Torino. Il progetto Migrantour. «Oggi vi accompagniamo noi»


A Torino, migranti di diversi paesi sono diventati «accompagnatori interculturali» nella città che li ha accolti. Gli obiettivi sono importanti: promuovere la coesione sociale e la convivenza, valorizzare il pluralismo culturale e il dialogo interreligioso. Il successo del progetto è stato tale che oggi viene proposto in altre città italiane ed europee.

«L’altro giorno stavo andando a fare la spesa a Porta Palazzo, quando all’angolo tra piazza della Repubblica e via Milano mi sono imbattuto in una comitiva di turisti. Francesi? No. Tedeschi? Nemmeno. Americani? Neanche. Giapponesi? Neppure. Si trattava di turisti ancora più esotici. Italiani.  Lì per lì, a dire il vero, mi è sembrato quasi normale, anche se appena una decina di anni fa la cosa sarebbe stata inimmaginabile. Così ho tirato dritto. Poi però, con la coda dell’occhio, ho intravisto qualcosa che mi ha fatto dapprima rallentare e infine fermare. Mi sono voltato. Ho guardato meglio. Sì, non c’erano dubbi. La guida che stava illustrando le meraviglie di Porta Palazzo alla comitiva di connazionali era una ragazza nordafricana con tanto di chador, che tra l’altro si esprimeva usando un italiano perfetto».

La «Tettoia dell’orologio», a Torino, passeggiata interculturale di Migrantour «Il giro del mondo in una piazza: Porta Palazzo». Foto Viaggi solidali.

Itinerari urbani: Torino e le altre

Quello che avete appena letto è un estratto di un articolo dello scrittore torinese Giuseppe Culicchia che, forse inconsapevolmente, qualche anno fa poté osservare l’esito di un lungo lavoro iniziato a Torino nel 2009.

Gli itinerari urbani ideati dagli «accompagnatori interculturali» della rete Migrantour sono oggi una realtà quotidiana, non solo nel capoluogo piemontese, ma anche in moltissime altre città italiane ed europee, nonché da un paio d’anni in alcuni piccoli borghi e località rurali e montane.

Si tratta di passeggiate di un paio d’ore, in cui persone che hanno vissuto a livello personale o familiare l’esperienza della migrazione accompagnano concittadini, studenti e turisti alla scoperta dei quartieri mostrando come le migrazioni abbiano trasformato la città nel corso del tempo, arricchendone il patrimonio culturale tangibile e intangibile. Si cammina insieme per vie e piazze, si attraversano mercati, si entra in luoghi di culto, si osserva il tessuto urbanistico e architettonico da prospettive inusuali.

Al centro di tutto vi è la dimensione dell’incontro, del dialogo, del confronto capace di lasciare la traccia di un’esperienza significativa nei ricordi di chi partecipa alle passeggiate Migrantour.

Nascita ed espansione della rete

Il progetto Migrantour è stato ideato e sperimentato inizialmente dalla cooperativa Viaggi solidali, tour operator attivo nel campo del turismo responsabile e socio fondatore dell’«Associazione italiana turismo responsabile» (Aitr) che, nel 2009-2010, a Torino, realizzò il primo corso per «accompagnatori interculturali», rivolto a venti migranti di prima e seconda generazione residenti in città.

A partire da quel progetto pilota, Fondazione Acra e Oxfam Italia diedero poi il loro fondamentale contributo ottenendo, nel 2013-2015, il primo finanziamento dalla Commissione europea per consolidare l’iniziativa in Italia ed estenderla ad altri paesi (Francia, Spagna e Portogallo).

Nacque così un network costituito da nove città che includeva, oltre a Torino, anche Milano, Genova, Firenze, Roma, Marsiglia, Parigi e Valencia, con partner locali incaricati di realizzare le attività in ogni città. Una seconda, importante fase di sviluppo dell’iniziativa si ebbe poi nel 2018-2019, grazie a due nuove progettualità: l’Asylum migration and integration fund (Amif) della Commissione europea e l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics) permisero in quegli anni l’ingresso nella rete di altre città italiane (Bologna, Napoli, Catania, Cagliari e Pavia) ed europee (Bruxelles in Belgio e Lubiana in Slovenia) e soprattutto di organizzare delle specifiche attività per coinvolgere nell’iniziativa richiedenti asilo e rifugiati.

Nel corso degli anni successivi, la rete Migrantour ha continuato ad ampliarsi (aggregando le città di Parma e Bergamo).  Anche nel terribile 2020, segnato dalla pandemia, la rete ha dato vita a due programmi di scambio «Erasmus+» che le hanno permesso di estendere il progetto ad altre città (Barcellona in Spagna, Copenaghen in Danimarca, Utrecht nei Paesi Bassi) e, per la prima volta, in una serie di aree non urbane: Borgata Paraloup in Piemonte, Camini in Calabria, e altre località rurali in Slovenia, Grecia e Bulgaria. Oggi Migrantour è, dunque, una rete molto ampia, coordinata da Fondazione Acra e Viaggi solidali, ma sempre aperta ad accogliere nuovi partner e avviare nuove collaborazioni.

Mirela (Romania), accompagnatrice interculturale, la «Tettoia dei contadini», passeggiata «Il giro del mondo in una piazza: Porta Palazzo». Foto Viaggi solidali.

La formazione

Come funziona concretamente l’ideazione degli itinerari interculturali di Migrantour? Tutto comincia con un percorso formativo partecipato, offerto – sempre gratuitamente – a un gruppo di cittadini con background migratorio in seguito all’apertura di una call pubblica.

Il gruppo in formazione si impegna, dunque, per alcuni mesi in un lavoro fatto di momenti di approfondimenti sulla storia delle migrazioni, sul patrimonio culturale, sul turismo responsabile. Soprattutto cerca di sviluppare, attraverso lo scambio e la condivisione delle conoscenze tra i partecipanti (cui i formatori forniscono strumenti utili per l’identificazione e la restituzione dei contenuti delle passeggiate): le tecniche di narrazione autobiografica e di storytelling, la realizzazione di brevi ricerche di campo di tipo etnografico, attraverso la pratica dell’osservazione partecipante, la raccolta di interviste e la produzione di documentazione visuale, la produzione di mappe mentali ed emozionali del territorio urbano.

Le accompagnatrici e gli accompagnatori interculturali divengono così, giorno dopo giorno, una «comunità di pratiche», che si fa gradualmente anche «comunità patrimoniale», nella misura in cui si impegna nel salvaguardare e trasmettere un patrimonio interculturale ritenuto rilevante per promuovere la coesione sociale, la valorizzazione del pluralismo culturale e del dialogo interreligioso.

I risultati

Considerata l’ormai lunga durata di questa iniziativa e l’ampiezza della rete delle città coinvolte, può essere interessante domandarsi quali siano i risultati tangibili ottenuti finora dal progetto.

A tal proposito, negli anni 2018-2019, l’International research centre on global citizenship education dell’Università di Bologna ha realizzato uno studio per valutare l’impatto del progetto Migrantour prendendo a campione le città di Torino, Bologna, Napoli e Cagliari.

Dal report finale emergono due cambiamenti rilevanti: i partecipanti alle passeggiate interculturali Migrantour cambiano le proprie percezioni sul fenomeno migratorio in termini di sicurezza e di contributo allo sviluppo della società rivalutando i quartieri in cui si svolgono le passeggiate; le accompagnatrici e accompagnatori interculturali migliorano la percezione del sé, rafforzandosi e affrancandosi attraverso il lavoro e trovando una modalità di realizzazione personale.

Nel report si legge ancora: «Da un’iniziale motivazione personale, legata alla possibilità di trovare un impiego, di mettere in pratica alcuni temi studiati all’università, o di migliorare l’italiano, per molti partecipare a Migrantour diventa qualcosa di più importante di un semplice lavoro o dello studio. Può favorire una più effettiva integrazione e contribuire alla preparazione di una nuova generazione alla convivenza multiculturale».

In effetti l’impatto più significativo, ancora oggi nel 2023, riguarda – a nostro avviso – proprio le accompagnatrici e accompagnatori interculturali. Lasciamo, dunque, la parola alle protagoniste e ai protagonisti di Migrantour.

La chiesa dei Santi Pietro e Paolo, San Salvario (Torino), passeggiata interculturale «United colors of San Salvario». Foto Ornella Orlandini.

Cosa dicono

«L’impatto su di me – spiega Romina – è assolutamente positivo perché ho modo di confrontarmi, conoscere, capire, sentire altre storie di migrazioni. Lavorare a fianco di altri migranti mi dà un senso di appartenenza, mi sento capita, senza dovermi giustificare o spiegare, ma semplicemente raccontandomi in maniera naturale e spontanea direi».

