Scuse e perdono


Testo di Gigi Anataloni |


«Care Divany e Madina, scusateci».

Leggi tutta la rivista di Gennaio-Febbraio 2018 nello sfogliabile. La puoi anche scaricare tutta o solo le pagine che interessano.

Così cominciava su Vita.it del 12 dicembre scorso l’articolo che Daniele Biella – autore del dossier di questo mese – ha dedicato a Divany e Madina. «Divany, originaria del Camerun, è morta annegata a tre anni nelle acque a 30 miglia dalla Libia nel naufragio del 6 novembre 2017». Il suo corpo non è mai stato ritrovato. «Medina Husein, afgana di sei anni, è stata investita da un treno merci alla frontiera tra Croazia e Serbia lo scorso 21 novembre 2017». Il corpo è stato restituito ai suoi genitori solo dopo diversi giorni. «Nessun pietismo, ma un atto di estrema denuncia sì. Le due piccole hanno trovato la morte alle frontiere europee, che siano di terra o mare: frontiere che chi cerca rifugio da guerre o violenze non può attraversare oggi in modo legale e che quindi mettono a rischio la vita di tutti, bambini e adulti. Con i trafficanti a guadagnarci cifre stellari e con intere famiglie con più nulla da perdere che provano a passare confini in ogni condizione, venendo poi respinti dalle autorità (come accaduto alla famiglia di Madina qualche minuto prima della tragedia)». In copertina abbiamo messo la foto di Madina scattata da Silvia Maraone (dell’Ong Ipsia delle Acli) il 12 luglio scorso nel campo profughi di Bogovadja in Serbia. La storia di Divany, invece, è parte di quanto ci racconta Gennaro Giudetti alle pagine 43 e 44 del dossier. Leggere quelle storie fa venire i brividi. Mentre causano tristezza e sdegno certi commenti che purtroppo spopolano sui social a proposito dei migranti.
La vicenda di Divany e Madina ci obbliga a riflettere, perché è emblematica di un dramma che sta attraversando questi primi decenni di un secolo pieno di promesse ma anche di grandi paure. La morte delle due bambine non è un caso isolato, un’eccezione imbarbarita. I minori sono tra le prime vittime di un esodo che riguarda milioni di persone e di cui noi, in Europa, conosciamo solo le frange marginali e forse addirittura più qualificate. Fossero anche in 200mila quelli che sono arrivati in l’Italia nel 2017 per poi disperdersi in Europa, non sono che briciole di fronte agli oltre 500mila (Rohingya) in Bangladesh, ai 600mila (siriani) in Giordania, ai 700mila in Etiopia, quasi un milione in Iran, oltre un milione in Libano, un milione e mezzo in Pakistan, più di due milioni in Turchia, senza contare le masse di rifugiati interni ed esterni del Sud Sudan (800mila), della Somalia (800mila fuori, 1,5 milioni dentro), e di Eritrea, Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria e paesi del Sahel, Colombia e Venezuela. E l’elenco è incompleto.
«Oggi stiamo assistendo ai più elevati livelli di migrazione mai registrati: 65,6 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti, sono state costrette a fuggire dal proprio Paese. Di queste, circa 22,5 milioni sono rifugiati, più della metà dei quali di età inferiore ai 18 anni». Questo scrive l’agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unchr) sul suo sito. Sono cifre da spavento (i dati forniti dall’Oim, Organizzazione internazionale per i Migranti, sono anche più elevati), mentre prosperano gli affari dei mercanti di armi, dei trafficanti di uomini, dei ladri di risorse naturali e di minerali strategici. E invece di una risposta internazionale coordinata ed efficace che affronti i problemi alle radici e metta l’economia e la finanza sotto il controllo della politica, vediamo i paesi ricchi costruire nuovi muri, aumentare i controlli e fomentare nuove guerre e tensioni in punti nevralgici del mondo.
Per questo è urgente avere il coraggio di dire a tutte le Madina e Divany del mondo non solo «scusateci», ma soprattutto «perdonateci». Perché le scuse rischiano di lasciare le cose così come stanno, senza sentire il bisogno di cambiare. Chiedere scusa è già un bel passo perché è riconoscere di aver sbagliato. Il chiedere perdono però è molto di più: è riconoscere lo sbaglio e assumerne la responsabilità per un impegno a cambiare mentalità e modo di agire. È anche mettere nelle mani dell’altro la propria persona. È stabilire relazioni profonde. Il dramma mondiale dei rifugiati e migranti richiede una rivoluzione nel pensiero e nel modo di agire.
«Offrire a richiedenti asilo, rifugiati, migranti e vittime di tratta una possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, richiede una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare». Così scrive papa Francesco nel suo messaggio per la giornata della pace. Quattro azioni coordinate di cui la prima, accogliere, è la fondamentale. Accogliere non è solo un fatto logistico. Ricevere i migranti e chiuderli dentro a «simil campi di internamento», non è accoglienza. Accogliere è conoscere e farsi carico della persona del rifugiato, del suo dramma, dei suoi sogni. Accogliere è vedere la persona per quello che è, essere umano come me con un nome e una storia, e non uno stereotipo, un pericolo, una minaccia. Accogliere è creare relazioni nuove, costruire un futuro per tutti insieme, senza isolarsi nella difesa dei propri privilegi o identità. Accogliere è amare. Per questo a Divany e a Madina non basta chiedere «scusa», ma bisogna dire «perdonateci».

Gigi Anataloni

 

Testi Suggeriti:

 




Migranti: reportage dalla nave Aquarius

 


Testi e foto di Daniele Biella |


Sommario

L’umanità sulle grandi acque.

«In mare eravamo pronti alla morte».
L’esperienza su una nave di soccorso nel Mediterraneo.

Sos Mediterranée.

Cosa (non) vediamo in Libia.
I Diritti umani violati e l’accordo Italia-Libia.

«Ho visto cose terribili».
La testimonianza di un volontario italiano.

E come li accogliamo.
Da dove e perché.

fake news.

1: 35 euro al giorno.

2: malaria e nozze.

 


L’umanità sulle grandi acque

Daniele Biella è nostro collaboratore da diversi anni. Alla fine della scorsa estate ha avuto l’opportunità di accompagnare il viaggio di una nave della Ong Sos Mediterranée in zona Sar, la zona di ricerca e salvataggio del Mare Mediterraneo ai confini con le acque territoriali libiche. Da quell’esperienza è nato questo Dossier. Un reportage dalle «grandi acque», accompagnato dall’analisi del controverso accordo Italia-Libia, dal racconto di un volontario, testimone della strage in mare del 6 novembre avvenuta con qualche responsabilità della Guardia costiera libica finanziata dall’Italia, da una panoramica sul perché e da dove vengono i migranti e su come li accogliamo, e da qualche spunto sulle fake news che sul tema delle migrazioni trovano terreno fertile.

Luca Lorusso


«In mare eravamo pronti alla morte»

L’esperienza su una nave di soccorso nel Mediterraneo

Ecco, scandito per singoli giorni, il reportage del nostro viaggio sull’Aquarius, a documentare quanto accade oggi nel «Mare Nostrum», da sempre conosciuto per la bellezza delle sue acque ma, negli ultimi anni, sempre più associato alla morte di migliaia di persone che annegano nel tentare la fuga verso una vita migliore.

Siamo partiti da Catania l’8 settembre scorso in 40, siamo tornati a Trapani il 16 in 411. Questo è stato il carico umano della nave Aquarius dell’Ong (organizzazione non governativa) Sos Mediterranée.

Tra i 40 della partenza, 14 erano ufficiali e marinai, 12 membri della squadra di Sos Mediterranée, 10 dell’èquipe medica dell’Ong Medici senza frontiere (Msf) e quattro giornalisti, tra cui il sottoscritto.

Gli altri 371 erano persone migranti provenienti da 16 nazioni diverse, recuperate da gommoni in difficoltà in mare aperto e tolte, quindi, a morte certa. Tutte salvate nella quinta giornata di navigazione, il 14 settembre. È questo – salvare persone – che le navi delle Ong fanno dal 2015, a fianco delle imbarcazioni della Guardia costiera italiana e delle Marine militari di vari stati europei.

L’arruolamento

La chiamata arriva 72 ore prima dell’inizio della missione: «Sei stato selezionato come uno dei quattro giornalisti a bordo della ventisettesima rotazione della nave Aquarius», mi dice un membro dello staff a terra dell’Ong Sos Mediterranée (ci sono diversi gruppi di volontari che prestano servizio sulla nave e si alternano a rotazione, ndr.). Sapevo già che, in caso di chiamata, i tempi sarebbero stati stretti: passaporto alla mano e organizzazione familiare effettuata, parto. Come giornalista impegnato da anni a narrare le migrazioni forzate e i drammi in mare e lungo le altre frontiere, ritenevo l’esperienza diretta su una nave umanitaria un passo fondamentale del mio lavoro.

Una volta tornato sulla terraferma, la mia frase più frequente sarà: «Dovrebbero passare tutti un periodo su una nave come l’Aquarius, per capire come stanno le cose e quindi per raccontarle in modo corretto».

«L’opinione pubblica deve sapere»

Eccomi quindi nella cabina 14 dell’Aquarius assieme a un esperto giornalista della radio pubblica francese, Raphael Krafft. Gli altri due colleghi, anch’essi navigati reporter, sono il fotografo Tony Gentile e il videomaker Antonio Denti, entrambi dell’agenzia Reuters. «Consideratevi parte dell’equipaggio fin da subito: di fronte a un’emergenza, anche voi siete chiamati ad aiutare a salvare vite», ci viene detto da Madeleine Habib, australiana coordinatrice delle attività Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) dell’Aquarius. Sono lei e Marcella Kraay, responsabile dell’èquipe medica di Msf – che opera sulla nave grazie a un contratto con Sos Mediterranée – i punti di riferimento del personale umanitario della missione. «Documentare quello che avviene è importante. Per questo chiediamo ai giornalisti di venire a bordo con noi: l’opinione pubblica deve sapere da fonti dirette il dramma in atto nel Mar Mediterraneo», aggiunge Madeleine.

I primi due giorni

I primi due giorni sulla nave, il 9 e il 10 settembre, passano attraverso una serie di incontri conoscitivi ed esercitazioni: iniziamo, alle 8.15 del mattino, con un incontro collettivo che si ripeterà ogni giorno e che riguarda le informazioni sulla rotta, sulle necessità a bordo, e sugli eventuali salvataggi. Ci viene spiegato quali saranno le fasi del viaggio: il warm up, ovvero le esercitazioni iniziali, lo sprint, cioè il recupero di persone in mare, e la marathon, il ritorno alla terra ferma al porto indicato dalla Guardia costiera italiana (l’Imrcc, Italian maritime rescue coordination centre, il Centro italiano di coordinamento del soccorso marittimo). È l’Imrcc che, dalla propria sede centrale di Roma, coordina le navi in mare, sia le proprie che quelle delle Ong, dell’agenzia europea Frontex e i mercantili di passaggio.

Dopo l’incontro del mattino, andiamo a conoscere il comandante della nave e seguiamoL’esercitazione medica per le situazioni di emergenza, in particolare sul massaggio cardiaco, tenuto da Margherita Colarullo, medico di Msf. Margherita è una dei pochi italiani (mezza dozzina) a bordo in questa rotazione. Gli altri provengono da diversi paesi dell’Europa, ma anche da altri continenti. L’età media è di 30-35 anni.

Ancora, facciamo la simulazione di evacuazione generale, quella di un attacco di pirateria (in cui bisogna recarsi in una zona della nave a chiusura ermetica, chiamata citadel), e si approfondisce la conoscenza della tipologia di persone vulnerabili che potrebbero essere recuperate. Msf ha previsto una serie di braccialetti di diverso colore per segnalare, per esempio, i minori stranieri non accompagnati (Msna), le persone con malattie (che vengono prese in cura già a bordo) e i casi estremamente vulnerabili, come le persone con tutta evidenza vittime di violenze.

La prima notte di navigazione e la giornata successiva non sono facili dal punto di vista fisico: il mare è molto mosso. Dato però che sono tra quelli che non accusano malesseri, ne approfitto per ascoltare le storie e le motivazioni che hanno portato le persone a bordo a passare mesi in mare per salvare vite. «Quando nel 2015 stavano arrivando centinaia di migliaia di persone sull’isola greca di Lesbo dalla Turchia sono andato sulle spiagge ad aiutare. È stata un’esperienza che non dimenticherò mai, mi ha fatto capire quanto ognuno di noi può essere utile per gli altri», mi racconta Iasonas Apostolopoulos, 29 anni, originario della Grecia continentale. «Finita l’emergenza lì, ho capito che potevo ancora dare il mio contributo: ho fatto pratica di soccorso e sicurezza in mare e ho chiesto e ottenuto di imbarcarmi sulle navi delle Ong nel Mediterraneo centrale, fino ad arrivare qui sull’Aquarius». Iasonas ha salvato, con le proprie mani, centinaia di persone issandole a bordo dei rhib, i gommoni di soccorso. Purtroppo ne ha recuperate anche altre senza vita. Nonostante la giovane età di molti, trovo un incrocio di professionalità e umanità che non dimenticherò, e che getta luce utile a fugare tutte le ombre che si sono create nell’estate 2017 sull’operato delle Ong in mare.

Terzo e quarto giorno: l’arrivo in zona Sar

Quando il maltempo si placa, l’acqua diventa placida. «Bisogna stare all’erta, perché con il mare calmo i trafficanti fanno partire i gommoni», spiega Max Avis, uno dei soccorritori più esperti a bordo, 29enne come Iasonas, nato in Inghilterra ma vissuto soprattutto in California. È lui il punto di riferimento delle operazioni di salvataggio, ovvero la prima persona che, con un mediatore culturale al seguito, parla con le persone migranti quando un barcone in pericolo viene avvistato e raggiunto dai rhib. Max cerca di infondere tranquillità nei migranti e distribuisce giubbotti di salvataggio prima di issarli a bordo.

Una volta arrivati nella zona Sar, ovvero in quella parte di Mediterraneo che arriva fino a 12 miglia di distanza dalle coste libiche in cui si fa l’attività di ricerca e soccorso, nel pomeriggio della terza giornata simuliamo un salvataggio.

Sono per me momenti molto intensi, anche perché Sos Mediterranée dà l’opportunità ai giornalisti di salire a bordo dei gommoni di soccorso e quindi di vivere in prima persona le manovre di contatto con l’imbarcazione in pericolo. Per la simulazione issiamo sul gommone dei manichini. Più tardi dovremo issare persone.

Mi fa impressione rendermi conto che tutto questo succeda veramente nel 2017, in un mare splendido in cui avvistiamo gruppi di delfini giocare con le onde create dalla nave.

Nel solo 2016, l’anno peggiore di sempre, sono state ben 5.096 le vittime nel Mediterraneo, e 3.081 all’11 dicembre 2017 in cui sono diminuite le partenze per effetto di accordi critici come quelli tra Unione europea e Turchia o tra Italia e Libia. Rispetto all’anno precedente, nel 2017 è aumentata la probabilità di non farcela: a morire oggi, tra quelli che tentano la traversata, è una persona ogni 42, mentre nell’annus horribilis 2016 si era al rapporto di uno ogni 51.

Durante le esercitazioni, pensare alle migliaia di persone abbandonate in acqua dai trafficanti è disarmante. Si è da soli in quel mare così grande, in balia delle onde, con un’alta probabilità di non rivedere mai più la terra.

La prima chiamata

Una volta entrati nella zona di possibili segnalazioni di imbarcazioni in pericolo, gli operatori della squadra Sar si alternano nei turni al ponte di comando, usando anche il binocolo, a fianco degli uomini dell’equipaggio.

La mattina del quarto giorno, mercoledì 13 settembre, arriva in effetti la prima chiamata del Imrcc di Roma per soccorrere un’imbarcazione nel mare a Ovest di Tripoli. Noi siamo a Est, per indicazione della stessa Guardia costiera italiana, quindi il luogo del soccorso è molto lontano dall’Aquarius: ci vorranno almeno 7-8 ore per arrivare. Per fortuna, dopo meno di tre ore, Imrcc richiama dicendo all’Aquarius che una nave militare tedesca è riuscita a fare il salvataggio e che non ci sono vittime. La giornata si conclude quindi con un sollievo generale, affiancato alla preoccupazione per l’indomani.

Quinto giorno: i salvataggi

E infatti, giovedì 14 settembre inizia con un rumore di elicottero sopra le nostre teste: è un mezzo militare del dispositivo europeo «Operazione Sophia» che pattuglia l’area contigua alla Libia. La chiamata all’Aquarius questa volta arriva a sorpresa dalla Guardia costiera libica per segnalare un gommone in avaria che loro non riescono a recuperare, a 25 miglia dalla costa. Una lancia con quattro militari libici arriva rapidamente fin sotto alla nostra nave. Temendo intimidazioni da parte loro, come è successo di recente verso alcune Ong (con tanto di spari in aria), la coordinatrice Sar chiede a tutti noi di andare in coperta. L’apprensione, però, si stempera quasi subito. I libici chiedono all’Aquarius di farsi carico del recupero. Successivamente, durante il salvataggio, rimangono a fianco dei due gommoni di Sos Mediterranée, collaborando in parte alle operazioni. Nel giro di tre ore, prima che l’acqua faccia affondare l’imbarcazione malridotta, iniziando da donne, bambini e casi medici problematici (per fortuna nessuno grave), 20 persone alla volta, i 142 occupanti del gommone vengono trasferiti dai soccorritori dell’Ong sulla Aquarius. Poco dopo, la Guardia costiera libica smonta il motore e brucia il mezzo, poi torna verso le proprie coste.

Un giovanissimo migrante subsahariano, appena salito sull’Aquarius, racconta: «I libici ci avevano intercettato e intimato di tornare indietro, ma il motore si è rotto in quel momento e quindi il vostro salvataggio è stato per noi un miracolo, altrimenti ora saremmo morti o di ritorno nelle prigioni libiche». Sono evidenti i segni delle torture sui loro corpi, così come la spossatezza delle donne, alcune delle quali in seguito testimonieranno alle operatrici di Msf gli abusi subìti nei centri di detenzione.

Subito donne e bambini sono condotti nello shelter, «rifugio», zona della nave al chiuso, mentre gli uomini rimangono sui vari ponti all’esterno, dove passeranno la notte. A tutti viene consegnato un kit comprendente una tuta, una coperta, un integratore energetico e una salvietta.

Poco dopo aver concluso il salvataggio, arriva un’altra chiamata, ancora dalla Guardia costiera libica, per altre 120 persone in difficoltà in mare aperto. Questa volta non c’è un’imbarcazione libica ad accompagnare l’Aquarius, quindi, date le maggiori condizioni di sicurezza, a noi giornalisti viene concesso di salire sui rhib.

Fortunatamente il gommone è in buone condizioni e nessuno è caduto in mare.

Basta Libia!

«No more Lybia», basta Libia, gridano in molti. Via dall’inferno dove hanno vissuto gli ultimi mesi. Verso una vita di sicuro non facile, ma migliore di quella che hanno lasciato alle spalle.

Nel tardo pomeriggio, alla fine dei due salvataggi, le persone recuperate sono 262: il più piccolo ha una sola settimana di vita ed è con i genitori, il più anziano ha 56 anni.

Ma non è ancora finita: a notte inoltrata, questa volta su indicazione di Imrcc, sono trasferiti da noi, dalla nave dell’Ong Save the children, la Vos Hestia, altri 109 migranti recuperati in un’altra zona delle acque internazionali. Arriviamo al totale di 371 persone, di 16 nazioni diverse, tra cui 54 minori non accompagnati.

«Ora fate rotta verso l’Italia, domani vi diremo il porto di sbarco», è l’indicazione della Guardia costiera italiana.

Sull’Aquarius si fa evidente la stanchezza di una giornata pazzesca, e tutti si addormentano, mentre la squadra di Sos Mediterranée rimane sveglio a turni per controllare la situazione generale.

Il ritorno verso l’Italia e lo sbarco

Il giorno dopo i salvataggi è un giorno fondamentale. Le persone, per la prima volta dopo mesi, se non anni, in cui sono state alla mercé di predoni del deserto, sfruttatori e trafficanti di ogni specie, finalmente hanno qualcuno di cui fidarsi: la sensazione è immediata, e molti si aprono sia con il team medico di Msf, sia con noi giornalisti.

Raccontano storie di speranza e di orrore, di quanto hanno subito in Libia e in altri luoghi dove l’umanità sembra essere stata dimenticata.

«Sono stato venduto cinque volte, mi trattavano come un oggetto, non una persona», mi dice un ragazzo 17enne proveniente dal Gambia. Poco lontano, un ragazzo non riesce a camminare bene per le conseguenze di colpi d’accetta ricevuti sui piedi.

Una donna piange disperata mentre guarda i bambini sani e salvi a bordo: non sono i suoi. I suoi li ha persi in un naufragio a luglio, prima di essere respinta dalla Guardia costiera libica. Erano tre, avevano 1, 3 e 5 anni.

Ci sono anche famiglie intere, scappate dai rapimenti sempre più frequenti a Tripoli, capitale della Libia, e ci sono famiglie siriane che hanno sperato fino all’ultimo che la guerra iniziata nel 2011 terminasse, ma alla fine hanno lasciato tutto per partire. Loro hanno pagato di più per il viaggio, attorno ai mille dollari a testa, e in cambio hanno ricevuto un «trattamento» migliore, senza violenze.

Gran parte delle persone dell’Africa subsahariana, con meno soldi a disposizione, hanno subito vessazioni quotidiane dai carcerieri, comprese le telefonate ai parenti per spillare loro soldi da inviare via money transfer.

Tutto il male del recente passato, però, scompare temporaneamente sulla nave che li ha salvati: partono i canti, i balli, prima sommessi, poi di festa collettiva. Sono momenti indimenticabili, di liberazione.

«Non sappiamo domani dove verremo mandati, ma l’importante è avercela fatta». «È come una rinascita, perché in mare eravamo pronti alla morte. Meglio infatti morire di speranza che rimanere in mezzo alle violenze libiche», sono alcune delle voci che raccolgo.

Intanto, i bambini giocano sia nella zona riservata a loro e alle donne, sia sul ponte della nave, e l’atmosfera è tranquilla. Non ci sono situazioni mediche gravi e, soprattutto, i tre salvataggi sono stati completi, senza nessuna salma da riportare a terra, come invece avviene in molti altri casi.

Io passo la giornata e quasi tutta la notte successiva a dialogare e ascoltare testimonianze, e ad aiutare gli operatori delle Ong: è talmente evidente la necessità di darsi da fare che non si può stare a guardare.

Terra (europea) in vista

Alla mattina dell’ultimo giorno di viaggio, ecco la terra: Sicilia, Italia, Europa. A colazione il texano Jay Berger, logista di Msf, spiega a tutto l’equipaggio come avverrà l’operazione di sbarco. Arriviamo a Trapani, dove in un paio d’ore tutte le 371 persone salvate in mare vengono fatte sbarcare. Portate nei presidi del ministero dell’Interno e delle Ong per i primi accertamenti, ricevono ulteriori visite mediche dopo quelle sulla Aquarius.

Scendiamo anche noi quattro giornalisti lasciando il posto ad altri colleghi che ci danno il cambio. La Aquarius ripartirà poche ore dopo, di nuovo verso la zona Sar, dove le navi di salvataggio in questo periodo sono poche, nonostante le partenze dalla Libia continuino.

È il momento dei saluti sia con lo staff che con i migranti, ed è emozionante, perché tutte queste persone, con cui ora ho stabilito un contatto, hanno davanti a loro un futuro nuovo, di certo difficile, ma almeno più sicuro. Persone, ognuna diversa dalle altre, «non numeri, ma volti e storie», come dice papa Francesco. È proprio così: donne e uomini come noi. Potremmo essere noi al loro posto se fossimo nati dalla parte sbagliata del mondo.

Daniele Biella

Sos Mediterranée

L’Ong italo-franco-tedesca Sos Mediterranée nasce nel 2015 in Germania e va nel mar Mediterraneo con la nave Aquarius (che prima era un’imbarcazione della Guardia costiera tedesca) nel febbraio 2016. Da allora fino allo sbarco dell’11 dicembre 2017, l’Aquarius, lunga 77 metri, ha salvato 25.646 persone: 11.261 nel 2016, 14.385 nel 2017. Ben oltre 25 le nazionalità di provenienza delle persone, sia dall’Africa che dal Medio Oriente.

Sito web: www.sosmediterranee.org


Cosa (non) vediamo in Libia

I Diritti umani violati e l’accordo Italia-Libia

Lo sappiamo da tempo: in Libia i migranti subiscono brutali forme di violazione dei loro diritti. Nonostante questo, l’Italia ha fatto un accordo con Al-Sarraj che mira a scoraggiarne la partenza. Così sono diminuite le partenze e i morti in mare, ma di fatto sono peggiorate le condizioni delle persone sulla terra ferma.

Quello che sta accadendo nel mar Mediterraneo e sulle coste libiche non si può più tacere. Ci sono filmati e testimonianze che ora pesano come macigni sulla Comunità internazionale, e sull’Europa in primis. Racconti che arrivano all’attenzione dell’opinione pubblica grazie al coraggioso lavoro di giornalisti disposti a rischi personali in nome della verità dei fatti, grazie alle stesse persone migranti che fanno conoscere la loro storia nonostante il rischio di ritorsioni, e grazie alla presenza in mare di soccorritori che partono con un preciso scopo: salvare vite umane.

Migliaia, se non decine di migliaia di esseri umani, prima di venire obbligati a partire affidandosi alla roulette russa del mare, sono vittime per mesi di violenza da parte di carcerieri e trafficanti.

Succede da anni, ma solo dall’autunno del 2017 se ne parla apertamente, dopo la strage del 6 novembre (almeno 52 morti causati dal comportamento scorretto delle autorità libiche, si veda box) e altri fatti angoscianti come quelli mostrati dal video della Cnn in cui si assiste a una compravendita di giovani dell’Africa subsahariana. Un vero e proprio commercio di «schiavi» in terra libica. Il 27 novembre, poi, hanno destato ulteriore indignazione le immagini di decine di bambini denutriti e coperti di piaghe recuperati dalla nave Aquarius dell’Ong Sos Mediterranée su indicazione del Imrcc di Roma. Sul peschereccio dal quale sono stati prelevati c’erano 421 anime. Prima di lasciare la terra ferma erano stati chiusi per mesi in condizioni più che disumane in prigioni illegali gestite dai trafficanti.

Un accordo

La Libia, che non ha firmato la Dichiarazione Onu sui diritti umani, è considerata uno dei luoghi più pericolosi al mondo. Per questo sta sollevando una forte discussione il fatto che, prima con un Memorandum del febbraio 2017, poi con un vero e proprio accordo nell’estate, il governo italiano abbia stretto un patto con quella parte della Libia governata dal premier Al Sarraj. L’Italia, in cambio del controllo delle partenze dei migranti, garantisce navi e formazione alla Guardia costiera del paese nordafricano, in particolare della città di Zawiya e, a detta degli stessi libici, un apporto economico (rimasto imprecisato).

