei migranti, costruendo così una società interculturale e aperta. Sappiamo che non è facile entrare in una cultura che ci è estranea – tanto per chi arriva, quanto per chi accoglie -, metterci nei panni di persone diverse da noi, comprendere i loro pensieri e le loro esperienze. Così, spesso, rinunciamo all’incontro con l’altro e innalziamo barriere per difenderci.

Quattro verbi che qualificano la «Missione Amo» (Aiuto migranti Oujda).

Amc – Gigi Anataloni

Nella sala dove i migranti apprendono la lingua (lezione di francese) a Oujda

«Quattro ruote per… »

Gli Amici Missioni Consolata (Amc) si impegnano ad aiutare la «Missione Amo» provvedendo un mezzo essenziale per il servizio: un furgone multiuso, un Renault express intens, dal costo pari a 16.500 euro.

Il furgone verrà utilizzato per

  • recuperare i migranti che giungono nella zona malati, affamati ed esausti, e portarli al Centro di accoglienza della parrocchia, ai centri sanitari o al pronto soccorso per le cure necessarie;
  • trasportare e distribuire prodotti alimentari, per l’igiene o di protezione individuale, sia per il fabbisogno del Centro che per individui in necessità in varie parti della città;
  • accompagnare i migranti ai centri di formazione professionale e ogni altro bisogno prevedibile o imprevedibile.

***

È possibile sostenere questo progetto visitando il «Punto missioni Consolata» di fronte al Santuario della Consolata a Torino o inviando offerte per «AMC progetto 4 ruote per servire» utilizzando i dati trovati a questo link.


Leggi il testo completo che illustra le attività di MCO nella pagina di Cooperando 2021, un anno di progetti, nonostante la pandemia

 

 




2021, un anno di progetti, nonostante la pandemia

 


Dopo il 2020, anche il 2021 è stato un anno difficile a causa del persistere della pandemia di Covid-19, che ha colpito in modo particolare tutti quei paesi che non hanno né le infrastrutture né i mezzi per adeguate campagne vaccinali.



20 Natali di solidarietà

Missioni Consolata Onlus è il braccio operativo del Missionari  della Consolata in Italia per sostenere i progetti dei loro confratelli  nei tre continenti dove annunciano il Vangelo con opere e parole.

È grazie all’aiuto generoso di voi, amici e benefattori, persone normali, che conoscete la fatica del vivere e del guadagnarsi il pane quotidiano se in centovent’anni (di cui 20 con la nostra Onlus) siamo riusciti  a realizzare scuole, ospedali, dispensari, centri per bambini abbandonati e donne vittime di violenza; se abbiamo «vestito gli ignudi, dato da mangiare agli affamati, consolato i prigionieri, dato l’acqua agli assetati, accolto gli stranieri», difeso la vita e l’ambiente, formato leader e quanto altro la creatività dell’amore è stata capace di inventare; se abbiamo fatto nascere  comunità cristiane vivaci e gioiose, costruito cappelle e chiese.

Grazie – Thank you – Asante sana – Ace olen – Akiba – Sobodi  – Matondo – šukran – Merci – Gracias – Obrigado.

Le sfide davanti a noi sono ancora tante, aggravate dalla pandemia,  dal cambiamento climatico e dall’irresponsabile attitudine dei potenti che non hanno occhi né cuore per i più poveri e i più indifesi.
Con il vostro aiuto potremo continuare a essere testimoni e servitori della misericordia di Dio e della tenerezza della nostra Consolata.
In queste pagine vi presentiamo solo alcuni dei progetti in corso. Ogni anno Mco pubblica il suo bilancio sociale sul sito missioniconsolataonlus.it nel quale sono presentati tutti i progetti e i conti relativi al periodo.

Per dare il vostro contributo trovate le informazioni necessarie
cliccando qui.

Vedi 20 Natali di solidarietà sul sito della Onlus



I Missionari della Consolata, che vivono in molte di quelle nazioni, per rispondere alle tante situazioni di difficoltà che il Covid-19 ha determinato, hanno avviato diversi progetti in favore delle fasce più fragili della popolazione.

Quella del Messico è una realtà molto dura per le donne. Padre Ramón Lázaro Esnaola, che da circa due anni lavora a San Antonio Juanacaxtle, stato di Jalisco, ne racconta le difficoltà e i drammi nei resoconti che condivide con confratelli e amici: «In questi mesi ho incontrato persone in situazioni davvero difficili: un’adolescente abbandonata quando aveva due anni alla quale la pandemia ora ha portato via anche la madre adottiva; una giovane donna a cui i cartelli del narcotraffico hanno ucciso il marito e di cui ora non sa nemmeno dove sia il corpo; tante donne, ragazze, bambine che subiscono maltrattamenti e abusi da parte padri, patrigni, compagni occasionali delle madri, parenti. E tante che il marito abbandona per un’altra e che si trovano sole, in condizioni economiche precarie, a crescere figli senza un compagno che le aiuti».

La violenza sulle donne è uno degli aspetti della violenza che permea di sé tutta la società messicana, dove gli omicidi sono 36mila all’anno, 29 ogni 100mila abitanti@. Per avere un metro di paragone, secondo i dati Istat, l’Italia nel 2019 ha avuto 315 omicidi, pari a 0,53 ogni 100mila abitanti@. In un simile contesto, è chiaro che «la violenza in tutte le sue espressioni – sui minori, familiare, di genere, giovanile, istituzionale … – è il nostro pane quotidiano», continua padre Ramón. «Ci sono giorni in cui, di fronte a certe storie, ci si sente davvero sobrepasados, sopraffatti. Poi, però, ci ricordiamo del motivo per cui siamo qui: per stare vicini alle persone, consolare e seminare speranza, e ritroviamo la forza per costruire il Regno».

Per sostenere padre Ramón e i suoi confratelli in Messico nello sforzo di offrire un’alternativa alle donne vittime di traumi, lutti e violenza, gli Amici Missioni Consolata avevano dedicato la mostra di solidarietà e la connessa raccolta fondi dell’8 dicembre 2020 al progetto Promuovi la vita difendi la donna@. Il progetto che padre Ramón ha seguito e realizzato in collaborazione con Mati, un’associazione locale di psicologi, ha avuto un costo di circa 16.498 euro, ha interessato circa 500 famiglie ed è quasi concluso, ma le attività della Casa Hogar Florecitas Madre Naty e di Mati continueranno a raggiungere decine di donne in condizioni di vulnerabilità.

Casa Hogar Florecitas Madre Naty

Acqua e allevamento per la Tanzania

Alla fine del 2020, i missionari della Consolata in Tanzania, in uno dei villaggi dalla missione di Pawaga, nella municipalità di Itudundu, Iringa, hanno realizzato un piccolo impianto idrico che serve 108 famiglie, una scuola e un dispensario. Fondi donati da privati, pari a circa 7.800 euro, hanno permesso di acquistare una pompa alimentata da un impianto fotovoltaico per connettere una fonte d’acqua con quaranta punti di distribuzione nel villaggio, in modo da garantire a tutte le famiglie di potersi procurare l’acqua senza dover percorrere chilometri a piedi. Il contributo degli abitanti del villaggio è consistito in venti giornate di lavoro volontario per installare la pompa e i tubi, montare i pannelli solari e piantumare alberi nel mezzo ettaro di terra che circonda la fonte d’acqua. Ora le oltre 750 persone del villaggio possono contare su un punto di distribuzione di acqua a meno di un chilometro dalla propria abitazione, in più la scuola primaria e il dispensario hanno impianti idrici adeguati.

Un altro progetto è a Kimbiji, nella diocesi di Dar es Salaam, dove, grazie al sostegno di Caritas italiana, si è avviata una piccola attività di allevamento generatrice di reddito per alcuni giovani per i quali la pandemia ha reso ancora più complicato trovare lavoro. La Banca Mondiale riporta che nel 2020 circa mezzo milione di tanzaniani è sceso sotto la soglia di povertà a causa delle restrizioni e delle conseguenze della diffusione del virus@. A Kimbiji, ora, diciassette giovani sono direttamente coinvolti nell’avvio di un allevamento di suini. A beneficiare della formazione fornita nell’ambito del progetto sulle tecniche di allevamento suino saranno fino a sessantacinque persone.