Adriana: «Per me fare l’accompagnatrice interculturale è un privilegio perché è uno spazio in cui puoi autoraccontarti, autodefinirti, al di là di quello che le altre persone possono pensare di te semplicemente sapendo che sei nata in Colombia oppure che vivi a Barriera di Milano, come nel mio caso. Ti permette di raccontare come vedi e come vivi la città in uno spazio protetto e in generale di non giudizio».

Migrantour appare, dunque, come uno spazio in cui potersi confrontare liberamente e senza barriere. Un luogo in cui le storie personali o familiari di migrazione s’intrecciano e le narrazioni trovano spunti di riflessioni e linguaggi comuni. È significativa la consapevolezza del potere di rappresentazione tanto più in un contesto dove prevale nella comunicazione pubblica un punto di vista esterno (giornalisti, esperti, ricercatori, politici). Gli itinerari interculturali, al contrario, si fondano su uno sguardo interno, quello di chi ha vissuto personalmente l’esperienza della migrazione e sceglie di voler connettere la propria storia individuale con quella collettiva di altri migranti e della città.

Come abbiamo visto introducendo le modalità del percorso formativo, Migrantour è un luogo di scambio reciproco in cui costruire una comunità di pratiche. La costruzione degli itinerari è il risultato di un percorso partecipativo. Esso prevede uno scambio di competenze: si condivide, si insegna, si impara e si trasmette non solo quanto si sa personalmente ma anche i saperi degli altri partecipanti per costruire un dialogo autenticamente interculturale, capace di restituire la complessità degli scambi tra culture che, quotidianamente, avvengono nei quartieri dove si svolgono le passeggiate.

Come ricorda Mirela: «Essere accompagnatrice interculturale vuol dire anche essere parte di una grande famiglia dove ognuno di noi ha l’occasione sia di imparare sia di insegnare qualcosa agli altri. Questo senso di appartenenza fa bene a tutti, ci fa stare bene, ci fa voler portare avanti questo progetto».

Il sentirsi parte di una comunità rappresenta anche un’opportunità di emancipazione e di partecipazione alla società civile, nel rivendicare il proprio contributo nei processi di trasformazione della società.

«Diventare – spiega Monica –  un’accompagnatrice interculturale ha significato una grande svolta per la mia vita: quella dell’emancipazione come persona e come cittadina perché sono uscita da quella emarginazione nella quale mi ero lasciata collocare come immigrata. Avevo assunto su di me i pregiudizi sull’immigrazione e, soprattutto, i pregiudizi sulla mia comunità di appartenenza, quella rumena, vergognandomene purtroppo. Grazie a Migrantour ho capito e visto la ricchezza culturale che mi porto dentro e che posso condividere con gli altri. Ho cambiato prospettiva nel guardare me stessa, la mia comunità e le migrazioni in generale. Ora sono diventata consapevole delle mie molteplici identità, della bellezza del mondo che emigra e sento la necessità di ripagare Torino, questa bellissima città che mi ha accolta, diventando una cittadina attiva che si prende cura del proprio luogo del cuore».

Noi e la città

Un elemento che accomuna le accompagnatrici e gli accompagnatori interculturali è il rapporto che, man mano, si costruisce e rafforza con la città. Una città fatta di persone e storie con cui entrare in contatto, in cui si ha un ruolo per fare qualcosa per gli altri (Mirela), in cui sentirsi cittadine attive e sempre più torinesi (Adriana, Monica e Romina), in cui sentirsi a casa (Hassan).

Si sviluppa un senso di responsabilità, che sprona a formarsi di continuo, per inserire le proprie narrazioni nel quadro più ampio di una città in continua trasformazione grazie all’incontro tra culture e per restituire un discorso non stereotipato sulle migrazioni. In altre parole, un senso di responsabilità per aprire luoghi, relazioni, significati, possibilità, per rigenerare e costruire comunità.

Rosina (Italia-Perù), coordinatrice e accompagnatrice interculturale, passeggiata interculturale «Borgo San Paolo sin fronteras» per il progetto Detour, promosso da Fondazione Merz. Foto Matteo Montenegro.

«Città chiusa» versus «città aperta»

È proprio su questo impegno che, in conclusione, vorremmo richiamare l’attenzione: aprire la città. Potremmo riassumere così, in estrema sintesi, l’orizzonte ideale del progetto Migrantour.

Come ha giustamente indicato il sociologo americano Richard Sennett, una delle più cruciali sfide politiche della nostra contemporaneità è quella tra i fautori della «città chiusa», segregata, segmentata e sottoposta a un regime di controllo antidemocratico, e coloro che, invece, sostengono la possibilità di una «città aperta», che presuppone un diverso modo di pensare e abitare lo spazio urbano.

Una città «storta e sbilenca», scrive Sennett nel suo libro Costruire e abitare. Etica per la città (2018), una città diversa e molteplice, che riconosce di contenere al suo interno «ineguaglianze accecanti».

Per «aprire la città» e renderla maggiormente «accessibile», ciascun cittadino è chiamato dunque a «praticare un certo tipo di modestia: vivere uno tra molti, coinvolto in un mondo che non rispecchia soltanto se stesso», e in cui a contare è «la ricchezza di significati anziché la chiarezza di significato».

Rosina I. Chiurazzi Morales
e Francesco Vietti


Gli autori

  • Rosina Irene Chiurazzi Morales, torinese per nascita ma con origini peruviane. Ha sempre mantenuto un forte legame con la terra d’origine, anche in campo professionale partecipando a progetti di ricerche archeologiche in Perù. Dal 2014 al 2019 ha coordinato le attività sul campo della «Missione Etnologica» in Ecuador del Cesmap di Pinerolo e dell’Università di Torino. Dal 2009 collabora con Viaggi solidali al progetto Migrantour, come accompagnatrice interculturale e come coordinatrice per Torino e per la rete europea.
  • Francesco Vietti, antropologo, insegna all’Università di Torino. Ha svolto ricerche sul nesso tra mobilità e patrimonio culturale nell’Europa Orientale e nel Mediterraneo. In Italia, collabora da molti anni con istituzioni e soggetti del terzo settore in progetti per la coesione sociale e il dialogo interculturale. Dal 2009 collabora al coordinamento scientifico della rete europea Migrantour. Pubblicazioni: Il paese delle badanti (Meltemi 2010), Hotel Albania. Viaggi, migrazioni, turismo (Carocci 2012), Etnografia delle migrazioni (con C. Capello e P. Cingolani, Carocci 2014).

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Accade nelle Langhe: Le vigne del riscatto


Colline, vigneti, borghi, panorami, cantine. Dal 2014, le Langhe sono patrimonio  dell’Unesco. Sono bellezza, lavoro, denaro, fama. Nel caso (unico) dell’«Accademia della vigna», nata esattamente un anno fa, possono significare anche buone pratiche e sostenibilità sociale, riscatto e integrazione.

Il giovane Ousmane viene dalla Guinea Conakry. Ha trovato finalmente un lavoro stabile, e ogni mattina inforca la sua bicicletta e raggiunge l’azienda agricola Mirafiore, dove è stato assunto in qualità di operaio di vigna.

Non ha una storia semplice l’operaio Ousmane, arrivato in Italia su un barcone nel 2017 e ancora richiedente asilo, finito in Francia, passato attraverso varie forme di lavoro sfruttato e poi giunto nelle Langhe dove sta costruendo il suo futuro. «Senza lavoro, non c’è libertà», dice.

Il progetto «Accademia della vigna» si pone dentro questo angolo di mondo, come proposta in grado di valorizzare la dimensione sociale del vino.

L’iniziativa, coordinata dall’impresa sociale We.Co. e promossa con il «Consorzio di tutela Barolo Barbaresco», è attiva da ormai un anno grazie alla collaborazione con diversi enti del territorio (imprese, istituzioni, terzo settore, scuole, sindacati, cittadini). Rappresenta la prima academy a impatto sociale sulla viticoltura: un sistema che facilita il reperimento di nuovi operai formati sulla conduzione del vigneto, tramite un percorso che alterna la formazione con il lavoro in vigna.

Accademia della vigna, formazione sul campo, posizionamento e rinforzo dei pali delle vigne (marzo 2023). Foto Piero Battisti.

Emersione e dignità

Accademia della vigna, formazione sul campo, prime potature (aprile 2023).. Foto Piero Battisti.

Dieci assunzioni regolari, dieci contratti, dieci emersioni dal lavoro irregolare, spesso sfruttato.

Questo è il risultato ottenuto dall’«Accademia della vigna», la prima del settore vitivinicolo italiano. Nata nel settembre 2022, essa si occupa di inserimento di manodopera nelle più prestigiose aziende dell’albese, territorio baciato da Dio dove il lavoro ha trasformato la «malora» raccontata nel 1954 da Beppe Fenoglio in una miniera d’oro a cielo aperto, patrimonio Unesco dal 2014.
È una bella storia, fatta di riscatto e integrazione, ma non solo. Chiunque tenti di limitare il lato oscuro dell’economia attuale è spinto a vedere da vicino, a vivere quasi, gli aspetti che si vorrebbero cambiare o mitigare: è un processo faticoso perché porta a diventare parte di un meccanismo che appare monolitico.