Il problema è duplice: da una parte il «controllore» potrebbe benissimo essere anche il «controllato» (il miliziano trafficante che cambia casacca e diventa membro della Guardia costiera libica, come denunciato dal giornalista Rai Amedeo Ricucci); dall’altra in quelle zone si continua a combattere e nuove milizie si impossessano dei territori di altre, come avvenuto a settembre, quando quelle riconosciute da Al Sarraj sono state sconfitte da altre vicine al rivale, il generale Haftar che controlla gran parte della Cirenaica. La conseguenza è il caos totale per le persone migranti rinchiuse nei centri di detenzione in attesa di partire per l’Italia (più che di un improbabile rimpatrio): esse si trovano in balia degli eventi, esposte a un fuoco incrociato di libici contro libici e al rischio di essere di nuovo rapite o vendute e, ovviamente, trattate senza alcun rispetto dei diritti umani.

L’Unhcr, l’alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, può entrare a visitare i campi di detenzione «ufficiali» solo con permesso delle autorità libiche. Quando lo fa, di solito trova situazioni ripulite per l’occasione, ma appena i detenuti riescono a parlare, raccontano di soprusi e compravendite di persone che avvengono anche lì, nei centri più controllati. La partenza per il mare è una liberazione, ma, da quando sono in atto i respingimenti, l’incubo è destinato a continuare, perché in caso di intercettazione da parte della Guardia costiera libica si è costretti a tornare. Questo, il ministro dell’Interno italiano Marco Minniti, promotore dell’accordo con la Libia, lo sa, ma la sua linea è quella di fare qualcosa in ogni caso per fermare gli arrivi in Italia. Per questo dopo il naufragio del 6 novembre 2017, nonostante l’appello del volontario di Sea-Watch Gennaro Giudetti, che ha visto da vicino la violenza delle autorità libiche, nonostante il video della Cnn e le prove delle torture subite dalle persone migranti in Libia, non ha cambiato la linea governativa rivendicando «la lotta ai trafficanti» e «la diminuzione del numero degli sbarchi».

Lo stesso ministro Minniti ha creato nel luglio 2017 un Codice di condotta per le Ong sull’onda del clamore di una campagna mediatica di attacco alle stesse organizzazioni, sospettate di essere d’accordo con i trafficanti, nonostante in un anno di accuse da parte di blogger, media e politici schierati con la «criminalizzazione della solidarietà», nessun fatto concreto sia mai stato accertato. Al momento una sola Ong, la tedesca Jugend Rettet, pur vedendosi riconosciuti i suoi fini umanitari, è stata indagata dalla Procura di Trapani per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Quasi tutte le organizzazioni non governative hanno firmato il Codice di condotta accordandosi con il ministero. Molte poi si sono rifiutate di tornare nelle acque internazionali, ma più per l’atteggiamento aggressivo della Guardia costiera libica che per le regole del Codice, che di fatto sono le stesse già in vigore in mare e già osservate anche dalla stessa Guardia costiera italiana. È l’atteggiamento libico il vero problema: da esso dipende se un salvataggio va a buon fine o se centinaia di persone trovano la morte. Una situazione inaccettabile.

Daniele Biella


«Ho visto cose terribili»

La testimonianza di un volontario italiano

Il 6 novembre 2017 c’è stata l’ennesima strage in mare. Almeno 52 morti, anche a causa del comportamento della Guardia costiera libica. Ce ne parla un testimone oculare.

Gennaro Giudetti ha 27 anni, è originario di Taranto e negli ultimi sette anni ha vissuto un anno in Albania con i Caschi bianchi in Servizio civile all’estero, poi come volontario in Kenya, nei Territori Palestinesi e in Libano per il corpo di pace Operazione Colomba dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII.

A maggio 2017 e a novembre si è imbarcato con l’Ong Sea Watch per partecipare, come mediatore culturale, alle operazioni di salvataggio e soccorso nel Mediterraneo, durante le quali ha dovuto personalmente trarre in salvo dall’acqua decine di persone, donne e bambini compresi.

Il 6 novembre 2017 è stato testimone di un naufragio che ha causato la morte di decine di persone. Sono state chiare fin da subito le responsabilità del personale della Guardia costiera libica presente sullo scenario. Giudetti è stato il primo a denunciare tutto questo, chiedendo in un appello su Vita.it di incontrare il ministro dell’Interno Marco Minniti e i membri del Parlamento europeo. Ecco il suo racconto di quei momenti drammatici, ripreso da giornalisti e politici di tutto il mondo, compresa la presidente della Camera Laura Boldrini, ex portavoce di Unhcr, Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati.

«Ciò che ho visto con i miei occhi»

«Non appena sono tornato a terra, dopo il naufragio del 6 novembre, ho deciso di raccontare a tutti quelli che vorranno ascoltare ciò che ho visto con i miei occhi.

Insieme ad altri volontari dell’Ong Sea Watch abbiamo tirato fuori dall’acqua, uno a uno, a braccia, 58 persone, salvandole dalla morte.

Di fronte a noi, la Guardia costiera libica ha agito in modo disumano, lasciando decine di uomini e donne in mare ad annegare, senza lanciare salvagenti e picchiando chi non voleva essere preso da loro per non tornare in Libia e voleva, invece, venire sulla nostra nave, dove vedeva al sicuro i fratelli, le mogli, i padri. È stato straziante vivere tutto questo.

Quel giorno eravamo a 30 miglia marine dalla Libia, in piene acque internazionali. L’Imrcc di Roma, la Centrale di comando della Guardia costiera, ci ha contattato per effettuare il salvataggio di un gommone in difficoltà, aggiungendo che sullo scenario avremmo trovato anche una nave della Marina francese con cui collaborare. Quando siamo arrivati sul punto indicato, però, abbiamo capito fin da subito che era già in corso un dramma».

Abbiamo dovuto farci largo tra i corpi

«Prima di noi e dei francesi era arrivata una nave della Guardia costiera libica, che aveva agganciato il gommone dei migranti. Il natante era bucato e c’erano decine di persone in mare. Alcuni indossavano il salvagente, molti altri non avevano nulla.

Dalla nave della Sea Watch 3 abbiamo lanciato i due gommoni di salvataggio. Io ero su uno di questi con altri tre componenti dell’equipaggio.

Abbiamo dovuto farci largo tra corpi di persone che erano già annegate per riuscire a raggiungere e cercare di recuperare quelli che invece erano ancora in vita. Abbiamo tirato a bordo i superstiti con le braccia. Dopo un po’ facevano talmente male che mi si stavano per bloccare. C’erano naufraghi che si attaccavano al mio collo mentre salvavo altri. Sono stati istanti tanto tragici quanto rischiosi.

A un certo punto ho visto un bambino che galleggiava davanti a me, apparentemente senza vita. Avrà avuto 3 o 4 anni. L’ho tirato su nel gommone con le mie mani, sperando in un miracolo. L’abbiamo riportato sulla nave e abbiamo provato a effettuare la rianimazione, ma purtroppo non c’è stato nulla da fare».

La Guardia costiera libica

«I militari libici sembravano non interessarsi delle persone che erano più lontane da loro. C’erano intorno alcuni corpi senza vita. Loro hanno lanciato delle corde alle quali le persone ancora in acqua si aggrappavano per salvarsi. Ma molti, sapendo che con la Guardia costiera libica sarebbero ritornati in Libia – dove oramai sono documentate le tante violenze commesse -, hanno iniziato a nuotare verso di noi non appena ci hanno visto. I libici all’inizio sembravano collaborativi, non ostacolavano chi si dirigeva verso di noi. Poi, però, hanno iniziato a fare un gesto folle: ci hanno lanciato addosso delle patate, mentre ci urlavano di andarcene. Nello stesso tempo si rendevano protagonisti di brutalità sulla loro nave: prendevano a frustate e bastonate chi era già a bordo ma cercava di alzarsi e ributtarsi in mare per venire da noi.

Nonostante ciò, tante persone continuavano a provare a sfuggire alla Guardia costiera libica, anche perché alcuni dei loro parenti erano già in salvo sui nostri gommoni e vedersi separati aumentava la loro disperazione. Improvvisamente, i libici hanno deciso di andarsene, a tutta velocità e senza una chiara motivazione.

Un elicottero militare italiano, presente sulla scena, si è abbassato di colpo, costringendoli a rallentare almeno per un attimo. La loro fuga ha aggravato il dramma già in corso. Molte persone, infatti, erano ancora in mare, attaccate alle corde e la motovedetta in movimento li ha messi in estremo pericolo.

Ho assistito a una scena orribile: un marito che si è aggrappato a una corda per scendere dopo avere sentito la moglie che lo chiamava dal nostro gommone, ma non sapendo nuotare aveva paura di lanciarsi in acqua. Proprio in quel momento la nave libica è partita e lui è rimasto appeso. Chissà cosa ne è stato di lui: noi non l’abbiamo potuto recuperare e non sappiamo se sia vivo o morto. Lascio immaginare quanto sia disperata ora sua moglie, così come la mamma del bimbo che ho visto annegare davanti ai miei occhi. Nelle ore successive al salvataggio ho passato molto tempo a cercare di consolarla, anche se è impossibile pensare di alleviare un trauma simile».

Fermare l’accordo con la Libia

«Come italiano ed europeo chiedo scusa alle persone la cui unica colpa è essere nati nella parte sbagliata del mondo. Queste donne, questi uomini, questi bambini, non sono solo numeri: sono esseri umani, con un nome, una faccia, e vorrei che tutto il mondo venisse sulle barche nel Mediterraneo per capire davvero come stanno le cose. Mi amareggia pensare che c’è chi liquida quanto accade con frasi come “c’è un’invasione che va fermata”. Credo che di fronte a questa tragedia dovremmo ascoltare la nostra coscienza.

E mi preoccupa l’accordo che il governo italiano ha fatto con la Libia e il modo in cui vengono utilizzate le navi donate alla Guardia costiera libica. Credo che si debba fermare o modificare immediatamente l’accordo con la Libia. Ora più che mai, nessuno può dire “chissà cosa succede veramente?”. Io c’ero, ho visto, ed è tutto vero. E quello che sta succedendo non deve succedere mai più».

Testimonianza di Gennaro Giudetti, raccolta da Daniele Biella


E come li accogliamo

Da dove e perché.

Vengono via da regimi oppressivi, da zone di conflitto, dai gruppi jihadisti. O anche «solo» da una condizione di povertà e di assenza di prospettive. L’Unione europea fatica a prendersi carico della loro sorte. L’Italia affronta la situazione nel tentativo di uscire dalla condizione di emergenza.

Da dove vengono e dove vanno le persone che migrano verso l’Europa? C’è la rotta libica, quella su cui ci concentriamo qui, ma non dimentichiamoci della rotta balcanica, diretta in particolare verso il Nord Europa, con passaggi anche a Est dell’Italia, vedi Trieste e Gorizia: migliaia di persone, bambini compresi, che puntano all’asilo politico venendo da nazioni come Siria, Afghanistan, Pakistan e Iraq e che oggi sono in gran parte bloccati in campi di accoglienza sulle isole o sulla terraferma greca o, in condizioni peggiori, ai confini dell’Est Europa. Una delle ultime vittime, lo scorso 23 novembre 2017, una bambina afgana di 6 anni investita da un treno merci al confine tra Croazia e Serbia: era stata appena respinta dalla polizia croata assieme alla propria famiglia.

La Libia è un collo di bottiglia

Per quanto riguarda la rotta libica, stiamo parlando di quello che viene spesso paragonato a un «collo di bottiglia», ovvero un luogo in cui le persone vengono assembrate dai trafficanti prima della partenza obbligata verso l’Europa. Molti, provenienti dall’Africa Subsahariana, non puntano al vecchio Continente, ma piuttosto alla Libia stessa come luogo di lavoro. Una volta giunti in Libia, però, si rendono conto che la scelta è sbagliata, anche per le atroci violazioni dei diritti umani che finiscono per subire e, non essendoci una rotta di ritorno, l’unica via d’uscita è la traversata del Mediterraneo. Verso la Libia convergono rotte migratorie sia dal Corno d’Africa (dall’Eritrea in particolare, dove c’è una decennale dittatura, ma anche dalla Somalia dove terrorismo e violenze sono pericoli quotidiani), sia da paesi in guerra come il Sud Sudan o il Congo, sia da altri paesi alle prese con diverse forme di terrorismo (si veda Boko Haram in alcune zone della Nigeria o gruppi jihadisti in Mali), persecuzioni governative o anche situazioni di dissesto climatico e povertà diffusa. Tutti motivi che spingono migliaia di persone, soprattutto giovani, a partire: i figli maggiori sono quelli su cui una famiglia punta, spesso indebitandosi. Quando il ragazzo arriverà alla meta, potrà iniziare a inviare denaro.

Ma non è solo in Libia il pericolo: ogni passaggio è rischioso, perché trafficanti e criminali comuni stabiliscono rotte ben precise e se non hai i soldi per percorrerle vieni lasciato indietro. Nel deserto del Sahara questo significa morte certa di stenti o a mano armata. Se superi deserto, Libia e mare, alla fine l’Europa la trovi.

In Italia, le maggiori nazionalità di arrivo nel 2017 sono state: Nigeria, Guinea Conakry, Costa d’Avorio, Bangladesh, Mali ed Eritrea (vedi tabella).

Il Regolamento di Dublino

Per il Regolamento di Dublino, in atto nell’Unione europea dal 1990 con una serie di modifiche successive non sostanziali, il primo paese d’approdo in Europa è quello in cui una persona deve chiedere asilo politico. Molti però non vogliono, perché hanno parenti o conoscenti altrove, e provano a passare illegalmente le frontiere di terra, per esempio tra Italia e Francia, Svizzera e Austria. Il risultato sono altre morti, come le cronache locali purtroppo riportano tra Ventimiglia, Como e Brennero.

A metà novembre 2017, dopo anni di lavori, finalmente il Parlamento europeo ha varato una riforma del Regolamento che supera il blocco del primo paese d’approdo, prevedendo l’invio della persona dal centro di prima accoglienza in nazioni diverse attraverso il sistema delle quote: ma tale riforma va approvata anche dal Consiglio europeo, composto dai capi di stato e di governo dei singoli membri Ue, che oggi su questo argomento ha posizioni molto rigide di avversione. I più contrari sono soprattutto i paesi dell’Est Europa, appartenenti al cosiddetto «Gruppo di Visegrad».

La prima accoglienza

In attesa di questo cambiamento, fortemente voluto dalla società civile italiana ed europea, il sistema di accoglienza prevede due fasi: la prima attraverso il meccanismo degli hotspot, e la seconda attraverso strutture dove le persone rimangono il tempo necessario a vagliare la loro domanda di asilo (protezione internazionale).

Gli hotspot sono luoghi in cui le persone vengono trattenute appena sbarcate, in attesa di ricevere la loro richiesta d’asilo. Ce ne sono una decina
distribuiti tra le isole greche e l’Italia, con situazioni diverse tra loro. In Grecia, infatti, in conseguenza dell’accordo tra Ue e Turchia del marzo 2016, migliaia di persone, bambini compresi, sono trattenute per mesi in attesa di una risposta sul loro ricollocamento. La situazione è particolarmente esplosiva sull’isola di Lesbo: nell’hotspot di Moria a dicembre 2017 erano presenti almeno 6mila persone, a fronte di una capienza di 2.500, molti in tende nonostante il freddo. Accade spesso che le persone migranti vengano addirittura rimandate in Turchia, considerato dall’Europa un «terzo stato sicuro» dove le persone non rischiano la vita. L’Europa però non prende in considerazione le dure condizioni dei campi profughi turchi in cui vivono in milioni, soprattutto siriani.

Gli hotspot italiani, invece, oggi funzionano meglio e le persone che ne hanno diritto – ovvero che hanno possibilità di chiedere asilo e non provengono da quegli stati con cui l’Italia ha accordi bilaterali di rimpatrio, come Marocco o Tunisia – vengono smistate nei centri di seconda accoglienza lungo la penisola e in quota residuale all’estero (le cose cambieranno, appunto, se il Regolamento di Dublino verrà modificato).

La seconda accoglienza

Le strutture di seconda accoglienza in Italia si basano su quote regionali e sono di due modelli: il Cas e lo Sprar. Il referente del ministero dell’Interno per i Cas (Centri di accoglienza straordinaria) è la Prefettura territoriale. Questa, con un bando, assegna un numero di persone in accoglienza a enti gestori che possono essere profit e non profit, in cambio di 35 euro per ospite. Di questi 35 euro al singolo ospite ne vanno 2,5, il resto è utilizzato dal gestore che deve spenderlo per i servizi previsti dal bando, altrimenti può essere denunciato per lucro. Le persone vengono alloggiate in strutture dell’ente stesso o che quest’ultimo affitta da privati.

Il secondo modello è quello dello Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati): un’accoglienza gestita direttamente tra Ministero dell’Interno e Comune. Quest’ultimo riceve incentivi e, soprattutto, grazie alla «clausola di salvaguardia» emanata dal ministero nel 2016, può evitare Cas sul proprio territorio se completa la propria quota Sprar che è attorno ai tre richiedenti asilo accolti ogni mille abitanti.

Molti studi affermano come sia opportuno il passaggio graduale dal sistema Cas (chiamato anche «emergenziale») a quello Sprar («strutturale»). Oggi i dati, seppure indichino un ampliamento del sistema Sprar, parlano ancora di una forte presenza di richiedenti asilo nei Cas, a volte in sovrannumero rispetto al territorio in cui sono ospitati, con conseguente disagio sia per la popolazione locale che per i migranti stessi che trovano difficoltà di conoscenza reciproca. A fine 2016, a fronte di 170mila in accoglienza Cas, erano 34mila in Sprar (fonte Anci).

Il Piano nazionale d’integrazione

Dopo anni di tentennamenti, da qualche tempo anche il governo promuove la diffusione generale del modello Sprar e ha emanato a settembre il primo Piano nazionale d’integrazione: l’integrazione è la vera sfida da vincere al di là dell’accoglienza, per la quale, a parte evidenti casi di malaffare, l’Italia si distingue in positivo rispetto ad altri paesi europei.

Lo stato deve promuovere azioni sistematiche, non sperare solo nella buona volontà del singolo tessuto sociale. Altrimenti, in un momento in cui l’opinione pubblica è molto divisa sul tema dell’accoglienza anche per causa di un’informazione fatta male sia a livello di mass media che istituzionale, il rischio è quello di dividere la società su un tema che invece andrebbe affrontato in modo unitario, chiedendo conto all’Europa di una redistribuzione complessiva degli ospiti che oggi non avviene.

Daniele Biella


Fake news

1: 35 euro al giorno

«Solo il 5% dei richiedenti asilo in Italia è rifugiato». «Si prendono 35 euro al giorno». Benvenuti nel mondo delle notizie false, propaganda o fake news anti-migranti: un mondo pericoloso dove le paure vengono amplificate e le persone portate alla diffidenza estrema sia da politici senza scrupoli che da quegli stessi mass media che dovrebbero invece portare più chiarezza. Smascherarle è un lavoro lungo ma necessario (in inglese si chiama debunking, mentre la verifica dei fatti narrati fact-checking), anche se spesso le smentite, soprattutto nel mondo dei social network, non raggiungono  nemmeno la metà della portata di un articolo falso sparato in prima pagina e condiviso da migliaia di utenti.

In Italia, rispetto alla media dell’Europa, è alto il numero degli «analfabeti funzionali», ovvero delle persone che leggono frasi ma ne travisano il significato. Ma il dato che spaventa di più, in questo caso tutta l’Europa, raccolto dalla Stanford University, riguarda l’incapacità della maggior parte degli adolescenti – con punte dell’80% – di riconoscere una notizia tendenziosa o una pubblicità, nemmeno di fronte a prove evidenti, come il logo di un sito o di un prodotto. Il messaggio viene recepito come notizia vera e quindi assimilata.

«La credibilità delle notizie è il tema centrale di questi anni», conferma Stefano Pasta, giornalista e membro dell’Associazione Carta di Roma che porta il nome del documento firmato nel 2008 da Ordine dei giornalisti e Fnsi, il sindacato di categoria, proprio per «rispettare la verità sostanziale dei fatti osservati». Se uno studente «non riesce a riconoscere la palese falsità di una notizia è un problema che le agenzie educative devono affrontare aumentando con urgenza il loro senso critico», osserva Pasta. L’associazione Factcheckers, in questo senso, ha messo online gratuitamente un’efficace «Guida galattica per esploratori di notizie» (factcheckers.it/guida).

«L’altro fenomeno preoccupante da arginare e poi scardinare è la diffusione delle post-verità», riprende il referente di Carta di Roma. «Di fronte a una supposta notizia che ci sconvolge, facciamo prevalere il nostro stato emozionale sulla realtà dei fatti: i nostri sentimenti rendono vero quello che non lo è e la nostra interpretazione del mondo è falsata. È successo così, per esempio, con il tema delle allusioni alla collaborazione tra Ong in mare e trafficanti: nessun fatto concreto, ma notizie a cui molti hanno creduto perché spinti da sentimenti di paura e rifiuto, stimolati e orientati da persone abili a manipolare le coscienze». Come bloccare l’insinuarsi della post-verità? «Osservare a fondo la realtà, trovare fonti diverse che confermino o meno una notizia che ci salta all’occhio», continua Pasta. «E allargare i propri orizzonti: quanti di noi sanno, per esempio, che meno del 10 per cento dei profughi nel mondo viene verso l‘Europa?». Infatti i dati Onu parlano chiaro: tra i paesi che ne ospitano di più al mondo ci sono Turchia, Giordania, Libano, Colombia e due stati della stessa Africa, Kenya e Rwanda. A conti fatti, fake news e post-verità sono due facce della stessa medaglia e vanno affrontate assieme, ribattendo punto su punto. Solo il 5% dei richiedenti asilo in Italia è rifugiato? No, «rifugiato» è una delle tre forme legislative previste, le altre due sono «protezione sussidiaria» e «protezione umanitaria». La somma (su dati ministeriali) fa almeno 40% in prima udienza, 60% dopo l’appello, ovvero la quota di accoglienza delle domande di asilo è in media positiva in sei casi su dieci. «Si prendono 35 euro al giorno». No: 35 euro li prende l’ente gestore, al richiedente asilo ne vanno 2,50 al giorno, quindi circa 75 al mese.

D.B.

2: malaria e nozze

«Dopo la miseria, portano malattie», titolava il quotidiano Libero mercoledì 6 settembre 2017 sul caso di una bambina di 4 anni che a Trento aveva preso la malaria. E nel sommario: «Immigrati affetti da morbi letali diffondono infezioni». In questo caso l’Ordine dei giornalisti è intervenuto per denunciare il «rischio di incitamento all’odio», ma la notizia in questi termini è girata per giorni, ampiamente trattata con toni allarmistici anche nelle televisioni, mentre chi portava spiegazioni ragionevoli dell’accaduto non veniva preso in considerazione. «È stata una macroscopica falla nelle procedure, un errore umano, ovvero un’iniezione sbagliata con siringa già infetta da parte di un infermiere», è stato infine accertato dalle indagini a inizio novembre, ma questa notizia ha trovato rilievo su ben poche testate nazionali.

«Mi hanno piantato un coltello nella mano, è stato un africano».
Questo il grido di dolore di un controllore delle Ferrovie milanesi di Trenord. Era il 19 luglio 2017: notizia sotto i riflettori ovunque, sciopero successivo indetto dai colleghi, indignazione collettiva. Infuria la caccia all’aggressore, ma il 28 luglio emerge, grazie alle telecamere della stazione, la sconvolgente verità: «Se l’è fatto da solo». Nessun africano criminale! Denuncia dell’azienda e probabile licenziamento per il controllore. Nel frattempo però la notizia falsa, ma data per vera dalla maggior parte dei media e parecchio ghiotta per «sbattere il mostro in prima pagina», è girata, purtroppo, molto di più della smentita.

Il caso in Veneto del matrimonio combinato tra una bambina di 9 anni e un adulto musulmano di 35 che avrebbe usato violenza su di lei: bufala apparsa come notizia vera il 21 novembre 2017, prima sul Messaggero, poi su altre testate nazionali e addirittura riportata nella nota rubrica «Buongiorno» de La Stampa, curata dal pur attento giornalista Mattia Feltri, nonostante la smentita da parte delle forze dell’ordine fosse arrivata entro la sera stessa. Feltri la mattina successiva è dovuto correre ai ripari, perlomeno sulla versione online, dato che il cartaceo era già in edicola.

Un caso emblematico che ha strumentalizzato il problema delle spose bambine, non molto comune in Italia ma diffuso in altri paesi del mondo, allo scopo di alimentare l’islamofobia.

D.B.


Questo dossier è stato firmato da:

  • Daniele Biella Classe 1978, giornalista, collabora con diverse testate nazionali scrivendo di tematiche sociali, in particolare migrazioni e cooperazione internazionale. Ha all’attivo due libri: L’isola dei Giusti. Lesbo crocevia dell’umanità (Paoline, 2017) e Nawal, l’angelo dei profughi (Paoline, 2015). Interviene come referente di progetti educativi e formativi sul tema dell’accoglienza in scuole, assemblee cittadine e altri centri di aggregazione. In particolare, tramite il progetto «Con altri occhi», lungo l’anno scolastico 2016-2017, ha incontrato più di 5mila alunni di scuole primarie e secondarie. Al termine degli studi universitari ha vissuto in Cile, dove ha svolto un anno di servizio civile volontario nel corpo di pace «Caschi Bianchi».
  • A cura di: Marco Bello e Luca Lorusso, redazione MC.

 

Foto di questo Dossier

  • Tutte le foto, eccetto quelle di pp. 42-44 – che sono di Sea-Watch e.V. / Lisa Hoffmann, sono state scattate da Daniele Biella durante il viaggio sulla Aquarius.

 




Germania e la questione migratoria


Per navigare questo dossier

Dal nazionalismo all’accoglienza.
Germania: ieri, oggi, domani

«Wir schaffen das» («Ce la facciamo»).
Le sfide dell’immigrazione.

Il lungo percorso del dialogo.
Immigrazione e fedi religiose in Germania.

Schede.
Dati demografici

Le Chiese.
Alcune date storiche.

 


Dal nazionalismo all’accoglienza

Germania: ieri, oggi, domani

Dopo gli orrori nazisti, la Germania è cambiata in maniera profonda e sorprendente. Potenza economica e politica, è la seconda destinazione a livello mondiale per le migrazioni, subito dopo gli Stati Uniti. Nonostante alcune tensioni e la presenza di movimenti xenofobi («Alternativa per la Germania» e «Pegida»), la Germania di oggi è un paese aperto, plurale e inclusivo. Anche se ora occorre attendere le (inevitabili) conseguenze del voto del 24 settembre 2017.

La Germania è il paese europeo dove l’ideologia nazionalista, portata alle sue più estreme conseguenze, ha messo in atto i crimini più feroci contro l’umanità. Il mito della razza ariana propugnato dai nazisti, quello di una presunta purezza etnica da conseguire e preservare a ogni costo, l’eugenetica e lo sterminio sistematico degli ebrei e di altre minoranze, rappresentano un’onta di infamia che, volenti o nolenti, sarà legato ancora a lungo al nome di questo paese.

