Messico: Un Progetto per la vita


testo e foto di Ramón Lázaro Esnaola |


Nello stato di Jalisco, nel centro del paese, l’associazione Mati e i missionari della Consolata  hanno ideato un progetto di accompagnamento psicologico, famigliare e giovanile.


Il progetto è sostenuto dagli AMICI MISSIONI CONSOLATA.
Il supporto di altri amici è benvenuto.


I missionari della Consolata sono arrivati in Messico nel dicembre 2008, e vi hanno creato due comunità: una a Tuxtla Gutiérrez, nello stato del Chiapas, nel Sud del paese, e l’altra a San Antonio Juanacaxtle, nello stato di Jalisco, nel centro Ovest.

Il Messico è un paese pieno di contrasti. Le persone sono amichevoli, accoglienti e generose. Orgogliose della loro identità culturale. Tuttavia, la realtà strutturale del paese è molto violenta, con più di ottanta omicidi al giorno. A ciò si aggiunge la situazione dei migranti centroamericani che l’attraversano per raggiungere gli Stati Uniti, e degli stessi migranti messicani che vivono quotidianamente tragedie al confine con il loro vicino del Nord (cfr. MC luglio 2019). Il machismo e l’alcol sono abitudini che aggravano ulteriormente la convivenza familiare e sociale.

San Antonio Juanacaxtle è un quartiere (qui si chiama rancho) situato a circa 25 km da Guadalajara, la capitale dello stato di Jalisco.  Secondo  il  censimento  del  2010,  attualmente  conta  poco  più  di  1.300  abitanti.  La maggior parte della popolazione è dedita all’allevamento del bestiame, e pratica l’apicoltura. Altri si occupano di agricoltura, soprattutto di mais e sorgo. Ci sono poi anche molti artigiani, ma sono persone che vivono di lavori occasionali, mentre solo un numero molto limitato ottiene un contratto.

Molte famiglie hanno parenti negli Stati Uniti che grazie alle rimesse danno un importante contributo anche per l’economia locale.

I missionari della Consolata lavorano anche nella colonia Atlas a Guadalajara, dove hanno una piccola sede per l’accompagnamento psicologico e spirituale. Due missionari di questa comunità, infatti, sono psicologi di formazione.

Le altre zone d’intervento sono Villas Andalucia, El Faro, La Esperanza e La Aurora. Le prime due sono agglomerati di edilizia popolare, creati appena sette o otto anni fa, molto popolati, con più di diecimila famiglie in totale. Le altre sono centri abitativi più vecchi e meno popolati. Siamo presenti qui per l’accompagnamento pastorale, familiare e giovanile a cui si dedica la comunità Imc, che a San Antonio Juanacaxtle non ha la responsabilità di una parrocchia, con la collaborazione dell’associazione Mati.

L’associazione della società civile Mati è nata dalla preoccupazione di alcuni professionisti, di diverse discipline, che hanno osservato nelle famiglie diverse situazioni di vulnerabilità, come la violenza di genere e domestica, la perdita di una persona cara, il cambiamento o la perdita del lavoro, il divorzio, la perdita di senso della vita e dei valori, la mancanza di identità personale, familiare e lavorativa, e altri ancora.

Queste situazioni riflettono problemi psicologici, sociali ed economici, nonché carenze affettive che limitano l’azione di queste famiglie le quali non hanno la possibilità di lavorare in profondità su questi problemi.

Mati fornisce consulenza e formazione, lavora per rafforzare l’identità delle persone e dare un significato nuovo alle storie di vita, alla ricerca di un benessere integrale, sostenere la resilienza e soprattutto curare, proteggere e sostenere le donne vittime di violenza.

L’associazione mette a disposizione di chi frequenta i suoi corsi di formazione, uno spazio in cui vengono forniti gli strumenti per il proprio sviluppo individuale. Offre un processo di apprendimento graduale in diversi ambiti del sapere, per una continua riflessione e crescita, con l’obiettivo dell’autorealizzazione personale e professionale.

Il progetto si propone, nel corso di un anno, di generare la consapevolezza della cura e della responsabilità verso le donne, la famiglia e la società.