Una banca del sangue a Dianra

Al centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa D’Avorio, è in corso un progetto, sostenuto da un donatore privato e seguito da padre Matteo Pettinari, che si concentra sulla formazione del personale, sul miglioramento dei servizi del dispensario, come il trasporto dei pazienti, e sul sostegno delle attività legate alla salute infantile. Ma la parte del progetto che aggiunge al centro di salute un servizio fondamentale è quella della banca del sangue e delle trasfusioni. Avviata lo scorso settembre – dopo che ad agosto era arrivato il frigo per la conservazione delle sacche di sangue ed era stata completata la necessaria formazione del personale del centro -, la banca del sangue ha un ruolo fondamentale nel contrastare patologie, come l’anemia infantile strettamente legata alla malaria che è endemica nella zona.

Prima di questo intervento, spiegava nel progetto padre Matteo, era necessario andare nei centri trasfusionali più vicini, dai 30 ai 200 km di distanza su strade spesso impraticabili. «Ora, dal 14 settembre, data della prima trasfusione, a oggi», scriveva padre Matteo il 27 ottobre, «abbiamo già utilizzato 50 sacche di sangue: di queste, tre per trasfusioni a donne nel reparto maternità, le altre 47 sono tutte andate a bambini fra 0 e 5 anni».

Trasfusioni nel centr osanitario di Dianra

Progetti ancora aperti

In Mongolia si è concluso l’intervento che mirava a dotare il centro per i bambini di Chingiltei, nella periferia della capitale Ulan Bator, di uno spazio giochi con campo sportivo. Il centro è attivo dal 2017 e offre attività creative, ludiche e sportive, oltre al doposcuola per una trentina di bambini. Ora è pronto per tornare in funzione – la pandemia ne aveva imposto la chiusura – e per farlo deve acquistare materiale scolastico, identificare i bambini in condizioni di maggiore vulnerabilità per offrire loro borse di studio, e stipendiare il personale docente. Connesso con il lavoro del centro c’è anche un programma di sostegno per le famiglie più in difficoltà, alle quali vengono forniti beni di prima necessità.

veduta di Chingiltei, alla periferia della capitale Ulan Bator, Mongolia

Un posto sicuro per studentesse

Inhangoma è una missione che dista circa 30 chilometri da Mutarara, una cittadina di 60mila abitanti nella provincia di Tete, Nord del Mozambico. Ha un centro educativo che comprende una scuola secondaria frequentata da 1.250 alunni fra la ottava e la dodicesima classe. Gli studentati maschile e femminile, dove alloggiano gli allievi provenienti da zone lontane, sono sotto la responsabilità del ministero della Pubblica istruzione, ma la struttura per le studentesse è in uno stato fatiscente. Così, la mancanza di un alloggio sicuro e di condizioni igieniche adeguate scoraggia le ragazze che spesso abbandonano la scuola, in un contesto dove sono pochi gli studenti che arrivano alla fine del ciclo secondario. Il Mozambico ha un tasso di completamento della scuola secondaria inferiore al 24%, venti punti in meno della media dell’Africa subsahariana@.

«Da un po’ di tempo», spiega monsignor Diamantino Guapo Antunes, missionario della Consolata e vescovo di Tete, «la diocesi ha ricevuto la richiesta di farsi carico di questo studentato femminile, a cominciare dal rifacimento del tetto fino alla tinteggiatura dei muri, dalla sostituzione di porte e finestre danneggiate, all’approntamento di servizi igienici adeguati». Questo primo intervento, per il quale monsignor Antunes ha chiesto sostegno a Missioni Consolata Onlus (Mco), ha un costo pari a circa 7.300 euro e offrirà un’ospitalità dignitosa e sicura a 45 ragazze che potranno così continuare i propri studi senza paure.

La scuola di Cantagalo

Una biblioteca per la scuola in terra indigena

La scuola indigena Shiminiyosi si trova nella comunità di Cantagalo nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, stato di Roraima, Amazzonia brasiliana. È nata, come altre scuole indigene, in reazione all’imposizione da parte dello stato brasiliano di un sistema educativo che non tiene in considerazione le peculiarità storiche, linguistiche, ambientali e culturali dei popoli indigeni e tenta di omologarli alla cultura dominante.

Padre Joseph Mugerwa, che si occupa in particolare delle attività della comunità di Cantagalo, dove si trova la scuola, scrive:

«Nel dicembre 1988, le famiglie e le comunità di questa zona decisero, di propria iniziativa, di creare una scuola che fosse anche un luogo di valorizzazione della cultura indigena. Furono le famiglie degli studenti di allora e la comunità stesse, accompagnate dai missionari, che scelsero un luogo adatto e costruirono questa scuola, che oggi accoglie 120 alunni delle elementari. Su richiesta dei leader locali, la scuola è stata riconosciuta e approvata dal decreto del dipartimento dell’Istruzione dello stato di Roraima, ha un corpo docente di sedici insegnanti e il numero di studenti è in continua crescita».

Ma nonostante il riconoscimento ufficiale, la scuola non ha ricevuto alcun sostegno dallo stato per migliorare le proprie strutture. «Le piogge del 2019 hanno distrutto il tetto: con il progetto che presentiamo a Mco, dal costo di 9.749 euro, chiediamo assistenza per sistemare la struttura», precisa padre Joseph, «e per creare una biblioteca per gli studenti».

Lo stato dei bagni della scuola di Cantagalo

Oujda, al servizio dei migranti

Dal novembre 2020 i Missionari della Consolata sono attivi in Marocco, nella città di Oujda a 15 km dal confine con l’Algeria@.

Dal 26 settembre 2021 hanno la responsabilità piena della parrocchia di Saint Louis.

Qui sotto trovate i dettagli di questa nuova avventura missionaria che gli Amici Missioni Consolata vogliono sostenere con le loro iniziative di dicembre, in alternativa a quello che, prima del Covid-19, era la mostra dell’Immacolata.

Chiara Giovetti


 



Aiuto migranti Oujda | per dettagli clicca sul link qui sotto

Missione AMO, quattro ruote per servire

Padre Edwin di fronte alla chiesa di Saint Louis a Oujda

«Quattro ruote per… »

Gli Amici Missioni Consolata (Amc) si impegnano ad aiutare la «Missione Amo» provvedendo un mezzo essenziale per il servizio: un furgone multiuso, un Renault express intens, dal costo pari a 16.500 euro.

Il furgone verrà utilizzato per

  • recuperare i migranti che giungono nella zona malati, affamati ed esausti, e portarli al Centro di accoglienza della parrocchia, ai centri sanitari o al pronto soccorso per le cure necessarie;
  • trasportare e distribuire prodotti alimentari, per l’igiene o di protezione individuale, sia per il fabbisogno del Centro che per individui in necessità in varie parti della città;
  • accompagnare i migranti ai centri di formazione professionale e ogni altro bisogno prevedibile o imprevedibile.

***

È possibile sostenere questo progetto visitando il «Punto missioni Consolata» di fronte al Santuario della Consolata a Torino o inviando offerte per «AMC progetto 4 ruote per servire» utilizzando i dati trovati a questo link.

 

 




Ragazzi dimenticati

Tra i migranti che attraversano il mediterraneo o la rotta balcanica, diversi sono ragazzi soli, minori non accompagnati. Come gli adulti, anche loro hanno un progetto migratorio, un sogno. Fuggiti da contesti pericolosi per la loro vita, viaggiano in cerca di un luogo sicuro in Europa. Ma l’Europa li respinge, e lo fa talvolta con violenza. Quella fisica, e quella psicologica dell’indifferenza istituzionale che li rende invisibili.


testi e foto di Daniele Biella; dossier a cura di Luca Lorusso |


Sommario

Fantasmi in carne e ossa

I minori migranti senza famiglia in cerca di un approdo

Tra i migranti che attraversano il mediterraneo o la rotta balcanica, diversi sono ragazzi soli, minori non accompagnati. Come gli adulti, anche loro hanno un progetto migratorio, un sogno. Fuggiti da contesti pericolosi per la loro vita, viaggiano in cerca di un luogo sicuro in Europa. Ma l’Europa li respinge, e lo fa talvolta con violenza. Quella fisica, e quella psicologica dell’indifferenza istituzionale che li rende invisibili.

«Ogni giorno e ogni notte attraversano i confini degli stati membri dell’Unione europea, premio Nobel per la pace, che continua a chiudere gli occhi di fronte alle violenze che sono costretti a subire». Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children Italia non parla di fantasmi, ma di persone, di minorenni stranieri non accompagnati.