Questo anche in ragione del fatto che, a dispetto di casi straordinari ma episodici come quelli di un Dietrich Bonhoeffer e degli studenti della Rosa Bianca, l’opposizione interna al Reich hitleriano e alla messa in opera della soluzione finale ha riguardato solo un numero assai esiguo di individui, incapaci di impensierire in alcun modo la colossale macchina della morte messa in piedi dal regime nazista e dalla sua propaganda. A fronte di ciò, come scriveva nella sua «Storia della Shoah» lo storico Georges Bensoussan, furono un milione i tedeschi coinvolti direttamente o indirettamente nello sterminio degli ebrei, fra campi di concentramento ed esecuzioni di massa delle Einsatzgruppen (le famigerate «unità operative» guidate da Reinhard Heydrich), soprattutto nei territori dell’Europa orientale, dove trovarono in molti casi terreno fertile anche fra le popolazioni locali. Assai più numerosi, inevitabilmente, i tedeschi che sapevano, oppure fingevano di non sapere, pur avendo avuto di fronte a sé segni inequivocabili e avvisaglie chiarissime rispetto a quanto avveniva.

Ciononostante, chi conosce bene questo paese dall’interno, non può che guardare con sincera ammirazione al cambiamento sociale e culturale avvenuto nella Repubblica Federale dal dopoguerra ad oggi. Un mutamento che ha investito il mondo della politica e della cultura, nonché le coscienze di milioni di tedeschi che prima hanno riconosciuto gli errori e orrori compiuti nel passato e poi hanno tentato di cambiare se stessi e il paese senza reticenze e compromessi. Il risultato che abbiamo di fronte a noi è per molti versi sorprendente. La Germania odierna è un paese aperto, plurale e inclusivo, a dispetto delle sfide della convivenza e dell’accoglienza, e delle inevitabili tensioni che ne sono sorte negli ultimi anni.

Non solo: forse più di ogni altro paese, la Germania di oggi ambisce a rappresentare un baluardo della tolleranza nel mondo, in anni – quelli che stiamo vivendo – dove le campagne elettorali europee (e non solo: basti pensare a Trump negli?Stati Uniti) paiono segnate in modo sempre più netto da rigurgiti nazionalisti e razzisti, che si fanno avanti in modo rapido e spaventoso anche nei nostri media e nelle coscienze di molti di noi. Ed ecco allora che quella che è stata senza dubbio una tragedia e un’onta, quella dei crimini compiuti dai nazisti, si è trasformata per molti versi, inaspettatamente, anche in una risorsa e in un antidoto sicuro contro l’odio sempre più imperante nei confronti dei rifugiati e degli stranieri.

La Germania dopo il 24 settembre 2017

Certo, non è tutto oro quel che luccica. Anche in Germania si è fatta avanti una destra populista e xenofoba, quella del partito «Alternativa per la Germania» (Alternative für Deutschland, Afd). Nelle elezioni del 24 settembre l’Afd ha raccolto il 12,6 per cento dei voti e ben 94 seggi nel Bundestag. Un partito, questo, che come il movimento anti-islamico di Pegida (Patriotische Europaeer Gegen die Islamisierung des Abendlandes, Europei patriottici contro l’islamizzazione dell’Occidente), ad esso per molti versi associabile, raccoglie però consensi in modo assai più marcato nell’ex Germania orientale, dove gli spettri del totalitarismo comunista continuano a pesare. Ma non si tratta, purtroppo, in molti casi, solo di slogan e vuote parole. Crescono di frequenza anche le aggressioni, gli episodi di intolleranza e di violenza nei confronti del diverso, poco importa se si tratti di un rifugiato, di un musulmano o di un ebreo, tutti ugualmente colpiti negli ultimi anni. Eppure, considerando le sfide che il paese si è trovato ad affrontare soprattutto dal 2015 in poi, non si può che trarre un bilancio positivo, con una punta di invidia nei confronti di una macchina statale che è stata capace di reggere all’urto dei tempi, senza cercare facili capri espiatori o piegarsi, per mero interesse politico, agli slogan razzisti anche da noi fin troppo noti.

La crisi dei rifugiati (2015) e gli attentati (2016)

Dicevamo poc’anzi dello spartiacque epocale rappresentato per la Germania dal 2015. Ebbene, proprio da qui si deve partire per comprendere la situazione attuale: nel 2015 si era nel pieno della crisi dei rifugiati, quando erano in tanti – o, meglio, la quasi totalità – i giornalisti nostrani che, dal caldo delle loro poltrone a Roma e a Milano, davano politicamente per spacciata la Merkel, «colpevole», secondo molti di loro, di aver spinto troppo avanti la sua politica dell’accoglienza, nota come Willkommenskultur in tedesco. Le cifre degli arrivi, a ben guardare, sono davvero impressionanti, anche se oggi sappiamo essere un po’ inferiori a quelle gonfiate e diffuse dai media in quei mesi.

Sono stati 865.374 gli individui entrati illegalmente in Germania nel 2015, secondo i dati ufficiali riportati dalla polizia federale tedesca lo scorso anno. Fra questi, primi per paese d’origine sono stati i siriani (73.920), seguiti da afghani (38.750), iracheni (22.394) ed eritrei (17.225). Tutti, com’è facile notare, fuggiti da luoghi segnati da terrorismo, guerre o dittature feroci. Notevoli anche i dati di comparazione rispetto all’anno precedente. Dal 2014 al 2015 l’immigrazione dall’Afghanistan alla Germania è aumentata del 877%, dall’Iran del 1.005% e dall’Iraq (dove era in piena espansione lo Stato islamico) addirittura del 2.155%. Dati che rendono bene l’entità di un fenomeno che ha cambiato il volto del paese, ponendolo di fronte anche a una sfida politica e culturale di vaste proporzioni.

In Germania il 2015 non sarà ricordato solo per la crisi dei rifugiati. Anche il terrorismo, da molti anni assente, ha fatto il suo macabro ritorno nel paese provocando un mutamento dello scenario politico e della sicurezza altrettanto importante. Ricordiamo, su tutti, gli attacchi dell’estate di quell’anno, da Ansbach a Würzburg, entrambi rivendicati dall’Isis. L’anno successivo, invece, è stato funestato da episodi di ancor più vasta portata: la strage di Monaco di Baviera del 22 luglio 2016, dove hanno perso la vita 10 persone, e l’attacco terroristico al mercatino di Natale a Berlino, il 19 dicembre, costato 12 vittime. Non si è trattato in tutti i casi di attentati a sfondo religioso. Tutti, invece, i protagonisti di questi macabri eventi erano, almeno per origine, stranieri. Ebbene, il clima che si respirava nelle strade, il dibattito sui media e su internet di quei giorni, non è minimamente paragonabile all’odio e alla tensione che hanno segnato la brutta estate italiana che ci siamo appena lasciati alle spalle.

L’odio non fa breccia

Quali sono le ragioni di questa differenza, che sempre più si configura a livello europeo come un’eccezione? Perché l’odio non fa breccia che in modo marginale nella Germania odierna? La prima risposta, come detto, va ricercata forse nella storia. La Germania risorta dalle macerie del Terzo Reich, sopravvissuta al terrorismo della Raf e agli anni di piombo, ha in sé più di altre nazioni gli anticorpi per resistere alla spirale cieca della violenza islamista e del razzismo. A Berlino, a Dresda, a Amburgo, a Stoccarda – città che solo pochi decenni fa erano un cumulo di macerie – sono ancora in pochi ad essere disposti a invertire l’orologio della storia, a subire il fascino del sangue e ad auspicare un ritorno ai proclami di guerra e alle crociate.

Ma non basta. Un altro punto fondamentale da ricordare, a mio avviso, anche in termini comparativi rispetto all’Italia e ad altri paesi dell’Europa orientale, dove le sirene dell’intolleranza trovano oggi orecchie più recettive, è che qui l’integrazione di milioni di cittadini di origine straniera è ormai un fatto compiuto da decenni, almeno nelle grandi città del Sud e dell’Ovest. Là dove la presenza è più recente, come nell’ex Ddr, servirà inevitabilmente più tempo, come d’altronde da noi in Italia. Non dimentichiamo infine che ad Est, punto da non trascurare, i dati sulla povertà e sull’emarginazione sociale sono ancora assai più alti che in altre parti del paese, con il solito, triste profilarsi di una guerra fra poveri.

Le paure dei tedeschi: una classifica

Dati alla mano vediamo com’è articolata la società tedesca di oggi, dove la componente legata all’immigrazione, come detto, è in continua crescita. Sono 18,6 milioni i residenti di origine straniera in Germania, pari a oltre un quinto della popolazione totale, che ammonta a 81 milioni di individui. Si è avuto, a tal proposito, un aumento record nell’ultimo anno, il 2016: +8.5% secondo i dati dell’Ufficio statistico federale, ovvero il più alto in oltre un decennio. Un fenomeno ancor più marcato nei grossi centri urbani dove le opportunità di impiego sono assai maggiori. Prendiamo ad esempio Stoccarda, dove l’anno prima, nel 2015 – e sono gli ultimi dati disponibili – il 42,2% dei residenti era di origine straniera, con punte del 58,2% per i minorenni. Numeri importanti, tali da mutare profondamente il volto di una città, dalle scuole fino al lavoro e al tempo libero. Eppure, anche a livello di percezione diffusa, le città sono sicure, assai più che in Italia, e l’immigrazione non risulta oggi al primo posto fra le preoccupazioni dei tedeschi. Il cambiamento climatico (71%) e il timore di nuove guerre (65%) la fanno da padrona, secondo una recente ricerca riportata sul quotidiano Westdeutsche Allgemeine Zeitung, staccando la paura del terrorismo (63%) e, di molto appunto, quella degli immigrati (45%).

Un mosaico multiculturale (con tanti cittadini comunitari)

Ma vediamo ora quali sono, fra i cittadini stranieri residenti in Germania, i gruppi nazionali più rappresentati all’interno del mosaico multiculturale tedesco. Secondo i dati ufficiali dell’Ufficio statistico federale, primi sono i turchi, che nel 2016 toccavano quota 1 milione e 492mila, seguiti dai polacchi a 783mila unità. Terzi i siriani, pari a 637mila residenti, quarti invece noi italiani, 611mila (con una crescita di 15 mila individui rispetto all’anno precedente). Seguono rumeni, greci, croati, bulgari, afghani, russi e iracheni. Interessante notare come dal 2016 ad oggi il numero di migranti provenienti dagli altri paesi dell’Unione europea sia più che triplicato. In un solo anno, il 2016 appunto, risulta che siano stati 634mila i cittadini Ue che hanno scelto di vivere in terra tedesca. Non sono quindi solo i cittadini cosiddetti extracomunitari a immigrare. Una Germania che rappresenta la seconda destinazione a livello mondiale per l’immigrazione, seconda solo agli Stati Uniti, stando a una ricerca dell’Oecd pubblicata nel 2014.

Numeri a parte, se visto dall’interno, il melting pot in salsa tedesca sembra funzionare piuttosto bene. Se forte è l’impegno delle scuole e delle istituzioni religiose nel fronteggiare la diffidenza nei confronti dell’altro e il razzismo, è anche il mondo del lavoro a fare la differenza. Sono sempre di più le aziende che scelgono come lingua di lavoro l’inglese nei loro uffici, ed è grande la richiesta di manodopera in alcuni Land, come quelli del Sud, dove si è raggiunta quasi la piena occupazione. All’ingresso del quartier generale della Mercedes, che ha sede qui a Stoccarda, e dove si usa sempre di più la lingua di Shakespeare per lavorare, si legge in un banner: «Qui non c’è posto per il razzismo». Certo, ancora una volta, non è tutto oro quello che luccica, e non vi è dubbio che siano in molti a sfruttare i nuovi arrivati, cui vengono proposti a volte contratti da precari e con retribuzioni sempre più basse, con il risultato che le diseguaglianze avanzano rapidamente, creando sacche di povertà sinora sconosciute soprattutto in provincia, nelle periferie e nelle città del Nord e dell’Est del paese.

Non si può tuttavia trascurare, ed è il dato di gran lunga più incoraggiante, come la risposta più efficace alla crisi dei rifugiati e all’insorgere del razzismo sia giunta proprio dalla società civile tedesca, che ha dato il suo meglio mobilitandosi dopo il 2015. In Germania, le persone in vario modo impegnate nel volontariato sono 31 milioni (pari al 38% della popolazione), in Italia invece – per fare un raffronto – solo 6 milioni (pari al 10%). Una differenza che si spiega anche con la grande generosità dimostrata dalle associazioni, dalle chiese e da tanti semplici cittadini che hanno sentito il bisogno di impegnarsi in prima persona per fronteggiare quella che forse è la più grande sfida del nostro tempo: la sfida dell’accoglienza.

Simone Zoppellaro


«Wir schaffen das» («Ce la facciamo»)

le sfide dell’immigrazione

Si dice che l’immigrazione rappresenti per la Germania solo un’occasione per avere manodopera a basso costo. Questo probabilmente valeva ai tempi dei Gastarbeiter («lavoratori ospiti»). Oggi la situazione è diversa. Anche se i problemi non mancano. Come l’esistenza di profonde diseguaglianze e la scarsa mobilità sociale. Senza dimenticare la questione della vasta minoranza turca, divisa su Erdogan, il dittatore di Ankara su cui la stessa Europa rimane incerta.

Siamo alla fine di dicembre del 2015, in Germania, nel pieno della crisi dei rifugiati. Nel suo discorso di capodanno, il verde Winfried Kretschmann, governatore del terzo Land più popoloso della Federazione tedesca, quello del Baden-Württemberg, nell’affrontare il tema spinoso e dibattuto dell’immigrazione rievoca la sua esperienza familiare. I suoi genitori, racconta nel messaggio ai suoi concittadini, furono costretti a lasciare la Prussia orientale, ovvero l’odierna Polonia, alla fine della seconda guerra mondiale, e giunsero in Germania come profughi fra grandi stenti e perdendo anche un figlio, un fratello maggiore del governatore, allora appena nato. Kretschmann, politico navigato e fra i maggiori esponenti del suo partito a livello nazionale, ben lungi dal cadere nella mera aneddotica, sapeva di toccare con le sue parole una corda profonda per molti tedeschi. Come a dire: i drammi di ieri e di oggi, in fondo, non sono così diversi.

Si stima che furono fra i 12 e i 14 milioni i tedeschi espulsi o fuggiti nell’immediato dopoguerra dai paesi dell’Europa orientale occupati dal Terzo Reich. La larga parte di loro si rifugiò in Germania, ma furono in molti a cercare fortuna negli Stati Uniti, in Australia, e in altri paesi. Un dramma di proporzioni bibliche, inevitabilmente oscurato ieri come oggi dal collasso militare tedesco e dai crimini compiuti dal nazismo, ma non per questo meno doloroso. In?Germania sono tantissime le persone che hanno ancora nei ricordi familiari dei loro genitori o nonni episodi come questi. Un dramma che si è riproposto con l’arrivo a Ovest di circa 4 milioni di profughi provenienti dalla Ddr, l’ex Germania comunista, nel corso della sua storia quarantennale.

Questi due eventi insieme, che investirono nell’arco di pochi decenni – come si desume dalle cifre appena riportate – una fetta enorme della popolazione tedesca, contribuiscono a dare oggi una connotazione diversa, meno astratta, più personale e simpatetica, al fenomeno migratorio, e in particolare nei confronti di quanti – e sono tantissimi – fuggono da guerre e persecuzioni, rischiando spesso la vita. E non sarà un caso, allora, come ci ha raccontato in un’intervista la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad, che lo stato del Baden-Württemberg sia uno dei pochi luoghi al mondo ad aver fornito rifugio e assistenza a circa duemila fra donne e bambini appartenenti alla minoranza degli yazidi, in fuga dalla persecuzione messa in atto dallo Stato Islamico. Una decisione, come ci ha spiegato la stessa Murad, dovuta a un interesse personale del già ricordato Kretschmann, cattolico praticante e figlio di profughi di guerra, che ha preso a cuore questa causa dimenticata da tutti. Non è difficile immaginare che per lui, come per tanti tedeschi, storie come questa risultino fin troppo famigliari, difficili da accantonare con una scrollata di spalle o con uno sbadiglio.

Neuer Markt, Hansestadt Rostock

Il precedente storico dei «Gastarbeiter»

Il peso della storia, di una storia tragica e ingombrante, ancora una volta, fa la differenza. Il movimento per la pace, quello per il disarmo e contro la vendita di armi (specie se alle dittature), le manifestazioni di piazza e le attività organizzate dal basso, dalla società civile, per l’accoglienza e per contrastare il razzismo, sono oggi realtà assai più diffuse in Germania che in molti paesi europei. Uno fiorire straordinario che parte dalle parrocchie, dalle feste di quartiere, dalle scuole e da quella galassia sconfinata che è rappresentata dall’associazionismo tedesco. Sbaglia, affidandosi spesso a un ottuso cinismo, chi afferma che l’immigrazione per la Germania rappresenti solo un’occasione per avere manodopera a basso costo per le imprese. Semmai si dovrebbe sottolineare, cosa spesso ignorata da molti, come l’afflusso di profughi e immigrati negli ultimi anni abbia creato – parallelo all’impegno del volontariato – anche moltissimi nuovi posti di lavoro per i tedeschi, dall’insegnamento della lingua, al campo sociale, fino alla mediazione culturale.

Ammirevole anche la qualità dei servizi offerti da centri informativi e uffici per l’immigrazione, dove il personale risulta disponibile, ben attrezzato a interagire con persone di diversa cultura, e parla diverse lingue. Un altro mondo, rispetto alle esperienze spesso frustranti e umilianti che devono subire molti stranieri in Italia o nelle nostre rappresentanze all’estero, dove il servizio risulta in tanti, troppi casi davvero scadente, quando non lesivo per l’immagine dell’Italia nel mondo. Certo, a nostra parziale discolpa bisogna sempre ricordare che il fenomeno migratorio in Germania ha radici più profonde rispetto a quelle del nostro paese, dove l’esperienza è ancora acerba e limitata. Radici che risalgono agli anni Cinquanta e al boom economico di una Germania federale risorta delle ceneri morali e materiali della caduta del nazismo.

Li chiamavano Gastarbeiter, «lavoratori ospiti», con un eufemismo neanche troppo velato che stava a significare che sarebbe stato meglio se, una volta compiuto il lavoro, se ne fossero tornati al loro paese. Ma ciò, come ben noto, nella larga parte dei casi non è avvenuto, e furono anzi in molti a portare con loro in Germania partenti e amici. Fra i primi ad arrivare come manodopera per l’industria tedesca ci siamo proprio noi italiani, insieme a greci, turchi, marocchini e portoghesi. Si trattava in molti casi di accordi bilaterali stretti fra l’allora capitale Bonn e i governi di questi paesi. Dopo l’erezione del muro di Berlino, nel 1961, che ebbe l’effetto di far diminuire i profughi provenienti dalla Germania orientale, aumentò ulteriormente la richiesta di manodopera e, di conseguenza, l’arrivo di immigrati necessari soprattutto alla crescita dell’industria.

L’altra faccia della medaglia: grandi diseguaglianze, scarsa mobilità sociale

Storie di sacrifici e di fatica, di umiliazioni, riscatti o fallimenti, come lo sono sempre quelle legate all’immigrazione, in qualsivoglia tempo e paese. Storie difficili, che solo in rari casi portano a un’ascesa sociale nelle file della borghesia per la generazione successiva. Un divario sociale, culturale ed economico che, inevitabilmente, continua a pesare anche negli immigrati di seconda e terza generazione, ovvero nei figli e nei nipoti degli operai arrivati in Germania nel dopoguerra e negli anni del boom. Come dichiarato in una recente intervista dalla cancelliera Merkel: «C’è ancora un divario significativo tra i giovani che hanno una storia d’immigrazione e i giovani che non ce l’hanno». Certo, esistono eccezioni importanti in tal senso, e sono sempre più frequenti. Ne ricordiamo due, brevemente: il leader del partito verde Cem Özdemir, di origine turca e circassa (regione storica del Caucaso, ndr), che è fra i protagonisti indiscussi della scena politica odierna; o, ancora, il nostro Giovanni di Lorenzo, direttore del settimanale Die Zeit, uno dei più prestigiosi del paese, cresciuto in Italia fino all’età di undici anni.

Eppure, come sottolineato anche dalla cancelliera, tanto resta ancora da fare. La Germania, dati alla mano, è uno dei paesi in Europa dove le disuguaglianze fra ricchi e poveri sono più alte e la mobilità sociale risulta ridotta ai minimi termini. Date queste premesse, la prospettiva di una completa parificazione sociale ed economica per le comunità di immigrati pare essere un obiettivo ancora lontano, innestando nei segmenti più fragili della popolazione, anche se in piccola parte, il germe dell’intolleranza, mentre parallelo, come vedremo, fra alcuni giovani immigrati cresce quello del radicalismo religioso. Ecco allora spiegata l’ascesa del partito «Alternativa per la Germania», che è riuscito per la prima volta nella storia del dopoguerra tedesco a riportare alla ribalta una politica, almeno in parte, riferibile alla galassia dell’estrema destra, infrangendo un tabù sociale e politico molto forte. Ma si tratta pur sempre, a ben vedere, di un unico partito, a fronte di uno schieramento politico – destra inclusa – che si mantiene compatto nel voler combattere la propaganda xenofoba e populista. Emblematico anche il panorama dei media, dove lo spazio dato a populisti e predicatori d’odio è incomparabilmente più basso che da noi.

Turchi che manifestano per Erdogan a Colonia. OLIVER BERG/dpa

Il caso della minoranza turca (e kurda)

Passiamo ora ad analizzare quello che è il fenomeno più rilevante, ma anche il più complesso e difficile, nella sfida dell’integrazione. Ci riferiamo al caso dei turchi tedeschi, la minoranza più rappresentata in Germania, come detto. Una comunità che, dopo la deriva autoritaria intrapresa dal presidente Erdogan nel loro paese, sta pagando oggi in prima persona, vuoi le tensioni interne alla comunità, sempre più marcate, vuoi i rapporti sempre più tesi fra Berlino e Ankara. Punto di svolta, da questo punto di vista, è stato il tentativo di colpo di stato in Turchia del luglio 2016, cui è seguita un’ondata di repressione senza precedenti contro giornalisti, politici, intellettuali e forze dell’ordine, che ha trasformato un paese relativamente liberale in una dittatura spietata.

Dopo il fallito golpe in Turchia, migliaia di turchi si sono riversati nelle strade di molte città tedesche – da Berlino a Monaco, da Hannover a Stoccarda – per festeggiare lo scampato pericolo. Ma, dopo l’euforia, è arrivata l’ora della vendetta, e tutti i nodi irrisolti sono venuti al pettine. Puntuale e immediata, la resa dei conti contro i sostenitori di Fethullah Gülen – predicatore turco in autoesilio negli Stati Uniti, accusato di essere l’uomo ombra dietro al colpo di stato – si è allargata anche alla Germania. Una tensione che si è manifestata ovunque, dalle associazioni alle piazze, fino anche alle moschee e alle scuole. Il tutto mentre lo scontro contro la minoranza kurda, dopo un periodo di parziale riavvicinamento, è tornato a precipitare, quando si moltiplicavano ancora una volta gli arresti e le vessazioni. Un dato non irrilevante per il nostro discorso, data la fortissima presenza kurda in Germania, che ha anche, al suo interno, una componente assai politicizzata, che è scesa in piazza più volte in diverse città tedesche, arrivando in alcuni casi allo scontro verbale e fisico con i sostenitori di Recep Tayyip Erdogan, altrettanto numerosi.

Il risultato è una comunità a tratti lacerata, costretta – volente o nolente – a scegliere fra una fedeltà sempre più esigente alla madrepatria turca e al suo dittatore, e quella a una Germania che guarda con sempre più sospetto ad Ankara, anche a causa dell’arresto di diversi cittadini tedeschi. Fra questi, ricordiamo il noto giornalista con doppia nazionalità Deniz Yücel, imprigionato il febbraio scorso con l’accusa di essere una spia. Emblematico anche il caso del già ricordato Cem Özdemir, che ha ricevuto continue minacce di morte, e proprio da membri della comunità turca tedesca, a causa delle sue posizioni politiche di supporto all’opposizione turca colpita e repressa, e che oggi è sotto scorta. Il politico verde, fra l’altro, è stato anche fra i promotori della risoluzione del parlamento tedesco sul genocidio armeno, approvata il 2 giugno 2016. Un riconoscimento che ha creato ulteriori tensioni e fratture nella comunità, dato il persistente negazionismo di Ankara nei confronti del genocidio perpetrato nell’allora Impero Ottomano. Senza dubbio, un momento di crisi dura come l’attuale la comunità dei turchi tedeschi non l’aveva mai vissuto nella storia recente.

Sicurezza e benessere per tutti

Ma la sfida per l’accoglienza e l’integrazione in Germania risulta più ampia, e per molti versi meno drammatica. Superata al meglio la crisi del 2015, ci sono ottime ragioni per poter sperare in uno sviluppo armonico della società, eludendo i rischi e le tensioni sempre insiti, volenti o nolenti, in una società aperta e multiculturale. Su tutto, continuano a risuonare nelle orecchie dei tedeschi, come in un ritornello, le celebri parole con cui Angela Merkel ha più volte commentato la crisi dei rifugiati: «Wir schaffen das», «Ce la facciamo».

La Germania, vuoi per la sua storia tragica e insieme di riscatto, vuoi per il ruolo politico ed economico sempre più rilevante che riveste a livello internazionale, ha in sé tutte le carte in regola per riuscire a offrire una prospettiva di sicurezza e relativo benessere a tutte le componenti di una società sempre più plurale, senza rischiare di ricadere in un passato che nessuno, almeno da queste parti, sembra oggi più rimpiangere.

Simone Zoppellaro


Il lungo percorso del dialogo

Immigrazione e fedi religiose in Germania

Nel variegato panorama religioso tedesco, le due principali Chiese, la cattolica e la protestante, sono in prima fila nella battaglia per l’integrazione degli immigrati e per l’accoglienza dei profughi. Con l’immigrazione è arrivata una crescita a due cifre dell’islam. In esso, accanto a una minoranza estremista vicina alla Stato islamico, si trova una maggioranza che ha accettato le regole della democrazia occidentale.

Il 19 ottobre 1945, a pochi mesi dalla capitolazione del regime hitleriano, i rappresentanti della Chiesa evangelica tedesca si riunirono a Stoccarda per riflettere sul ruolo e sulle complicità dei cristiani, e in particolare di una delle due anime principali del cristianesimo tedesco, quella protestante, rispetto agli orrendi crimini compiuti dal nazismo. Ne risultò un documento importante, noto come «Dichiarazione di colpa di Stoccarda» (Stuttgarter Schuldbekenntnis), in cui per la prima volta la Chiesa evangelica assunse la sua parte di responsabilità storica, per quanto non soffermandosi ancora in termini specifici sull’olocausto. Leggiamo nel documento: «Attraverso di noi infinita sofferenza è stata portata a molti popoli e paesi». Da parte sua, anche la Chiesa cattolica tedesca ebbe responsabilità importanti, fra cui quella di aver agevolato la fuga dalla Germania (soprattutto verso il Sud America, ndr), dopo la fine della guerra, a centinaia di criminali nazisti, grazie al rilascio di documenti di viaggio sotto falso nome.