Un (piccolo) esempio per un nuovo inizio

Gli uomini che giungono all’Accademia, in gran parte africani, ma non mancano gli italiani, spesso sono stati vittime di varie forme di caporalato. Grazie a una complessa rete di istituzioni locali, aziende illuminate, il Consorzio di tutela del Barolo e tantissimo lavoro, riescono a trovare un nuovo inizio.

È il cosiddetto «diritto all’aspirazione», teorizzato dall’antropologo Arjun Appadurai, un diritto che spinge tanti a migrare e a esporsi a molti rischi, tra i quali quello di venire sfruttati. Come se l’integrazione dovesse passare prima attraverso delle forche caudine a cui non ci si può sottrarre: tutte le migrazioni hanno questa caratteristica quale parte di un processo doloroso.

Dieci assunzioni sono un grande risultato per l’Accademia della vigna, ma rimangono una goccia nel mare.

Quando sei di fronte a questo fenomeno lillipuziano la questione diventa molto più complessa. In un tempo in cui la denuncia delle ingiustizie è depotenziata dall’assuefazione, raccontare un fatto, una situazione esemplare è lo strumento che rompe lo schema e mostra un’altra realtà possibile, nell’ambito di un ecosistema umano ed economico complicato. Dove non c’è esempio da indicare, e c’è solo denuncia, la realtà rimane immobile.

Alberto Grasso, responsabile agronomo della azienda agricola Mirafiore, tiene una lezione di formazione teorica a un gruppo di giovani africani. Foto Piero Battisti.

Frontiere

Accademia della vigna, formazione sul campo (aprile 2023). Foto Piero Battisti.

Le vigne sono bellissime. Le colline appaiono ricamate dai lunghi filari che in ogni stagione portano un colore diverso: il verde intenso della primavera, il bianco innevato dell’inverno e il rosso acceso del periodo della vendemmia. Tanta bellezza, tanto lavoro, tanta fatica.

Siamo abituati al racconto delle frontiere esterne, che spesso raggiungono il (dis)onore della cronaca per la violenza che le caratterizza.

Siano esse nel mare Mediterraneo o lungo la rotta dei Balcani, il loro scopo è quello di selezionare gli esseri umani che vogliono migrare: di fatto ormai entrano solo coloro che possono pagare profumatamente un trafficante. È la «nostra» guerra, che combattiamo con ampio uso di strumenti bellici e milizie.

Ma una volta che i migranti riescono a entrare in Italia, il loro viaggio continua fino a raggiungere le frontiere interne: quelle della burocrazia malata e del lavoro irregolare, in primis.

Per questo una vigna, come una catena di montaggio, può essere una frontiera, e basta un attimo per essere nuovamente fuori. Dentro un sistema di legalità o fuori, dentro un contratto che ti dà la possibilità di affittare una casa, oppure no.

L’Accademia della vigna vuole aiutare i migranti a non sbattere contro queste frontiere e vuole mostrare a tutti le grandi potenzialità offerte da un processo lavorativo senza irregolarità, prima di tutto la possibilità di intercettare i desideri di consumatori sempre più attenti alla sostenibilità ambientale e umana dei prodotti.

Per capire si deve vedere e ascoltare

Per capire si devono vedere questi uomini africani curvi sulle nostre vigne, intenti a zappare, con la schiena che si piega e le braccia forti che lavorano. Le uve più pregiate d’Italia, forse del mondo, sono curate da esseri umani partiti da luoghi lontani che noi consideriamo nemici, persone alle quali chiediamo di fare lavori che noi, per mille ragioni, non vogliamo più fare.

Questi uomini, durante i colloqui di lavoro, non fanno che rispondere «sì», e tu vorresti dire loro che non devono sempre usare quella parola per qualsiasi domanda, che non va bene, che si deve imparare a dire anche «no» nella vita se vuoi sopravvivere, se non vuoi diventare uno schiavo, se vuoi essere un uomo libero.

L’unico sistema che può integrare decentemente le persone migranti è il lavoro legale, fare in modo che le forze anarchiche del mercato siano regolate e mitigate. L’integrazione passa attraverso la fatica e il sacrificio: pensare che in prima istanza vi sia un riconoscimento giuridico è una forzatura ideologica.

Allo stesso tempo, una società che vuole integrare dovrebbe offrire ai migranti alcuni servizi: formazione, regole (lo Stato che le detta e le fa rispettare), imprenditori che capiscano quanto la responsabilità sociale d’impresa sia un valore e non un costo, sindacati.

Grappoli d’uva. Foto Andrea Cairone – Unsplash.

Nuovi italiani?

Ti guardano, silenziosi, questi uomini. Non sai mai cosa pensino, se siano interessati a quello che gli racconti, o sia solamente un’altra occasione per fare contento il «capo bianco» che parla e parla. Si vede che vorrebbero andare a casa, sempre che ce l’abbiano e non vivano alla Caritas o lungo un fiume.

Dicono sempre sì ai colloqui, ma sono anche quelli che a volte scompaiono senza dare una spiegazione, lasciando un lavoro di formazione a metà, che combinano guai e spesso mentono.

Non so quanti di questi esseri umani si considerino «nuovi italiani»: nonostante la formazione, il lavoro regolare che a piccoli passi viene conquistato e gli avanzamenti economici.

Forse tantissimi vogliono andare via, continuare il viaggio, raggiungere l’agognata Germania, il mitico Nord Europa.

Alcuni però rimangono e cercano un futuro.

Panorama delle Langhe, territorio collinare nelle province piemontesi di Cuneo e Asti, che nel 2014 – assieme a Roero e Monferrato – è stato riconosciuto dall’Unesco come «Patrimonio dell’umanità».. Foto Cristian Larini.

Le buone pratiche servono a tutti

Matteo Ascheri è il presidente del Consorzio di tutela Barolo Barbaresco. Commenta: «Il problema dello sfruttamento della manodopera è diffuso in tutta Italia e non solo, riguarda diversi comparti economici ed è radicato da tempo. Le origini sono complesse e toccano aspetti economici, sociali e culturali.

Nelle Langhe, patria di alcuni dei vini più conosciuti al mondo e regione oggetto di turismo sempre crescente, come sistema e come imprenditori abbiamo l’obbligo morale ed etico di affrontare la questione, portarla alla luce e cercare possibili soluzioni. Accademia della vigna è, quindi, un primo progetto a cui abbiamo voluto dare il nostro supporto per rispondere a questo problema e si inserisce all’interno di un percorso ben più complesso e lungo, che ha bisogno di tempo per attecchire e svilupparsi.

Molti nostri produttori hanno già aderito all’iniziativa in quanto fornisce una risposta concreta a un problema che ha due facce: la mancanza di manodopera in vigna da una parte e la poca eticità nel trattamento delle persone, dall’altra. Non parlando solamente di numeri occorre però intervenire su più piani, quello tecnico/economico e quello della presa di coscienza da parte di tutti gli operatori. In quest’ottica è nostro obiettivo sviluppare anche altre soluzioni che ancor meglio possano incontrare le esigenze delle nostre aziende, molto diverse tra loro per dimensioni e natura, e nel contempo tutelare i lavoratori».

Quindi, vi è un tentativo da parte del tessuto economico sociale di far emergere «le buone pratiche» che possono incidere in un settore molto ricco e conosciuto a livello planetario.

L’idea è che una formazione tecnica delle persone – progettata in partnership con le imprese – possa essere lo strumento per ingressi lavorativi che garantiscono alle aziende maggiori competenze e qualità nei processi di lavoro, offrendo ai candidati un contratto di lavoro regolare e di lungo respiro.

L’iniziativa supporta le aziende partner nell’individuazione di candidati interessati all’esperienza, le aziende svolgono i colloqui di lavoro e assumono con contratto diretto il personale di cui necessitano. I nuovi operai vengono quindi inseriti nel percorso formativo organizzato e gestito dal progetto: 150 ore di formazione tecnica, svolta direttamente in vigna, didattica in collaborazione con i migliori agronomi del settore. Le ore di formazione sono distribuite durante dodici mesi in moduli, ciascuno dedicato a una diversa fase di lavoro del vigneto.

Maurizio Pagliassotti
Giornalista e scrittore. MC ha presentato nel numero di giugno i suoi due libri dedicati ai migranti.

Accademia della vigna, formazione sul campo (aprile 2023). Foto Piero Battisti.


 I siti WEB

Logo dell’Accademia della vigna.