Promuove, come prioritarie, le quattro dimensioni dell’essere umano  (psicologica, sociale, biologica e spirituale), in modo che ogni persona stabilisca o rafforzi il proprio progetto di vita come fondamento della propria stabilità emotiva e fisica e quindi della propria trasformazione sociale. Il progetto ha l’obiettivo di lavorare con cinquecento famiglie. Considerando che ogni nucleo familiare è generalmente composto tra le cinque e le sette persone, si vogliono raggiungere, in media 3mila individui.

I missionari della Consolata si occuperanno dell’identificazione delle famglie più vulnerabili, mentre l’associazione Mati realizzerà i corsi.

Questo progetto vuole fornire ai singoli e alle famiglie strumenti per una maggiore conoscenza di sé, per poter gestire i propri conflitti e i propri lutti e per cercare soluzioni a situazioni di violenza di genere e di violenza domestica.

La speranza è che le persone e le famiglie non solo sapranno ricostruire la propria vita, ma diventeranno anche un solido e supporto per altre famiglie che vivono esperienze di disagio simili a quelle che hanno vissuto loro.

Ramón Lázaro Esnaola

Gli Amici Missioni Consolata

sono impegnati a sostenere questo progetto con un contributo di 15mila euro anche se quest’anno – per la prima volta in oltre 30 anni – non è possibile fare la tradizionale «Mostra di solidarietà dell’Immacolata».
Chi volesse sostenere il progetto «Promuovi la vita difendi la donna», può dare il suo contributo con un versamento tramite Missioni Consolata Onlus. Grazie. Muchas gracias!






L’epopea dei migranti centro americani all’epoca di Trump

Sommario


Testo e foto di di Simona Carnino


Reportage da una carovana migrante

Umanità in movimento

Honduras, El Salvador, Guatemala, Nicaragua. Da questi paesi partono, senza sosta, donne, uomini, famiglie intere, con l’obiettivo di raggiungere gli Stati Uniti. Gente normale, in cerca di un futuro migliore, un sogno che sembra a portata di mano. Ma il viaggio è duro e pieno d’insidie. Così capita che si uniscano in decine, centinaia, diventando delle vere carovane migranti. Siamo andati in mezzo a loro.

Juan Rodríguez Clara, stato di Veracruz, Messico. Esmeralda si toglie le scarpe e le allinea vicino al materassino da campo, poi si siede sul suo sacco a pelo. Si prepara a trascorrere la notte in uno dei punti tappa che alcuni volontari messicani hanno organizzato lungo il cammino per chi, come lei, viaggia insieme a una delle carovane di migranti che dal Centro America si dirigono verso gli Stati Uniti.

Esmeralda ha trovato un angolo di pace tra una colonna e il muro di uno dei magazzini che a Juan Rodríguez Clara, un piccolo centro abitato nello stato di Veracruz in Messico, in genere sono adibiti alla fiera annuale dei bovini di allevamento. È una tappa di passaggio, ma è un luogo coperto in cui è possibile dormire e farsi una doccia. Divide il suo letto da campo con il marito Carlos, le sue due figlie gemelle Cecilia e Maria di 18 anni e il suo figlio maggiore Erin di 20 anni.

Le scarpe sono il bene più importante di Esmeralda. Nel suo piccolo zaino c’è spazio per due cambi di biancheria intima, due paia di pantaloni, due t-shirt e una felpa imbottita. Esmeralda sa che è meglio avere un indumento caldo, perché nelle zone desertiche del Messico, se di giorno il termometro può toccare i 35 gradi, la notte le temperature si irrigidiscono all’improvviso.

La mattina si sveglia prima che il sole sorga e prepara la sua borsa, arrotola il materassino e lo avvolge insieme al sacco a pelo in un unico fagotto che lega intorno alla testa. «In questo modo ho le mani libere per portarmi dietro una bottiglia d’acqua», dice ridendo.