Dietrich Bonhoeffer

Certo, non soltanto ai protestanti e ai cattolici tedeschi va attribuita la responsabilità di quanto avvenuto all’epoca del Terzo Reich, responsabilità che deve essere senz’altro condivisa ed estesa a ogni segmento sociale. Né è possibile tralasciare, d’altra parte, come già accennato, l’eroico sacrificio del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer o dei giovani cattolici del movimento studentesco della Rosa Bianca, che pagarono con la vita l’opposizione al nazismo. Eppure, come dimenticare che le vie dell’odio e del sangue passarono anche da qui, attraverso una distorta interpretazione e stravolgimento del messaggio cristiano?

Tutto ciò premesso, ancora una volta, è giusto riconoscere come il cambiamento avvenuto in seguito non sia stato affatto una semplice formalità, una svolta determinata esclusivamente dalla contingenza di una sconfitta militare. Ad ammissioni di colpa come quella di Stoccarda corrispose dunque in seguito un mutamento sociale e culturale profondo ed effettivo, tale da risultare per molti aspetti, se visto in prospettiva storica almeno, sorprendente. E stupisce così vedere come le Chiese tedesche, la cattolica come la protestante, siano oggi in prima fila a battersi per l’integrazione degli immigrati e per l’accoglienza ai profughi. Sintomo che un percorso si è ormai concluso, e che la storia – quando affrontata con serietà e coraggio – può essere davvero maestra di vita. Un’apertura che ha portato, come avvenuto negli ultimi mesi, a esempi radicali in cui si è vista la chiesa, in questo caso quella evangelica, offrire alloggio e protezione a richiedenti asilo afghani e iraniani respinti e minacciati di espulsione dallo stato.

Le Chiese tedesche e gli ebrei

Le chiese in Germania hanno poi avuto, sin dall’immediato dopoguerra, un ruolo importante per un tema delicato e difficile: quello del ripristino di un rapporto di fiducia e collaborazione con gli ebrei dopo gli orrori della Shoah. Esistono oggi in Germania, a livello locale, oltre 80 associazioni per la cooperazione ebraico-cristiana (Gesellschaft für christlich-jüdische Zusammenarbeit), in cui sono impegnati sia protestanti che cattolici. Le prime erano state create proprio nel 1948 a Monaco, Stoccarda e Wiesbaden con il fine di promuovere un nuovo dialogo fra le chiese cristiane e gli ebrei. La dichiarazione Nostra aetate, di cui sono da poco ricorsi i cinquant’anni, aveva dato poi ulteriore impulso da parte cattolica anche in Germania, per un ritorno al dialogo con la cultura ebraica dopo tanti, troppi secoli di misfatti e incomprensioni.

Anche grazie al contributo delle diverse chiese, si è potuto così assistere nel dopoguerra alla lenta rinascita dell’ebraismo in terra tedesca. Una comunità che è rimasta numericamente molto esigua ancora fino agli anni Ottanta, quanto nell’allora Germania Ovest gli ebrei erano fra i 25 e i 30mila. Assai più ridotto il numero, invece, nella Ddr comunista, dove gli ebrei erano poco più di un migliaio ed ebbero, in quanto comunità, possibilità assai limitate – anche a causa del pregiudizio ideologico del regime contro le religioni – tali da inibire ogni tentativo di dare vita a una rinascita culturale dopo il genocidio. Un notevole incremento si è avuto invece, nella Germania ormai riunificata, dopo la caduta del muro di Berlino, e questo soprattutto grazie all’arrivo di decine di migliaia di ebrei dall’ex Unione Sovietica. Sono così saliti a più di 100.000 gli ebrei in Germania, in larga parte residenti nei grandi centri, e sono tante le nuove iniziative volte a far risorgere una presenza culturale ebraica, almeno nelle maggiori città.

Immigrazione e islam

Tra le comunità religiose tedesche legate all’immigrazione, la maggior crescita degli ultimi anni spetta senza alcun dubbio all’islam. Un islam non meno vario e diversificato del cristianesimo tedesco, dove convivono sunniti e sciiti, seguaci del predicatore turco in esilio Gülen e mistici sufi, insieme a infinite altre denominazioni, che in molti casi hanno anche finito per attrarre nuovi fedeli fra i nativi tedeschi. Ed ecco allora che i musulmani rappresentano oggi, secondo gli ultimi dati ufficiali, il 4,9% della popolazione tedesca, pari a poco più di 4 milioni di persone, con una crescita annua che si attesta in un solo anno, fra 2015 e 2016, al 12,5%. Una crescita che corrisponde, sul versante cristiano, a un leggero calo su base annua, cosa che fa temere ad alcuni un sorpasso nei prossimi decenni come prima religione del paese: rispettivamente -0,8% per i cattolici, e -1,5% per i protestanti, che sono rispettivamente 23 e 21 milioni. Una differenza che si spiega, ancora una volta, con l’immigrazione: assai più numerosa è infatti quella proveniente dai paesi di confessione cattolica che protestante. Non vanno infine dimenticati i 2 milioni di cristiani ortodossi e gli oltre 800mila appartenenti ad altre denominazioni cristiane. Quanto al calo progressivo del cristianesimo in genere, questo si spiega anche in base a una caratteristica peculiare della legislazione tedesca, che prevede l’esenzione dal pagamento della tassa destinata alle chiese (e alle diverse fedi non cristiane) per chi rinunci formalmente alla sua appartenenza a esse, dichiarandosi non religioso. Una scelta, questa, sempre più gettonata, vuoi per il risparmio economico che ne deriva, vuoi perché si assiste oggi a una progressiva e sempre più rapida secolarizzazione della società tedesca.

Le molte facce dell’islam tedesco

Tornando all’islam tedesco, dicevamo – ed è un punto fondamentale da ricordare – che questo non è riducibile a un’unica matrice, ma è al contrario assai composito e multiforme. Se questo è vero per la religione musulmana in generale, che è nella realtà ben lungi dalle semplificazioni a cui ricorrono troppo spesso i nostri media, nel contesto tedesco questa pluralità risulta per molti versi ancora più accentuata. Da un lato, troviamo così luoghi e istituzioni all’avanguardia del mondo musulmano per modernità e apertura; dall’altro, un islam più tradizionale e ancorato nelle sue consuetudini nelle comunità immigrate più o meno recenti, da quella turca a quella siriana; infine, non manca una porzione, assai piccola da un punto di vista numerico, ma significativa perché senza dubbio pericolosa, di musulmani radicalizzati e spesso connessi, in modo più o meno diretto, alla galassia del terrorismo internazionale.

Ma, anche qui, ancora una volta, è importante combattere i pregiudizi e le facili semplificazioni. Estremismo religioso di matrice salafita e crisi dei profughi sono questioni distinte, che non vanno poste in diretta relazione. A spiegarcelo è Yan St-Pierre, esperto di antiterrorismo fra i più importanti in Germania e direttore del Modern Security Consulting Group di Berlino, che abbiamo interpellato: «La scena salafita in Germania è molto variegata. Mentre gli elementi stranieri svolgono un loro ruolo – sia tramite i migranti residenti a lungo termine, sia tramite la comunicazione internazionale – la maggior parte degli individui appartenenti a questi movimenti sono nati e cresciuti in Germania».

Il caso di Seyran Ates

Sempre per voler contrastare comode semplificazioni e luoghi comuni, ricordiamo come il luogo di culto musulmano più aperto in Germania, in tutti i sensi, sia iniziativa di un immigrata di prima generazione. Ci riferiamo a Seyran Ates, avvocata femminista di fede musulmana, nata in Turchia, che ha fondato a Berlino una moschea dove sono le donne a guidare la preghiera e la congregazione è mista e non separata. Un luogo di preghiera aperto a tutti, anche ai gay, ma curiosamente non alle donne che portino un velo integrale, dato che questo è ritenuto un modello di religiosità non auspicabile da questa congregazione, in quanto simbolo del patriarcato e non rimandabile in alcun modo direttamente al dettato coranico. Cosa peraltro verissima, quest’ultima, come sa bene chiunque abbia studiato il testo sacro dei musulmani.

Eppure, come testimoniano anche le continue minacce e intimidazioni subite dalla coraggiosa Seyran Ates, l’intolleranza e il fanatismo religioso hanno radici anche in Germania. E ciò in ragione di una piccola minoranza il cui operato viene naturalmente amplificato dagli strumenti dell’odio e della violenza, assai più visibili e percepibili, purtroppo, del quietismo che contraddistingue la vita religiosa di larga parte dei musulmani tedeschi.

Islam e terrorismo

La violenza fa notizia, l’opera paziente dell’integrazione e della pace molto meno, come sappiamo. Abbiamo già parlato degli attentati di matrice religiosa compiuti in Germania in tempi recenti. A dispetto delle stime assai variabili e in parte contraddittorie, sono diverse centinaia i combattenti che negli ultimi anni hanno lasciato la Germania per unirsi ai miliziani del sedicente Stato islamico. Molti di loro, ricordiamolo, sono giovanissimi o persino adolescenti, che – in diversi casi attestati – non hanno nulla a che fare con un retroterra di immigrazione. Una storia, quella radicalismo islamico in terra tedesca, che in Germania ha radici profonde. Già sul finire anni ’90 era infatti attiva la cosiddetta «cellula di Amburgo», il cui leader, Mohammed Atta, è noto in tutto il mondo per aver guidato l’attacco dell’11 settembre.

Una sfida importante, quella contro l’estremismo. affrontata dalla società e dalle istituzioni tedesche. Importante perché investe non solo la sfera della sicurezza, ma inevitabilmente anche l’educazione e la prevenzione del radicalismo. Temi e questioni, questi, che spesso si intersecano gli uni alle altre, e che non possono restare separati. Come ci ha raccontato ancora l’esperto di antiterrorismo Yan St-Pierre: «La Germania è notevolmente migliorata nel suo modo di rapportarsi a tale questione. Ha adattato la sua strategia, passando da un puro sistema di forze di sicurezza a uno che risulti più inclusivo e flessibile, e preveda l’utilizzo di organizzazioni private, Ong e l’integrazione di approcci e idee provenienti sia dalla sfera civile che da quella delle organizzazioni di sicurezza». Una sfida su cui si gioca il futuro del paese, ma anche dell’Europa intera, dato il pericolo concreto di nuovi attentati e la centralità della questione nelle agende politiche del vecchio continente.

Ma non sono solo le tre religioni abramitiche, ovvero ebraismo, cristianesimo e islam, a contraddistinguere il panorama religioso della Germania di oggi. A parte gli oltre 29 milioni di tedeschi che dichiarano di non avere alcuna affiliazione religiosa, e rappresentano il 36,2% della popolazione, ovvero una fetta assai consistente e in continua crescita, troviamo altre minoranze religiose legate spesso alle migrazioni. Fra questi, ricordiamo almeno buddhisti, induisti e sikh. Da menzionare è anche il caso degli yazidi, minoranza religiosa perseguitata e sterminata dal sedicente Stato islamico, che secondo l’ultimo censimento risultano essere 60.000. In Germania si trova oggi, come dimostrato da una recente indagine demografica, più della metà della diaspora di questo popolo sofferente. Un’oasi di pace per una cultura che rischia di scomparire, ma anche un segno che la solidarietà in Germania ha dato buoni frutti.

La speranza di «House of One»

Per concludere con un altro segno di speranza, cosa quanto mai utile in un’epoca in cui alle religioni si associano sempre più di frequente intolleranza e violenza, parliamo di un progetto importante di convivenza e condivisione fra differenti culture e fedi: un unico edificio che raccolga sotto uno stesso tetto una chiesa, una sinagoga e una moschea, permettendo ai fedeli di diverse religioni di pregare fianco a fianco. Un sogno che diventerà presto realtà a Berlino, dove le tre grandi religioni di Abramo avranno per la prima volta uno spazio comune. Il progetto – realizzato dallo studio di architettura Kuehn Malvezzi che ha vinto il concorso indetto nel 2012 – sorge sul sito dove si trovano i resti della più antica chiesa di Berlino, la chiesa di San Pietro (Petrikirche), risalente al tredicesimo secolo e distrutta negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale. Questo è il messaggio della House of One, «la Casa dell’Uno», così chiamata in onore del Dio unico che contraddistingue e accomuna i tre monoteismi: un simbolo di pace, in un mondo dove fanatismo e odio avanzano in modo sempre più deciso. Ma, insieme, anche un segno concreto di rinascita e riscatto per una nuova Germania risorta dalle ceneri del nazismo.

Simone Zoppellaro


Schede

Dati demografici

Popolazione – 82 milioni di persone.

Stranieri – I residenti di origine straniera che vivono oggi in Germania sono 18,6 milioni, pari a oltre un quinto della popolazione totale, con un aumento record dell’8,5% nel 2016 rispetto all’anno precedente.

Nazionalità – I cittadini stranieri residenti in Germania in ordine per nazionalità: primi sono i turchi, che nel 2016 toccavano quota 1 milione e 492mila, seguiti dai polacchi a 783mila unità. Terzi i siriani, pari a 637mila residenti, quarti invece gli italiani, 611mila (con una crescita di 15mila individui rispetto all’anno precedente). Seguono rumeni, greci, croati, bulgari, afghani, russi e iracheni.

Comunitari – L’immigrazione in Germania non riguarda solo i cittadini cosiddetti extracomunitari. Dal 2016 ad oggi il numero di migranti provenienti dai paesi dell’Unione europea è più che triplicato. Nel solo 2016, risulta che siano stati 634mila i cittadini Ue che hanno scelto di vivere in Germania.

Illegali – Numero di ingressi illegali nel paese nel 2015, nel pieno della cosiddetta crisi dei rifugiati: 865.374 (dati ufficiali riportati dalla polizia federale tedesca). Fra questi, primi per paese d’origine sono stati i siriani (73.920), seguiti da afghani (38.750), iracheni (22.394) ed eritrei (17.225).

Le Chiese

Chiese e fedeli – Le prime due chiese per numero di fedeli sono la Chiesa cattolica con 23,6 milioni e la Chiesa evangelica 21,9 milioni.?Seguono la Chiesa ortodossa 2 milioni e altre Chiese cristiane 851mila. I musulmani sono 4,5 milioni, gli ebrei 99mila, i senza confessione o non religiosi 29,8 milioni.

1945, 19 ottobre: la Chiesa evangelica di Germania pronuncia la «Dichiarazione di colpa di Stoccarda».

Alcune date storiche

  • 1945, 30 aprile: Adolph Hitler si toglie la vita nel suo bunker a Berlino.
  • 1945, 7 maggio: il generale Alfred Jodl firma a Reims, in Francia, i documenti della resa tedesca.
  • 1945, 26 giugno: nascita dell’Unione cristiano-democratica (Cdu), il partito più importante della scena politica tedesca, di cui farà parte anche l’attuale cancelliera Angela Merkel.
  • 1945, 20 novembre: si inaugura il processo di Norimberga contro alcuni dei maggiori criminali del regime nazista.
  • 1949: la Germania viene divisa. Nascita della Repubblica federale tedesca ad Ovest, il 23 maggio, sotto l’influenza degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia, mentre il 7 ottobre nasce la Repubblica democratica tedesca (Ddr) ad Est, che gravita nell’orbita sovietica.
  • 1950: ha inizio il boom economico della Germania federale.
  • 1953, 17 giugno: un’ondata di scioperi nella Germania orientale viene soppressa nel sangue.
  • 1955, 9 maggio: la Germania federale entra a fare parte della Nato.
  • 1961, 13 agosto: costruzione del muro di Berlino.
  • 1989, 9 novembre: caduta del muro di Berlino.
  • 1990, 3 ottobre: la Germania viene ufficialmente riunificata.
  • 2005, 22 novembre: Angela Merkel viene eletta cancelliere in un governo di coalizione fra i partiti della Cdu-Csu e della Spd (partito socialdemocratico).
  • 2015: la crisi dei rifugiati tocca il suo punto più alto. La Germania della Merkel sceglie una politica delle porte aperte.
  • 2016, 19 dicembre: attacco terroristico rivendicato dall’Isis al mercato di Natale a Berlino.
  • 2017, 24 settembre: elezioni federali in Germania e rielezione di Angela Merkel (Cdu-Csu). Il partito Alternative für Deutschland (Afd) diventa però la terza forza nel Bundestag.

Simone Zoppellaro

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Nawal Soufi: È il cuore che mi paga


Nawal Soufi, giovane donna siciliana, dal 2013 ha contribuito a salvare migliaia di persone dalle acque del mare Mediterraneo. I migranti che hanno il suo numero la chiamano quando sono in pericolo. E lei comunica le coordinate dell’imbarcazione alla Guardia costiera.

Nawal in arabo significa «dono». È il nome di una giovane donna italiana, nata in Marocco nel 1987, arrivata in Sicilia quando aveva un mese. Lei si definisce «attivista per i diritti umani». Molti la chiamano «lady sos». Dall’estate del 2013 ha contribuito a salvare migliaia di persone dalla morte in mare ricevendo le loro richieste di aiuto sul suo telefonino. Non si sa quante ne abbia aiutate. Solo lei, forse, potrebbe farne il conto consultando i quaderni sui quali appunta i dettagli di ogni singola richiesta di aiuto.

Oggi gli sos arrivano anche dalla terra ferma: dai confini dell’Europa orientale, dagli hotspot (i centri di identificazione), come quello greco di Moria, Lesbo, dove sono trattenuti richiedenti asilo che la chiamano per denunciare abusi e violenze. Il 24 luglio scorso1 lei stessa, presente durante alcuni scontri nel campo, sembra sia stata trattenuta alcune ore dalle forze dell’ordine greche.

Lo scorso maggio Nawal Soufi ha ricevuto a Dubai, dalle mani dello sceicco e primo ministro degli Emirati arabi uniti, Mohammad bin Rashid al Maktoum, il premio «Arab hope maker 2017», fautrice della speranza araba, scelta perché, secondo al Maktoum, «con la sua azione ha fatto la differenza per 200mila persone».

Nel libro che ne racconta la biografia, Nawal. L’angelo dei profughi, di Daniele Biella (Paoline 2015), si parla di 20mila persone salvate. Alla domanda «chi te lo fa fare», lei risponde: «È il cuore che mi paga»2.

Con il cellulare (e la tenacia)

L’azione di lady sos, studentessa di scienze politiche a Catania e, grazie alla sua conoscenza della lingua araba, interprete e mediatrice culturale presso il tribunale, è molto semplice: riceve sul suo cellulare richieste di aiuto da parte di persone in difficoltà o in pericolo di vita, e le gira a chi può fare qualcosa per aiutarle.

La prima chiamata l’ha ricevuta nell’estate 2013: un uomo urlava in arabo che si trovava con altre centinaia di persone in mezzo al mare su una barca che affondava. La giovane – racconta Biella nel suo libro -, presa alla sprovvista, ha chiamato la Guardia costiera. Quando dalla sede centrale di Roma le hanno chiesto le coordinate del punto in cui si trovava l’imbarcazione, lei si è fatta spiegare come trovarle: il telefono satellitare da cui l’uomo l’aveva chiamata era in grado di fornire le coordinate esatte. Una volta comunicate alla Guardia costiera, questa ha salvato i migranti.

Da allora, Nawal ha ricevuto centinaia di chiamate. «La cosa continua tutti i giorni – ci dice Biella -, giorno e notte. Negli anni sono cambiati i luoghi da cui le persone la chiamano: all’inizio dalla Libia, poi dalla Turchia-Grecia. E oggi, quando non sono sos dal mare, sono richieste di aiuto di altra natura, legate alla violazione dei diritti umani nei paesi di partenza, o in Europa, negli hotspot».

Mentre scriviamo, Nawal è a Lesbo e non riusciamo a contattarla direttamente, ma Daniele Biella ne ha notizie quasi quotidianamente: «Nawal va avanti, mettendo in difficoltà prima di tutto la sua persona, perché lo fa come volontaria, ma a volte, a livello fisico e mentale, è sfiancata».

Il periodo in cui Nawal ha ricevuto più chiamate è stato l’estate del 2014: almeno una al giorno. «Un po’ per volta le cose sono cambiate. Ora non ci sono più così tanti siriani che scappano. Chi doveva partire è già partito».

Siriani in fuga

La gran parte delle chiamate che riceve sul suo cellulare sono di siriani in fuga dalla guerra. Il legame di Nawal con la Siria risale al 2011: «Lei da tempo era un’attivista per i diritti umani – ci spiega Biella -. Quando è scoppiata la guerra in Siria le ha fatto molta impressione perché, come dice lei, era a due ore di aereo dalla Sicilia. Ha iniziato a contattare, tramite i social media, attivisti siriani che le mandavano video e informazioni dalle manifestazioni che in principio erano pacifiche. E lei ha preso a fare da cassa di risonanza, sia per i media che per la gente di Catania. Di sera andava con un proiettore in piazza Bellini per dire ai passanti: “Guardate che succede”».

Da quell’esperienza è nata l’idea di una carovana di medicinali per la popolazione civile in Siria. Nel marzo del 2013 Nawal stessa ha attraversato il confine turco-siriano con i medicinali e ha vissuto per 17 giorni ad Aleppo, dove ha incontrato gli attivisti con cui era in contatto da tempo. Sul suo canale di Youtube «Nawal Syriahorra» si possono vedere alcuni video girati durante quei giorni. Prima di venire via dalla Siria ha lasciato agli amici il suo numero di telefono.

«Proprio in quel periodo le barche cominciavano a partire. Nawal non immaginava che il suo numero di cellulare sarebbe finito in mano a migliaia di persone tramite il passa parola», un passa parola che si è moltiplicato attraverso Facebook, tramite i profili di siriani che man mano venivano salvati dal mare grazie all’intervento di Nawal e che poi la conoscevano di persona a Catania: «Quando i Siriani sbarcavano – soprattutto in quegli anni 2013-2015, in cui non c’erano gli hotspot e le persone venivano lasciate libere dopo la prima notte in accoglienza di andare verso il Nord Europa -, passavano da Catania e lì conoscevano Nawal».

È in quelle circostanze che nasce il soprannome «angelo dei profughi»: la persona che prima salva i migranti dalla morte in mare, poi li accoglie e aiuta nel loro viaggio sulla terra ferma. Li aiuta, ad esempio, a non finire nelle mani di quelli che approfittano del loro spaesamento e gonfiano i prezzi dei biglietti del treno, o delle schede telefoniche. «Questi migranti che hanno ricevuto da Nawal abbracci, consigli, alimenti, pannolini…, quando sono arrivati in Germania, in Svezia, hanno scritto ai loro parenti e amici: “Guardate che questa ragazza è fantastica, ci ha aiutati”. E, tramite i social, è girata la voce».

Una voce amica

Ma perché i migranti in difficoltà preferiscono chiamare lei invece della Guardia costiera? «L’idea che si è fatta lei a quei tempi è che preferiscono usare un numero di una persona che parla arabo. La Guardia costiera non ha un servizio di operatore arabo 24 ore su 24. È vero che i profughi potrebbero comunicare in inglese, però in quelle situazioni, in stato di panico, al buio, in una barca che rischia di affondare, per chiedere aiuto, se c’è una persona che parla la tua lingua e che poi avvisa la Guardia costiera, è più facile. Credo che il suo numero sia un po’ ovunque. I migranti si mettono i numeri di telefono dappertutto, se lo cuciono sui vestiti, per paura di perderlo. Il passaggio è semplice: sanno che a quel numero risponde una persona che li può aiutare».

Favoreggiamento?

Biella, nel suo libro, a un certo punto racconta di una strana chiamata ricevuta da Nawal: un uomo le dice che riceverà una denuncia – poi mai arrivata – per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ai tempi erano ancora distanti le polemiche che dalla primavera del 2017 e nei mesi successivi avrebbero colpito le Ong, accusate in modo generalizzato di essere complici dei trafficanti di uomini. «La cosa triste, in questo periodo in cui si attacca “l’umanitario” – ci dice l’autore del libro -, è vedere che anche Nawal è finita nel tritacarne3. Con conseguenti insulti sui social network. Sono cose che rischiano di distoglierla da quello che fa. Nawal dice: “Devo perdere tempo ad argomentare queste cose, quando sto solo aiutando nell’emergenza le persone”».

Dalle frontiere

Dall’estate del 2013, il nome e il numero di telefono di Nawal sono diventati sempre più di dominio pubblico. Questo comporta, oltre al disagio di venire coinvolta in polemiche politiche e ideologiche, anche il fatto che sono sempre più varie le chiamate di emergenza che la raggiungono. Nonostante siano ancora soprattutto siriani a contattarla, ora ci sono persone anche di altre nazionalità, e richieste di soccorso di altro tipo. «Se non chiamano dal mare, chiamano da altre situazioni problematiche. Ad esempio dalle frontiere. “Siamo in questo centro e abbiamo subito abusi”, “Sono mesi che siamo fermi qui, cosa facciamo?”. Lei vede qual è la situazione e cerca canali per risolverla: contatta avvocati, volontari, ecc. Ad esempio, poco tempo fa ha ricevuto una chiamata dalla Malesia da un profugo siriano – non fuggono tutti in Europa, alcuni vanno in Brasile, in Cina… Uno scappa dalla guerra e cerca di andare dove sa che può -. Alla frontiera ti fermano perché il tuo passaporto è falso, però tu dovresti riuscire a chiedere asilo, perché questo è l’obiettivo del viaggio. Nawal cosa ha fatto? – ci racconta Biella -. Ha chiesto via Facebook se qualcuno conosceva un avvocato in Malesia che potesse aiutare il profugo. Queste sono le emergenze degli ultimi tempi. Sono legate a una seconda fase, meno drammatica rispetto a quella dei naufragi, ma comunque piuttosto forti. Senza scordare che comunque i naufragi continuano, sia in Libia che vicino alle isole greche».

Cortocircuito europeo

Prima di ricevere il premio Arab hope makers 2017, Nawal ha ricevuto un certo riconoscimento del suo operato da diverse istituzioni. Per prima è arrivata la menzione speciale del Premio volontario internazionale 2015 Focsiv (Federazione ong cristiane). È stata poi ricevuta, nel giugno 2016, a Rabat, dal re del Marocco Muhammad VI. Nel settembre 2016 ha ricevuto il premio dell’Ue come cittadina europea dell’anno: «Bello il riconoscimento da parte dell’Ue – dice Biella -. Nel marzo precedente aveva anche fatto un discorso al Parlamento europeo4, però, nel concreto, le cose continuano a non cambiare».

Uno dei cavalli di battaglia di Nawal, portato anche nel suo breve e intenso discorso al Parlamento europeo è la richiesta di creazione di corridoi umanitari: «Quelli che ci sono già riguardano un migliaio di persone in tutto. In essi sono coinvolti la comunità di sant’Egidio, la Tavola valdese, la Cei. Riguardano persone che vengono selezionate nei campi profughi in Libano. Persone vulnerabili, con famiglia, ecc. Si verifica in loco l’identità, se ne verifica l’effettiva fuga e il rischio di vita nei loro paesi di origine, e si fanno venire in Europa con canali sicuri e legali, con un aereo. Tra le soluzioni possibili, si parla anche di visti umanitari. I corridoi umanitari su grande scala non si riescono a fare, perché l’Ue non li vuole proprio fare. Forse perché arriva troppa gente? Ma i visti umanitari, come è successo per le guerre balcaniche, si potrebbero concedere. La direttiva 55 del 2001 del Consiglio dell’Ue ne parla. Visti umanitari temporanei. Poi, quando la guerra finisce, le persone ritornano in patria: se chiedi a un siriano se vuole tornare a casa sua, il 100% ti dice di sì, ovviamente quando le condizioni lo permettono. Quando l’Unhcr ha fatto i campi in cui le persone venivano selezionate, questi sono diventati dei parcheggi, a causa della lentezza della burocrazia. A un certo punto arrivava il trafficante e sapeva che lì c’erano persone che attendevano di partire da mesi.