Ventimiglia. A qualsiasi costo

 

La Corte di giustizia dell’Unione europea ha denunciato, dietro ricorso di varie associazioni tra cui Avocats pour la défense des droits des étrangers (Adde), la forma in cui vengono svolti i respingimenti dalla Francia che contravverrebbe la direttiva europea sui rimpatri. In teoria, un cittadino irregolare dovrebbe beneficiare di un certo tempo per lasciare volontariamente il territorio, invece di essere allontanato in maniera forzata come avviene adesso.

Al mattino, le persone fermate e identificate dagli agenti francesi vengono espulse e, camminando attraverso il ponte San Luigi, arrivano alla frontiera italiana che ne notifica l’espulsione e le lascia andare. Da lì si torna a Ventimiglia a piedi, o con un bus di linea.

Da Grimaldi, ultima frazione di Ventimiglia arroccata sul mare, è possibile intercettare il passo della Morte, un cammino di tre ore che, tra sentieri mal segnalati, sterpaglie, rovi e salite che si riescono a fare solo con l’aiuto di una corda, permette di superare la frontiera in montagna. Il passo è pericoloso. Basta mettere un piede fuori sentiero per scivolare in dirupi, soprattutto se si percorre di notte o con la pioggia. Si scende tra le prime ville di Mentone per poi arrivare al centro. Spesso la gendarmerie controlla la strada e capita che, dopo una camminata estenuante, le persone vengano fermate su questa rotta e respinte in Italia.

Ventimiglia. Giovani migranti parlano davanti alla Caritas. (Foto Simona Carnino).

«I controlli in frontiera non fanno che aumentare i rischi e i costi in termini di vite umane ed economici. Non c’è decreto, non c’è gendarme che possa fermare le persone. La gente passa anche a costo della vita. A volte arrivano da noi persone con traumi provocati nel tentativo di superare la frontiera in montagna o in autostrada», spiega Serena Regazzoni, referente area immigrazione di Caritas Intemelia.

La militarizzazione e le politiche securitarie, che in Francia si manifestano nei respingimenti e in Italia in proclami di apertura di nuovi centri di permanenza per il rimpatrio, si scontrano con le motivazioni delle persone che spesso sono più forti e le spingono a viaggiare a qualsiasi costo.

Ad umanizzare la frontiera ci pensano organizzazioni come la Caritas, la Diaconia valdese e volontari che forniscono vestiti, cibo, cure mediche, orientamento legale, ascolto e, a volte, amicizia. Una piccola umanità laboriosa, che si sostituisce all’assenza della politica locale nelle attività di accoglienza.

Ventimiglia. Distribuzione di pasti alla Caritas Intemelia. (Foto Simona Carnino).

A Ventimiglia ci sono circa 17 posti letto per donne e famiglie in accoglienza diffusa della Caritas e uno rifugio di circa 12 posti per minori gestito da Diaconia e Save the Children. Gli altri dormono nei sottopassaggi o lungo il fiume Roya dove, tra acquitrini e sporcizia, scabbia, infezioni e punture di insetti sono all’ordine del giorno.

c’è sempre qualcuno che ce la fa, nonostante l’aumento dei controlli.

Come Hamza che, nel suo ultimo messaggio di mercoledì notte, scrive: «Sono arrivato. Thanks God». «E cosa farai ora?», gli chiediamo. «Mi riposo perché son troppo stanco. Poi cercherò un lavoro. Sono un barbiere».

Simona Carnino

(prima puntata al https://www.rivistamissioniconsolata.it/2023/10/02/ventimiglia-refus-dentree/)

Hamza mostra le ferite alle mani che si è fatto durante gli attraversamenti. (Foto Simona Carnino).




Ventimiglia. Refus d’entreé

Ventimiglia. Hamza Alami, 17 anni del Marocco, è seduto nel dehor del bar Anthony di fronte alla stazione di Ventimiglia. È appena arrivato con un treno da Torino insieme a un amico. Scorrono gli orari del treno sul cellulare e ogni tanto danno uno sguardo al grande orologio della stazione. Poi provano ad avvicinarsi all’ingresso presidiato da un’agente della polizia e due militari dell’esercito italiano che controllano i documenti. Con fare preoccupato si allontanano e si siedono su un muretto, in attesa del momento propizio per attraversare il confine in treno, così come decine di altre persone migranti sedute tra i bar e i gradini della stazione. Hamza sa che, per arrivare in Francia, la sua meta definitiva, mancano solamente 17 minuti di treno e 3,50 euro di biglietto. Troppo poco per desistere ora. Soprattutto se alle spalle si ha un viaggio di oltre un mese. Partiti da Fez, in Marocco, il 17 agosto, con il loro passaporto hanno viaggiato in aereo fino in Turchia. Da lì è iniziata la risalita lungo la rotta balcanica, attraverso la Bulgaria, Serbia, Ungheria, Austria per poi arrivare in Friuli da cui hanno preso diversi treni fino a Ventimiglia. Una via inusuale in questo periodo in cui la maggioranza di persone, principalmente di origine sudanese, eritrea, e dell’Africa francofona, arriva nella città ligure dalla rotta del Mediterraneo centrale via Lampedusa.

«Abbiamo camminato notte e giorno per un mese. Siamo esausti e feriti. Passando la frontiera tra Bulgaria e Serbia mi sono squarciato la mano con il filo spinato. Ora siamo determinati a passare e ci proveremo in tutti i modi anche se sappiamo che la gendarmerie è ovunque e proverà a respingerci in Italia», spiega Hamza, prima di tornare verso la stazione e salire sul primo treno per Mentone, dopo averci dato il suo numero di WhatsApp. «Vi farò sapere se arrivo dall’altra parte», dice con sorriso convinto.

Ventimiglia. Ragazzi appena respinti dalla polizia francese, già passati sul lato italiano. Foto Simona Carnino

E la gendarmerie effettivamente c’è, più agguerrita che mai. Durante la sua visita a Mentone del 13 settembre scorso, il primo ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, aveva annunciato una chiusura pressoché totale della frontiera con Ventimiglia, in seguito all’aumento esponenziale degli arrivi a Lampedusa nei mesi di agosto e settembre.

«Abbiamo visto in queste ore un maggior dispiegamento delle forze francesi sulla linea ferroviaria e sui valichi di frontiera di ponte San Luigi e ponte San Ludovico. Inoltre, sono stati impiegati reparti dell’esercito per intercettare i migranti sui sentieri di montagna sulla parte della frontiera della val Roja verso Sospel e Breil, cosa che non avevamo mai visto» spiega Jacopo Colomba, project manager di We World che, insieme a Diaconia Valdese, fornisce orientamento legale ai migranti a Ventimiglia.

La Francia, che ha sospeso gli accordi di Schengen e ripristinato le frontiere interne dal 2015 dopo l’attentato del Bataclan, ufficialmente per ragioni di sicurezza, ufficiosamente per limitare l’accesso dei migranti, in realtà è da otto anni che prova a respingere tutti, anche i minorenni, che, secondo la Convenzione di Ginevra, hanno il diritto di essere presi in carico in qualsiasi paese di arrivo.

In queste ore però i controlli sono a tappeto, e se fino a giugno si verificavano circa 80 respingimenti quotidiani, secondo il recente report «Vietato passare» di Medici senza Frontiere, ora vengono «rimbalzate» a Ventimiglia tra le 100 e le 150 persone ogni giorno. La gendarmerie ferma qualsiasi auto in arrivo dall’Italia. Controlla gli abitacoli e ne apre i bagagliai. Alla frontiera marina di San Ludovico sono presenti decine di mezzi e verrà costruito un nuovo centro di identificazione, oltre a quello esistente alla frontiera di San Luigi. Il punto più inespugnabile però è la ferrovia. La stazione di Menton Garavan, prima fermata dopo Ventimiglia, è un posto di blocco quasi invalicabile. La gran maggioranza dei treni provenienti dall’Italia vengono setacciati in lungo e in largo da circa sette agenti della gendarmerie. Seduti in stazione, aspettano il treno, si mettono i guanti e il gilet antiproiettile ed entrano. Dopo pochi minuti, ne escono con tutti coloro che non hanno i documenti.

Ventimiglia. Ragazzi minorenni (un 14enne) respinti dalla polizia francese, ma registrati come maggiorenni a Lampedusa. Foto Simona Carnino

Lo sa bene Isaac. Si copre la testa con il cappuccio della felpa e si stringe nelle spalle seduto sul muretto sul lato italiano della frontiera di ponte San Luigi. Guarda il mare e pensa al da farsi insieme ad altri ragazzi che, come lui, sono stati fermati sul treno e respinti dalla Paf, la polizia di frontiera francese.

fine prima puntata, continua)

di Simona Carnino

Ventimiglia, passo della morte, via alternativa al treno per raggiungere Menton, in Francia. Foto Simona Carnino




Confine turco-bulgaro. Violenze e respingimenti

Un report denuncia le violenze sistematiche della polizia di frontiera contro i migranti sul confine bulgaro-turco.