Esmeralda è partita il 31 ottobre 2018 da San Salvador alla volta degli Stati Uniti, insieme a 2mila connazionali, uno dei molti gruppi di migranti che, in quel periodo, si sono organizzati in carovane per attraversare il Messico e raggiungere la frontiera Nord. Esmeralda non ha una destinazione chiara in mente. Sa solo che in Salvador non vuole tornare.

Carovane: organizzazione spontanea

«Un giorno, mentre navigavo su Facebook, ho visto che alcuni miei connazionali si davano appuntamento in piazza Salvador del Mundo, al centro di San Salvador, per partire insieme verso gli Stati Uniti – racconta Esmeralda -. Io e mio marito abbiamo spesso pensato di lasciare il nostro paese, ma non si era mai presentata un’occasione favorevole. Appena saputo della carovana, abbiamo fatto i bagagli e siamo partiti con i nostri figli».

La carovana che si è messa in marcia il 31 ottobre, è stata la quarta di un ciclo di migrazioni massive che si sono verificate tra ottobre e novembre del 2018 da Honduras, Salvador e Guatemala, i tre paesi dell’area denominata Triangulo norte centroamericano, la regione di origine della maggior parte del flusso migratorio latinoamericano diretto verso gli Stati Uniti.

La prima carovana è partita il 18 ottobre da San Pedro Sula in Honduras e a ruota sono seguiti tre gruppi partiti dal Guatemala e dal Salvador. Diecimila persone hanno deciso di autogestire il proprio viaggio, invece di affidarlo alle reti del traffico di persone dei coyotes (come vengono chiamati i trafficanti, ndr), che si occupano tradizionalmente del trasbordo di persone dal Sud verso il Nord America. «Sembra un numero enorme, ma se consideriamo che in Messico transitano più di 400mila persone all’anno, si tratta di un flusso equivalente a circa 10 giorni – spiega Marta Sanchez Soler, presidentessa del Movimento migrante mesoamericano -. La novità è che i migranti della carovana hanno deciso di essere visibili e viaggiare in forma più sicura ed economica, rifiutandosi di pagare un alto prezzo a un trafficante per poter arrivare negli Stati Uniti».

Migrare in gruppo è diventato uno nuovo modo di viaggiare per molte persone centroamericane, che si sentono più protette dalla minaccia di estorsioni e sequestri da parte dei narcotrafficanti e a volte degli stessi coyotes, che hanno trovato nella migrazione di migliaia di centroamericani una fonte di guadagno.

Le carovane sono un porto sicuro in particolare per famiglie, donne e bambini che sono più esposti a violazioni dei diritti umani sulla tratta migratoria messicana. Più del 50% delle persone che migrano in gruppo sono famiglie spesso con minori di età inferiore ai 5 anni. Dal 2018 la migrazione dal Centro America, storicamente rappresentata da uomini soli, ha il volto delle famiglie, come dimostrato dai dati delle detenzioni sulla frontiera con gli Stati Uniti. Nei primi sei mesi dell’anno fiscale 2019 (ottobre 2018 – marzo 2019) le pattuglie di frontiera statunitensi hanno detenuto 189.584 famiglie. Il più alto dato di sempre.

La frontiera

«Viaggiare in carovana è più sicuro che migrare con i coyotes – continua Esmeralda -. Ma è ugualmente molto duro e faticoso. A volte camminiamo dalle 10 alle 12 ore sotto il sole, altre volte facciamo l’autostop. Il momento più difficile è stato superare la frontiera tra Guatemala e Messico. Non potevamo passare sul ponte perché non avevamo il visto e allora abbiamo attraversato la frontiera nel fiume. La polizia ha cercato di fermarci, ma eravamo tantissimi e non c’è riuscita».

In America Latina, i migranti che non possono dimostrare i requisiti economici necessari per ottenere un regolare visto di entrata in Messico e Stati Uniti e che quindi devono muoversi di nascosto sulla rotta terrestre, usano l’espressione «irse de mojado» che letteralmente significa «viaggiare da bagnati», perché sanno che dovranno attraversare a nuoto dei fiumi per superare le frontiere. Il confine tra Stati Uniti e Messico è rappresentato, per una lunghezza di 3.034 km, dal Rio Bravo, mentre tra Guatemala e Messico è il fiume Suchiate a segnare una parte di frontiera per 161 km.