Sono ragazzi soli, che lasciano l’inospitale madrepatria muovendosi, senza documenti validi, per mesi o anni, lungo rotte precarie e malsane. Si fermano ogni tanto per svolgere lavori di fortuna utili a guadagnare il pezzo successivo del viaggio. Magari hanno in testa una meta precisa: Inghilterra, Germania, Belgio, Francia, Olanda, ma il loro futuro è incerto. La loro condizione di migranti e di minori lontani dalla famiglia originaria, li espone alle leggi spesso anacronistiche degli stati che attraversano, e a persone senza scrupoli che lucrano sulle loro speranze.

Un disastro umanitario nero su bianco

Save the Children Italia, che ha come mission la salvaguardia dei minori e delle loro famiglie, ha compiuto di recente un passo importante per far uscire allo scoperto il tema della condizione dei migranti minori non accompagnati, portandolo sui tavoli del potere in Italia e in Europa: ha chiesto a due giornalisti – a chi scrive, e al fotoreporter Alessio Romenzi – di seguire le rotte percorse a piedi dai minori non accompagnati lungo le frontiere Nord dell’Italia, oggi più interessate dalle migrazioni forzate, ovvero quelle di Trieste e Udine in entrata e di Ventimiglia e Oulx/Claviere in uscita. Ad accompagnare i due giornalisti, per quasi due mesi di ricerca sul campo, Antonella Inverno, responsabile infanzia e adolescenza dell’Ong fondata a Londra nel 1919 da Eglantyne Jebb.

Lo scopo? Realizzare un report che mettesse nero su bianco il disastro umanitario in atto nelle strade e dentro i confini d’Europa – dove i riflettori accesi sono pochi -, che avesse come protagonisti i più vulnerabili, i ragazzini soli.

«Nascosti in piena vista» è il titolo del report, uscito il 17 giugno 2021, tre giorni prima della Giornata mondiale del rifugiato e alle porte del Consiglio d’Europa. Una cinquantina di pagine (consultabili e scaricabili dal sito: www.savethechildren.it/storie-di-minori-migranti) con un forte j’accuse verso le istituzioni europee che, appunto, lasciano diventare fantasmi persone che invece hanno diritto a un’accoglienza immediata e a una vita dignitosa.

Nascosti in piena vista

Sono 9.131 i minori stranieri non accompagnati censiti in strutture di accoglienza in Italia a fine agosto 2021 (in forte aumento rispetto al 2020 quando sono stati 7.080 quelli registrati nell’intero anno). Per il 97% sono maschi, l’87% ha 16-17 anni. Le nazionalità più frequenti sono Bangladesh, Tunisia, Egitto, Albania, Pakistan, Costa d’Avorio, Guinea Conakry e Afghanistan. Uno su tre si allontana dalla struttura dopo pochi giorni, con punte del 70% in alcune zone.

Altri dati interessanti emergono dall’analisi sul campo sulle frontiere meno monitorabili, quelle cui arrivano i migranti dalla cosiddetta «rotta balcanica», ossia quelle oggetto del report di Save the Children: i boschi tra Slovenia e Friuli Venezia Giulia, e i valichi e le montagne tra Liguria, Piemonte e Francia (come il «Passo della morte» tra Ventimiglia e Mentone): quasi nessuno si ferma in Italia, che siano minori soli o adulti e famiglie.

Nonostante la possibilità di fare domanda di asilo nel nostro paese, o, nel caso del minore, quella di venire accolto subito in comunità protette (come accade ai minori italiani, possibilità introdotta dalla Legge Zampa n. 47/2017, unica del suo genere in Europa), essi non si fermano, perché il loro progetto migratorio prevede di arrivare dove si trovano i loro famigliari, o comunque un numero maggiore di connazionali.

Tanti ragazzi afghani e pachistani, ad esempio, privilegiano l’Inghilterra o la Germania. Chi proviene dall’Africa subsahariana ed è francofono, vuole andare in Francia. Mentre iracheni e iraniani – nazionalità in crescita lungo le frontiere, anche famiglie con bimbi piccoli al seguito – puntano a diverse zone del Nord Europa.

L’aspetto più sconcertante che la ricerca mette in evidenza è che questi ragazzi in viaggio sono in balia di loro stessi. Se non fosse per il terzo settore (Ong, fondazioni, associazioni di volontariato, cooperative sociali, parrocchie) e per semplici cittadini che li intercettano rendendosi disponibili anche solo a dare loro un pasto caldo, un cambio di vestiti, o suggerire dove trovare un giaciglio per la notte, i rischi per loro aumenterebbero a dismisura.

Muri anacronistici e illegali

Il rifugio di Oulx, gestito dalla Fondazione Talità Kum; il presidio di Ventimiglia, nella sede di Caritas Intemelia, dove operano anche Save the Children, Diaconia Valdese e WeWorld; la postazione mobile della Croce Rossa Italiana a Claviere; i volontari dell’associazione Linea d’Ombra, con le associazioni Ics e StradaSiCura, nella piazza della stazione di Trieste dove i migranti arrivano con piedi e gambe devastati da settimane di cammino lungo la rotta balcanica, dopo privazioni e botte subite dalle forze dell’ordine di confine, soprattutto tra Croazia e Bosnia (si veda La dignità sotto i piedi, MC marzo 2021, ndr.). Ecco alcuni capisaldi di solidarietà in mezzo a un’indifferenza istituzionale che è capace di tramutarsi in un muro anacronistico, se non illegale.

Il muro di cui parliamo non è fatto dalle sole violenze fisiche subite dai migranti lungo alcuni confini d’Europa, come, appunto, quello croato o quello bulgaro, ma anche di atti illegittimi all’interno dei confini dell’Ue: diversi minori incontrati durante la ricerca hanno raccontato, ad esempio, di respingimenti subiti dalla polizia francese senza ricevere alcun documento in merito. Trattati come fantasmi, appunto. Altri si sono visti la propria data di nascita modificata dagli ufficiali di frontiera perché risultassero maggiorenni e quindi espellibili. Ci si chiede il motivo di questo accanimento, ma la risposta non arriva. Save the Children e tanti altri enti chiedono all’Unione europea per quale motivo non adotti leggi comuni per i minori, come per esempio un «lasciapassare» che permetta loro di chiedere aiuto dove si sentono più al sicuro.

I ragazzi migranti, invece, sono costretti a passare notti nei boschi o in mezzo alla neve delle montagne, vengono respinti e costretti a ritentare il passaggio. Nessuno di loro torna indietro. Tentano e ritentano non appena recuperate le forze, finché non ci riescono.

L’immagine è quella di un gioco dell’oca in cui tutti perdono: i migranti in termini di serenità mentale (quanto peserà dentro di loro la sensazione di essere considerati numeri e non persone?), le autorità che spendono milioni di euro in personale e attività di monitoraggio utili solo a tardare l’ineluttabile passaggio di frontiera, l’umanità stessa che vede quanto sia facile vanificare il messaggio ecumenico di papa Francesco sulla fratellanza tra i popoli.

L’ingresso in Italia: la fine del «game»

«Quando sbuchi dai boschi della Slovenia, ti può capitare di vederla all’improvviso. L’Italia. Trieste, il suo mare. La fine della rotta balcanica, il game over di settimane di cammino e mesi di attesa, preoccupazione, paura. Puoi ritrovarti nel paesino di Dolina, lungo la ciclabile della Val Rosandra, a Basovizza, o nella miriade di altri luoghi del Carso da cui puoi immetterti su una strada italiana e da lì proseguire il tuo viaggio migratorio nell’Europa che fa finta di non vederti o, quando ti trova, ti trattiene valutando se e quando può respingerti». Inizia così la parte del report di Save the Children dedicato all’ingresso in territorio italiano dal confine sloveno: in tutto, 232 chilometri impossibili da monitorare. Da qui passa almeno il 50% dei minorenni non accompagnati che transitano sul territorio italiano.

Nei boschi si trovano gli oggetti del passaggio delle persone: pettini, dentifrici, documenti, vestiti. Tutto viene lasciato nel bosco perché ora inizia una nuova vita nella quale si può e si deve lasciare il passato alle spalle.

Mauro Caputo, videomaker che abita proprio dalle parti di Dolina, ha realizzato su questi oggetti un intenso docufilm, No Borders. Flusso di coscienza. Lui, come molte altre persone, tentano di capire le esigenze dei profughi in cammino che arrivano a piedi alla stazione di Trieste, dove cercano di prendere treni per attraversare il Nord Italia.

Violenze impunite

Fino a un anno fa, come raccontano testimoni diretti, anche l’Italia si macchiava delle riammissioni di persone in Slovenia, a volte anche minori che raccontano di non avere avuto la possibilità di dire la propria l’età. Queste riammissioni sono state poi interrotte anche grazie all’opera di pressione legale di Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione.