«Hanno camminato per due giorni fino ad arrivare a Drachevo, nei pressi di Sredets (Bulgaria sud orientale a circa 40 km dal confine turco, nda). Poco più avanti […] hanno trovato una macchina della polizia di frontiera bulgara, e sono stati arrestati da due poliziotti in uniforme verde che gli hanno rubato i telefoni e li hanno portati alla centrale di polizia di Sredets.

Alla discesa dall’auto gli hanno tirato pugni in faccia, dopodiché sono stati fatti sdraiare pancia a terra e sono stati presi a calci per un’ora».

Il racconto si riferisce a un episodio avvenuto nel gennaio 2023, raccolto dalla voce di uno dei 24 siriani vittime della violenza e reso pubblico dagli attivisti del Collettivo rotte balcaniche alto vicentino nel report Torchlight. Gettare luce sulla violenta opacità del regime europeo dei confini.

Una volta terminato il pestaggio, prosegue il racconto, la border police ha requisito le scarpe ai migranti e li ha fatti entrare in una gabbia, la stessa ripresa in un video di Lighthouse Report datato 22 dicembre 2022.

«Alla richiesta di un po’ d’acqua da bere, la polizia ha risposto “Zitti! Oppure vi picchiamo!”. Sono stati lasciati dentro a questa gabbia, doloranti, senz’acqua, senza cibo. Ad un certo punto, passate cinque ore, la polizia è arrivata con un altro gruppo di 50 persone. Li ha caricati tutti e 75 su un camion militare per riportarli in Turchia. Prima di arrivare al confine hanno dovuto camminare due ore – ricordiamo che erano scalzi. Arrivati alla rete hanno trovato cinque soldati fermi ad aspettarli, i quali vestivano l’uniforme dell’esercito e i passamontagna neri.

I soldati hanno aperto un varco nella rete e hanno fatto passare le 75 persone una a una, picchiando senza pietà ognuna mentre varcava il confine. Quando sono passati tutti hanno sparato proiettili in aria per spaventarli».

 

Secondo i dati del ministero dell’Interno bulgaro, negli ultimi due anni si è registrato un aumento notevole degli attraversamenti illegali del confine Turchia-Bulgaria: 55mila persone nel 2021 sono diventate 168mila nel 2022 per aumentare ancora nel 2023: quasi 109mila «tentativi di attraversamento illegale fermati» dal 1 gennaio al 7 agosto, di cui 47mila nei soli mesi giugno e luglio.

«Tentativi di attraversamento illegale fermati», si traduce con «respingimenti» e, in particolare, respingimenti violenti, stando a quanto denunciato dal Collettivo rotte balcaniche e da diverse altre organizzazioni, tra cui la nota Human Right watch, e il Bulgarian Helsinki Committee.

La violenza della polizia di frontiera, dice il report, non è una violenza episodica, ma sistematica. Gli attivisti, che promettono la pubblicazione futura di altri rapporti e analisi, hanno infatti avuto modo di condurre ricerche e raccogliere testimonianze sul campo, in particolare tra le città di Harmanli e di Svilengrad, constatando la ripetitività dello schema di respingimento violento raccontato sopra.

Vale la pena scaricare e leggere il report per farsi un’idea più precisa di quello che avviene quotidianamente lungo uno dei confini della fortezza Europa: dopo un primo paragrafo che descrive il contesto bulgaro e un secondo che descrive uno dei centri di detenzione, gli altri due raccontano, anche tramite testimonianze di migranti, i respingimenti sui due confini che separano la Bulgaria dalla Turchia e dalla Serbia.

«Nonostante questo breve scritto si focalizzi sulla situazione bulgara – è scritto nell’introduzione del report -, ci preme sottolineare come le pratiche che qui osserviamo si iscrivano con coerenza e continuità nel disegno europeo “sulla migrazione e l’asilo”: il confine bulgaro-turco rappresenta in questo momento la porta terrestre d’Europa».

I diritti che l’Ue dovrebbe difendere e promuovere vengono violati scientemente e nel silenzio generale dei media. Per questo il Collettivo rotte balcaniche, oltre a «supportare attivamente le persone in transito», raccoglie testimonianze per produrre documentazione sulle violenze della polizia ai confini dell’Europa e per mobilitare la società civile.




Le migrazioni non sono il problema, ma la soluzione


L’opinione pubblica, alimentata da discorsi d’odio di matrice partitica e suprematista, dipinge le migrazioni più come rischio per la sicurezza del mondo, che come risorsa.
In realtà, coloro che si spostano non sono il problema del mondo. Il problema sono alcune delle cause per cui lo fanno, tra cui – non è inutile ricordarlo spesso – spiccano gli squilibri economici mondiali, i cambiamenti climatici, le guerre, le persecuzioni e le violenze…Proviamo allora a fare un po’ di chiarezza su alcuni aspetti che accompagnano il dibattito attuale sulle migrazioni.

Cominciamo innanzitutto dalle “parole” usate per definire la realtà migratoria.
Il 16 agosto 2023, la Corte di Cassazione italiana ha sancito che i migranti “richiedenti asilo” non devono essere definiti né irregolari, né clandestini, perché il diritto alla libera manifestazione del pensiero, anche come partito politico, non può essere equivalente o addirittura prevalente, sul rispetto della dignità personale degli individui.
Ora, e senza scomodare la magistratura, se il termine “clandestino” affibbiato ai “richiedenti asilo”, esprime un chiaro contenuto spregiativo con valenza fortemente negativa e lesiva della dignità personale degli individui in questione, perché continuare a definire “clandestini” anche tutti quei migranti che fuggono la fame, la siccità, le inondazioni, le carestie dei loro Paesi di origine?

I sempre numerosi partigiani delle “distinzioni stigmatizzanti” replicheranno che questi migranti, che in più di centomila sono sbarcati sulle coste italiane dal primo gennaio fino a metà agosto 2023 (doppiando e triplicando le cifre del biennio precedente, incuranti del colore del governo e delle roboanti dichiarazioni, promesse e inganni elettorali), non hanno seguito le vie legali d’ingresso in Italia e nell’Unione europea. E sono quindi “irregolari perché senza documenti”. Ma perché definirli sempre e solo “clandestini”? Se non per ingenerare e alimentare la paura di chi li vede arrivare e legittimare decreti e misure poco interessate alla dignità umana?
In realtà, non si può non considerare che, dal 22 ottobre 2022 (inizio dell’attuale governo in Italia) ad oggi, tramite i cosiddetti “canali di accesso legale” (reinsediamento, corridoi umanitari, evacuazione umanitarie) solo 1.042 persone sono potute arrivare in Italia, e solo se afghani, siriani, eritrei, sudanesi, etiopi. Dalla Libia, invece, sono potute arrivare solo 101 persone… Numeri chiaramente insufficienti a rappresentare l’alternativa, sicura e legale, alle pericolose traversate del Mediterraneo su imbarcazioni sempre più precarie.

Allo stesso tempo, se nelle traversate della morte c’è una “clandestinità” evidente questa non è dei migranti che, salvati da Guardia costiera o da organizzazioni umanitarie, sono identificabili e identificati nei diversi centri di permanenza, ma è quella dei trafficanti che non sono solamente gli scafisti di turno – scelti spesso tra gli stessi migranti e obbligati a condurre le imbarcazioni per evitare un sicuro naufragio – ma anche e soprattutto i criminali e i loro complici operanti nelle guardie di costiera e di frontiera dei Paesi di partenza o di transito.

Perché allora quando le politiche nazionali e comunitarie parlano di lotta senza quartiere all’immigrazione clandestina non troviamo misure capaci di colpire i veri trafficanti (cui invece si donano motovedette ben armate per contrastare i flussi di migranti o denaro sonante per riportare a terra i migranti e disperderli nei deserti tra Libia e Tunisia) ma solo dispositivi contro gli stessi migranti, chiamati scientificamente “clandestini” per giustificare la crudezza dei mezzi utilizzati?
Perché, con oltre 2.000 morti tra i migranti che da inizio 2023 hanno tentato di raggiungere l’Europa via Mediterraneo, la politica continua ad ostacolare l’opera di soccorso delle navi umanitarie, anche dopo che la teoria del “pull factor” (fattore di attrazione) è stata smascherata come una chiara menzogna ideologica?
Perché continuare a predire espulsioni e rimpatri forzati di quei migranti che non avrebbero diritto a rimanere solo perché fuggono da Paesi incapaci di dare loro vita e arrivano in Europa senza documenti? E tutto questo sapendo che nel 2023 sono stati effettuati solo 2.561 rimpatri, e che per effettuare rimpatri forzati nei Paesi di origine servono difficili e complicati accordi bilaterali, considerando anche che alcuni di essi, come Tunisia e Libia, hanno già dichiarato di non voler in nessun modo caricarsi dei migranti di altri Paesi transitati o partiti dalle loro coste.