«A volte credo che una parte di me sia rimasta nel fiume Suchiate – racconta Cecilia, la figlia di Esmeralda -. Le gambe affondavano nel fango e non avevo energia né per andare avanti né per tornare indietro. Alcuni pescatori ci hanno aiutate, ma quell’esperienza mi ha segnata per sempre».

Sequestri e desaparicion

Camminare non è l’unico modo in cui si muove la carovana. Molti migranti hanno, infatti, provato a fare l’autostop e chi ha qualche soldo ha comprato un biglietto del bus. Numerosi camionisti si sono resi disponibili a dare un passaggio a gruppi di migranti, aiutandoli a compiere alcuni tratti di strada. A fine ottobre 2018, sebbene la migrazione in gruppo renda meno vulnerabili i migranti di fronte a violenze ed estorsioni, un camionista ha rapito 50 persone, e il furgone, con il suo carico di esseri umani, è scomparso nel nulla nella regione di Veracruz, a ovest del Messico. «Il sequestro di migranti è un affare multimilionario per i cartelli del narcotraffico che gestiscono il traffico di merci, di droga e, oggi, anche le rotte migratorie – spiega il difensore dei diritti umani padre Alejandro Solalinde (si veda MC ottobre 2017) incontrato in mezzo alla carovana -. Le persone che non hanno accesso a un visto sono invisibili e obbligate ad attraversare il Messico in punti isolati, purtroppo spesso controllati da narcos e briganti, per non essere catturate dalla polizia dell’Istituto nazionale di migrazione messicano che le può deportare nel paese di origine. Ogni 6 mesi si verificano 10mila sequestri di migranti, con un’entrata economica per il narcotraffico di 25 milioni di dollari al semestre».

Il sequestro dei migranti è una pratica realizzata negli ultimi anni in particolare dal gruppo di narcotraffico denominato Los Zetas e dal cartello del Golfo. Nonostante le condizioni economiche precarie dei migranti che viaggiano sulle rotte della clandestinità, in genere i narcotrafficanti richiedono un riscatto di 10mila dollari a persona che le famiglie nel paese di origine provano a pagare contraendo debiti con conoscenti, parenti e con le banche che spesso si appropriano delle loro case e terreni in caso di mancata restituzione del prestito. Chi non riesce a pagare il riscatto rischia di non vedere mai più il proprio caro che spesso viene ucciso.

Esmeralda e la sua famiglia sono consapevoli dei rischi del percorso migratorio, ma non vogliono tornare indietro. «San Salvador è una città pericolosa – ricorda Esmeralda -, ogni giorno c’è un omicidio. Tutti noi salvadoregni abbiamo un parente che è stato ucciso dalle bande criminali e non voglio che questo accada ai miei figli».

La vita in Salvador: las pandillas

Eriberto ha 22 anni e annuisce con la testa. Sta sistemando il suo piccolo bagaglio e intanto ascolta in silenzio le parole di Esmeralda. Il suo bene più importante è un inalatore. Eriberto ha l’asma e prima di partire si è comprato tre spray predosati, convinto che sarebbero stati una scorta sufficiente per il viaggio. È timido e rimane un po’ in disparte. Il suo sguardo è basso e il suo dolore è stretto tra le labbra che mordicchia nervosamente. «Avevo un autolavaggio a San Salvador – inizia a raccontare il ragazzo -. Poi le bande criminali mi hanno chiesto il pizzo. Non ho pagato. Ho chiuso il negozio per un po’ e quando l’ho riaperto due persone sono entrate e hanno ucciso un mio cliente. Poi non gli è bastato e hanno ammazzato anche mio fratello».