Ora, chi viene intercettato, per esempio dai militari dell’Operazione strade sicure che pattugliano le vie tra i boschi, viene ospitato in un centro di quarantena, a Trieste come a Udine.

Adulti e minori non accompagnati vanno in strutture diverse tra loro. A gestire le strutture per minori, ci sono enti del privato sociale come la cooperativa Aedis a Udine, Casa dello studente sloveno e Duemilauno agenzia sociale a Trieste.

Dopo il periodo di isolamento, per i minori c’è l’ingresso in una comunità, ma i ragazzi, a questo punto, spesso fuggono per altre destinazioni.

«Voglio diventare informatico in Inghilterra, dove ho un cugino. Mi piacerebbe avere i miei genitori vicini, ma in Afghanistan non si può vivere bene e non è possibile studiare (già prima del ritorno al potere dei talebani, ndr.)», racconta Nadir, 16 anni. «Ai miei fratelli però dico di non fare il viaggio che ho fatto, perché in Bulgaria sono rimasto in prigione tre mesi, sono stato picchiato. Se dici che sei un minorenne, non ascoltano. Quando sono arrabbiati, picchiano e basta».

Testimonianze come la sua si moltiplicano, in particolare su quanto accade lungo il confine croato in ingresso dalla Bosnia. A metà ottobre, un video dell’equipe d’indagine giornalistica Lighthouse Reports ha mostrato scene di violenza ai danni di migranti anche molto giovani.

Svariati appelli all’Unione europea arrivano da più parti, ma finora sono rimasti inefficaci, dato che le autorità croate non hanno fatto nulla di più dell’avvio di una «commissione di monitoraggio» che avrebbe lo scopo di verificare i fatti, più che di processare i responsabili.

Nel frattempo, i «game» («giochi», come vengono chiamati dagli stessi migranti i tentativi di superamento delle frontiere) continuano, e ragazzi e adulti provano il passaggio di confine anche 10-15 volte prima di riuscire.

La psicologa Lorena Fornasir e il marito filosofo, Gian Andrea Franchi, fondatori dell’associazione Linea d’Ombra – a cui Missioni Consolata ha dedicato un reportage nel numero di marzo 2021 – molto attivi alla stazione di Trieste nel medicare le ferite dei migranti procurate dal viaggio, a metà ottobre sono ritornati a Velika Kladusa e Bihac, in Bosnia, dove hanno documentato con foto e racconti le condizioni di bambini, famiglie, adulti, anche in difficoltà psicofisiche, che rischiano la vita per superare la frontiera.

 

Ventimiglia, respingimenti dalla Francia

«Ho una ferita nella gamba di una pallottola che mi ha sparato un poliziotto libico quando sono scappato dal centro di detenzione», ci ha raccontato Gyasi, 17enne ciadiano. Durante l’intervista che gli abbiamo fatto, si trovava davanti alla struttura della Caritas Intemelia a Ventimiglia, di fianco ai binari della stazione ferroviaria da cui partono ogni giorno treni per la Francia.

Quei treni, Gyasi e tanti altri come lui, non li possono prendere, perché, seppure si trovino già sul suolo europeo, per effetto della sospensione dell’accordo di Schengen, non passerebbero al controllo: sono considerati irregolari.

Lui era arrivato un mese prima dalla Libia, dove era stato trattenuto e schiavizzato per venti mesi dalla malavita che sfrutta i migranti, e in quel momento voleva andare a Parigi. La notte prima era stato respinto dalla polizia francese: «Ho detto la mia data di nascita, 2004, quella con cui sono stato registrato allo sbarco in Sicilia. Ma non mi hanno creduto e mi hanno riportato in Italia scrivendo sul refus d’entrée una data che mi fa risultare maggiorenne». Sul suo certificato di nascita, che aveva con sé, era scritta la data del 2004. Ma non è bastato. La notte successiva, Gyasi ha ritentato, e non ha fatto ritorno. Qualche tempo dopo sul suo profilo Facebook ha messo la geolocalizzazione su Parigi: ce l’ha fatta, perlomeno ad arrivare alla meta.

Altri, invece, non ce la fanno, e sono messi a dura prova, rimanendo come «fantasmi» sospesi tra un luogo e l’altro.

A Ventimiglia, del resto, per tutto il 2021 non c’è stato nessun centro di accoglienza temporanea (prima della pandemia anche i minori soli potevano accedere temporaneamente all’hub della Croce Rossa), e questo ha significato una vita complicata all’addiaccio.

Ragazzi soli e allo sbando

Gli arrivi sono giornalieri, così come, del resto, le «ripartenze». Sono svariati, infatti, i modi in cui le persone cercano di passare a Mentone: a piedi via ferrovia o autostrada, o via sentiero, attraverso il temibile Passo della morte, sulla montagna a ridosso del mare. Per il Passo della morte si parte dal paesino di Grimaldi superiore. Lì vive Enzo Barnabà, storico e saggista che ha scritto, nel 2019, assieme a Viviana Trentin, un libro intitolato proprio così: Il Passo della Morte. Storie e immagini di passaggio lungo la frontiera tra Italia e Francia, nel quale narra la storia di questo passaggio attraverso i tentativi dell’ultimo secolo di superare la rete di confine.

I minori che arrivano a Ventimiglia sono reduci sia degli sbarchi in Sicilia sia del viaggio lungo la rotta balcanica. Vi arrivano in proporzioni simili, che variano a seconda del periodo: durante la ricerca erano maggiori gli arrivi dal «game». Ad aprile 2021, per esempio, dei 453 minori non accompagnati passati dal centro Caritas in cui Save the Children ha un Child friendly space (Spazio a misura di bambino), 149 erano stati registrati agli sbarchi. Il resto, 304 ragazzi, erano arrivati nella cittadina ligure dopo essere entrati in Italia in Friuli Venezia Giulia.

È un colpo al cuore incontrarli lungo il fiume Roja, alla periferia Nord della città. Lì vanno di sera per la distribuzione di viveri e per ricaricare i cellulari. Questi servizi sono offerti da attivisti di associazioni italiane e internazionali (per esempio 20K, Medecins du Monde e Kesha Nyia, che ha anche una cucina presidio vicino al punto di confine di Ponte San Luigi).

Li si può incontrare anche sui binari morti della stazione: spesso sono molto stanchi, alcuni in preda all’alcol che, in qualche modo, «lenisce le ferite» di quello che stanno vivendo, incalzati dai trafficanti che, nonostante i controlli, imperversano offrendo modi costosi e sempre più pericolosi per passare il confine.

Questi ragazzini sono davvero allo sbando: la loro presa in carico istituzionale, a livello europeo, ancor prima che italiano, dovrebbe avvenire al momento del primo ingresso in Europa. Invece sono qui, perché al posto dell’accoglienza hanno ricevuto dinieghi, e, in alcune frontiere, percosse.

La speranza supera il Monginevro

«C’è un pullman di linea che parte tutte le sere alle 19.45 da Oulx, operosa cittadina piemontese di montagna a pochi chilometri dal colle del Monginevro, confine tra Italia e Francia. Ogni persona che sale paga i 2,20 euro del biglietto che la porterà in 20 minuti al massimo a Claviere, ultimo centro italiano a quota 1.760 metri, meta sciistica incuneata nella Francia per tre dei suoi quattro lati. Dalla piazza Europa, nomen omen, dopo quattro chilometri di cammino su un piacevole sentiero senza troppo dislivello, si arriva a Mongénevre, territorio francese nel dipartimento Hautes-Alpes. Ma non tutte le persone che salgono sul pullman per Claviere potranno percorrere liberamente quel sentiero. Non ne hanno diritto, dice la Paf, la polizia di frontiera francese: devono chiedere asilo politico in Italia, non in Francia, se vogliono rimanere in Europa». A differenza di Ventimiglia, qui può succedere che un ragazzo minorenne venga respinto e riconsegnato alla polizia italiana senza alcun foglio di via, come se non fosse mai passato di lì. Non gli viene chiesta l’età – perché altrimenti dovrebbe essere preso in carico dalle istituzioni – e non gli viene consegnato nessun refus d’entree così che le associazioni francesi non abbiano prove per fare ricorso contro il respingimento.