A me fa un po’ impressione l’idea che l’Europa stia esternalizzando le frontiere facendo accordi con paesi singoli per tenere le persone lì. Ma se lì non stanno bene, se i loro diritti non vengono riconosciuti, cercheranno sempre di andarsene. Dove c’è un blocco, il trafficante aumenta i suoi guadagni. Questo è il corto circuito cui stiamo assistendo in Europa».

Nawal con Daniele Biella durante la presentazione del libro.

Fede, motore di solidarietà

Nawal Soufi, di origine marocchina, è di fede musulmana. Nel libro di Daniele Biella se ne parla, con molta discrezione: «Lei parla di fede in modo generale, ecumenico. La fede per lei è il motore che la spinge ad aiutare chiunque abbia bisogno. Nella sua visione, le religioni spingono a essere sempre pronti per gli altri. Lei è musulmana, io sono cattolico, mi sono trovato a parlare davvero la stessa lingua in questo senso: l’aiuto disinteressato. Lei dice che chi usa la religione per motivi terroristici la snatura da quello che è, e va fermato. Si parla di criminali e non di fedeli».

Luca Lorusso

Note:

1- O. Spaggiari, Nuove proteste a Moria: il racconto di Nawal Soufi, vita.it, 21/7/2017; Flore Murard-Yovanovitch, Moria, il laboratorio della brutale intolleranza anti-migrante, huffingtonpost.it, 28/7/2017.

2- F. Tonacci, Parla Nawal Soufi, lady Sos “I profughi siriani mi chiamano dai cargo e io lancio l’allarme”, repubblica.it, 6/1/2015.

3-Durante la trasmissione “Piazza pulita” del 1 maggio 2017, su La7, è andato in onda un servizio sul traffico di uomini nel quale veniva fatto il nome di Nawal. Il giornalista, fingendosi un migrante, ha chiamato un uomo, identificato come trafficante, per chiedergli informazioni su un viaggio dalla Libia. Nella videochiamata l’uomo ha citato Nawal dicendo che gli scafisti avevano il suo numero. Nel servizio il giornalista ha poi chiamato Nawal che, semplicemente, ha risposto ai sospetti con il buon senso: esattamente come la Guardia costiera, quando riceve una chiamata, non può verificare chi la stia chiamando, se sia uno scafista o meno. Raccoglie la richiesta, le coordinate e le trasmette.

Nonostante l’evidente infondatezza delle accuse, alcuni giorni dopo, Il Giornale ha pubblicato un pezzo nel quale l’articolista insinua la colpevolezza di Nawal (G. De Lorenzo, Nawal Soufi, “Lady Sos” d’Italia. Il trafficante: “Gli scafisti chiamano lei”, 10/5/2017): «“Lady Sos” ovviamente nega di sapere che dall’altra parte della cornetta ci siano scafisti. “Il mio numero di telefono è pubblico”, dice. […]. “Non ho mai ricevuto una chiamata da una persona che mi dice: pronto, sono uno scafista e ti sto dando le coordinate”, ha provato a difendersi. E ci mancherebbe che il ladro dichiari di essere un bandito».

4- M. Luppi, Il discorso di Nawal Soufi, l’attivista italo-marocchina che scuote il cuore dell’Europa, africarneuropa.it, 4/3/2016.


Richieste di asilo politico: +49%

Grafico dal Quaderno statistico della commissione nazionale per il diritto di asilo

Alla data del 20 giugno 2017, giornata mondiale del rifugiato, l’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) calcola che le persone morte o disperse nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno erano 1.990. Quelle che lo avevano attraversato «con successo» 82.897, di cui 71mila in Italia.
In occasione della stessa ricorrenza, la Fondazione Ismu ha pubblicato un rapporto sui richiedenti asilo. Nei primi cinque mesi del 2017, le richieste in Italia da parte di persone provenienti da diversi paesi nel mondo sono aumentate del 49% rispetto allo stesso periodo del 2016.
«Tra il 1° gennaio e il 31 maggio 2017 in Italia sono state presentate quasi 60mila domande di asilo […]. Se si considera che nel 2016 il numero […] ha raggiunto la cifra più alta mai registrata in un ventennio (oltre 123mila), si può, per il 2017, prevedere un nuovo record […]».
Tra i 59.579 richiedenti, l’85% sono uomini (come nel 2016). I minorenni sono 6.700, di cui 3.530 non accompagnati, una quota molto maggiore rispetto allo stesso periodo del 2016 (+89%).
La Nigeria, come nel 2016, è il primo paese di origine tra chi cerca protezione in Italia (12.300 richiedenti, un quinto del totale). Il Bangladesh è il secondo con 5.500 richieste (cioè più del triplo rispetto ai primi cinque mesi del 2016).
Gli esiti delle domande esaminate tra gennaio e maggio 2017 sono negativi per il 58,6%. Aumentano però, rispetto al 2016, coloro che ottengono lo status di rifugiato (8,7%, 2.900 migranti), mentre continua la prevalenza delle concessioni di permessi a titolo di protezione umanitaria (7.900, il 24% del totale).
In Europa, l’Italia è al secondo posto, dopo la Germania, per numero di richiedenti asilo, sia nel 2016, sia nei primi quattro mesi del 2017 (dati Eurostat).

Luca Lorusso




Messico. Migranti: un salto nel buio


Ogni anno migliaia di migranti centroamericani cercano di attraversare il Messico per raggiungere la frontiera Nord e passare illegalmente negli Stati Uniti. È un viaggio estenuante e molto pericoloso a causa dei narcos e delle autorità locali. Pochissimi raggiungono la meta. La maggioranza torna indietro o si ferma lungo il cammino sopportando violenze e angherie e mettendo a rischio la vita stessa. In questo quadro di disperazione, si inserisce l’opera di padre Alejandro Solalinde e dei suoi rifugi per migranti. Questo è il suo racconto.

Sono 4.301 i chilometri della frontiera terrestre del Messico. Per la precisione, 3.152 quelli della frontiera Nord con gli?Stati Uniti e 1.149 quelli della frontiera Sud con Guatemala e Belize. Confini che contribuiscono a fare del Messico un «paese di partenza, transito e arrivo di migranti»1.

Per inquadrarne i problemi sono sufficienti tre dati: la povertà interessa 57 milioni di messicani su 127 totali; le persone assassinate nel 2016 hanno raggiunto il livello record di 22.9672, senza conteggiare le migliaia di persone scomparse; la corruzione costa ogni anno il 9 per cento del Prodotto interno lordo3.

Dal Messico si scappa (è il secondo paese al mondo con più emigranti4) e nel Messico si arriva, ma quasi sempre soltanto per tentare il salto verso gli Stati Uniti, l’American dream. Un progetto questo di difficile realizzazione e soprattutto molto rischioso a causa dei pericoli in cui i migranti possono imbattersi. Se va bene, furti ed estorsioni.?Se va male, sequestri di persona, violenze sessuali, mutilazioni, commercio di esseri umani, sparizioni ed assassinii.

A confermare la gravità della situazione è padre Alejandro Solalinde, sacerdote messicano di 72 anni (molto ben portati), fondatore dell’«Albergue de migrantes “Hermanos en el Camino”», un centro per l’accoglienza dei migranti illegali a Ixtepec, nello stato messicano di Oaxaca.

Padre Solalinde, candidato al premio Nobel per la pace 2017, vive da anni sotto scorta a causa della sua condanna a morte decretata dai narcos, che sulla pelle dei migranti fanno grossi affari.

Chi parte, chi si ferma, chi torna indietro, chi arriva

Padre Alejandro, ci racconti in poche parole chi è lei.

«Prima di tutto, direi che sono un missionario cattolico. Lavoro a Ixtepec, stato di Oaxaca, nell’albergo-rifugio dei migranti. Iniziai nel 2005, quando chiesi al mio vescovo di occuparmi di loro. Non fu facile perché pareva uno spreco che un sacerdote si dedicasse alla gente di strada, ai migranti. Però, alla fine, ottenni il permesso».

Il rifugio quante persone riceve?

«In questo momento, l’Albergue de migrantes accoglie un centinaio di persone al giorno. I migranti si fermano un paio di giorni o al massimo tre, per poi riprendere il cammino».

Da dove provengono?

«Soprattutto dall’Honduras, dal Salvador, dal Guatemala, dal Nicaragua. Però anche dal Brasile, dal Venezuela, dal Costa Rica, dal Perù, dall’Ecuador, da Panamà e anche dal Belize. Secondo le statistiche, il 50% di costoro si ferma in Messico, mentre il 25% rinuncia e torna indietro. Si arrende».

E quanti di loro arriveranno fino alla meta finale, nel «paradiso» statunitense?

«Stando ai numeri, un 25% dei migranti raggiunge la meta e riesce a entrare, anche con Donald Trump. Chi controlla la frontiera non è il Messico o gli Stati Uniti, ma continua ad essere il crimine organizzato. Se tu paghi o se porti la droga, loro riescono a farti passare. Non c’è muro che tenga. Per sofisticato che esso possa essere».

In Europa la maggioranza dei migranti sono giovani e maschi. E da voi?

«Anche qui la maggioranza sono giovani. Io calcolo siano circa l’80 per cento del totale. Però ci sono anche bambini e donne. Persone anziane ne ho viste poche, probabilmente rassegnate a rimanere nel loro luogo d’origine. Ed anche i malati rimangono a casa. Sono le persone più giovani e sane quelle che viaggiano».

L’accoglienza

Come si svolge una sua giornata tipica all’Albergue di Ixtepec?

«Non ce n’è una eguale all’altra, ma una cosa è identica: ogni giorno è sempre molto intenso. Al mattino presto – verso le cinque e mezza – prego e leggo il vangelo del giorno. Faccio esercizi. Lavo e stiro i miei vestiti: se voglio essere pulito, nessuno lo deve fare per me. Poi scendo al piano dove ci sono i migranti. A volte faccio colazione con loro, dopo che questi hanno fatto le pulizie del luogo. Poi visito i diversi reparti dell’Albergue per vedere come procedono: la falegnameria, la panetteria, la fattoria, la cucina (un settore questo che sempre necessita di molto lavoro). Abbiamo anche una biblioteca e una sala computer dove le persone possono comunicare con i loro cari. C’è un’area medica con due medici e due infermiere. Ed anche un’area psicologica con cinque addetti. Insomma, siamo come una piccola città».

Quando al centro arrivano i migranti, lei che fa? Come li accoglie?

«Io non posso parlare con ognuno. Allora li riunisco. Di solito, nella cappella. Quando hanno mangiato, si sono lavati e cambiati i vestiti, allora li chiamo. La prima cosa che dico loro è: “Com’è andato il viaggio fino a qui?”. E poi: “Alzi la mano chi viene dall’Honduras. Chi dal Guatemala. Chi dal Salvador”. E così via. In questo modo mi rendo conto che gruppo è. E ancora: “Alzi la mano chi è cristiano evangelico”. A chi l’ha alzata dico di presentare la sua chiesa con il nome. Ad ogni chiesa diamo un applauso. Sì, è un modo per riconoscere che il loro cammino è corretto. E che siamo fratelli nella fede. Poi faccio lo stesso con i cattolici. Infine, dico: “Alzi la mano chi non ha nessuna chiesa o religione”. E anche qui molti alzano la mano. Poi chiedo cosa è accaduto durante il viaggio. Mi faccio dire se già hanno presentato la propria denuncia o ancora no».

A che denuncia si riferisce?

«La legge dice che se un migrante è stato vittima di un delitto, deve avere un visto umanitario. Identicamente se nel suo paese è perseguitato o se il suo paese è luogo di violenza. Il nostro ufficio di registrazione valuta la condizione giuridica di ogni persona che arriva. E prima ancora la sua condizione psicofisica: se una persona ha bisogno di cure, viene mandata in infermeria. Se presenta problemi emozionali per ciò che ha passato, viene mandata dal gruppo degli psicologi».

A parte lei, quante sono le persone che fanno funzionare l’Albergue?

«Abbiamo uno staff di otto persone stabili. Però siamo aiutati da numerosi volontari che provengono da tutto il mondo. Addirittura dalla Cina e dall’Australia. E?moltissime persone che arrivano dall’Europa».

Narcos e migranti

Quando e perché i cartelli della droga – i cosiddetti narcos – hanno iniziato a interessarsi ai migranti?

«Tutto è cominciato con Felipe Calderón, il precedente presidente, che fece una guerra insensata (e perdente) al narcotraffico (121 mila morti e 26 mila scomparsi tra il 2006 e il 2012, ndr). Questa guerra provocò la decapitazione di alcuni cartelli e una spoliazione di altri, tra cui los Zetas.

Questi ultimi rimasero senza liquidi per pagare la droga. La droga non si può pagare a credito: va pagata immediatamente. Dunque, los Zetas pensarono di ricavare denaro dai migranti. Sapevano che essi non posseggono nulla, ma hanno amici e familiari negli Stati Uniti. Cominciarono dunque a sequestrarli e a chiedere un riscatto. In pochi mesi riuscirono a estorcere milioni di dollari.

Oltre al riscatto, capirono presto che dai migranti si poteva ottenere di più: con la prostituzione, lo sfruttamento del lavoro, il traffico di organi».

Quanti cartelli sono coinvolti?

«Principalmente los Zetas e in misura minore il cartello del Golfo. Gli altri non si sa, ma certamente non trafficano con i migranti in maniera sistematica».

Autorità criminali

E le autorità messicane che fanno?

«Sono parte del business. Chiaro! Gli agenti di migrazione, i poliziotti, i politici di qualsiasi livello sono complici, soprattutto nel caso dei migranti. Sanno che è una fonte di denaro facile e molto grande. Io sono solito definire il mio governo come una “narcocleptocrazia”. I narcos hanno infiltrato tutte le istituzioni messicane. È raro – io non ne ho mai conosciuti – trovare un politico o un funzionario che non rubi».

Anche Enrique Peña Nieto, il presidente del suo paese?

«Quel signore è il più corrotto. In questo momento ha un grado d’accettazione da parte della popolazione messicana del 9 per cento! È un ripudiato».

Che pensa di Donald Trump, presidente del paese che è nei sogni dei migranti?

«Trump è un pover’uomo. L’unica cosa che ha è il denaro. Ha vissuto per accumulare denaro ma non potrà portarlo con sé».

Viaggiare sulla «Bestia»

Da noi ci sono le carrette del mare o i gommoni, da voi c’è La Bestia.

«Hanno cominciato a chiamarla La Bestia perché è un treno merci (de carga), non deputato a trasportare persone. Per questo i migranti viaggiano sul tetto o negli angusti spazi tra i vagoni. Per 12-13-14 ore.

Possono capitare molti incidenti, soprattutto se le persone si addormentano. O quando salgono gli uomini del crimine organizzato che li buttano giù se non pagano.

Il treno parte dal Sud, dal Chiapas, circa un’ora dal Guatemala. Ha differenti ramificazioni (cartina a pagina 54, ndr) e può arrivare fino a Mexicali o Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti».

I messicani negli Usa

Anche lei frequenta il (presunto) paradiso statunitense?

«Sì, viaggio negli Stati Uniti 4-5 volte all’anno. Per incontrare gruppi di emigrati, per capire come sta andando o cosa possiamo fare per i loro diritti. Sono oltre 34 milioni i messicani che vivono là legalmente. E 6 milioni che non hanno documenti. Tutti costoro inviano denaro in Messico. L’ultima cifra parla di 27.000 milioni di dollari in un anno. Per questo dico che, dopo il narcotraffico, le rimesse sono l’entrata maggiore per il paese».

Il diritto a emigrare e il modello capitalistico

Padre, in Italia e in Europa si litiga sui migranti che dovrebbero essere accolti e quelli che andrebbero respinti. Secondo lei, esiste un «diritto a emigrare»?

«Io credo che ci sia un diritto a non emigrare quando ci siano tutte le giuste condizioni di vita nei luoghi d’origine. Tuttavia il sistema capitalista ha fatto a pezzi le condizioni di vita nei paesi d’origine dei migranti: per la violenza, per la mancanza di lavoro, per l’assenza di una possibilità di sviluppo per i giovani.

I movimenti migratori sono sempre esistiti. Però è la prima volta nella storia dell’umanità che le migrazioni sono dal Sud al Nord. Storicamente sono sempre state all’opposto: dal Nord al Sud».

In tutto il mondo le migrazioni e i migranti sono il problema del secolo. Cosa si può fare, padre?

«Se siamo d’accordo che il problema è strutturale, cioè che nasce dal sistema liberal-capitalista, allora l’unica soluzione è cambiare il modello. Di sicuro non si può continuare così.

Non è possibile avere il 99 per cento della popolazione mondiale che vive con le briciole lasciate cadere dall’1 per cento della popolazione».

Da chi vengono le minacce

Lei usa sempre parole molto forti, senza edulcorare le situazioni.

«Uso parole molto forti perché la realtà è molto forte. Occorre dire le cose chiaramente».

Ha paura per la sua vita?

«Io ho paura per il Messico. In questo momento abbiamo vari governatori nelle carceri, altri espatriati. Non uno. Tanti. (Erano 16 ad aprile 2017 su un totale di 32, ndr)».

Però ha subito minacce ed aggressioni fisiche.

«Preso a botte, certo. Ma anche incarcerato due volte. Il 24 giugno del 2008 tentarono di bruciare me e il rifugio. In un’altra occasione il sindaco e la giunta municipale mi chiusero dentro per 7 ore dicendo: “Tu da qui non esci fintantoché non firmi che chiuderai il rifugio”. Risposi: “Puoi amazzarmi se vuoi, ma io non firmerò nulla. Questa è una proprietà della chiesa cattolica”.

La sera di quello stesso giorno arrivarono gruppi di migranti. Dissi al sindaco: “Se succede qualcosa ai migranti o a membri della mia équipe, io la denuncerò”. “Lei mi sta minacciando”, disse costui. “La pensi come vuole”, risposi io».

Tuttavia, quella volta non furono i narcos. Furono le autorità!

«Perché c’è forse differenza?».

Non c’è differenza?

«Certo che no! Sono la stessa cosa! Non puoi dire qui sta il crimine organizzato e qui l’autorità. Noooo».

Questo è molto triste.

«Tristissimo. Il Messico sta vivendo una situazione molto difficile. Di decadenza totale».

«Io non sono solo»

Nonostante da anni sia costretto a vivere sotto scorta, lei appare molto sereno.

«Io sono un uomo di fede. Gesù continua ad ispirarmi. Mi sento molto orgoglioso di essere battezzato, di essere una persona consacrata, missionaria, itinerante del regno di Dio. Io non sono solo».


Si definisce «migrante» la persona nata in un paese diverso da quello di residenza e che ha lasciato volontariamente il proprio paese d’origine. Sotto questa definizione, sarebbero 244 milioni i migranti nel mondo5.

A questa cifra ne va affiancata un’altra: quella che riguarda le persone che sono state obbligate a lasciare le proprie case. Questa condizione riguarderebbe 65,6 milioni di persone, così distinte: 22,5 milioni di rifugiati, 2,8 milioni di richiedenti asilo e 40,3 milioni di sfollati interni6.

Migranti, rifugiati, richiedenti asilo, sfollati interni: in qualsiasi parte del mondo il fenomeno si presenti, sorgono problemi.

Personaggi come padre Alejandro Solalinde sono encomiabili per l’opera che svolgono e veramente meriterebbero il Nobel, ma la questione di fondo è epocale e al momento all’orizzonte non s’intravvedono soluzioni indolori.

Il diritto a non emigrare – ovvero il diritto a restare a casa propria – sarebbe l’unica, vera soluzione. Ma rimane un obiettivo difficile e molto lontano. Significherebbe assicurare a ogni persona cibo, lavoro, casa, educazione, sanità, pace. Un sogno che l’attuale sistema economico e politico non pare intenzionato a considerare.

Paolo Moiola

Note

(1) Rapporto paese dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim, agenzia dell’Onu).
(2) Dato riferito agli «omicidi volontari». Nel 2015 in Italia gli omicidi volontari sono stati 469.
(3) Questi dati sono confermati da varie fonti tra cui: istituto Imco, istituto pubblico Coneval, Sistema Nacional de Seguridad Pública (rapporto del 20 giugno 2017).
(4-5) Fonte: «International Migration Report 2015», Nazioni Unite.
(6) Fonte: rapporto «Global Trends. Forces Displacement in 2016», Unhcr.

L’articolo completo con le cartelle statistiche si trova sullo sfogliabile:

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* Mauro Pagnano è nato a Napoli. Laureato in giurisprudenza, vive a Caivano nel cuore di quel territorio tristemente noto come Terra dei Fuochi. È proprio con un progetto sulla Terra dei Fuochi che comincia a fotografare e a pubblicare su testate nazionali e straniere. I suoi lavori sono realizzati in collaborazione con l’agenzia di comunicazione sociale di cui è socio, «La Etiket Comunicazione», che opera in un bene confiscato alla camorra a Casal di Principe. In Messico ha seguito la rotta dei migranti dal confine con il Guatemala fino al Centro Nord. Il progetto è ancora in itinere.

Archivio MC

Tra gli articoli sui migranti centroamericani e messicani verso gli Stati Uniti segnaliamo:

Documentari

Sulla tematica sono visibili su YouTube numerosi documentari tra cui:

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=r_s6HOYo6SI?feature=oembed&w=500&h=281]

Videointervista

Un ampio stralcio della videointervista a padre Alejandro Solalinde – arricchita con inserti filmati sull’Albergue e La Bestia – è visibile su YouTube sul canale di Paolo Moiola: www.youtube.com/user/pamovideo.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=S3rGfU-avxo?feature=oembed&w=500&h=281]




Montagne e valli alpine: Il futuro delle «Terre alte»


C’è un mondo vicino a noi che spesso non conosciamo. Sono le montagne e le valli alpine. Qui stanno accadendo cambiamenti interessanti. Vecchi e nuovi abitanti sperimentano innovativi modelli di vita. Cittadini venuti da molto lontano portano le loro idee e speranze. Questi luoghi sono patrimonio di tutti, ma occorre viverli e prendersene cura. Altrimenti, un giorno, tutti pagheranno il conto.

«Dislivelli è un’associazione culturale nata a Torino nel 2009. È composta da due anime: ricercatori universitari e comunicatori specializzati nel campo delle Alpi e della montagna». Chi parla è Maurizio Dematteis, giornalista, che ha lavorato per diverse testate dedicate alla montagna e si è occupato anche di migrazioni e cooperazione internazionale. È tra i fondatori di Dislivelli e l’attuale direttore responsabile della testata dislivelli.eu. «Il tentativo che facciamo noi che ci occupiamo di montagna è di studiarla e comunicarla. Perché vediamo che nell’opinione pubblica c’è ancora una visione della montagna stereotipata, e i messaggi che passano sui media mainstream sono legati allo sci, al pesce fresco in alta quota, dando un’immagine sbagliata, che serve solo a chi vuole fare cassa con la montagna».

La montagna è altro. Ha una propria economia, servizi, e soprattutto, diventa appetibile al turismo quando è vissuta. Se è abbandonata è meno interessante. «Dislivelli vuole dare il giusto posto ai territori montani e aiutare uno sviluppo sostenibile di queste terre», continua Dematteis.

L’associazione pubblica articoli e ricerche sul suo sito e una rivista mensile scaricabile gratuitamente in pdf. Due o tre numeri l’anno sono stampati, quando si trova un finanziamento ad hoc. «La distribuzione la facciamo noi, attraverso una nostra rete e i punti legati a Sweet mountains (vedi oltre, ndr). La si trova nei rifugi e nella nostra sede al castello del Valentino, dove nacque il Club Alpino Italiano».

Dislivelli realizza anche ricerche di taglio sociologico. «Sono realizzate da ricercatori del Politecnico di Torino e dell’Università. Adesso stiamo portando avanti la ricerca sui “turismi” in montagna, che nel prossimo autunno vogliamo presentare alla Regione Piemonte. Vogliamo far capire alle istituzioni che il turismo responsabile in montagna inizia ad avere numeri interessanti.

Flussi tra montagna e città

Nella vostra ultima ricerca, Intermont, esaminate i rapporti tra la montagna e la città. «Sì, è una ricerca durata due anni durante i quali abbiamo tentato di misurare i flussi, di tutti i tipi, tra la montagna e la città: rimesse, lavoro, materie prime. Abbiamo cercato di capire se lo scambio è bilanciato o no, e abbiamo fatto delle proposte di miglioramento dove non lo è. Il terreno di ricerca è stata la Città metropolitana di Torino (ex Provincia di Torino). Abbiamo visto un flusso di materie prime verso la città: acqua, legname, prodotti agricoli e caseari. Ma anche di pendolari. Questi ultimi sia per lavoro, sia per usufruire di servizi che in montagna non ci sono più. Abbiamo trovato un grande sbilanciamento dei flussi. Si pensa che i turisti portino rimesse in montagna, in realtà sono molto maggiori quelle dei montanari che lavorano in città e fanno i pendolari. Questa è la prima voce economica del territorio».

I territori alpini affrontano anche delle spese. «Le maggiori sono quelle per usufruire di servizi. Ci sono molti viaggi di persone che vanno in città per questioni sanitarie, studio, o anche solo per acquisti. Sono soldi che dalla montagna si riversano in città. Se i servizi fossero organizzati un po’ meglio sarebbe meno oneroso rimanere a vivere nelle valli alpine».

«Poi c’è la questione dell’acqua, che viene quasi tutta dalla montagna. Su questo ci sono dei riconoscimenti, ovvero le risorse delle Aato (Autorità dell’ambito territoriale ottimale). Quello che invece non è contabilizzato è l’ecosistema ambientale, cioè l’assorbimento di CO2, i benefici ambientali che la montagna dà a chi vive in città. Se poi si parla di dissesto idrogeologico, e si riconosce che il paesaggio montano è un bene comune, allora in qualche modo si deve tutelare. La montagna, se non è vissuta e protetta dai residenti crolla. Occorre dunque fare una riflessione generale per capire dove si trovano le risorse per il mantenimento di questo paesaggio di cui usufruiscono tutti. Se no, si verificano fatti molto gravi, costosi a livello economico e talvolta di vite umane».

Servizi addio

Dalla ricerca Intermont si comprende che la riduzione dei servizi nei territori montani comporta delle conseguenze negative per l’economia generale del paese. Perché gli abitanti delle montagne, dovendo spendere una quota di reddito maggiore rispetto ai cittadini per usufruire degli stessi servizi, hanno meno risorse economiche da impiegare nella crescita del territorio. Se non si può tenere un presidio ospedaliero in tutti i paesi, si deve organizzare la rete dei trasporti in modo che le persone possano raggiungerli rapidamente.

Anche per l’educazione vale lo stesso discorso. Dice Dematteis: «Occorre organizzare dei servizi che rendano appetibili questi territori, altrimenti tutti i discorsi cadono e la gente li abbandona. Scuola, sanità e lavoro sono i primi punti».

Ma la Città metropolitana cosa fa? «Sulla questione trasporti stanno cercando di aprire a formule innovative, far entrare il privato, ma c’è una legislazione che non aiuta, un piano regionale dei trasporti che ha grossi vincoli.