Secondo il Consiglio nazionale della piccola impresa del Salvador, il 92% del settore imprenditoriale è vittima di estorsione da parte di due bande criminali, las pandillas Mara Salvatrucha MS-13 e Barrio 18 (si veda dossier su MC aprile 2016). Le due fazioni sono antagoniste e alimentano una guerra intestina giocata sulla pelle dei cittadini che spesso si trovano coinvolti in sparatorie tra le vie della città. Il Salvador chiude il 2018 con un tasso di 51 omicidi ogni 100mila abitanti, un numero sicuramente inferiore alle quasi 83 morti violente ogni 100mila persone del 2016, ma si tratta comunque di una cifra superiore ai 10 omicidi ogni 100mila che, secondo i parametri dell’Organizzazione mondiale della Sanità, è il limite sopra il quale la violenza è considerata endemica. Il Salvador è uno dei paesi, dove non è presente un conflitto armato, più pericolosi del mondo insieme a Honduras e Guatemala. Molte ragazze e ragazzi tra i 12 e i 16 anni sono obbligati ad affiliarsi a una delle due bande criminali. Rifiutarsi equivale a dichiarare guerra al clan e la punizione è la morte.

Le due pandillas Mara Salvatrucha MS-13 e Barrio 18 sono nate negli Stati Uniti tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. I loro membri storici erano migrati in America del Nord negli anni precedenti e durante la guerra civile degli anni Ottanta. Con l’inasprimento delle politiche migratorie statunitensi degli anni Novanta, molti criminali sono stati deportati in Centro America, con un aumento di violenza nei paesi di origine.

La carovana e i diritti Lgbti

Tra i gruppi più vulnerabili alle violenze delle pandillas rientrano le persone appartenenti alla comunità Lgbti (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali, ndr). Eriberto non nasconde il suo orientamento sessuale e racconta le violenze subite per il fatto di essere stato un membro attivo della comunità lgbti nella capitale salvadoregna. Negli ultimi tre anni sono state assassinate 145 persone della comunità gay, secondo i dati dell’ufficio della Diversità sessuale del governo del Salvador. Numeri simili sono registrati anche in Honduras e Guatemala, dove la diversità sessuale deve fare i conti con la discriminazione e l’intolleranza che affonda le sue radici in schemi tradizionali e patriarcali. «Sono circa 700 le persone omosessuali partite con le carovane negli ultimi due mesi – continua Eriberto -. Tutti noi vorremmo chiedere asilo politico negli Stati Uniti o in Canada».

Da quando il presidente Donald Trump ha dichiarato di voler attuare una politica di tolleranza zero contro l’immigrazione illegale, alcuni migranti hanno deciso di provare ad attraversare clandestinamente gli Stati Uniti per raggiungere il Canada. Secondo i dati dell’Unhcr, nel 2017 il Canada ha registrato 47.800 richieste di asilo politico, il doppio rispetto all’anno precedente. Nel 2019, il governo degli Stati Uniti ha affermato che verranno accolti non più di 30mila rifugiati politici, a fronte di un tetto di 45mila per l’anno 2018. Coloro che non ricevono un permesso per rimanere negli Usa sono deportati nel paese di origine.

Nonostante la politica di tolleranza zero di Trump sembri bloccare le strade all’arrivo di nuovi migranti, il flusso centroamericano è in continuo aumento. Per molte persone ha più peso la volontà di fuggire dai propri paesi che il timore di essere rifiutati nello stato di destinazione. E quindi se anche molti sanno che forse non riusciranno a ottenere un permesso, sperano di superare il confine di notte, senza essere intercettati dalle pattuglie di frontiera statunitensi, per poi sparire da qualche parte negli Stati Uniti dove si augurano di non incrociare mai un agente che chieda loro i documenti.

La deportazione dei migranti, attività svolta anche dall’amministrazione Obama e dai presidenti precedenti, avviene non solo in frontiera, ma anche dall’interno del paese. Può succedere che una persona viva anni negli Stati Uniti senza una regolare documentazione e, in seguito a un illecito, anche minore, come per esempio un eccesso di velocità, sia identificato e deportato nel paese d’origine.