Ancora una volta, quindi, ci troviamo di fronte a giovani vite sospese nel mezzo della Fortezza Europa, la quale, seppure sia tutt’altro che inespugnabile (anche in queste montagne, dopo qualche tentativo, si passa, spesso anche perché a fronte di poliziotti transalpini più duri, se ne possono trovare in altre notti di più «solidali») erige muri anche fra gli stati fondatori dell’Unione. E questo non accade solo alle frontiere orientali, dove la reticenza ad accogliere è maggiore, come in Ungheria, Polonia e, appunto, Bulgaria, oltre alla già citata Croazia. Meno male che da queste parti, nell’alta Val Susa, nota per la tenacia della sua gente, l’aiuto non manca: sono tanti i volontari che danno una mano, offrono un pasto o un alloggio, chiedono conto alle autorità (che, a volte, vedi il Comune di Oulx con l’attuale sindaco Andrea Terzolo, si dimostrano attente alle necessità dei profughi e collaborano con la società civile). L’antropologo Piero Gorza, ad esempio, in un momento di emergenza, ha accolto diversi migranti in casa propria. Il parroco don Luigi Chiampo e la fondazione che ha creato, Talità Kum, gestisce una casa rifugio modello a Oulx dove le persone sostano, si rifocillano e si preparano per il viaggio notturno sulle montagne. Proprio qui, nel Rifugio Massi, le persone che capiscono di trovarsi, forse per la prima volta dopo mesi, in un ambiente in cui si riceve rispetto e si può dare fiducia, si aprono e raccontano di sé.

Esemplare la vicenda di Ahmad, 16enne afghano, da tre anni in viaggio, passato attraverso lo sfruttamento lavorativo in Turchia, l’approdo sulle isole greche e la rotta balcanica: il giorno dell’arrivo al rifugio è carico di vita, sente vicina la meta, dato che, una volta in Francia, vuole raggiungere la Germania.

Accade che la notte viene respinto, senza alcun foglio di via. La Croce Rossa italiana, meritevole nel suo servizio da queste parti anche attraverso il progetto Migralp, lo intercetta a lo riporta al rifugio la mattina dopo.

Ahmad ha perso completamente la serenità, è arrabbiato perché molti compagni di strada ce l’hanno fatta, e lui no.

Ci riprova la sera dopo, questa volta il tentativo va a buon fine.

Chissà dove sarà ora. Di lui ci rimangono nella memoria parole d’oro: «Come il diamante diventa forte grazie alla durezza, si può crescere solo grazie alle difficoltà. Ho viaggiato per tanti paesi, ho avuto un percorso difficile per poter arrivare fin qui, però non mi sono mai arreso. Vorrei dire alla mia mamma che le voglio bene, mi manca tanto e andrò a trovarla».

Daniele Biella

Abdel, 19 anni

Pachistano, incontrato a Trieste a maggio 2021, ne aveva 17 all’epoca dei fatti*.

«Siamo scesi dalla montagna in Croazia e abbiamo viaggiato per due giorni e ci siamo seduti, sdraiati tutti, il trafficante ci ha fatto riprendere fiato. Eravamo all’incirca cento persone. Ed è arrivata la polizia. Quindici, venti persone sono scappate e anche il trafficante è stato catturato con noi. Loro prima ci hanno spruzzato lo spray negli occhi. Sai? Lo spray per gli occhi. Poi sono arrivati due furgoni. Ci hanno fatto salire su quelli e ci hanno portati verso la frontiera della Bosnia. Lì c’era un fiume, una specie di fiume, ci hanno portati lì, picchiati molto e hanno bruciato i nostri zaini, ci hanno fatto togliere i vestiti e hanno bruciato anche quelli e ci hanno fatto tornare indietro in mutande.

[…] Poi dopo quindici giorni ci abbiamo riprovato. Abbiamo proseguito, siamo arrivati in Slovenia. Gli sloveni ci hanno presi e tenuti in prigione e da lì ci hanno riportati indietro: gli sloveni ci hanno consegnati ai croati. I croati sono arrivati e ci hanno riportati indietro. E ci hanno portati di nuovo al fiume dove ci hanno fatto ritogliere i vestiti. Tolti i vestiti, ci hanno picchiati, uno ci teneva le braccia e uno le gambe, e ci buttavano nel fiume. L’acqua era fredda, faceva freddo, avevano un bastone nero, era tipo così, e picchiavano con quello uno ad uno e lo buttavano nell’acqua. L’acqua scorreva veloce, tanto che la persona non riusciva ad uscire, e le pietre ci ferivano i piedi
[…]. I poliziotti ci hanno circondati da tutti e quattro i lati. I ragazzi che avevano cercato di scappare li hanno presi e picchiati. Poi ci hanno riportati indietro, dove c’è una montagna molto alta. C’era un “billa” [inteso come un uomo con gli occhi chiari], era il loro capo, era cattivo, era molto violento, ci picchiava, dava calci. Tra loro c’era un brav’uomo, gli diceva di non picchiare, lo diceva in inglese, e l’altro si arrabbiava anche con lui, e lui allora rimaneva zitto. […] Era arrivato un tagliaboschi, stava facendo la legna nei boschi. Il trafficante è andato a chiedergli se poteva andarci a prendere del cibo se gli avessimo dato i soldi. Lui ha preso i soldi e non si sa se lui o qualcun altro ha chiamato la polizia, e la polizia è arrivata. I piedi erano feriti e non siamo riusciti a scappare, avevano i cani. Quando abbiamo riprovato di nuovo a scappare, uno di noi è stato bastonato dalla polizia alla testa ed è morto sul colpo. L’hanno preso e buttato nel fiume, l’hanno buttato nel fiume, la polizia, il suo corpo non l’abbiamo ritrovato neanche noi».

D.B.

* Abel e Nadir, interviste raccolte nel report di Save the Children, Nascosti in piena vista, giugno 2021.

Nadir, 16 anni

Afghano, incontrato a Trieste nel maggio 2021.

«Ho trascorso due mesi in Turchia, sei, sette mesi in Bulgaria, dove sono arrivato a inizio 2021, poi in Moldavia, e quattro mesi in Serbia. Non ho incontrato la polizia croata né la polizia slovena. Non ho avuto problemi di cibo o acqua. Avevamo cibo e cose da bere nelle borse nei boschi. Sono entrato direttamente in Italia. La parte più difficile del viaggio è stata in Bulgaria. Non si comportano bene con i migranti. Non importa se uno ha 15-16 anni, se è un bambino o un adulto, comunque lo portano in prigione e lo picchiano. Non ero stato mai in prigione prima della Bulgaria. Sono rimasto in prigione per tre mesi. Per quindici giorni non ho visto l’aria aperta, il cielo, solo la cella. E poi alla fine mi hanno dato un foglio e mi hanno detto: “Vai!”. Mi hanno chiesto “Quanti anni hai?”, ma non ascoltano niente. Ci hanno picchiato. Non guardano dove ti picchiano: la testa, le gambe, la schiena, gli occhi. Non guardano neanche, picchiano e basta, i migranti e i rifugiati. Dicevano: “Perché sei venuto? Perché sei venuto qui?”. E poi ci picchiavano. […] Eravamo dodici amici, ma non so adesso dove sono gli altri. […] Sai, in Afghanistan, c’è la guerra. Ci sono i talebani, picchiano la gente e la uccidono. La situazione è molto brutta in Afghanistan. Tutti vogliono venire in Europa, vogliono una vita, vogliono studiare, e in Afghanistan non è possibile. Va tutto male là. Ma in Italia le persone sono buone, hanno cura di noi, ci danno tutto. Ho un cugino in Gran Bretagna, a Birmingham. Lui studia lì. A me piace l’informatica. Per imparare l’inglese prima di tutto ho guardato film, ho imparato le parole e poi le frasi. Poi ho iniziato a parlare alle persone in inglese e molto lentamente ho imparato. Ora prima di tutto vorrei studiare e poi trovare un lavoro legato ai miei studi. Mi piacerebbe avere i miei familiari vicino. Tutti desiderano avere il loro papà o la mamma con sé e trascorrere una vita felice. Ma la situazione è critica là. […] Ai miei fratelli direi: “Non venite in questo modo, è troppo pericoloso”. Non lo rifarei, mai nella vita».

D.B.

Famiglie, speranza cercasi

Le condizioni dei giovani genitori e dei loro bambini

Sui confini italiani, accade d’incontrare famiglie con bimbi anche molto piccoli, in fuga da contesti pericolosi. Giovani genitori, pieni di speranza per un futuro migliore, e di amarezza per un presente lacerante, fatto di muri e di botte, di dignità negata.

«Di chi avete paura? Di me e mio figlio?», urla un giovane padre iraniano, con un bimbo in braccio, avvolto in un giaccone più grande di lui. Lo fa puntando lo sguardo verso la montagna, rivolgendosi a due punti neri a lato di un pilone della seggiovia. Lì è già territorio francese.