Perché, inoltre, invece di eliminare le cause delle migrazioni, tutte forzate per un motivo o l’altro, ci si ostina a voler bloccare (con tutti i mezzi, anche poco leciti) la partenza dei migranti, offrendo ai governanti, in genere poco o per niente democratici dei Paesi di partenza e transito (Libia, Tunisia, Egitto…), denaro e investimenti che hanno poche o nessuna probabilità di servire allo sviluppo socioeconomico di quei Paesi e dei loro abitanti?
In questa prima parte del 2023 sono stati inaugurati “innovativi” accordi di cooperazione tra Unione Europea-Italia e alcuni Paesi di origine e transito dei migranti, fondati su una “vera” cooperazione paritaria tra Paesi del Nord e Paesi africani e non sull’endemico rapporto neocoloniale che da sempre caratterizza le relazioni euro-africane. Tali buone intenzioni sarebbero sicuramente più efficaci se non evidenziassero alcune contraddizioni che ne minano la reale volontà politica. In effetti, l’obiettivo dei Paesi del Nord è chiaramente quello di bloccare “quanto prima” i migranti e non certamente la sviluppo dell’Africa e il benessere degli africani che richiede ingenti investimenti economici e strutturali, in favore delle popolazioni locali (e non dei loro governanti, corrotti e autoritari), tempi lunghi e soprattutto, almeno nelle fasi iniziali del processo di emancipazione economica e sociale, non arresta le migrazioni, ma le incentiva.

Se la paura-ossessione dei migranti continua a dettare la politica italiana e comunitaria verso le migrazioni, diventa sempre più difficile assumere consapevolmente il fatto che la storia dell’uomo è basata sulla migrazione. Non si tratta, certo, di ignorare il modello di Stato nazione, attualmente predominante, ma è arrivato il tempo di ripensare ai criteri con cui decidiamo dove è consentito vivere a qualcuno, considerando che molti dei luoghi relativamente sicuri in cui vivere sul nostro pianeta, cioè le latitudini settentrionali, sono luoghi che soffrono di una crisi demografica elavorativa e sono destinazione di massicce migrazioni che possiamo prevedere, pianificare e gestire oppure rischiare di subire.
In tale prospettiva, solo una cooperazione “disinteressata” (vale a dire più interessata al “bene comune” che agli “interessi di parte”) tra attori locali, regionali e internazionali potrà individuare risposte capaci di superare gli squilibri socioeconomico-ambientali che cambiamenti climatici, fragilità locali e movimenti migratori vivono e vivranno in futuro. E continuare a corteggiare le dittature africane e i Paesi ultranazionalisti europei non è certo la strada più efficace per intraprendere scelte condivise, solidali e rispettose dei diritti umani.

Scalabriniani.net – Congregazione Scalabriniana
Centro Studi Emigrazione Roma | CSER
Roma, 21 agosto 2023




Perché partire? Perché restare?


All’alba del 3 ottobre del 2013 un’imbarcazione carica di migranti somali ed eritrei, già in vista dell’isola di Lampedusa, prende fuoco. Sul ponte ci sono centinaia di persone. Alcune si buttano in acqua, altre resistono. Saranno 155 i sopravvissuti, e 368 i morti. Si parla subito della «più grande tragedia dell’immigrazione», ma sarà presto superata da altre.

Nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, un altro barcone proveniente dalla Turchia, si incaglia non lontano da Steccato di Cutro (Calabria). L’impatto è violento e il mare forza 5 completa l’opera distruggendo il battello. Su di esso viaggiano 180 migranti di diversi paesi (Afghanistan, Pakistan, Siria, Tunisia, Palestina). Ottanta saranno i sopravvissuti. Tra le vittime, sono in aumento le donne e i minori.

È il 13 giugno 2023. Al largo di Pylos, Grecia, un peschereccio stipato di persone si ribalta. Sono circa 700. Ne vengono salvate 104. Nella parte interna dello scafo ci sono donne e bambini. In generale, chi paga di meno occupa i posti peggiori.

Tra questi eventi, dieci anni di naufragi e migliaia di morti in mare.

All’indomani di quello del 2013 mi trovavo in Burkina Faso. Il fatto era sulla bocca di tutti. C’era un generale stato di shock per quel numero di morti così alto. Molti – forse con il senno di poi – mi dicevano che loro «non avrebbero mai tentato una simile avventura, perché la probabilità di fallimento, e il rischio di morire, erano troppo elevati».

Facendo un balzo indietro nel tempo, mi torna in mente il molo di Port-au-Prince, ad Haiti, nel 1997. Gli haitiani partivano con delle barche di legno dalla costa nord dell’isola, nel tentativo di raggiungere le Bahamas. Pochi ci riuscivano, molti morivano naufraghi o, come si diceva, «divorati dagli squali». Molti altri, intercettati dalla guardia costiera Usa, venivano riportati sull’isola. Ricordo le file di giovani appena sbarcati dalle motovedette a stelle e strisce: tra le mani un sacchetto bianco con un «kit di rimpatrio» (un po’ di cibo, una maglietta), in faccia la delusione di chi ha fallito. Molti haitiani mi dicevano che era da pazzi tentare la traversata. Ma il flusso continuava.

Quale sarà stato l’impatto del naufragio di Pylos sulla gente di Afghanistan, Pakistan, Siria? Dall’Europa, noi abbiamo sempre solo la nostra prospettiva, e facciamo fatica ad ascoltare cosa hanno da dire i popoli dei paesi di provenienza.

Dovremmo metterci in ascolto, invece di classificare i migranti in categorie (economici, climatici, politici), e chiedere loro: Perché partire? Perché restare? Perché pagare cifre da capogiro e rischiare la vita?

I migranti che ho incontrato in Niger negli ultimi anni, provenivano da tutta l’Africa occidentale e avevano tentato di attraversare il Sahara. Tutti con forti motivazioni.

Mi ha colpito una famiglia del Ciad: genitori e quattro figli. Lui nel suo paese aveva tentato più volte di studiare giurisprudenza, ma non era riuscito a causa della situazione: «Sappiamo che è un rischio lanciarsi con una famiglia in una migrazione. Siamo stati spinti dal fatto che il nostro paese non è stabile. La gente vive sempre in conflitti armati, o intercomunitari, c’è la repressione del governo, la cattiva gestione. Inoltre, le ricchezze del paese non sono condivise in modo che tutti ne possano beneficiare per vivere in pace». L’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) recita: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni
individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese».

Liberi di scegliere se migrare o restare è il titolo del messaggio di papa Francesco per la 109a «giornata del migrante e del rifugiato» (24 settembre): «Migrare dovrebbe essere sempre una scelta libera, ma di fatto in moltissimi casi, anche oggi, non lo è. Conflitti, disastri naturali, o più semplicemente l’impossibilità di vivere una vita degna e prospera nella propria terra di origine costringono milioni di persone a partire […]. Per fare della migrazione una scelta davvero libera, bisogna sforzarsi di garantire a tutti un’equa partecipazione al bene comune, il rispetto dei diritti fondamentali e l’accesso allo sviluppo umano integrale».

Marco Bello, direttore editoriale




Strage annunciata


Comunicato stampa della Conferenza degli Istituti Missionari in Italia – CIMI – 18 giugno 2023

Con il passare delle ore diventa sempre più drammatico il bilancio delle vittime dell’ennesimo naufragio di una imbarcazione carica di migranti che è avvenuto tra il 13 ed il 14 giugno a Pylos, nel mar Jonio nelle acque territoriali greche.

Il timore è quello di arrivare a dover contare più di 600 morti tra uomini, donne e soprattutto bambini lasciati annegare e soccorsi in estremo ritardo. L’allarme lanciato da Alarm Phone alle autorità competenti (guardia costiera della Grecia, UHNCR Grecia e Frontex) è partito alle 16.53 del 13 Giugno e alle 2.47 del 14 giugno si registra l’ora del naufragio dell’imbarcazione. La domanda è quella di sapere che cosa è veramente successo in quelle quasi 10 ore.

Stiamo assistendo come sempre all’inguardabile e stomachevole scaricabarile.

  • I superstiti abbandonati su brandine in una struttura del porto di Kalamata, lontano dai giornalisti.
  • I corpi rinvenuti (sino ad ora sono 78) trasportati di notte al buio da una motovedetta della guardia costiera greca e trasferiti al nord di Atene in camion frigoriferi per la identificazione.
  • I parenti delle persone che avrebbero dovuto essere sull’imbarcazione che intasano il centralino dell’ospedale di Kalamata per avere notizie dei propri cari.

È il “rituale” che si ripete ad ogni naufragio, ad ogni “strage annunciata”.

Si, si tratta di vere “stragi annunciate” perché ogni “imbarcazione” che parte può essere una “strage annunciata” e non serve poi proclamare lutto nazionale per “lavarsi la coscienza”.