Esiste tuttavia un progetto pilota nelle Valli di Lanzo, al quale partecipa anche Dislivelli. Ci sono due ingegneri dei trasporti che stanno pensando come organizzare meglio questo servizio nelle tre valli. Si sono detti: facciamo un budget considerando un discorso globale sulla valle, tenendo in conto chi ci vive e si sposta, studenti, lavoratori, ma anche coloro che sono accolti temporaneamente, come i numerosi richiedenti asilo».

Migranti in quota

A proposito di questo tema, da mesi sono comparsi in paesi e paesini di montagna gruppi di africani, a piedi o in bici. Oppure li incontriamo sui mezzi pubblici che giungono nei più remoti comuni. Altri chiedono autostop lungo la strada. Sono i «nuovi» abitati della montagna, richiedenti asilo ospiti di strutture nelle valli alpine. Ma ci chiediamo se c’è un reale interesse per un giovane migrante africano, o siriano, di farsi una nuova vita in montagna.

«Abbiamo fatto una ricerca su questo tema dal titolo Montanari per forza, che si contrappone all’altro lavoro che avevamo fatto, Montanari per scelta, sul ritorno di vita in montagna.

In realtà non ci sono ragazzi stranieri che vogliono andare in montagna, vengono assegnati lì con progetti di emergenza, perché il prefetto ha un elenco di realtà che possono accogliere. Queste creature arrivano in posti che mai si sarebbero immaginati. Con la nostra ricerca volevamo capire se può esistere un incontro tra l’esigenza di un territorio e nuovi potenziali abitanti. Un territorio che in alcune zone si spopola, è soggetto ad abbandono, avanzamento del bosco nei vecchi coltivi, dissesto idrogeologico. Un territorio che ha bisogno di persone, di braccia. Dall’altra parte c’è un movimento migratorio globale, con giovani che arrivano nel nostro paese, magari perseguitati, cacciati dalla loro terra, che cercano un progetto di vita nuovo».

«La risposta è sì. Esistono progetti davvero interessanti: a volte arrivano in 20, poi magari in 2 o 3 rimangono stabilmente. E questo fa la differenza per diversi comuni».

Ma i residenti non sempre vedono in tutto questo un vantaggio. Anzi. «Proprio nelle Valli di Lanzo la gente era arrabbiata con le cooperative che hanno portato i migranti. I comuni non erano stati avvertiti, e non hanno potuto preparare il territorio. Allora la gente si chiude, come direbbe il sociologo Aldo Bonomi, nella “comunità del rancore”, effetto comprensibile quando si ignora un fenomeno».

Rancore o accoglienza?

Ma, sempre in Valle di Lanzo, ci racconta Dematteis, si è generato un movimento volontario di società civile, che ha dato origine all’associazione Morus onlus, con una trentina di volontari attivi e il presidente Marino Poma. L’associazione ha creato il Coro Moro (vedi MC luglio 2016) e il Morus team, una squadra di calcio che ha vinto nella sua categoria. Di recente hanno ideato il Morus Style, ovvero realizzano vestiti e li commercializzano in un negozio a Torino.

«Tutto questo è nato grazie a un movimento volontario, che ha creato una “comunità dell’accoglienza” che si contrappone a quella del rancore. Oggi molti di loro si trovano una sera alla settimana e discutono. Questo fa bene a tutta la valle, mi diceva Poma. Ha rivitalizzato un tessuto sociale che era venuto un po’ meno. Inoltre alcuni ragazzi stranieri si sono fermati a vivere sul posto».

Sono casi d’integrazione, che però devono essere accompagnati, altrimenti possono nascere problemi in seguito.

«Ad esempio a Entracque, in valle Gesso, un imprenditore senza scrupoli ha comprato due vecchie strutture, che erano colonie estive, e vi ha messo 60 migranti. Il sindaco lo ha saputo il giorno stesso, e questo ha creato grossi problemi in un paese di 140 anime. E poi li lascia lì senza dare loro servizi necessari e dovuti, incassando 35 euro al giorno per ogni ospite».

Un caso positivo è quello del parco delle Alpi liguri dove si sta realizzando un progetto «Parco solidale». Il presidente del parco, Paolo Sasotto, ha fatto un accordo con la questura, fer fare lavoro volontario ai ragazzi: pulizia dei sentieri e recupero di terreni del parco abbandonati, dove il bosco sta avanzando.

«Molti ragazzi che migrano sognano la città. Ma quando arrivano si rendono conto che l’Europa non è come pensavano. In qualche caso si inseriscono sui territori dove sono arrivati. Sono numeri piccoli ma il territorio ha bisogno di queste persone».

Turismo «dolce»

Come accennato, una importante risorsa per la montagna è il turismo, ma stiamo assistendo a un grande cambiamento di questo settore. «Oggi il turismo in montagna è diviso in due modelli ben precisi. Uno che ha logiche d’investimento industriale: strutture grosse, necessità di molta promozione, di grandi investimenti anche pubblici e capitali non territoriali e l’altro è il turismo artigianale. Rispetto anni ‘80 e ‘90 c’è un grosso cambiamento.

Mentre quello industriale si sviluppa in pochi comuni sull’acro alpino italiano, quello artigianale è molto più capillare.

Quello industriale, basato soprattutto sullo sci, ha tre mesi di lavoro all’anno e in quel periodo deve pompare tantissimo. La stagione inoltre si è accorciata, si gioca in un periodo molto limitato, per questo è molto aggressivo.

Quello artigianale si sviluppa su 10-11 mesi. Si tratta di strutture che stanno aperte tutto l’anno. Da dieci anni a questa parte il turismo industriale è in calo, perché i costi sono aumentati, e se non hai innevamento artificiale sei tagliato fuori. Ad esempio in Trentino sono molto avanti sull’innevamento artificiale, così sono riusciti a far andare bene la stagione passata. In Piemonte invece l’Associazione impianti a fune chiede alla Regione di investire su questo, ma occorrono grossi capitali».

Il turismo artigianale è, sembra, la nuova frontiera. «Anche chiamato esperienziale è un turismo responsabile, sostenibile e rispettoso dell’ambiente, che si prefigge di legare il paesaggio con la fruizione dei prodotti, vini, formaggi, cultura, architettura e valorizzare le differenze e peculiarità di ogni luogo. Ha un investimento limitato perché non ci sono infrastrutture, si collega piuttosto alla sentieristica e cartellonistica.

Dislivelli ha creato Sweet Mountains, una rete che conta 300 realtà che fanno accoglienza, sulle Alpi in Piemonte. Il luogo dove vai a dormire, un rifugio, un bed&brekfast, un piccolo albergo, ti racconta un territorio. Sono collegati ad una serie di attività loclai “satelliti”, come il formaggiaio, l’ecomuseo, la guida naturalistica, i corsi di canoa. Con Sweet Mountains abbiamo creato tante micro reti che fanno lavorare tutti.

È un turismo in crescita in Italia. È già molto diffuso in Germania, Austria, Svizzera e in Francia.

I cittadini vogliono conoscere le terre alte, in modo diverso. È cambiata la fruizione di questi posti ed è un fenomeno che può portare grandi novità positive ai territori montani.

Ci siamo accorti che in Piemonte questo turismo non era rappresentato tra le altre istanze di settore. Per questo all’inizio di quest’anno abbiamo creato T.r.i.P. Montagna, dove la sigla sta per: Turismo responsabile in Piemonte. È un coordinamento che tiene insieme 700 professionisti della montagna: il Collegio regionale guide alpine del Piemonte, l’Associazione italiana guide ambientali naturalistiche, l’Associazione gestione rifugi alpini e posti tappa, la rete Sweet mountains, Dislivelli e Cantieri d’alta quota. E io ne sono il presidente».

Vado a vivere in montagna

Maurizio ha appena pubblicato il suo ultimo libro «Via dalla città, la rivincita della montagna» (Derive approdi, 2017), nel quale esamina il fenomeno del ripopolamento delle valli alpine.

«Si può parlare proprio di fenomeno, non si tratta di casi isolati, come negli anni ‘70 erano quelli noti come neo rurali. Quelle erano persone che rompevano nettamente con la città per andare in montagna a isolarsi, e fare una vita senza luce elettrica, ecc. Oggi invece si tratta di persone globalizzate, con formazione medio alta, con idee e un minimo di disponibilità economica. Vedono in questi territori delle opportunità di sviluppare progetti di vita, economici, sociali, famigliari. È un cambiamento epocale, perché si tratta di luoghi definiti svantaggiati, marginali, ma loro li vedono con occhi nuovi e ne intuiscono le potenzialità che fino a pochi anni fa nessuno vedeva, perché il modello imperante era urbano ed era difficile capire che anche in montagna ci sono dei valori. Poi sono cambiate le sensibilità su ambiente, energie rinnovabili, e questo fa sì che certi territori siano di nuovo appetibili. Ma la differenza è che queste persone pretendono servizi, non vogliono isolarsi.

Così la rinascita di alcuni luoghi montani passa attraverso i nuovi montanari che vengono da fuori, perché quelli nativi faticano a vedere le opportunità della loro terra. Questi invece arrivano con occhi diversi». Così le valli alpine diventano laboratorio di innovazione, di sperimentazione di nuovi modelli di vita.

«La montagna, se ha un minimo di servizi, è un posto dove ci sono opportunità inattese.

Il modello tradizionale in montagna è finito, e questo ci dispiace. Ma si sono aperti spazi nei quali inventare un altro modello, c’è una grossa libertà. E ci sono materie prime che puoi utilizzare. Sono due elementi che rendono questi territori ottimi per le innovazioni.

Abbiamo un esempio in Val Varaita, dove sono arrivati giovani e si è arrestato lo spopolamento. Un gruppo di loro si è detto: facciamo un progetto di valle, endogeno, senza chiedere soldi all’Europa o alle banche, che si sostenga sulle risorse che abbiamo qui. Le risorse sono: acqua, legno, animali di allevamento e selvatici e prati. Hanno realizzato un progetto integrato che ha creato reddito, che in parte è stato reinvestito in servizi per la valle. Hanno inventato Gestalp, società con la quale hanno realizzato e gestito due centraline idroelettriche. In seguito hanno realizzato altre centrali innovative, sempre per produrre energia elettrica.

Hanno anche recuperato la canalizzazione dei prati da sfalcio, e l’associazione allevatori ne ha beneficiato. Il tutto è partito otto anni fa e oggi conta 12 posti di lavoro che diventeranno 20 nel 2025. Per una valle come quella diventa la principale attività.

Una cosa così in città non si può fare, perché non ci sono spazi ne risorse, tutto è blindato. Per questo dico che questi neo montanari sono persone avanti, una vera e propria avanguardia».

Marco Bello

 




Zambujal: C’era una volta il campo degli ulivi


Zambujal, il «campo degli ulivi», non è più campagna ma un’anonima periferia urbana abitata da immigrati, rom e famiglie scappate dalle ex colonie portoghesi. Qui sono presenti i missionari e le missionarie della Consolata.

A Zambujal, un bairro dentro l’area metropolitana della città di Lisbona, circa 15mila persone vivono per la gran parte in casermoni di quattro o cinque piani tutti uguali con finestre piccole e strette. Gran parte delle finestre dei primi piani è chiusa da pesanti grate. Le inferriate sono presenti anche all’interno dei palazzi nei quali quasi tutte le porte degli appartamenti sono protette da cancelli con catene e lucchetti. Le ampie strade lastricate, molte chiuse al traffico, che separano i caseggiati sono vuote.

Il nome Zambujal viene da una parola araba che significa campo di olivi, ma qui è difficile trovare qualcosa che richiami il verde o l’aria accogliente di un uliveto. Si incontra solo qualche fila di alberi appena piantati che lottano per sopravvivere.

Vivere insieme alla gente che si serve

Tre missionari della Consolata, padre José Matías, padre Albino Brás, entrambi portoghesi, e il diacono Geoffrey Menya, kenyano, risiedono e lavorano nel quartiere. I tre non vivono in una casa religiosa o in una canonica, ma hanno affittato un appartamento al terzo piano di uno di quei tanti anonimi palazzoni di cemento. «Abbiamo fatto la scelta di vivere non solo in mezzo alla gente, ma anche come la gente», dice padre Matías (che non si fa chiamare José per non essere confuso con i tanti altri che portano il suo stesso nome). «In questo modo stiamo mettendo in pratica la missione ad gentes che abbiamo scelto quando siamo diventati missionari».

Padre Matías è stato uno dei primi a venire a Zambujal, già nel 2003, quando dalla casa dei missionari a Cacem, a una decina di minuti di macchina da qui, ha cominciato a visitare le famiglie del quartiere e celebrare la messa dove poteva al piano terra di qualcuno dei grandi edifici residenziali dell’area. «Ma il fatto che non vivessimo qui, rendeva difficile avere contatti profondi e duraturi con la gente», ricorda padre Matías.

Quando lui è stato trasferito in Spagna, i suoi confratelli hanno continuato a collaborare con la parrocchia di Zambujal, fino al 2012, anno in cui hanno deciso di prendere una residenza permanente nel quartiere per iniziare una presenza regolare in collaborazione con le suore della Consolata. Padre Albino Brás, con un confratello e un seminarista del Kenya, ha così iniziato la nuova avventura.

Padre Matías, lasciata la Spagna, è tornato in Portogallo all’inizio del 2016. «Il lavoro qui è molto impegnativo. I bisogni umani e spirituali della gente sono tantissimi», sottolinea il missionario che un tempo è stato in Mozambico, «e, anche se qualche volta è davvero dura, non c’è alternativa alla scelta di vivere insieme alla gente che si serve».

È quello che pensano anche le missionarie della Consolata, suor Severa Riva e Ivaní de Morais che hanno preso un appartamento non molto distante da quello dei missionari condividendo lo stesso spirito.

Il multiculturalismo di Zambujal

Nonostante il loro impegno, i missionari riescono ad avere contatti regolari solo con una piccola parte della popolazione di Zambujal. È una realtà molto difficile, resa ancora più complicata dalle divisioni etniche del quartiere. Gli abitanti sono, infatti, divisi in tre grandi gruppi, con innumerevoli sottogruppi. Ci sono i portoghesi nativi del posto, poi gli immigrati che parlano portoghese e provengono dalle ex colonie (soprattutto da Capo Verde) e infine i Rom. Ognuno dei gruppi tende a non mescolarsi con gli altri e fare vita a sé. Normalmente la convivenza, pur difficile, è pacifica, ma ogni tanto si carica di tensione e violenza. I pesanti cancelli davanti alle porte di ingresso degli appartamenti, ne sono un segno.

Virtualmente tutti gli appartamenti di Zambujal ricadono sotto la categoria del social housing (come le nostre case popolari, ndr). Infatti furono costruiti dal governo negli anni ’60 e ’70 per accogliere i molti portoghesi che scappavano dalle ex colonie man mano che queste recuperavano l’indipendenza, non senza guerre e violenze, abbandonando i loro possedimenti oltremare. Il processo di decolonizzazione dei territori oltremare – da Capo Verde all’Angola al Mozambico in Africa, da Timor Est a Goa a Macao in Asia – causò un grande afflusso nel paese di ex coloni portoghesi e di immigranti di ogni gruppo etnico.

Quello portoghese è stato il più longevo tra gli imperi coloniali europei e uno dei più estesi, cominciato con la conquista di Ceuta in Marocco nel 1415, e continuato con la conquista e colonizzazione di parte dell’Africa, del Brasile e dell’Asia. Il processo di decolonizzazione, partito dal 1822, con la perdita del Brasile, proseguito negli anni ’60 e ’70 del Novecento con l’indipendenza delle colonie africane, si è concluso all’inizio del nuovo millennio, con il trasferimento di Macao alla Cina nel 1999 e la concessione della sovranità a Timor Est nel 2002. Più di cinquanta stati possono oggi rintracciare le loro origini nell’impero portoghese.

Per molti portoghesi che sono stati obbligati a lasciare le antiche colonie, il Portogallo era in realtà una terra straniera. La gran parte di loro, come i loro padri e i loro nonni, erano nati e cresciuti nei territori d’oltremare. Pur parlando portoghese erano degli stranieri e per molti di loro l’integrazione nella società nazionale è stata molto difficile. Al numero di questi forestieri si è poi aggiunta la grande quantità di migranti provenienti da quelle stesse ex colonie. I due gruppi vengono spesso uniti sotto l’unica definizione di Palops (gente proveniente da Países Africanos de Língua Oficial Portuguesa): proprio per loro il governo ha costruito quartieri come Zambujal.

Le iniziative di aggregazione

Scendiamo con i padri Albino e Matías le sei rampe di scale che portano dal loro piccolo appartamento al marciapiede sulla strada principale del quartiere. Giriamo a sinistra e, dopo pochi passi, attraversiamo un’ampia porta di ferro e vetri. Entriamo nel Centro de Consolação e Vida. Da qui partono tutte le attività dei missionari. Una vivacissima ed energica suor Ivaní ci fa da guida.

Oltrepassato l’ampio corridoio che fa da ingresso, nel quale si apre una stanzetta che serve da ufficio di accoglienza e sala d’attesa, entriamo nel laboratorio di taglio e cucito. Un gruppo di donne intente ai loro lavori ci accoglie: c’è chi taglia la stoffa, chi cuce, chi ricama, il tutto sotto lo sguardo attento di Elisa Cruz, una laica missionaria della Consolata. Stanno confezionando borse di vario tipo, tutte fatte a mano, dall’A alla Z. Ne esaminiamo alcune, la qualità è eccellente. La suora apre allora un grande armadio e abbiamo modo di apprezzare la bellezza e il disegno originalissimo dei tessuti creati e lavorati da quelle donne. Elisa ci spiega che tutta la loro produzione è su commissione e, quindi, tutto è già venduto ancor prima di essere fatto. Pagate le spese, il guadagno va tutto a sostenere il centro e le sue attività.

Dietro il laboratorio ci sono due piccole aule che servono per corsi di alfabetizzazione e scuola serale per gli adulti. Una piccola cappella con una porta che dà direttamente sulla strada è il cuore del Centro di Consolazione e Vita. Lì ci si ritrova per la messa e per la preghiera personale o a piccoli gruppi. Naturalmente non manca l’angolo cucina, necessario per quando si organizzano piccole feste, anche se la maggior parte del cibo viene portata già pronta da casa.

Il Caza (Centro artístico do Zambujal) è il punto d’orgoglio e di gioia di tutti coloro che sono coinvolti nel centro. Quando i locali non sono usati per la scuola o per il laboratorio, si trasformano in un vivaio di creatività: musica, arte, cinema, danza, yoga e tante altre attività.

Alla base di tutto c’è, sempre presente, l’obiettivo dello sviluppo umano e spirituale delle persone, gli interventi sociali, l’opera di dialogo e incontro tra i vari gruppi, l’attenzione all’ambiente, la catechesi e preparazione ai sacramenti, l’evangelizzazione. «Le vie del Signore sono infinite», dice sorridendo padre Albino. «Abbiamo fatto molti progressi con i diversi gruppi che vivono in zona, soprattutto con i Capoverdiani. Rimane però il grande problema dei Rom, che tendono a isolarsi e non interagiscono molto con gli altri. A volte arrivano al punto di escludere dalla loro comunità chi tra loro frequenta il centro. Ma noi continuiamo con i tentativi di coinvolgerli».

Usciamo dal Caza e ci dirigiamo alla palestra, un’altra delle iniziative di aggregazione dei missionari. Ci accoglie Luis, un giovane capoverdiano, che si presta subito a farci da guida. È una palestra perfettamente funzionante come potreste trovare ovunque. I macchinari non sono proprio all’ultimo grido, ma funziona tutto perfettamente. Tutti gli attrezzi sono stati regalati da altre palestre quando hanno rinnovato il loro equipaggiamento. Attraverso quest’attività i missionari raggiungono tre obiettivi: offrono un servizio molto pratico soprattutto ai giovani, creano un centro di aggregazione e di incontro dove persone di diverse provenienze possono interagire tra loro e allo stesso tempo incontrare i missionari, e, attraverso la quota di iscrizione (degli oltre duecento membri) si autofinanziano e pagano il personale addetto.

Il bel colore dell’olivo

Tornando verso l’appartamento dei missionari, c’imbattiamo in un gruppo che esce da un caffè che fa anche da drogheria, dove puoi comprare di tutto a tutte le ore. Alcuni di quegli uomini riconoscono padre Matías e il diacono Geoffrey. Non possiamo non fermarci. C’è una gran voglia di chiacchierare. Un anziano ci fa vedere un sacchetto pieno di caracóis (lumache) che ha appena raccolto in un prato, con la moglie ci farà una bella zuppa. Dal bar una voce di donna ci chiama. Dobbiamo proprio entrare. La signora Clara, nativa dell’arcipelago Madeira, ci accoglie con un grande sorriso e grande cordialità, sprizzando giovialità da tutti i pori. Ci offre un espresso, a spese della casa. Vicino a noi un uomo beve un bicchiere di vino, aperitivo prima della cena.

Il quartiere può sembrare squallido e triste, ma per un momento la gente di Zambujal dimentica i suoi problemi. Il cemento non sembra più così impenetrabile e i piccoli alberi che fiancheggiano la strada potrebbero anche crescere grandi e forti e riprendersi un po’ il bel colore dell’olivo.

Domenic Cusmano*

* Testo tradotto e adattato da Gigi Anataloni dalla rivista «Consolata Missionaries» (n. 1, 2017), pubblicata in inglese e francese dai missionari della Consolata in Canada e negli Stati Uniti.




Passaggi, storie di straordinaria integrazione


Indice

Introduzione: Da migrante a nuovo cittadino

Articolo: Come ti libero le schiave del sesso

Box: Noi, della prima generazione

Articolo: Missione: costruire i «nuovi cittadini»

Box: l’integrazione che si coltiva

Articolo: L’angelo dei sans papiers

Box: il calcio che conta

 



Da migrante a nuovo cittadino

Secondo l’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) nel 2016 hanno messo piede in Italia 181.436 esseri umani. A questi si aggiungono i 5.096 morti in mare e gli invisibili, viaggiatori mai arrivati a vedere le coste dell’Africa del Nord, di-spersi nel deserto o dimenticati nelle carceri libiche. La somma dà un numero imprecisato di migranti, donne e uomini, accomunati da un’unica somiglianza: l’urgenza di fuggire dalla terra in cui sono nati.

Essere migrante non è uno status permanente, ma una fase di passaggio e c’è un preciso momento in cui lo si diventa. Succede quando una causa di forza maggiore – una guerra, un disastro ambientale o una persecuzione personale – esercita una pressione su una persona tale da obbligarla ad abbandonare una vita stanziale.

E così inizia il movimento che, nell’ultimo anno, ha portato centinaia di migliaia di disperati ad attraversare il Mediterraneo, per approdare in un centro di accoglienza in stati che, nella maggior parte dei casi, sono scelti dagli scafisti.

Ma c’è anche un preciso momento in cui si smette di essere migranti. La fuga dal proprio paese non si esaurisce in un viaggio tortuoso, ma in un ritorno alla stabilità. Ed è proprio quando si ha l’opportunità di piantare le proprie radici in una nuova cultura che si abbandona questa condizione. E si diventa un nuovo cittadino.

Gli stranieri regolarmente residenti in Italia nel 2016 – secondo i dati Istat – sono 5 milioni e 26 mila. Persone dalla doppia anima, allo stesso tempo stranieri e nuovi abitanti, hanno acquisito la lingua e la cultura del paese ospitante, senza dimenticare le peculiarità del mondo da cui sono arrivati. Esseri umani che chiamano «casa» l’Italia con la stessa forza con cui rivolgono il pensiero al paese di origine.

Tra di loro, qualcuno ha compiuto un passaggio ulteriore. Ha capito che il personale percorso di integrazione, fatto di tentativi, errori, ma anche successi, può essere tradotto in un bagaglio di esperienze utili e trasferibili ai nuovi migranti, per rendere più fluido e rapido il loro processo di inclusione.

Alcuni stranieri residenti hanno deciso di tendere una mano a chi è arrivato dopo di loro, aiutandolo a vivere l’approdo in Italia. Tra di essi c’è chi si occupa di fornire cure gratuite ai richiedenti asilo, chi prova a insegnare un lavoro, chi li ospita in casa, chi ne migliora le occasioni di socialità attraverso lo sport, chi ancora promuove un passaggio di competenze e conoscenze, con attività di educazione alla pari.

Stranieri, forse non più stranieri, che sfidano la retorica di chi li vede come invasori, dimostrandosi, al contrario, anelli forti nei processi di integrazione, ponti tra due mondi, in grado di semplificare e ammorbidire il dialogo tra chi arriva e chi invece è sempre vissuto in Italia.

E così facendo contribuiscono non solo al perfezionamento del sistema di accoglienza italiano, ma alla costruzione di una società in cambiamento, dove migranti, ex migranti, stranieri e italiani hanno la possibilità di incidere sul futuro del paese in cui vivono e fare, tutti insieme, un passaggio in più. Diventare esempi di cittadinanza attiva.

Simona Carnino


 

Fatima Issah e Princess Inyang Okokon, Ghana e Nigeria

Come ti libero le schiave del sesso  

Loro, trafficate con l’inganno, riescono a liberarsi grazie alla propria tenacia e a un’associazione. Rimaste in Italia, sono diventate un riferimento per le ragazze che continuano ad arrivare numerose e sono sbattute sulle nostre strade. Molte di loro vogliono fuggire, ma hanno bisogno di tutto. Altre sono ricattate. Fatima e Princess ci sono passate.

Fuori è ancora buio. Sono le 7.30 di un giorno di una settimana qualsiasi. Fatima tira sù le tapparelle, scosta le tende e guarda verso il palazzo davanti a casa sua. Nell’alloggio di fronte, la luce spenta e la mancanza di movimenti lasciano trasparire un piccolo mondo addormentato.

«Le ragazze non si sono ancora svegliate – pensa Fatima -. Ora le chiamo perché altrimenti fanno tardi a scuola».

Squilla il telefono. Dopo pochi minuti, giovani donne dalla pelle d’ebano si affacciano al balcone. A pochi metri in linea d’aria vedono Fatima appoggiata al davanzale. La salutano. Dall’altra parte la donna sorride, le guarda e nella sua mente le conta una a una. Ci sono tutte. La giornata può iniziare.

Dal 2009, Fatima vive ad Asti dove si occupa dell’accoglienza e della protezione di vittime di tratta. Lavora presso il Piam onlus (www.piamonlus.it), associazione nota in Italia e all’estero per il recupero psicofisico delle schiave del sesso. Un mestiere complesso, per cui ci vuole preparazione psicologica, conoscenza delle disposizioni in materia di protezione delle vittime di tratta e una buona analisi del contesto storico e geografico in cui il commercio di esseri umani avviene.

«In genere le ragazze arrivano dalla Nigeria e hanno una media di 18-20 anni – spiega la donna -. A volte sono minorenni. Il mio compito è accompagnarle verso una nuova vita e dare consigli utili».

Fatima sa che quello che dice viene ascoltato con particolare interesse. Sa di essere un punto di riferimento per le ragazze. E in effetti nessuno è più credibile di chi ha vissuto le stesse vicissitudini. Nessuno è più credibile di lei.