Quei due punti neri sono poliziotti – della Paf, polizia di frontiera francese – che pattugliano a piedi i sentieri attorno a Claviere.

Oltre alla realtà dei minori soli, c’è quella di centinaia di famiglie con figli, anche molto piccoli, al seguito. Giovani genitori e bambini che passano anni lungo le rotte migratorie in condizioni a dir poco devastanti.

Con un rapido calcolo sulla base delle osservazioni fatte dal vivo a Trieste, Ventimiglia e soprattutto Oulx, Save the Children stima il passaggio di sessanta nuclei familiari al mese, ovvero almeno 240 persone, dato che i figli al seguito sono quasi sempre due o più. Le provenienze sono soprattutto Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, qualcuna dal Nepal e, ancora, ma più di rado rispetto al passato, qualche famiglia siriana. Tutte risolute ad arrivare a destinazione, nonostante le difficoltà: colpisce la loro forza di volontà, la determinazione di portare i loro figli in un luogo dove possano crescere con più speranza rispetto alla patria lasciata alle spalle.

Un rifugio sul confine

Il rifugio Massi a Oulx è un luogo neutro nel quale si incontrano famiglie migranti che riposano qualche ora. Queste famiglie vengono accolte dagli operatori della fondazione Talità Kum e da volontari che si alternano portando scarponi, vestiti, viveri, fermandosi spesso a condividere un po’ di tempo con le persone, riconoscendo loro quella dignità che era stata cancellata dal «game» lungo la rotta balcanica, negli hotspot sulle isole greche, sui gommoni, nei camion e in tutte le altre situazioni di privazioni e violenze che sono costretti a vivere, loro malgrado, molti migranti.

«Le indegne esperienze traumatiche vissute dai bambini in questi viaggi si affiancano a un altro aspetto: spesso sono i figli, soprattutto nella fascia d’età dagli 11 ai 16 anni, a diventare portavoce delle famiglie. Parlano più lingue, sanno usare gli smartphone e la tecnologia, si orientano bene e capiscono al volo chi può essere più utile tra le persone che si trovano davanti. Allo stesso modo, a volte, le autorità sono meno vessatorie nei respingimenti quando hanno davanti dei bambini», spiega il rapporto. «Tutte queste ragioni fanno sì che i bambini siano un elemento strategico per la famiglia, una sorta di salvavita. Come nelle favole settecentesche», specifica Piero Gorza, antropologo e ricercatore di On Borders che vive proprio a Oulx e studia da decenni i flussi migratori.

Solidarietà sulla strada

Il sorriso dei più piccoli dà forza ai più grandi, anche se i più grandi vedono quanto è pesante il fardello dell’esperienza migratoria sulle spalle dei bimbi. Al rifugio, ad esempio, due sorelline afghane giocano a guardie e ladri e raccontano a mamma e papà: «Stiamo giocando al poliziotto che picchia il migrante» (vedi box a pag. 47, ndr.).

Ci vorranno mesi, se non anni, per superare i traumi del viaggio una volta giunti – si spera – a una destinazione sicura.

Tra famiglie che si incontrano e si conoscono lungo il viaggio, succede che scatti la solidarietà: si uniscono, fanno un tratto di viaggio assieme, si aspettano e, in alcuni casi, se per qualche motivo un nucleo viene diviso a una frontiera, si prendono cura di chi ha bisogno.

Questo accade anche per i minori non accompagnati: nel loro viaggiare «soli», spesso percorrono tratti di strada con nuclei familiari ai quali si affezionano e con cui poi rimarranno in contatto.

Anche per la situazione delle famiglie in viaggio, una soluzione dovrebbe essere cercata con un accordo interfrontaliero tra paesi europei, per capire dove i migranti hanno familiari, così da metterli in contatto e garantire un ricongiungimento sicuro, al riparo dai rischi del viaggio e dal traffico di esseri umani.

Daniele Biella

Porta d’Europa, opera di Mimmo Paladino

 

Lampedusa, frontiera Sud

Due giorni nell’Isola. sbarchi e memoria del 3 ottobre 2013

Quarantatrè sbarchi in 48 ore. Adulti, ragazzi, bambini accolti e trasferiti dal molo ai centri di accoglienza. Senza turbare i turisti. Mentre decine di migrant arrivano con piccole barche, a otto anni dal naufragio del 3 ottobre 2013, alcuni sopravvissuti e parenti delle vittime ricordano i loro morti e l’urgenza della ricerca di verità e giustizia.

Se nel Nord Italia il movimento tra frontiere è continuo, altrettanto succede al Sud, dove ogni giorno nuove persone, compresi minori stranieri non accompagnati, sbarcano sulle coste.

Molti ragazzini, proprio come gli adulti, una volta arrivati in Italia in una regione meridionale, prendono la via del Nord. Spesso hanno Ventimiglia come tappa successiva.

La frontiera Sud, il mare di mezzo, il Mediterraneo, vede nelle sue acque centinaia di migranti che provano a raggiungere l’Europa per iniziare da zero una vita con più prospettive. Loro malgrado lo fanno nel modo più pericoloso.

Sbarchi, trasbordi e quarantene

Missioni Consolata ha potuto riscontrare, direttamente a Lampedusa, ben 43 sbarchi in 48 ore, almeno mille persone in tutto nelle sole due giornate del 2 e 3 ottobre 2021. Erano soprattutto «barchini» provenienti dalla Tunisia, ciascuno con una ventina di persone a bordo, ma anche dalla Libia con 50-60 migranti ognuna.

La settimana prima era arrivato un peschereccio con 600 persone. Tra esse, numerosi minori soli, in gran parte, come è logico geograficamente, provenienti dai paesi del Nord Africa e dell’Africa subsahariana.

I ragazzi non accompagnati, quando arrivano, normalmente vengono condotti dal porto di sbarco, il molo Favaloro, all’hotspot. Dato, però, che per legge non potrebbero stare in strutture per adulti, nel giro di pochi giorni vengono portati in Sicilia. Trasferiti su navi di linea, separati dai passeggeri, devono fare 7-10 giorni di quarantena.

Nei due giorni di visita a Lampedusa, abbiamo assistito alle operazioni di salvataggio e poi di trasbordo. Queste venivano effettuate dalle autorità competenti – Guardia costiera, Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia, ministero della Salute per le pratiche mediche – con contingenti tali che, di fatto, creavano una sorta di militarizzazione dell’isola.

Soccorrere ricordando il 3 ottobre 2013

Durante la nostra visita, Lampedusa stava vivendo un boom del turismo: l’estate 2021 è durata fino a fine ottobre, con strutture pressoché piene. I turisti non vedevano alcun migrante. Le persone sbarcate, infatti, venivano portate con pulmini dal porto all’hotspot, senza mettere piede nelle vie cittadine.

Save the Children, Diaconia Valdese, Fcei (Federazione delle chiese evangeliche in Italia) sono presenti agli sbarchi, assieme alle agenzie dell’Onu, Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) e Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni), per controllare la giusta presa in carico dei minori e delle famiglie.

L’alto numero di arrivi sull’isola è coinciso con la commemorazione del naufragio del 3 ottobre 2013, in cui avevano perso la vita 368 persone, in gran parte eritree, al quale era seguito quello dell’11 ottobre, con 268 vittime – di cui 60 bambini – in gran parte siriani.

La commemorazione è stata molto sentita. Il Comitato 3 ottobre ha organizzato eventi per un gran numero di studenti arrivati sull’isola da tutta Europa allo scopo di capire le migrazioni forzate raccontate dalla voce dei protagonisti, compresi diversi dei 47 superstiti e dei familiari delle vittime delle due stragi citate.

Alcuni superstiti, salvati con le loro mani da alcuni pescatori isolani, tra cui Vito Fiorino e Costantino Baratta, insediatisi nel frattempo soprattutto in Germania e Svezia, si sono sposati e hanno avuto figli.

Erano presenti anche madri di giovani tunisini dispersi durante il viaggio, accompagnate dai volontari di Carovane migranti e di altre associazioni che cercano verità e giustizia per le vittime. Dopo otto anni, infatti, non sono ancora state fugate le ombre sui ritardi e sulle omissioni di soccorso delle autorità in quelle circostanze.

Daniele Biella

Famiglia afgana

Zalmai e Jamila, marito e moglie di30 anni, con due bimbe di sei e quattro anni. Incontrati a Oulx a maggio 2021, hanno provato il «game» dieci volte.