Le domande che ci poniamo e che poniamo a che è chiamato a governare sono sempre le stesse: le persone che erano su quell’imbarcazione o sulle altre imbarcazioni naufragate avevano altre alternative per scappare dalla violenza? Rischiare la vita oppure continuare a subire violenze nei lager libici? Voi, noi cosa avremmo fatto se fossimo stati al loro posto?

La risposta non sta l’ultimo “patto europeo”, la risposta non si trova nelle coscienze “sporche” dei politici che lo hanno votato.

Forse la risposta sta “semplicemente” nel rispetto delle leggi e delle convenzioni internazionali. Leggi e convenzioni che tutti i paesi hanno votato ma che vengono dimenticate quando si pensa solo alla difesa del proprio paese o della “fortezza Europa” e quando si fa politica per difendere interessi di corporazione o personali.

Leggi e convenzioni internazionali scritte nel corso di decenni per impedire che la violenza e la cultura della morte tornassero a prevalere.

Rispettare le leggi e le convenzioni internazionali per evitare altre “stragi annunciate”.

Missionari della Consolata;
Missionari Comboniani;
Missionari Saveriani;

Missionari della Società delle Missioni Africane;
Missionari del PIME; Missionari Verbiti;
Missionari d’Africa (Padri Bianchi);
Comunità Missionaria di Villaregia;
Missionarie di Nostra Signora degli Apostoli;
Missionarie dell’Immacolata;
Francescane Missionarie di Maria;
Missionarie di Maria – Saveriane;
Missionarie Comboniane;
Missionarie della Consolata

Per informazioni:
segreteriacimi@gmail.com (Segreteria)
antoniopiquicombo@gmail.com (GPIC)




Migrazioni. Per terra e per mare


Muri, forze di polizia, norme di legge non bastano a fermarli: la forza della disperazione li spinge a proseguire, nonostante tutto. Maurizio Pagliassotti è stato sulle rotte dei migranti e li ha raccontati in due libri, crudi. Come crudo e irrisolto è il fenomeno migratorio.

In cerca di pane e futuro. Sono migranti tunisini, nigeriani, siriani, egiziani, afghani, pachistani, bengalesi. Da un paio di mesi, in seguito al ritorno della guerra in Sudan, ci sono anche molti cittadini di quel paese africano.

Per tentare l’entrata in Europa, questi migranti hanno due possibilità, entrambe molto rischiose: prendere la strada del mare o quella della terra ferma. La prima è più scenografica e, dunque, più raccontata, la seconda è più nascosta e, pertanto, meno conosciuta.

La realtà delle migrazioni verso l’Europa viene descritta in tutta la sua durezza e disumanità nei due libri – forse imperfetti ma sicuramente pregevoli – che Maurizio Pagliassotti, giornalista (Domani, il Manifesto, ma anche Missioni Consolata) e scrittore, ha dedicato al fenomeno, non studiandolo da fuori ma calandosi in esso.

Il primo lavoro – «Ancora dodici chilometri» (2019) – è ambientato sul confine tra Italia e Francia (Claviere, Briançon, Monginevro, Bardonecchia, Colle della Maddalena, …) dove operano soprattutto gendarmi d’oltralpe, molto solerti nel riportare i migranti sul territorio italiano1.

Il secondo – «La guerra invisibile» (2023) – parte dai luoghi del primo, ma allarga l’orizzonte dalle Alpi ai Balcani, attraversando vari confini e arrivando fino al Kurdistan turco (Erzurum, Van, Igdir).

(Photo by Matteo Trevisan / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Vittime e novelli carnefici

«Il mondo delle migrazioni – scrive Pagliassotti – è duro […]. Il migrante sa che per tutto ciò che farà durante il suo viaggio dovrà pagare qualcosa. Con il denaro, con il lavoro, con la schiavitù, con il sesso». Pagine dalla parte dei migranti – le vittime, anzi i nemici di questa «guerra invisibile e silenziosa» -, ma senza paternalismo o pietismo e, soprattutto, senza alcun giro di parole: il racconto di Pagliassotti è crudo e senza sconti per alcuno. Neppure per gli anziani avventori di un bar di montagna che commentano una storia di migranti affogati in mezzo al mare. «L’odio di questi paesi non è quello dei quartieri periferici di Torino, o di un’altra grande città. […] in un posto così, dici “se lo meritano”, “ma chi se ne frega”, “crepino”. Solo così sei accettato. Qui non c’è il nigeriano che spaccia o ti ruba la bicicletta. Qui non c’è nulla. Lo dicono tutti, quindi lo dici anche tu. E tutti ridono nel bar, dandosi di gomito. […] Un sodalizio strapaesano tra vecchi piemontesi e vecchi meridionali accomunati da un rancore irrazionale, soprattutto i secondi: furibondi nei loro “noi siamo venuti qui per lavorare e quelli vengono a fare un c… Che se ne stessero a casa loro”. […] La vittima che diventa carnefice. Infiniti patimenti e angherie, ma poi alla fine è arrivato qualcuno ancora più reietto, ancora più scuro di pelle, ancora più terrone».

Il clima politico di questi anni complicati non aiuta. È ormai annosa la questione delle Ong del Mediterraneo da molti considerate «pull factor» (fattori di attrazione) per i barconi e i barchini dei migranti. Se – come racconta Pagliassotti in Ancora dodici chilometri – anche una piccola associazione come «Il Pulmino verde» viene minacciata perché aiuta i migranti irregolari, significa che il degrado umano è profondo.

«Che vita schifosa deve essere quando tutti ti odiano e tu odi tutti», commenta l’autore a un certo punto de La guerra invisibile. Eppure, non mancano incontri con figure tanto umane da fare notizia. Come a Trieste.

Dopo Bolzano, l’autostrada che conduce al Brennero, il confine tra Italia e Austria. Foto Tibor Pelikan – Pixabay.

Gli «eserciti» del papa

«I loro nomi si protendono lungo la rotta dei Balcani fra migranti, cooperanti, giornalisti e non sempre sono amati neppure tra noi buoni: “troppo mediatici”. Lei è una psicologa clinica, lui un ex docente di liceo in pensione. […] Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi ogni sera, da anni, vanno a ricucire le ferite di chi giunge dalla rotta dei Balcani

[…]. Lei, una signora apparentemente semplice ma dal portamento aristocratico, lava e medica i piedi luridi coperti di fango e sangue di chi arriva qui […]. Due anziani che in cambio di niente salvano la dignità di un continente […]. Indubbiamente sono sotto i riflettori ma questo che problema è?». «Esiste una vasta invidia nel nostro mondo di buoni», chiosa con sarcasmo Pagliassotti. Che non può dimenticare gli operatori e volontari della Caritas.

«Li apprezzo molto – confessa l’autore – , pur essendo ateo e molto molto critico rispetto all’altruismo fondato sulla misericordia. […] La Caritas che ho conosciuto io l’ho trovata nei campi di frutta del Nord Italia

[…]. La Caritas che mi accoglie a Šid (cittadina serba al confine con la Croazia, ndr) fa parte di un esercito della misericordia

[…] che si protende verso l’aiuto degli umiliati e offesi in marcia».

Papa Francesco, capo di questo esercito2, parla spesso in difesa dei migranti. In Ancora dodici chilometri Pagliassotti cita un suo passo: «“Spostarsi e stabilirsi altrove con la speranza di trovare una vita migliore per se stessi e le loro famiglie: è questo il desiderio profondo che ha mosso milioni di migranti nel corso dei secoli”». Ma, come ricorda l’autore, anche il pensiero del papa è spesso derubricato alla categoria denigratoria del «buonismo».

 

C’è profugo e profugo

Le guerre parevano lontane. Almeno fino al febbraio 2022, quando la Russia di Putin ha aggredito l’Ucraina e la guerra è entrata di prepotenza nell’esistenza di noi europei. Maurizio Pagliassotti abbandona il suo percorso narrativo sulla rotta balcanica e turca per portarci più a nord, in Polonia, paese appartenente al cosiddetto «gruppo di Visegrád», ovvero i quattro stati europei (oltre alla Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria di Orbán) «reazionari, cementati, tra le altre cose, dall’ossessione delle frontiere chiuse che hanno trasformato i migranti in nemici».

«Sono stato nei giorni scorsi – racconta l’autore riferendosi all’inizio di marzo 2022 – al confine tra la Polonia e l’Ucraina per vedere cosa è l’umanità in fuga che viene accolta. Io arrivo da un viaggio dove ho incrociato solo l’umanità che viene respinta. Profughi delle guerre in Afghanistan e Siria sono gli esseri umani incontrati nei Balcani e in Turchia: i siriani possono perfino condividere l’origine delle bombe con gli ucraini. Bombe russe».