Una storia d’inganno e di riscatto

Ghanese d’origine, Fatima Issah arrivò in Italia come vittima di tratta, nel 2008. Raggirata da un uomo nigeriano conosciuto ad Accra, accettò di partire per l’Europa con l’illusione di un lavoro come cuoca o inserviente in qualche ristorante. Senza saperlo si mise al seguito di un trafficante, iniziando un viaggio rocambolesco: palleggiata da Accra a Dubai, da Istanbul a Pristina, fino in Macedonia. Da lì, in treno verso Tessalonica e poi in volo in Repubblica Ceca, dove il faccendiere la imbarcò per Milano Malpensa prima di darsi alla macchia, per schivare i controlli sul traffico di esseri umani. All’aeroporto, un secondo uomo la stava aspettando per condurla a Torino, a casa di una donna nigeriana che si rivelò essere una madam pronta ad offrire a Fatima una vita d’inferno, invece di un lavoro legale.

«Mi dissero che dovevo pagare un debito di viaggio di 45mila euro lavorando in strada come prostituta – ricorda Fatima -. Non volevo fare una cosa del genere, ma non sapevo come fuggire e allora ho finto di essere d’accordo».

La sera successiva Fatima, insieme ad altre donne, venne costretta a salire su un furgone con destinazione Asti. Un’ora dopo era in piedi sul marciapiede di fronte al cimitero. «Una ragazza mi disse che dovevo avvicinare le macchine e propormi per 50 euro – spiega la donna -. Se il prezzo fosse stato considerato troppo alto, dovevo chiedere 20 euro per prestazione. Volevo scappare ma non sapevo come».

E il modo arrivò, come quando in un film tragico sopraggiunge uno spiazzante lieto fine. Una giovane nigeriana si rese conto dell’atteggiamento restio di Fatima. «Mi chiese come mai non facessi come tutte le altre. Le raccontai che mi avevano ingannato e volevo scappare, anche se era pericoloso. Lei allora mi aiutò, consegnandomi un volantino dell’associazione Piam con un numero di emergenza». Fatima aspettò di non essere vista, prese coraggio e si mise a correre. «Era buio e non sapevo dove stessi andando. Poi ho visto degli alberi e mi sono nascosta. Al mattino sono andata alla stazione dei treni e ho chiamato il Piam». I volontari dell’associazione si presentarono immediatamente e portarono Fatima nel centro di accoglienza femminile, dove ebbe la possibilità di fare denuncia di tratta alla polizia e da lì a poco ottenere il permesso di soggiorno per motivi sociali rilasciato ai sensi dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione.

Il ricatto del malocchio

Stessa sorte è capitata alla vicepresidente del Piam, Princess Inyang Okokon, originaria della Nigeria. In questo paese spesso le ragazze, prima di partire, vengono convinte a partecipare alla cerimonia del juju, un rituale religioso tradizionale, presieduto da una guida spirituale, che suggella un patto tra i trafficanti e le donne. I primi si impegnano a garantire un trasferimento sicuro in Europa e le seconde giurano che pagheranno il debito contratto. Il juju assume una funzione repressiva e schiavizzante quando le giovani, ormai consapevoli di essere cadute in una condizione di sfruttamento, cercano di fuggire. I trafficanti lo utilizzano con fare intimidatorio, ricordando alle donne che si tratta di un giuramento sacro, un contratto da cui non si può recedere, se non pagando il debito di viaggio, pena la morte della ragazza stessa o dei suoi famigliari. La cifra per l’affrancamento dai responsabili del meretricio è molto più alta di un normale biglietto aereo e arriva anche ad alcune decine di migliaia di euro.

«Io sono scappata – ricorda Princess -. Oggi sono qui a testimoniare alle ragazze che di juju non si muore e si può provare a uscire da questo incubo».

Identikit delle vittime di tratta

«Sono una delle poche ghanesi finite nelle mani del racket della prostituzione – afferma Fatima -. La maggior parte delle donne di colore che si vedono sulla strada sono nigeriane».

Secondo i dati dell’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati) il 15% dei migranti arrivati in Italia nel 2016 proviene dalla Nigeria.

Tra di loro circa 11mila sono donne, di cui l’80% è vittima di tratta, come confermato dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Un numero elevato se confrontato con il dato del 2015 che riporta 5.633 arrivi di ragazze in fuga da una nazione resa instabile dalle incursioni di Boko Haram e da una iniqua ripartizione delle risorse economiche. Nel saggio «Sex Trafficking in Edo State, Nigeria», edito dall’Unicri (Istituto di ricerca interregionale per il crimine e la giustizia dell’Onu) nel 2013, si evidenzia che l’85% delle vittime di tratta nigeriane proviene dalla regione denominata Edo, in particolare da Benin City e dai villaggi vicini. Abusando delle condizioni di vulnerabilità economica delle famiglie, i trafficanti cercano nei genitori delle ragazze dei complici, facili da abbindolare con la promessa di un benessere garantito dagli introiti della prostituzione delle figlie in Europa. Un’illusione rafforzata dall’incontro con alcune madam, ex prostitute diventate sfruttatrici, che spesso ritornano nel paese d’origine sfoggiando simboli di ricchezza quali telefonini di ultima generazione e case di proprietà.

«Oggi alcune ragazze sanno che la prostituzione è il prezzo da pagare per essere portate in Europa – spiega Fatima -. Ma quando si trovano davanti all’inferno della strada, alcune provano a scappare e altre continuano il lavoro per paura di ritorsioni».

Spesso è bassa la consapevolezza delle ragazze rispetto al loro futuro in Europa. Il saggio «Nigeria – La tratta di donne a fini sessuali», prodotto dall’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo nel 2015, afferma che «le donne possono sapere che lavoreranno come prostitute, senza però rendersi conto delle condizioni in cui ciò avverrà o dell’effettivo ammontare del debito, oppure possono essere sottoposte a pressioni nell’ambiente in cui vivono, o ancora possono essere vittime di inganni o raggiri».

Che siano convinte di arrivare in Italia per fare le badanti, o che sappiano cosa le attende, le ragazze si affidano a persone senza scrupoli. «Spesso sono vittime di violenza e sfruttamento sessuale durante il viaggio e poi in Libia – continua Fatima -. Alcune rimangono incinte dei loro stessi trafficanti».

Protezione delle ragazze trafficate

Le giovani donne inserite nei progetti di accoglienza gestiti da Fatima e Princess hanno raggiunto la Sicilia in barcone, come la maggior parte delle loro connazionali. Ad aspettarle all’arrivo normalmente c’è un intermediario che, come è successo a Fatima, ha il compito di accompagnarle da una madam.

«Quando sono ancora in Africa, le ragazze ricevono un numero telefonico da chiamare una volta approdate – spiega Princess -. In questo modo si possono mettere in contatto con i trafficanti qui in Italia».

Proprio per evitare che le ragazze si consegnino ai propri aguzzini, nei primi giorni a ridosso dell’arrivo, Fatima e Princess si impegnano a dare tutte le informazioni necessarie perché le giovani donne decidano consapevolmente se denunciare i propri carnefici ed entrare in un progetto di accoglienza per richiedenti asilo politico.

«Se arriva una ragazza nigeriana non accompagnata, diciottenne o ventenne, è al 100% vittima di tratta – dice Princess -. Ci possono dire che la persona che le sta aspettando è loro cugino, zio o un amico di famiglia, ma noi sappiamo che non è vero. Ci siamo passate prima di loro».

Tuttavia sta alle ragazze denunciare la propria condizione e, ad oggi, poche nigeriane trafficate si identificano come vittime. Per la maggior parte di loro il pagamento di somme ingenti di denaro per approdare in Europa è considerato la normalità e la prostituzione un passaggio obbligato verso l’affrancamento. Altre sanno che una denuncia suonerebbe come una dichiarazione di guerra nei confronti dei trafficanti che potrebbero minacciare le loro famiglie.

«Alcune ragazze invece non vogliono andare sulla strada a nessun costo – dice Fatima -. Si sono affidate a trafficanti per riuscire ad arrivare in Europa, ma non hanno nessuna intenzione di svolgere quel lavoro. In questi casi, le aiutiamo a sporgere denuncia e le inseriamo in progetti di accoglienza e di protezione».

Un percorso di accompagnamento che Fatima e Princess svolgono con passione e dedizione, incoraggiando le ragazze ad andare a scuola di italiano, immaginare un futuro lavorativo e provare a sanare le ferite fisiche e psicologiche che hanno subito durante il processo migratorio.

«Non è semplice valutare se una ragazza è davvero fuori dal giro della prostituzione – spiega Princess -. Capita che denunci il trafficante, ma che dopo un periodo scappi dal progetto di protezione, perché teme gli effetti del juju per non aver pagato il debito». E così può accadere che una ragazza inizialmente strappata allo sfruttamento sessuale venga ricontattata dai suoi aguzzini e, intimorita per le possibili ritorsioni, cominci un percorso di miseria sulla strada, schiavizzata per un numero di anni difficile da calcolare.

«Quando ci accorgiamo che una ragazza viene minacciata da uno di questi delinquenti, proviamo a trasferirla in un’altra città, prima che scappi senza dirci nulla – conclude Princess -. È nostro compito provare a proteggerla fino a quando ne abbiamo la possibilità».

Guadagnarsi la fiducia delle vittime di tratta non è facile. Eppure Fatima e Princess non demordono. Dalla loro parte hanno un’esperienza, triste e dolorosa, che le rende un esempio concreto. «Io sono come te, ma sono cresciuta. Ho studiato e ho un lavoro», dice Fatima, ogni volta che incoraggia le giovani a trovare la forza di dire no alla tratta, ogni volta che le ascolta e le accompagna per diventare donne libere. E ogni volta che le chiama dalla finestra, perché non facciano tardi a scuola.

Simona Carnino


Noi, della prima generazione

Dalla cucina arriva un profumo di curcuma che si mischia alle note intense della cipolla e dell’aglio. I borbottii della casseruola sul fuoco annunciano un piatto dalla lunga cottura. Moussa, un 23enne originario del Mali, sta controllando che il riso non si attacchi al fondo. A intervalli regolari dà una mescolata, poi posa il cucchiaio e si mette a pelare patate e carote. Alle sue spalle Mallam, ghanese di 25 anni, lava le pentole. Poco più in là Alioune prepara la tavola per tutti. Qualche mese fa l’apparecchiava solo per sé.

Siamo nella primavera del 2016 Mallam e Moussa sono in Italia da circa 5 anni. Prima di conoscere Alioune avevano vissuto tra grandi centri e case occupate. Nel 2015 hanno ottenuto la possibilità di partecipare al progetto «Rifugio diffuso», un’accoglienza in casa di privati che prevede un contributo alla famiglia ospitante di circa 400 euro per ogni richiedente asilo o titolare di protezione alloggiato. Ad aprire la porta ai due giovani c’era Alioune Djouf senegalese di 58 anni, residente in provincia di Cuneo e in Italia da più di metà della sua vita. «Questi ragazzi appena arrivati hanno bisogno di essere aiutati – commenta Alioune -. Noi, che siamo di prima generazione, dobbiamo essere in prima linea».

 

L’accoglienza in casa è ancora poco praticata in Italia. In Piemonte ha cominciato ad avere una parziale diffusione nel 2008 ed è stata rilanciata nel 2014 dal comune di Torino, insieme all’Ufficio pastorale migranti della diocesi e altre associazioni. Questo tipo di servizio permette alle persone ospitate di avere un immediato contatto con il territorio, facilitato dal conduttore dell’alloggio che, in genere, è residente in loco da molti anni. E i risultati possono essere particolarmente interessanti quando il rifugio viene offerto da uno straniero che vive in Italia da parecchio tempo. «Noi che siamo arrivati in Italia da anni, conosciamo la lingua, il sistema culturale e sociale italiano, ma abbiamo anche una grande conoscenza dei paesi di provenienza. Siamo dei ponti naturali e possiamo dare una mano concreta a chi arriva ora», spiega Alioune che nel 2016 ha accompagnato i due ragazzi nel processo di iscrizione al centro per l’impiego, li ha messi in contatto con una ditta per svolgere un tirocinio e li ha sostenuti nella creazione di una piccola rete di amicizie e incontri sul territorio.

A volte possono subentrare delle difficoltà di convivenza, come tra normali coinquilini, certo è che l’accoglienza in casa permette un processo di integrazione più rapido di quello che avviene nei grandi centri.

«Quando i ragazzi arrivano, parliamo subito – racconta Alioune -. Non siamo più in Africa. Il sistema europeo è molto diverso da quello a cui sono abituati, per cui diventa prioritario per loro provare a capire la gente, rispettare le regole e farsi conoscere. In questo modo si riuscirà a fare un buon inserimento. E naturalmente è importante trovare un lavoro. Per questo faccio di tutto perché Mallam e Moussa abbiano un’opportunità di impiego». Un proposito che si scontra con le precarietà ormai tipiche del sistema lavorativo italiano, ma che non ha scoraggiato i giovani.

Marzo 2017: Mallam ha iniziato un tirocinio presso una mensa e si è trasferito più vicino alla sede di servizio, mentre Moussa ha cominciato il servizio civile e vive ancora a casa di Alioune.

Simona Carnino


Abdullahi Ahmed, Somalia

Missione: costruire i «nuovi cittadini»

È un ragazzo come molti altri. La paura del viaggio era tanta, ma quella di rimanere e non potersi realizzare ha prevalso. Una grande volontà di rendersi utile. Per caso diventa mediatore. Un naturale «ponte» tra due mondi. Capisce che occorre preparare i ragazzi italiani all’accoglienza e in un anno incontra 10.000 giovani nelle scuole.

Corre veloce, Abdullahi. Sulle spalle lo zaino con gli appunti per spiegare nelle scuole del Piemonte il motivo che convince i ragazzi come lui a fuggire dal proprio paese. Nelle mani l’orario dei colloqui con i richiedenti asilo appena arrivati in Italia, in tasca il biglietto di uno studente con scritto «grazie». E nello sguardo il guizzo vitale di chi sogna un dialogo pacifico tra italiani e stranieri. O per usare le sue parole, «nuovi cittadini, perché sono sicuro che se il processo di inclusione avviene in modo corretto, chi approda oggi, sarà il cittadino di domani».

Abdullahi Ahmed, classe 1988, originario della Somalia, oggi è cittadino italiano e fa il mediatore culturale a Settimo Torinese. Parla la nuova lingua come un libro stampato, conosce la Costituzione italiana a menadito, si destreggia tra i meandri della burocrazia e sa orientarsi lesto per le vie di Torino, città in cui abita. Difficile considerarlo straniero, migrante, rifugiato, profugo. Abdullahi è un ragazzo come tanti altri, somalo, italiano, europeo che si è messo in viaggio in cerca di stabilità economica, sociale e, nel suo caso, politica.

La traversata che ti segna

Abdullahi è arrivato in Italia nel giugno 2008, ma è partito dalla Somalia nel novembre 2007. Il paese è dilaniato da guerre civili e dittature fin dal 1960, anno dell’indipendenza. L’economia ne ha sofferto, piegata inoltre da ondate di carestia, che hanno accelerato i moti migratori e collocato la Somalia al terzo posto nel mondo per numero di richieste di asilo politico, con 1,1 milioni di abitanti in fuga, secondo il 3° Rapporto sulla Protezione internazionale 2016 (di Caritas Italiana e altre organizzazioni). «Da quando sono nato non ho mai vissuto un giorno di pace, fino a quando non ho deciso di partire – racconta Abdullahi -. La paura del viaggio era tanta, ma quella di rimanere, e non potermi realizzare come essere umano, era più forte». Compiuti 19 anni, ha preso il suo bagaglio e ha cominciato un viaggio di 7 mesi, affidandosi a organizzazioni di trafficanti che si occupano di gestire il viaggio dei migranti verso l’Europa. Mesi trascorsi ad attraversare l’Etiopia, il Sudan e poi la Libia. «Mi sarebbe piaciuto prendere un aereo, ma non è stato possibile – ricorda il ragazzo -. Con il passaporto somalo non si può andare neanche in Kenya, mentre con i documenti italiani si può viaggiare in 175 paesi. Oggi c’è chi ha diritto di viaggiare e chi no. E i somali non ce l’hanno», per cui il viaggio è stato precario e insicuro a ogni passo. L’attraversamento del mare tra Libia e Italia è stato più semplice del passaggio nel deserto, durato sette giorni. La paura che la macchina si inceppasse a causa della sabbia, che i soccorsi non arrivassero o che le riserve d’acqua terminassero, ha seguito Abdullahi fino all’arrivo in Libia, dove, pagando un biglietto salato, è salito sul barcone che lo ha portato in Europa. «Tu non scegli in che punto attraversare il Mediterraneo né dove arrivare – racconta -. Ti affidi e basta. Il viaggio in mare dura mediamente 24 ore. Se c’è un problema, speri di essere soccorso e preghi Dio».

Dopo quattro giorni dall’arrivo a Lampedusa, Abdullahi è stato imbarcato su un volo per Torino e accolto nel Centro Fenoglio di Settimo Torinese, gestito dalla Croce Rossa. Dopo tre mesi, ha ottenuto il permesso di soggiorno come rifugiato politico.

«Vorrei fare qualcosa di buono»

«Certezze non ce ne sono, ma per ora vorrei mettere qui il mio mondo e fare qualcosa di buono». Nel 2009, Abdullahi ha posato la pietra miliare della sua nuova vita in Italia, ma non ha smesso di muoversi. Almeno con le idee e con la volontà di rendersi utile.

A un anno dal suo arrivo in Italia ha iniziato a svolgere il mestiere di mediatore culturale. «Nel 2009 sono arrivati al Fenoglio 150 richiedenti asilo politico dalla Somalia – racconta Abdullahi -. Io mi sono messo a disposizione per aiutare gli operatori del centro a trasmettere le comunicazioni». Un’attività iniziata per caso, diventata una professione che lo ha reso indispensabile per la sua funzione di ponte linguistico. «Ma il mediatore è molto di più di un interprete. È una persona che conosce la cultura del paese d’origine e ha acquisito la cultura del paese ospitante», dice Abdullahi che da anni ha il compito di aiutare i ragazzi somali a iscriversi al sistema sanitario, alla scuola di italiano per stranieri, a conoscere il territorio e a seguire l’iter di ottenimento dei documenti.

«Se i ragazzi non hanno ancora fatto richiesta di asilo politico, li accompagno in questura per compilare i moduli necessari – spiega -. I tempi di attesa oggi sono molto più lunghi del 2008. A volte ci vogliono due anni per ricevere una risposta».

Secondo i dati mensili raccolti dal ministero dell’Interno, da gennaio a dicembre del 2016 sono state presentate 124.382 domande di asilo, mentre ne sono state esaminate 90.552, indipendentemente dall’anno di arrivo del richiedente in Italia. L’attesa è sfiancante e in più del 50% dei casi la risposta è negativa. Una doccia fredda. Esseri umani dichiarati illegali, spinti a lasciare il paese, nonostante spesso abbiano già imparato la lingua e magari trovato un’occupazione. «In quei momenti il mio lavoro si fa duro e posso fare ben poco – racconta Abdullahi -. In ogni caso, continuo a frequentare chi non riceve il permesso, aiutandolo a costruire una rete sociale. Non voglio che si senta abbandonato».

Due mondi che s’incontrano

L’avvicinamento tra due mondi è possibile solo se entrambi hanno la volontà di camminare verso l’altro. «Una volta pensavo che fosse compito solo di noi stranieri fare lo sforzo di integrarci – ricorda Abdullahi – ma mi sbagliavo. È importante preparare il territorio, coinvolgere i giovani nati in Italia, parlare con loro». A dargli l’occasione per iniziare una nuova tappa di dialogo è stato, paradossalmente, un evento tragico.

Il 3 ottobre del 2013 un barcone affondò al largo di Lampedusa causando 368 morti e 20 dispersi. Il giorno dopo in una scuola del Piemonte, un professore propose ai propri studenti un minuto di silenzio per le vittime del mare. Alcuni si rifiutarono. «Ma che ce ne frega a noi di questi. Facevano meglio a non venire», disse uno. Spiazzato dall’atteggiamento della classe, il docente provò a correre ai ripari, pensando di mettere i propri studenti a confronto con l’oggetto stesso della loro diffidenza. Alcune telefonate dopo, Abdullahi si presentò a scuola per raccontare la sua storia, in buona parte simile a quella dei ragazzi annegati il 3 ottobre. Due ore di resoconto serrato, un’antologia di emozioni mescolate a fatti di storia contemporanea incisi sulla pelle.

Grazie a quell’incontro il ragazzo che aveva detto di «fregarsene» iniziò invece a interessarsi e invitò Abdullahi a partecipare a un’assemblea di istituto per portare la sua testimonianza a tutta la scuola.

«Da allora ho deciso di raccontare la mia storia per ridurre le distanze tra italiani e migranti. È diventata la mia missione. In tre anni ho incontrato più di 10mila studenti e i riscontri sono sempre positivi». Un’attività di volontariato che Abdullahi svolge con spirito civico, ma anche autornironia e simpatia. Pronto a rispondere a domande senza filtri, come quella volta che gli chiesero perché non se ne fosse andato in Botswana, invece che in Italia. «Non ci sono domande scomode o cattive.
È stimolante discutere con chi la pensa diversamente, altrimenti che confronto sarebbe! – sorride Ahmed -. I ragazzi mi chiedono della mia famiglia, della mia religione, se vengo pagato dallo stato, se pago l’affitto, se lavoro. Io rispondo alle loro curiosità. E così ci conosciamo e siamo un po’ meno lontani. È un’esperienza magnifica».

L’impegno civile

L’impegno di Abdullahi non conosce confini e nel 2014, rimasto senza lavoro come mediatore, con diritto all’assegno di disoccupazione, ha deciso di rifiutare l’aiuto dello stato per svolgere il servizio civile nazionale e restituire una parte di sé a Settimo Torinese, la città che lo aveva accolto anni prima.

Un esempio di partecipazione civica che non è sfuggita alla giunta comunale che il 18 settembre 2014 ha insignito Abdullahi della cittadinanza onoraria. A marzo del 2016 è diventato cittadino italiano a tutti gli effetti, ottenendo la possibilità di votare, di viaggiare e di poter vivere dove vuole.

Anche nel tempo libero il giovane mediatore non perde occasione di portare un contributo all’incontro interculturale. Dal 2014 è uno degli organizzatori della cellula torinese, e da poco anche settimese, di Arte Migrante, un evento serale informale, una corrida senza pomodori, in cui persone provenienti da tutto il mondo, di ogni ceto sociale e di ogni età, si esibiscono in performance di danza, canto, recitazione e molto altro. «Si sta insieme per il piacere di farlo. Tanti richiedenti asilo, rifugiati e nuovi cittadini partecipano con me alle serate e per un momento smettono di pensare ai problemi quotidiani. Ci divertiamo e le occasioni di socializzazione si moltiplicano in un’atmosfera magica».

E mentre ricorda tutto questo Abdullahi si tocca il collo. Dalla camicia fa capolino una maglietta rossa. O meglio granata. Improvvisamente una luce di orgoglio illumina il suo sguardo. «Sì, sono del Toro. La più grande squadra del mondo», dice serio Abdullahi che, appena ne ha avuto la possibilità, ha cominciato a sedersi in curva Maratona.

«All’inizio della mia esperienza in Italia, i tifosi mi hanno aiutato a sentirmi parte di un gruppo. Ogni volta che il Toro faceva gol ci abbracciavamo e a nessuno importava se io fossi nero, somalo, straniero, migrante o altro. Ero come loro, un tifoso granata».

Quell’abbraccio che lo ha fatto sentire a casa lo restituisce ogni volta che fa quello che gli riesce meglio. Essere l’ingranaggio funzionante di un dialogo appena iniziato.

Simona Carnino


Mamadou Ndiaje, Senegal e Abdulwahab Afa, Eritrea

l’integrazione che si coltiva

«Maramao perché sei morto? Pan e vin non ti mancava. L’insalata era nell’orto e una casa avevi tu», cinguettava il trio Lescano nel 1939. Negli anni 2000 la stessa cantilena ha cominciato a riecheggiare tra alcuni contadini di Canelli (Asti) che la usavano per indicare, con atteggiamento beffardo, i braccianti migranti finiti nel giro del caporalato, sfruttati nelle campagne del Dolcetto e del Barolo.

Oggi però Maramao ha un nuovo significato. Dal 2014 è il nome di una cooperativa agricola fondata da rifugiati politici e alcuni italiani. Maramao, sì. Per farsi beffa della beffa.

«Io e il mio collega Afa siamo i vicepresidenti – spiega Mamadou Ndiaje, senegalese -. Noi due e una nostra amica italiana rappresentiamo il comitato direttivo. Abbiamo iniziato questo lavoro coltivando le terre che alcuni anziani del paese hanno deciso di darci in comodato d’uso gratuito». Mamadou è arrivato dal Senegal e Abdulwahab Afa dall’Eritrea circa 4 anni fa. Oggi sono due giovani imprenditori di 30 anni, con alle spalle un passato trascorso in uno Sprar gestito dalla cooperativa Crescere Insieme di Acqui Terme (Alessandria), dove hanno imparato a destreggiarsi tra vendemmie, raccolta di nocciole e trasformazionie di pomodori. Imparato il mestiere, i due ragazzi, insieme a chi li aveva accolti, hanno unito le forze per la creazione di Maramao, start up di produzione e vendita di prodotti agricoli biologici.

«Oltre a coltivare, abbiamo deciso di accogliere in tirocinio lavorativo dei ragazzi che stanno nei centri di accoglienza, per insegnare loro un lavoro», racconta Afa. Una scelta importante che ha portato i due imprenditori agricoli a estendere quello che hanno imparato sull’auto imprenditorialità ai ragazzi, in gran parte richiedenti asilo, che sono un passo dietro a loro nel cammino verso l’integrazione lavorativa.

«Quando parti dal tuo paese d’origine, pensi che una volta arrivato in Italia sia facile trovare lavoro – ricorda Mamadou -. Poi ti rendi conto che ci sono tanti limiti. Prima di tutto bisogna avere i documenti a posto e parlare la lingua. Senza lavoro qui non è facile». E così i due giovani vicepresidenti fanno quello che possono per rendere a chi è arrivato dopo di loro più fluido il passaggio a una nuova vita lavorativa. Un tirocinio non è certo una sicurezza, ma rappresenta un primo passo per migliorare le proprie competenze e per venire in contatto con la popolazione locale. Molti dei ragazzi in stage si occupano della vendita dei prodotti al mercato, dove hanno l’opportunità di parlare con i clienti ed essere apprezzati per il proprio lavoro. Una gratificazione che stimola i giovani richiedenti asilo a mettercela tutta per dare nuova dignità ai campi abbandonati per anni (molte sono infatti terre lasciate incolte). Almeno per un periodo. Almeno fino a quando non avranno le idee più chiare sul loro futuro. «A volte i nostri tirocinanti non ottengono il permesso di soggiorno, oppure vogliono andare in Nord Europa – conclude Mamadou -. Non tutti loro rimarranno in Italia, ma noi proviamo a coinvolgerli nella coltivazione, nella raccolta, nella vendemmia e in tutto ciò che c’è da fare in una cooperativa agricola, perché ovunque vadano possano portarsi un mestiere con loro».

Sim.Car.