«Lasciai l’Afghanistan perché mia moglie era stata promessa a qualcun altro. Lei fuggì con me. Fummo poi minacciati. Arrivammo in Iran, ma quegli uomini riuscivano a mandarmi minacce perché avevano soldi. […] Dalla stazione di polizia mi fecero rimanere e mi presero quattro volte il telefono, i croati. Mi presero i soldi. Mi inflissero tanta sofferenza. Mi picchiarono. Mentre mi stavano respingendo mi chiedevano “maani”, cioè chiedevano soldi, “money”. Ci perquisivano, cercavano soldi e prendevano tutti i soldi che trovavano. Ci trattennero, ci misero una maschera sulla faccia mentre ci espellevano. Presero i soldi da qualunque famiglia che conoscessi. Avevano questi bastoni di plastica: ci colpirono con quelli. In qualunque paese tu dicessi loro che saresti andato, Francia, Germania, ti avrebbero picchiato. Menzionavano un paese e poi ci colpivano. Uno, due, tre… a loro non importava quanto ci picchiassero. Ci sedemmo e basta. Quindi ci diedero un calcio o ci dissero: “Alzati!”, e ci tolsero tutti i vestiti e ci picchiarono. Ci arrestavano sempre. Ecco perché abbiamo così sofferto. Mia moglie era malata, ma era riuscita ad arrivare. Fu colpita dal freddo. Aveva nevicato e il corpo le faceva male ovunque. Era stata arrestata e aveva le sue figlie con lei. Alla fine arrivarono due poliziotti. La trascinarono come un cadavere. Continuavano a trascinarla e a trascinarla. […] Quando partimmo con il gruppo di 35 persone verso la Croazia, la bambina aveva paura della polizia e avrebbe avuto paura ogni volta che la polizia sarebbe comparsa. E l’altro problema è che quando diventa ansiosa, si colpisce, sul muro, sul terreno, su qualsiasi cosa. Si colpisce molto duramente, che sia la testa o altro. Si fa male da sola. Non capisce nulla in quei momenti. Una volta che si riprende, ovvero quando si sente meglio, allora piange da quel momento in poi. Ma il fatto è che rimane a disagio. Si rattrista per 5, 10, 15, o 20 minuti, tutto qui. Abbiamo sofferto lungo la strada e speravamo che tutto il ricordo della sofferenza venisse cancellato rapidamente dalla sua memoria, altrimenti sarebbe rimasto nel suo cervello. Sai, è una bambina e le piace giocare. Così quando si siede con la sorella, assegnano a ciascuno ruoli come “Io sono un rifugiato” e l’altra dice “Io sono la polizia”. Poi si alzano e quella che fa il poliziotto viene colpita dall’altra, si inseguono a vicenda e poi combattono. È così che si ricordano. Quindi, non stanno dimenticando quelle cose. Tutti i ricordi, le cose nella loro mente, quelle cose sono ancora nella loro mente».

D.B.

Con gli occhi dei minorenni

Raccomandazioni di Save the Children all’Unione europea.

Un minore è, prima di tutto e sopra ogni cosa, un minore, e i suoi diritti vanno protetti e promossi indipendentemente da ogni altra circostanza relativa alla sua condizione o status suoi personali o dei suoi genitori, ad esempio l’origine nazionale, etnica o sociale o, ancora, lo status legale.

Il principio di non discriminazione è un valore fondante della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Crc), stella polare in tema di diritti dei minori che, applicandosi a tutti i minori in ogni circostanza, è centrale anche quando si parla di bambine, bambini e adolescenti coinvolti nella migrazione. Come recentemente riconfermato dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’Infanzia, in nessun caso un minore straniero non accompagnato può essere espulso o respinto alla frontiera, in base alle norme di diritto internazionale poste a tutela dei diritti umani, dal diritto umanitario e sui rifugiati, e, in particolare, all’articolo 33 della Convenzione sullo status di rifugiato del 1951 e dall’articolo 3 della Convenzione Onu contro la tortura.

Ciascuno degli stati alla cui frontiera e nel cui territorio arriva un minore, coinvolto più o meno consapevolmente in un percorso migratorio, ha la responsabilità di prendersene cura, in base a una serie di norme vincolanti volte ad assicurarne la protezione e il riconoscimento di uno status legale.

L’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea conferma la centralità del superiore interesse dei minori in tutte le azioni o decisioni che li riguardano intraprese dalle autorità pubbliche o da istituzioni private.

[…] Come è evidente dalla lettura delle testimonianze, di fronte alla mancanza di un sistema di protezione e accoglienza europeo per i minori migranti, all’assenza di procedimenti rapidi e ben funzionanti di ricongiungimento familiare, alla necessità sinora disattesa di riforma del
Regolamento di Dublino e al quasi totale abbandono dell’esperienza della relocation fra stati membri, fatte salve sporadiche e quanto mai limitate iniziative su base volontaria, ai minori e alle loro famiglie non rimangono alternative che affidarsi ai passeur per proseguire nel proprio percorso migratorio attraverso le frontiere interne dell’Unione. Una scelta obbligata che si accompagna alla necessità di essere invisibili, con il rischio di restare intrappolati nelle maglie del traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale o lavorativo e di subire violenze e vessazioni o di esserne testimoni.

In questo quadro, le violazioni dei diritti dei minori migranti continuano a consumarsi all’interno e all’esterno dei confini dell’Ue, con uno specifico allarme per le zone di confine, sia lungo il perimetro delle cosiddette «frontiere esterne» dell’Unione europea, sia in corrispondenza delle frontiere tra stati membri, luoghi di particolare criticità e pericolo per i minori, nonostante l’Allegato VII del Codice Schengen preveda che sia prestata particolare attenzione nei confronti del minore che attraversa la frontiera e che siano adottate particolari modalità nei confronti dei minori accompagnati o non accompagnati.

I minorenni in particolare – come ci ricorda il Comitato sui diritti dell’infanzia – non dovrebbero mai essere respinti verso un paese dove vi siano fondate ragioni di ritenere che essi siano a rischio di danni irreparabili o verso un altro paese dal quale essi potrebbero essere lì respinti, anche in considerazione delle loro esigenze primarie di sopravvivenza e sviluppo, tenuto conto dell’età e del sesso.

[…] Il caso delle frontiere Nord dell’Italia è, per alcuni versi, emblematico del vuoto politico e giuridico lasciato dalle istituzioni dell’Unione europea e dagli stessi stati membri in tema di movimenti migratori: prassi delle forze di polizia impegnate nella gestione dei confini diverse da territorio a territorio, mancanza di un coordinamento locale e tra i territori dove insistono le diverse frontiere, mancanza di un’indicazione strategica che tenga conto della necessità di gestire i flussi in arrivo dalle diverse frontiere – Sud e Nord – e di distribuire l’accoglienza sull’intero territorio, assenza di mediatori che possano veicolare informazioni ai valichi di frontiera, le principali criticità riscontrate.

Di fronte alla situazione attuale serve guardare alle politiche europee, compresa la riforma degli atti legislativi nell’ambito del Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo emanato a settembre 2020, e a quelle nazionali, con gli occhi dei minorenni che ogni giorno provano ad attraversare i nostri confini.

Save the Children Italia




Welcome to El Paso

testo di Paolo Moiola |


Sorta nel deserto, El Paso è ulteriore dimostrazione che l’immigrazione non può essere fermata da un muro. Per questo, nella città texana, operano varie organizzazioni cattoliche d’aiuto ai migranti. «Benvenuti a El Paso» è la nuova tappa del nostro cammino lungo la frontiera tra Stati Uniti e Messico.

Capita spesso di sentire parlare di El Paso e Ciudad Juárez come di città gemelle. In realtà, lo sono soltanto in quanto si dividono uno stesso spazio geografico: il deserto di Chihuahua, la catena dei monti Franklin e il Rio Grande (o Rio Bravo). Per il resto, le due città sono diverse in tutto.

La prima è una città texana di 700mila abitanti al confine con il New Mexico. La seconda, capitale dello stato messicano di Chihuahua, è famosa nel mondo per essere la città dei femminicidi e delle maquiladoras (fabbriche straniere con manodopera locale ed esenzioni fiscali).

Unite da quattro ponti – Bridge of the Americas, Ysleta-Zaragoza International Bridge, Paso del Norte Bridge e Stanton Street Bridge – che scavalcano il Rio Grande e un’autostrada, El Paso e Ciudad Juárez sono separate da barriere (fences) costruite nel 2008 per frenare l’immigrazione illegale e i traffici illeciti. Queste barriere sono state, in parte, sostituite o rinforzate dal muro di Trump, la cui costruzione è stata oggi bloccata dal nuovo presidente Joe Biden.