In definitiva, via libera a milioni di ucraini, stop indefinito per siriani, afghani, africani. Perché – si chiede l’autore – «esistono profughi che sono giustamente degni della nostra umanità e altri a cui viene concessa soltanto la nostra disumanità?».

Dall’esperienza nella stazione polacca di Przemyśl, l’autore esce (anche) con altre stoccate accuminate. «I fotografi – scrive – sono tra i più eccitati e spietati, sono tra quelli che meglio annusano il sangue: i loro obiettivi si avvicinano al volto dei bambini fino ad abusarne, e scavano alla ricerca dello scatto più duro, affamati di lacrime e senza scrupoli; le madri si ribellano, subentra la polizia che vieta di fare le foto, ma tutti se ne infischiano, ci sono discussioni. Sulla pelle dei profughi campa un sacco di gente e la sofferenza è un grande mercato da sfruttare a fondo».

«Ci servono»

I passaggi dei confini tra Italia e Francia, tra Italia e Austria e – soprattutto – tra i paesi della ex Jugoslavia e tra Grecia e Turchia sono pagine dense di storie e ingiustizie, che suscitano l’indignazione e l’impotenza di Pagliassotti.  «Perché – scrive con acuta perfidia – i muri che alziamo e le milizie che schieriamo per mari e per monti sono, in realtà, strumenti per evitare la tragedia: questo è il messaggio mai esplicitato, ma nemmeno troppo sottinteso. Una forma di bontà e altruismo con il mitra in mano».

C’è la guerra degli Stati contro i migranti e, all’interno di questa, la guerra dei penultimi contro gli ultimi. «“Ci odiano perché lavoriamo”, mi ha raccontato un ragazzo (siriano, ndr) di Erzurum. “Dicono che rubiamo il lavoro ai turchi. Ma questo non è vero […]. Lo stipendio medio di un muratore siriano è di circa 400 euro, contro gli 800-1.000 di un turco. Un panettiere 300 contro 600.

[…] il rifugiato siriano è percepito come un concorrente sleale che si vende per pochi soldi pur di non tornare al suo Paese».

Odio, razzismo, guerra: i due libri di Pagliassotti lasciano poco spazio alla speranza. Anzi, proprio non ne lasciano. Ma come si fa a dargli torto?

È triste ammetterlo, ma oggigiorno il mondo e il sistema sono questi. Prendiamo, ad esempio, l’Italia. Oggi, escludendo alcune chiese (cattolica, valdese, ecc.) e diverse organizzazioni della società civile, chi non si oppone3 all’arrivo di migranti lo fa quasi esclusivamente sulla base di un calcolo di mera convenienza: «Ci servono». Per fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare, per garantire le nostre pensioni, perché gli italiani invecchiano e non fanno più figli.

D’altra parte, meglio essere cinicamente pratici piuttosto che dare spazio a concetti (guerra etnica, difesa della razza, suprematismo bianco, teoria della grande sostituzione, purezza razziale) bocciati dalla storia e dalla morale. Ma che potrebbero anche tornare.

Paolo Moiola

Le montagne attorno a Claviere, zona di confine con la Francia molto battuta dai migranti. Foto Piero Mobile – Unsplash.


Note

(1) Sulla questione migranti lo scontro tra Francia e Italia è aspro. Dopo aver rafforzato il confine con altri gendarmi, i transalpini hanno accusato il governo Meloni di incapacità nella gestione del problema (4 maggio).

(2) Peraltro, anche la Caritas ha i suoi problemi. Lo scorso novembre papa Francesco ha deciso di commissariare Caritas Internationalis, la confederazione delle 162 Caritas nazionali operanti nel mondo.

(3) Il clima culturale vigente è stato sintetizzato (con toni esasperati) da una copertina (riprodotta sopra) e un’inchiesta del settimanale «Panorama»: «Un’Italia senza italiani» (3 maggio).

 

I MIGRANTI SU MC

Tra i molti articoli sul tema leggibili sul sito della rivista, ne segnaliamo alcuni:




Una Pasqua oscurata?


Probabilmente quando leggerete queste righe il dramma di Cutro sarà sparito da un po’ dalle prime pagine, magari sarà ridotto a mero strumento per colpi bassi tra i partiti di governo e le opposizioni. Purtroppo, tragedie come questa finiscono troppo in fretta nel tritacarne dell’assuefazione, e vengono sostituite dal gossip e dalle vanità di turno.

Mi ha colpito un’insegnante che raccontava su Facebook come avesse chiesto ai suoi alunni delle medie del terremoto in Turchia e Siria e si fosse trovata davanti una scena muta. Quando invece aveva fatto il nome di due noti cantanti e influencer, si era trovata travolta da un fiume di particolari. Il suo racconto mi ha fatto pensare a quanto sperimento io stesso quando chiedo a dei ragazzi se hanno mai sentito parlare di Eswatini (troppo difficile) o dello Yemen. Per fortuna c’è sempre uno più sveglio che, magari con un piccolo aiutino, ti dà poi la risposta giusta.

La stessa ignoranza mi pare di trovarla in certi politici che di fronte ai problemi delle migrazioni danno risposte prefabbricate e dogmatiche, usando a volte a sproposito le parole del papa. Per loro è tutta colpa dei trafficanti di persone e delle Ong che si fanno loro complici. Una visione semplificata e di comodo che non tiene conto della complessità del problema, e delle responsabilità del «nostro» sistema economico che causa squilibri ecologici, instabilità politica o dittature, sfruttamento del lavoro, razzia di materie prime, guerre intestine e tanto altro ancora. Come non comprendere chi decide di tentare un’alternativa rispetto a una vita impossibile e indegna, aggravata dalla crisi climatica, che pure colpisce pesantemente anche il nostro mondo, e dalla diffusione di nuove pandemie, come il Covid-19.

Solo chi non vuole vedere, o chi sa di poterne trarre un tornaconto, riduce il problema delle migrazioni alla responsabilità dei trafficanti. Senza interventi radicali che promuovano la vita, il lavoro, la salute, la scuola e, anche, libertà e democrazia in tanti paesi impoveriti (e spesso i più ricchi di risorse naturali), la fuga dei disperati (o dei sognatori di una vita più dignitosa) continuerà a crescere.

Mentre leggete queste righe stiamo celebrando la Pasqua, il tempo che segue quello nel quale, dal Getsemani al Calvario, si intrecciano morte e vita, indifferenza e violenza, fanatismi e paure, fughe e pianti, silenzi e gesti di grande generosità, disperazione e coraggio, delusioni e speranze. Dopo oltre un anno di guerra folle in Ucraina, dopo i tre anni di pandemia che, oltre a troppi morti, hanno lasciato segni profondi nella vita di tanti, soprattutto giovani, e amari strascichi da caccia alle streghe, dopo una siccità (sia qui da noi che in tante parti del mondo) che sembra inarrestabile e di cui non comprendiamo ancora appieno le conseguenze, la tentazione è quella di domandarci: «In questa situazione, come si può celebrare la Pasqua che è risurrezione, cioè vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio, della gioia sul pianto?».

Mi ero fatto una domanda simile, tanti anni fa, a Maralal, in Kenya, quando, il Venerdì Santo, avevamo concluso la Via crucis vivente lasciando (chi impersonava) Gesù inchiodato alla croce. In quel momento, quell’immagine rappresentava le sofferenze di persone e animali attanagliati in tutta la regione da un lungo e doloroso periodo di siccità e fame.

La risposta, allora come oggi, è proprio la Pasqua: non una risoluzione magica di tutti i problemi, ma un cammino che porta dal buio alla luce, dalla morte alla vita. Un cammino da fare non da soli, ma con Lui, Gesù di Nazareth, per rinascere con Lui, per trovare in Lui la forza di vivere, lottare, amare, pagare di persona per un mondo nuovo, bello, fraterno e giusto.

Allora, nella Pasqua, ha senso pregare ogni giorno per la pace, non per convincere Dio, spossato dalle nostre richieste, a risolvere i nostri problemi, quanto piuttosto per riscoprire la nostra vera dignità e vocazione, e ritrovare il coraggio di assumerci la nostra responsabilità nel costruire la pace a cominciare da lì dove siamo: casa, lavoro, scuola, tempo libero, impegno sociale e politico.

Se davvero vivo la Pasqua, se davvero ascolto la Parola, non rimango seduto sul divano a guardare uno schermo nell’attesa di un miracolo, ma divento soggetto attivo di fraternità, costruttore di pace, operatore di giustizia. Giorno per giorno, passo dopo passo.

Allora sì, anche in mezzo alla violenza degli uomini e all’incontrollabile potenza degli avvenimenti naturali, terremo viva la luce della speranza, non lasceremo spegnere la nostra piccola candela accesa al fuoco di Cristo, e avremo la forza di lottare tenacemente per un mondo dove tutti gli uomini possano danzare insieme la gioia della vera pace.