Joelle kamgaing, Camerun

L’angelo dei sans papiers

Arrivata a 19 anni in Italia per studiare medicina. Ha sviluppato grande empatia con i pazienti stranieri. Forse per la sua esperienza di studentessa «diversa» che ha dovuto integrarsi. Spesso gli assistiti hanno bisogno di un supporto umano più che di un consulto medico. E lei si mette a disposizione come volontaria.

Studia, studia, studia. È il mantra che ha accompagnato Joelle Kamgaing negli ultimi sei anni e mezzo, da quando ha iniziato a frequentare la facoltà di medicina e chirurgia a Torino.

A 19 anni aveva l’atteggiamento determinato di una velocista ai blocchi di partenza, con la mente concentrata al traguardo, pronta a fare il miglior tempo su un percorso ad ostacoli. «Avevo un obiettivo difficile – dice Joelle -. Volevo fare il medico. Mi sono impegnata, ho dato tutta me stessa».

E Joelle ce l’ha fatta. Nel 2016 si è laureata in medicina e chirurgia, con lode e dignità di stampa. Ha superato l’esame di abilitazione alla professione all’inizio del 2017 e ora sogna la specializzazione in nefrologia. Non male per una ragazza di 25 anni. Per una giovane donna che bagaglio in spalla e coraggio in pancia, ha lasciato il Camerun ed è partita alla volta dell’Italia per diventare medico.

Solidarietà studentesca

«Appena arrivata non sapevo una parola di italiano e non conoscevo nessuno, né la cultura, né il cibo. Era tutto diverso e io mi sentivo diversa. Tutti mi guardavano perché ero nera. Poi i miei compagni di corso mi hanno dato una mano. Mi parlavano in italiano e io li aiutavo con i concetti di medicina, spiegandomi in francese. E così poco a poco mi sono sentita accolta».

Un inizio tumultuoso per la ragazza che allo studio doveva affiancare lo sforzo di imparare la lingua e la volontà di comprendere un sistema culturale dai punti di riferimento diversi da quelli conosciuti nei primi due decenni di vita in Africa.

Senza scoraggiarsi e con la metodologia tipica di una scienziata, Joelle ha trasformato una debolezza in opportunità. Quell’iniziale sentirsi straniera in un paese straniero le ha permesso di sviluppare doti di empatia e ascolto che oggi rivolge ai suoi pazienti, in particolare a chi è arrivato da poco in Europa e fatica a esprimere il proprio malessere.

Appena ha un momento libero, Joelle opera come dottore volontario in medicina generale presso Camminare Insieme (camminare-insieme.it), un’associazione torinese di volontariato con un poliambulatorio in via Cottolengo, che si occupa di fornire farmaci e visite gratuite a indigenti e a stranieri che, per ragioni diverse, non abbiano diritto al servizio sanitario nazionale.

Medico, donna e africana

A volte non credono ai loro occhi. Stupiti e meravigliati, i pazienti stranieri che si siedono di fronte a Joelle rimangono a bocca aperta nel vedere una ragazza dell’Africa subsahariana con stetoscopio al collo e cartellino recante la dicitura «dottore» sul camice. «Mi chiedono come abbia fatto a raggiungere uno status così elevato – sorride Joelle -. Pensano che sia stata adottata. A loro sembra incredibile che qualcuno nato in Africa e arrivato in Italia possa riuscire a laurearsi in medicina».

Chi si presenta presso gli ambulatori dell’associazione Camminare Insieme nella maggior parte dei casi parla la lingua di chi ha fatto un lungo viaggio, con ferite psicologiche oltre che fisiche, e un passato da dimenticare. Difficile per loro pensare a un domani e ancora più arduo immaginare di realizzare i propri sogni.

Tanti di loro fanno parte di quel 61,3% di stranieri che nel 2016 ha ricevuto il diniego alla richiesta di asilo, secondo i dati del ministero dell’Interno. Cittadini invisibili che si muovono sul territorio italiano senza la possibilità di rimanere, ma neppure l’opportunità di andare verso un altrove più favorevole alla loro vita. Esseri umani privi di documenti che non hanno il diritto di iscriversi al sistema sanitario nazionale e quindi si rivolgono a centri ambulatoriali gestiti da volontari per ottenere visite generali e medicinali gratuiti. Tra i 2.547 pazienti totali, sono 2.113 le persone provenienti da paesi non dell’Unione europea che si sono registrate ai servizi dell’associazione Camminare Insieme nel 2016.

Pazienti senza documenti

«Chi è senza documento preferisce farsi curare presso centri come il nostro perché noi non esigiamo la presentazione del permesso di soggiorno – spiega Joelle -. Ogni volta che una persona considerata irregolare si presenta in strutture pubbliche teme una registrazione formale e conseguenti ripercussioni amministrative o penali».

Una paura che non avrebbe ragione di esserci se fosse più conosciuto l’articolo 35 del testo unico sull’immigrazione che cita: «L’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano».

In Italia il dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo, indipendentemente dall’etnia, dalla religione e dal sesso, in tempo di pace e guerra. Così recita ancora oggi l’articolo 3 del codice deontologico medico.

Certezze messe in dubbio qualche anno fa dal pacchetto sicurezza del 2008 e dalla successiva legge 94/2009 emanati dal governo Berlusconi che crearono panico diffuso tra gli stranieri e un acceso dibattito tra i medici determinati ad alzare le barricate per difendere il proprio dovere a operare nell’interesse del paziente.

Nel mirino c’era l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno irregolare, punito con una sanzione fino a 10mila euro, e l’obbligo di denuncia per pubblici ufficiali e incaricati del servizio pubblico che venissero a conoscenza di una persona in condizione di clandestinità. Il mondo sanitario si trovò a dover fronteggiare una situazione ambigua. Da una parte il divieto di segnalazione propria della deontologia e dall’altra il possibile obbligo di denuncia del migrante irregolare, non perché avesse commesso un atto criminale, ma per il motivo di essere nella condizione di sans papiers.

«È stato un periodo difficile – spiega Fiorella Ferro, socio fondatore di Camminare Insieme -. Tutti i medici, paramedici e corpo sanitario italiano si sono allineati in una ferma opposizione alla legge». Sulla porta dell’associazione di Via Cottolengo campeggiava un grosso e rosso adesivo che recitava «Noi non segnaliamo» e in quell’anno le code di fronte alle porte si duplicarono, mentre il libero e spontaneo accesso alle cure pubbliche da parte degli stranieri senza documenti si riduceva.

La federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontorniatri alzò la voce in difesa del ruolo del medico e chiese al governo chiarimenti.

La vicenda trovò una sua conclusione nella circolare n. 12 del novembre 2009, in cui il ministero dell’Interno ribadì, come riportato dal portale sull’immigrazione del governo, «la vigenza del divieto di segnalazione anche dopo l’entrata in vigore del reato di ingresso e soggiorno irregolare sul territorio nazionale, precisando che l’obbligo di denuncia non si applica in riferimento al reato di ingresso e soggiorno irregolare sul territorio dal momento che si tratta di una contravvenzione e non di delitto».

Sebbene si fosse fatta chiarezza su un’ambiguità di fondo, la legge aveva contribuito a rendere diffidenti i pazienti senza documenti che, in quel periodo, preferivano rinunciare al proprio diritto all’assistenza sanitaria pubblica.

«Ancora oggi alcuni stranieri, a cui è stata rifiutata la richiesta di protezione internazionale, non sanno che si possono rivolgere al pronto soccorso liberamente – spiega Joelle -. Il mio compito in questi casi è provare a rassicurarli e convincerli ad andare all’ospedale in caso di emergenza».

Mediazione culturale e linguistica

Attualmente, davanti all’associazione Camminare Insieme si forma ogni giorno una fila che non di rado accoglie fino 70 persone. Al 98% sono stranieri, provenienti soprattutto da Marocco, Romania, Nigeria e Siria, che nel 2016 si sono affidati alle mani esperte di 76 medici volontari.

«La maggior parte delle persone si presenta per consulti di medicina generale e per visite odontorniatriche che privatamente non potrebbero permettersi – racconta Fiorella Ferro -. Tanti vengono da noi attirati dall’atteggiamento accogliente e attento dei nostri dottori».

E in fatto di empatia con i pazienti stranieri Joelle è naturalmente portata. Oltre al ruolo di medico, la giovane dottoressa svolge un’attività di mediazione culturale e linguistica fondamentale per comprendere, ma anche mettere a proprio agio, le persone che si presentano all’ambulatorio. «Quando i pazienti dell’area subsahariana mi vedono si sentono più rassicurati. Capita che mi spieghino le patologie in inglese o francese. Parliamo la lingua che conoscono meglio e in questo modo si sentono maggiormente compresi», racconta la dottoressa.

Pazienti che si sentono a casa anche se sono in un emisfero diverso da quello di provenienza e che riescono a raccontare i propri problemi medici senza inibizioni, sicuri che dall’altra parte della scrivania c’è qualcuno che sa capire anche le ansie relative a malattie tipiche dell’area geografica di origine.

«Mi è già successo che alcuni pazienti abbiano paura di essere affetti da malaria – continua Joelle -. Effettivamente è una malattia endemica della zona d’origine di numerosi stranieri. Io li capisco, ma cerco di spiegare loro che la maggior parte delle volte sono solo paure irrazionali e che in Italia è più facile contrarre l’influenza che la malaria». Consigli semplici, ma che suonano più autorevoli se pronunciati da qualcuno che può essere riconosciuto come un punto di riferimento famigliare da chi è appena arrivato in Italia.

«A volte i miei assistiti hanno bisogno di un supporto umano più che di un consulto sanitario – racconta Joelle -. Sono spesso abbattuti, senza un lavoro e rete sociale. Io dico sempre loro di non cedere, di darsi degli obiettivi e perseguirli, senza dimenticare da dove sono arrivati».

Così ha fatto lei, con la gioia e la risolutezza della giovane donna che ha pedalato in salita senza darsi mai per vinta, prestando la sua opera «con diligenza, perizia e prudenza secondo scienza e coscienza», come dice Ippocrate, e donando in più la sua esperienza di ex migrante per infondere ai pazienti il coraggio. Per affrontare il dottore e le sfide di un mondo nuovo.

Simona Carnino


Aboudala Dembelé, Mali

Il calcio che conta

Alle 6 del mattino è già sveglio. Per prima cosa rivolge la preghiera quotidiana a Oriente. Poi prepara il borsone. Tacchetti, calzettoni, parastinchi, scaldamuscoli, pantaloncini, una maglia a maniche corte, una felpa dell’Italia. Alle 7 è pronto per andare al lavoro, ma non prima di inviare il messaggio di rito: «Ricordatevi che stasera c’è allenamento. Cercate di essere puntuali. Vi aspetto davanti al cancello del campo alle 18.30». Il tono è quello compassato di un allenatore che convoca i suoi giocatori con la serietà asciutta di chi non fa tanti giri di parole. Proprio come Aboudala Dembelé, per gli amici Abu, che di giorno fa l’operaio e nel tempo libero è il mister di una squadra di calcio che unisce sotto la stessa maglia richiedenti asilo e rifugiati politici maliani residenti in alcuni centri di accoglienza di Torino.

Anche Abu è titolare di protezione internazionale. È arrivato dal Mali nel 2011, sulle rotte consuete che dalla Libia lo hanno portato in un centro di accoglienza torinese. «All’inizio non potevo lavorare e non conoscevo nessuno – racconta Abu -. Per cui ho iniziato a studiare l’italiano e poi, per non stare inattivo fisicamente, mi sono messo a giocare a calcio in un campetto vicino al centro».

Con un pallone, la fantasia e la forza dei suoi 25 anni, le cose hanno cominciato a muoversi. Da lì a poco è entrato a far parte dell’associazione sportiva dilettantistica Balun Mundial, fondata da un gruppo di ragazzi italiani e stranieri che, dal 2007, ogni estate organizza a Torino la «Coppa del mondo delle comunità migranti», una sfida all’ultimo gol per costruire uno spazio di incontro tra residenti e chi è appena arrivato in Italia.

Abu non ha perso tempo e ha portato il suo contributo costituendo la nazionale del Mali di cui è l’allenatore dal 2015. «Volevo comunicare a tutti che c’è una comunità di maliani a Torino», spiega Abu. La selezione dei giocatori è avvenuta nei centri di accoglienza, dove l’invito di Abu è stato accolto come un’opportunità per conoscere nuove persone in un ambiente divertente e multietnico. «Il calcio dà ai miei giocatori la possibilità di parlare italiano con i ragazzi delle altre nazionalità, di stare all’aria aperta e di imparare il concetto di puntualità che per noi africani a volte è un po’ vago – ride Abu -. All’allenamento non si sgarra. Chi non arriva puntuale non si allena. Così si impara la puntualità e la disciplina utile alla vita». In un passaggio educativo alla pari Abu cerca di insegnare quello che ha imparato sulla sua pelle. «So cosa significa stare in un centro di accoglienza – racconta il giovane -. La maggior parte della giornata non si svolge nessuna attività. Quando ho tempo libero, vado a trovare i ragazzi e parliamo. Provo a dare loro i miei consigli, li spingo ad andare a scuola e li ascolto. Fuori o dentro al campo, io ci sono sempre per i miei giocatori».

Sim.Car.

 


Fonti e Sitografia

  • www.iom.int -Sito dell’Organizzazione internazionale dei migranti (Oim), con l’aggiornamento di arrivi e decessi in mare.
  • www.ecoi.net -European Asylum Support Office, Nigeria. La tratta di donne a fini sessuali, ottobre 2015.
  • www.asgi.it -Assistenza sanitaria per stranieri non comunitari (scheda).
  • s2ew.caritasitaliana.it -Rapporto sulla protezione internazionale in?Italia 2016, Anci, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes, Servizio Sprar.

Questo dossier è stato firmato da:

  • Simona Carnino Giornalista, è specializzata in diritti umani, migrazioni e cooperazione internazionale. Ha scritto per anni di temi ambientali e politici. Nel 2015 ha realizzato il documentario «Aguas de Oro» (www.aguasdeoro.org) sulla lotta di Maxima Acuña Chaupe (vincitrice del premio Goldman) in Perù. Ha lavorato 5 anni per Amnesty International e ha maturato esperienza nella gestione di progetti di cooperazione in America Latina. In Italia ha lavorato nel sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati politici. Attualmente vive e lavora in Guatemala.
  • Carolina Lucchesini Videoreporter e digital strategist. Si occupa di comunicazione e giornalismo da diversi anni, realizzando reportage video e multimediali, documentari e campagne di comunicazione per l’agenzia .puntozero, di cui è cofondatrice (www.puntozerohub.com).
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • foto delle copertine: Le immagini di questo dossier sono tratte dalle puntate delle webserie «Passaggi». In prima di copertina Joelle Kamgaing e in ultima di copertina Abdullahi Ahmed.

 




Trump, Scalabriniane: Davanti a un muro si dimenticano pietà e misericordia


“Gli Stati Uniti d’America sono sempre stati un esempio di integrazione. Sono cresciuti e si sono sviluppati proprio grazie ai migranti. Quelli stessi migranti che oggi vengono respinti e contro i quali viene posto un muro. Non è cristiano, non è umano, immaginare che esseri di questo pianeta si respingano. Tornando ai concetti del Vangelo, quel muro fisico sarà abbattuto, come è sempre stato nella storia. Cristo che ci ha fatti passare dall’ostilità all’amicizia tra i popoli e abbattendo il muro di separazione ci ha regalato pace e riconciliazione”. Lo ha detto in una nota suor Neusa de Fatima Mariano, Superiora generale delle Scalabriniane, Congregazione di suore missionarie che sin dalla loro fondazione si occupa di migrazione. “La politica internazionale ora dovrebbe concentrare la propria attenzione su scelte miti, concilianti, di dialogo – ha aggiunto – Uno scontro, soprattutto in questo momento, può essere visto come una vera e propria dichiarazione di ostilità. E le vittime, anche in questo caso, sono i più bisognosi. Sono quelle tante, tantissime persone che con gli occhi pieni di speranza lasciano le proprie famiglie e fuggono da crisi economiche, politiche, sociali, ambientali. Non si può restare ciechi a tutto questo. Ci sono bambini che nell’età in cui loro coetanei in Europa e negli Stati Uniti sono in casa a guardare i cartoni animati diventano adulti all’improvviso. Si trovano a dover superare oceani e deserti guardando dal basso verso l’alto i loro traghettatori, che spesso senza scrupoli li lasciano morire”. Poi, ha proseguito suor Neusa: “I muri realizzati per dividere non sono mai una buona scelta e lo sono meno quando si tratta di respingere una categorie di persone che hanno edificato un paese come gli Stati Uniti d’America. Non è possibile associare i migranti ai criminali: non lo sono. Tutti abbiamo la stessa dignità nonostante non si abbia le stesse opportunità. Il dovere di tutti è di lavorare verso una umanità unita e non divisa. Davanti a un muro non c’è quella pietà cristiana che è il fondamento di una mano testa verso gli altri. Davanti a un muro si dimentica la misericordia del nostro Credo e del nostro ultimo Giubileo. Davanti a un muro si dimentica che davanti a un creato infinitamente grande, noi restiamo comunque infinitamente piccoli. Su tutto questo Donald Trump dovrebbe riflettere. Così come ha fatto scelte per la vita, scelga per quelle anime disperate che migrano nel mondo e che cercano difendere la propria vita e la propria famiglia”.

Suore missionarie di San Carlo Borromeo/Scalabriniane
Congregazione generale
Via Monte del Gallo, 68 – Roma
Ufficio stampa
Tel. 06.2118508



Europa: cervelli migranti


Sempre di più arrivano migranti con elevato livello culturale. Ma la valorizzazione delle loro competenze è ancora lontana. L’Unione europea inizia a parlare di «corridoi educativi» e alcune città italiane si muovono. Occorre inserire i talenti esteri. Il migrante, percepito come peso, può così diventare risorsa.

Le decine di migliaia di persone migranti che ogni anno concludono il loro drammatico viaggio verso l’Italia nei centri di accoglienza, per certi aspetti, non sono tutte uguali: uno dei fattori importanti che le differenzia le une dalle altre è il loro grado di istruzione. Tuttavia nessuna istituzione a livello governativo sembra ancora curarsene come si potrebbe e dovrebbe fare, nonostante l’inserimento attivo nella società di nuovi arrivati con alte professionalità possa essere un notevole valore aggiunto. Chi ha studiato in patria può diventare infatti un elemento chiave per favorire i percorsi di inclusione di altri stranieri e combattere i processi di radicalizzazione nel contesto sociale in cui andrà a collocarsi. Non solo. Il rischio è che la frustrazione crescente di chi non trova un’occupazione adeguata alle sue possibilità degeneri in fenomeni di marginalità e violenza.

Primi passi

Se lo stato italiano latita, non così fortunatamente fanno le associazioni religiose, le organizzazioni del volontariato, la società civile e molti enti di livello locale, che hanno già mosso i primi passi concreti per la valorizzazione del livello culturale dei migranti e hanno iniziato a valutare gli esiti delle esperienze capofila.

Un convegno, presieduto da Janiki Cingoli e Federico Daneo, direttori rispettivamente del Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo) e del Centro piemontese di studi africani (Csa), cornordinato da Ilda Curti, rappresentante per l’Italia dell’Associazione delle città interculturali del Consiglio d’Europa, ricchissimo di qualificati interventi, si è svolto recentemente a Torino. Lo scopo era verificare le attività cosiddette di «capacity building» (letteralmente costruzione di competenze) delle cosiddette «associazioni diasporiche med-africane» – ovvero di quelle comunità che si fanno carico di accogliere e includere in società i migranti provenienti dalla costa africana del Mediterraneo – nelle realtà del capoluogo piemontese stesso e nell’area milanese.

Intanto anche l’Unione europea si sta muovendo per far emergere i rifugiati «high skilled», ovvero ad elevate competenze. Sono allo studio sistemi per valorizzare le loro lauree attraverso «corridoi educativi» e una cooperazione territoriale che tocchi atenei, ma anche fondazioni bancarie e Ong. «Finalmente l’Europa ha la sua strategia di diplomazia culturale per rafforzare la dimensione culturale ed educativa delle relazioni inteazionali». È il commento alla «Towards a Eu strategy in inteational cultural relations» (Verso una strategia Ue per le relazioni culturali inteazionali) adottata nel giugno scorso, di Silvia Costa, intervenuta al convegno come presidente della Commissione Cultura del Parlamento Europeo. «La strategia – ha proseguito – fu proposta dall’Italia durante il suo semestre di presidenza. Ora l’Europa ha uno strumento potente che la può aiutare ad affrontare la nuova dimensione delle politiche culturali sempre più connesse con le politiche per lo sviluppo e la pace. Il conflitto drammatico nell’area del Mediterraneo, il terrorismo, l’emergenza dei rifugiati ci spingono con urgenza a rivedere modelli di cooperazione e di partenariato alla luce di un approccio interculturale e interreligioso, promosso dalla nuova strategia, anche in chiave competitiva ed economica». L’obiettivo è di arrivare a un piano globale di co-sviluppo (inteso come sviluppo nei paesi di provenienza in cui le associazioni della diaspora hanno un ruolo preciso), sfruttando le reti che regolano le migrazioni, ovvero le persone, le loro rimesse economiche, le loro competenze, le imprese sul territorio e i consolati.

Troppi sprechi

Su questo percorso oggi si incontrano troppi sprechi di risorse e competenze. Basti pensare agli 1,1 miliardi di euro – sui 3,3 miliardi investiti per la totalità delle operazioni di salvataggio e cure sanitarie – che si spendono ogni anno per tenere 130 mila persone nel limbo dei centri di accoglienza e degli ostelli dove sopravvivono abbandonati al loro destino (questi dati sono riferiti al 2015; mentre i rifugiati nel 2016 sono cresciuti a 170 mila con relativo aumento di spesa previsto a 1,6 miliardi). Questo modello di accoglienza costa allo Stato 35 euro al giorno per ciascuno di loro, cifra che sale a 45 se si tratta di minori (20 mila è il numero di quelli non accompagnati). E non sono soldi che finiscono nelle tasche dei migranti, come vorrebbero certe speculazioni politiche. Il vero «pocket money» per loro è di 2,5 euro giornalieri pro capite.

È necessario dunque rovesciare gli stereotipi che considerano l’immigrato un peso per la società. Papa Francesco l’ha ribadito più volte con forza: l’accoglienza deve essere bagaglio di ognuno di noi e i governanti non si possono permettere il lusso di salvare le banche e non trovare i capitali necessari a una accoglienza dignitosa per chi chiede aiuto per soddisfare i bisogni essenziali.

Le città di Torino e Milano hanno saputo offrire un esempio di ciò che si potrebbe ottenere mettendo insieme le loro esperienze grazie anche al retroterra antico di volontariato, welfare e istituzioni sensibili. Magari lo si può fare in nome del cosiddetto «altruismo egoista» che può sfruttare le risorse che il paese di origine ha speso per la formazione dei suoi cittadini. Un esempio viene dalla Germania dove, sotto il cappello propagandistico dello slogan di accoglienza di un milione di rifugiati lanciato la scorsa primavera da Angela Merkel, sono state inserite persone provenienti dalla Siria in maggioranza di ceto borghese, benestante e istruito, che sono così diventati risorsa e non peso per la società tedesca.

Il capitale culturale

Dunque qualcosa si muove. Lo certifica nero su bianco una ricerca dell’istituto romano di studi politici San Pio V, che sottolinea come l’immigrazione contribuisca a non abbassare il capitale culturale dell’Italia e conferisca spessore concreto alla «circolazione dei cervelli».

La presenza di scambi con l’estero di lavoratori con un livello di istruzione superiore offre un reciproco arricchimento. Non per caso però, la ricerca segnala come la circolazione dei migranti qualificati sia più accentuata nelle nazioni ad alto sviluppo, nelle quali si riescono a creare più posti ad alta qualificazione con conseguente inserimento di immigrati culturalmente preparati.

In Italia invece non solo non si è attrattivi, ma neppure si sa frenare l’esodo dei nostri laureati ai quali il paese ha destinato ingenti risorse in formazione, e di cui altri godranno i benefici. Ecco qualche dato statistico che parla da sé: da noi si spendono 134 mila dollari per formare un diplomato, 178mila per un laureato magistrale, 228 mila per un dottore di ricerca.

Nel periodo 2000 – 2011 i diplomati e laureati fuggiti all’estero sono stati 180mila, a fronte di un arrivo di 243mila laureati e 841mila diplomati stranieri. Tra il 2012 e il 2014 sono espatriati 60mila laureati italiani e 15mila sono rimpatriati, mentre gli stranieri hanno contato 100mila laureati in più, tra residenti e cittadini.

Per valutare l’impatto delle alte qualifiche sulla presenza straniera in Italia notiamo che nel censimento 2001 gli italiani residenti sono circa 54 milioni con il 7,5% di laureati, il 25,9% di diplomati, mentre gli stranieri residenti sono 1 milione 200mila con il 12,1% di laureati e il 27,7% di diplomati. Dieci anni dopo, nel 2011, la popolazione italiana passa ad oltre 56 milioni con l’11,2% di laureati e il 30,2% di diplomati, con incidenza di questi ultimi dunque in netto aumento. Quintuplicata rispetto al censimento del 2001 è nel contempo la presenza straniera, salita a 5,42 milioni di unità. Nel 2014, secondo l’Istat, la popolazione straniera residente con 15 anni e più conta il 39,7% di diplomati e il 10,3% di laureati, ovvero circa mezzo milione di persone, per cui si può affermare che questa presenza compensa numericamente il flusso dei laureati italiani verso l’estero, se non fosse che resta, come già sottolineato, troppo scarsamente valorizzata.

Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono nel contempo solo l’1,29% del Pil (contro il 2,03% di media nell’Ue) con le imprese private che battono largamente il settore pubblico, senza contare che un quarto degli investimenti privati in ricerca è fatto in Italia da imprese estere. Il risultato è che solo 1 manager su 4 ha una laurea, contro i 2 su 3 della Francia, fattore che non favorisce certo l’innovazione.

Un saldo positivo

Secondo un’altra stima del Dossier Statistico sull’immigrazione, datato 2015, stilato dal Centro studi e ricerche Idos di Roma e dalla rivista interreligiosa «Confronti», tornando al nodo lavoro, 2,3 milioni sono gli stranieri con un posto di lavoro, il 10,3% del totale degli occupati. In agricoltura, uno dei settori più esposti allo sfruttamento, lavorano ufficialmente 328mila braccianti nati all’estero. Le entrate fiscali e previdenziali totali, nonostante i fenomeni diffusi di caporalato e lavoro in nero, ricollegabili ai lavoratori immigrati sono state nel 2013 (ultimo dato disponibile) di 16,6 miliardi di euro contro uscite nei loro confronti di 13,5 miliardi, dunque con un forte saldo attivo, contribuendo con l’8,8% al valore del Pil nazionale.

Il problema del sistema Italia, conclude la ricerca dell’istituto San Pio V, non consiste dunque tanto nella mancanza di personale con un’istruzione superiore quanto nell’incapacità di usarlo in maniera adeguata, così da contenere la partenza dei talenti italiani e da inserire con maggiore apertura i talenti esteri, soprattutto extracomunitari.

È questa una delle scommesse da vincere per lo sviluppo futuro e la crescita equilibrata di tutto il nostro paese.

Mario Ghirardi