Vecchio o nuovo muro che sia, come quasi sempre accade, niente riesce però a fermare il flusso di migranti. Per esempio, a giugno, soltanto nel settore di El Paso, gli agenti di frontiera Usa hanno intercettato 21.500 migranti. In dieci mesi (da ottobre 2020 a luglio 2021), sul confine Sud le autorità statunitensi hanno fermato un milione e 332mila migranti. Un numero effettivamente enorme, ma di questi ben 850mila sono stati immediatamente espulsi (dati Customs and border protection, Cbp, del 4 agosto 2021).

Una panoramica dal Ranger Peak di El Paso e Ciudad Juárez che evidenzia il paesaggio desertico in cui sorgono le due città. Foto Nick Amoscato.

Chi aiuta i migranti

A El Paso e in altre città texane di confine lavorano varie organizzazioni cattoliche. Le due più grandi sono «Annunciation House» e «Catholic Charities of the Rio Grande Valley» (a San Juan e Browsville).

La prima, fondata nel 1978, si occupa principalmente di migranti ed è diretta da padre Ruben Garcia. La seconda, con uno spettro d’intervento più generale, è diretta da suor Norma Pimentel, figlia di messicani (nel 2020, eletta da Time tra le cento persone più influenti al mondo).

A queste organizzazioni d’aiuto immediato, dal 1987 la diocesi di El Paso affianca un ufficio di consulenza legale per i migranti («Diocesan migrant and refugee services», Dmrs). Inoltre, il «Hope border institute» (Instituto fronterizo esperanza), partendo dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica, svolge un lavoro di studio e ricerca «per costruire giustizia e approfondire la solidarietà attraverso le terre di confine».

Nel suo ultimo rapporto, l’istituto è molto duro nei confronti del nuovo presidente. Visto che la vicepresidente Kamala Harris aveva dichiarato di essere «impegnati a garantire che il nostro sistema di immigrazione sia ordinato e umano», allo studio è stato dato un titolo esattamente opposto: Disorderly and inhumane, disordinato e disumano (giugno 2021).

«L’amministrazione Biden – vi si legge tra l’altro – continua a impedire alle persone in fuga da persecuzioni di accedere al sistema di asilo degli Stati Uniti e continua a espellere migranti e richiedenti asilo che attraversano il confine».

In effetti, finora l’amministrazione Biden ha respinto oltre il 70 per cento dei migranti, soprattutto sulla base del cosiddetto «Title 42», reso operativo da Trump a inizio pandemia (21 marzo 2020). Il titolo 42 è una norma del Codice di sanità pubblica degli Stati Uniti, risalente al 1944, che consente l’immediata (cioè nell’arco di poche ore) espulsione di una persona per questioni sanitarie. Questa norma ha preso il sopravvento sul «Title 8» del Codice federale sulla migrazione (Aliens and nationality), una norma ben più complessa e soprattutto più garantista, in particolare nei confronti dei richiedenti asilo (asylum seekers).

Border Patrol Agents (BPA) assigned to El Paso Sector, El Paso Station (EPT/EPS) apprehended a group of approximately 127 illegal aliens.

Le suore di Chapparal

A El Paso, attorno alle principali organizzazioni d’aiuto, ne ruotano altre più piccole, ma egualmente significative. Una di esse è quella delle suore dell’Assunzione (Assumption sisters) di Chapparal, piccola comunità rurale sul confine tra New Mexico e Texas, a circa 30 chilometri da El Paso.

Contattata via web, ci risponde suor Anne Salaun. «Siamo una comunità internazionale di quattro suore – spiega la religiosa -. Assieme a me, ci sono suor Chabela, Maria Teresa e Nha Trang».

Suor Norma Pimentel, direttrice di «Catholic Charities of the Rio Grande Valley». Foto Mose Buchele / Kut / Npr.

«Nella comunità di Chapparal la maggioranza della popolazione è di origine ispanica. Si tratta soprattutto di famiglie emigrate dal Messico con figli nati qui. Noi facciamo il nostro ministero tra loro. Da un paio d’anni lavoriamo però anche sull’emergenza derivante dai nuovi arrivi, sempre in collaborazione con le organizzazioni di El Paso, in particolare con Annunciation house. Portiamo i pasti in uno dei loro centri e diamo una mano in un altro».

Le suore collaborano anche con l’Hope border institute». «Gli Stati Uniti – ricorda suor Anne – sono un paese d’immigrazione che, nel corso della sua storia, ha accolto diverse ondate di immigrati. Oggi però il sistema vigente è diventato inadeguato. Occorrerebbe fornire percorsi legali per entrare e per ottenere la cittadinanza. Detto questo, allo stesso tempo, devono essere affrontate nei paesi di origine dei migranti le cause profonde dell’immigrazione».

Dopo aver sperimentato la «tolleranza zero» di Donald Trump, suor Anne non boccia Joe Biden: «La situazione è un po’ migliorata, ma c’è spazio per ulteriori miglioramenti».

«Per esempio?», le chiediamo. «Il fatto che il confine sia ancora chiuso, è un incentivo per i trafficanti che depredano i migranti. La riforma delle nostre leggi sull’immigrazione e l’apertura delle frontiere è il modo migliore per combattere lo sfruttamento umano sopprimendo la necessità del contrabbando».

Padre Ruben Garcia, direttore di «Annunciation House». Foto The Texas Observer.

Suor Anne si riferisce allo smuggling di esseri umani (in spagnolo, coyotaje, da cui il termine coyote, trafficante di persone), un fenomeno diventato normalità che genera un giro di denaro inferiore soltanto a quello della droga e che, soprattutto, produce drammi umani. Come avvenuto lo scorso 30 giugno, quando gli ufficiali della Border patrol di El Paso hanno scovato 35 migranti – provenienti da Guatemala (in maggioranza), Messico, Ecuador, Nicaragua e Honduras – nascosti in una casa. Dramma nel dramma, tutti e 35 sono stati immediatamente rispediti fuori dai confini statunitensi in base al citato Title 42.

A suor Anne facciamo presente che paura e cattiva informazione non aiutano a comprendere la complessità del fenomeno migratorio. «È proprio per questo – risponde – che abbiamo bisogno di educazione: per aprire le nostre menti e i nostri cuori ai benefici e alle benedizioni che i nuovi arrivati portano con sé. Ricordiamoci che la migrazione fa parte del tessuto della storia umana. Quindi, è meglio coglierne i benefici piuttosto che combatterla».

Così la pensa suor Anne. Tuttavia, in Texas come negli Stati Uniti e nel mondo, la questione migratoria divide la società in maniera netta e apparentemente inconciliabile.

Tre delle quattro suore della comunità di Chapparal in un centro d’accoglienza di El Paso. Foto Assumption sisters – Chapparal.

Fermare «l’invasione» (a ogni costo)

Don Huffines, ex rappresentante repubblicano nel senato del Texas, che si definisce «100 per 100 pro-life», è candidato alla carica di governatore dello stato nelle elezioni del novembre 2022.

Nel suo programma ultra conservatore, un posto di rilievo è occupato dal tema dei migranti.

Su questo gli argomenti per raccogliere consensi elettorali sono sempre gli stessi. Per esempio, quello dei soldi: «I texani stanno attualmente pagando miliardi [di dollari] ogni anno per alloggio, scuola e assistenza medica in favore di stranieri illegali».

Huffines promette che, se eletto governatore dello stato, fermerà l’«invasione» a ogni costo, schierando tutte le forze della Guardia nazionale del Texas, completando il muro di Trump, attuando misure di pressione economica sul Messico, rendendo impossibile l’assunzione di migranti illegali sui posti di lavoro.

A quanto pare il programma di Huffines non contempla un «Benvenuti in Texas».

Paolo Moiola

A demonstrator holds up placards to protest against MPP (Migrant Protection Protocols), outside of U.S. Customs and Border Protection building in Brownsville, Texas, U.S., January 12, 2020. REUTERS/Go Nakamura

Le suore di Chapparal effettuano una distribuzione di alimenti. Foto Assumption sisters – Chapparal.

Il ponte delle Americhe, uno dei quattro che unisce El Paso (Usa) con Ciudad Juárez (Messico); si confronti la fila di auto in entrata e quella in uscita. Foto James Tourtellotte.

QUESTA SERIE:

«L’uragano migranti (e la frontiera liquida)», MC, giugno 2021;
«Bienvenidos a Tijuana», MC, luglio 2021.