Secondo l’ultima statistica del Pew Research Center del 2016, 10,7 milioni di persone considerate irregolari vivono, lavorano e hanno costruito la propria vita negli Stati Uniti. Circa 4 milioni di bambini americani sono nati da genitori senza documenti, i quali non possono richiedere una regolarizzazione del proprio status migratorio per motivi di famiglia. Lo sa bene Teresa. Una donna salvadoregna di 29 anni che viaggia nella carovana da sola. Il suo bene più importante è una foto delle sue tre figlie che vivono negli Usa.

 

I figli statunitensi

Teresa è partita per gli Stati Uniti nel 2006. È riuscita a superare la frontiera senza essere intercettata dalla polizia ed è arrivata in Virginia. Ha lavorato come cameriera in un fast food fino al 2017. Teresa non è mai riuscita a ottenere un visto lavorativo, né la green card (permesso di lavoro, ndr). Durante gli 11 anni di vita negli Stati Uniti ha avuto tre figlie che sono americane, perché negli Stati Uniti vige lo Ius soli, il diritto alla cittadinanza di un paese per nascita sul suo territorio. Il 14esimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, approvato nel 1868, infatti recita che «tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggette alla sua giurisdizione, sono cittadine degli Stati Uniti e dello stato in cui risiedono». Il presidente Donald Trump ha pubblicamente dichiarato l’intenzione di battersi per l’abolizione dello Ius soli che interpreta come un incentivo alla immigrazione illegale, ma secondo un sondaggio condotto dal Wall Street Journal, il 65% degli statunitensi si è detto in disaccordo con lui.

«Sono felice che le mie bambine siano americane – racconta Teresa con la tenerezza che emerge dal sorriso -. Possono viaggiare in tutto il mondo e non devono vivere una vita come la mia». Nel 2017 Teresa è dovuta ritornare in Salvador per un’emergenza famigliare. Ha messo le sue figlie su un aereo e lei è tornata via terra, perché i controlli aeroportuali avrebbero svelato la sua mancanza di documenti. «Mi mancavano molto il Salvador e i miei affetti – racconta Teresa -. Ho colto l’occasione per capire se fosse possibile ritornare a vivere lì con le mie figlie. Siamo rimaste tre mesi, poi un giorno ho assistito a un omicidio per la strada e ho testimoniato in tribunale. Da lì ho capito che non sarei stata più sicura e ho rimandato le mie figlie negli Stati Uniti. Ora viaggio nella carovana perché voglio assolutamente tornare da loro che sono in Virginia con il loro padre».

Esmeralda, Eriberto e Teresa e tutti i migranti che non solo viaggiano in carovana, ma che ogni giorno migrano sulle rotte messicane con un coyote, sono uniti dallo stesso obiettivo. La volontà di cambiare, di migliorarsi, di vivere la vita che non hanno potuto costruire in un paese piegato dalla violenza, dalla precarietà e dall’abbandono da parte delle istituzioni. E non c’è un muro reale o virtuale che li può fermare. La violenza della polizia, il rischio di essere sequestrati dai narcos o la retorica anti migrante del governo degli Stati Uniti non sono motivi sufficienti a far cambiare i piani a chi ha deciso di lasciare la sua terra di origine.

E allora si torna a camminare. Teresa mette le foto delle sue tre bambine in un piccolo marsupio che appende al collo. La strada è ancora lunga. L’obiettivo è Tijuana e poi da lì si separeranno. Nei pressi della frontiera statunitense, le carovane si disgregano perché, quando è ora di attraversare la frontiera, tutti sanno che dovranno farlo in maniera nascosta e allora per sé. Eriberto ed Esmeralda sono convinti di voler chiedere asilo, ma Teresa sa già che è molto difficile ottenerlo. Lei pagherà qualcuno che la aiuti a fare l’ultimo pezzo di viaggio e la porti in Virginia. Perché deve arrivare a tutti i costi. «O sì o sì», come si dice in America Latina quando si è determinati a ottenere qualcosa. Non c’è spazio per l’opzione inversa. Teresa crede così.

Tijuana e oblio

Da novembre 2018 a oggi, Tijuana, città di frontiera, è diventata il punto nel quale i migranti della carovana aspettano prima di chiedere asilo negli Stati Uniti. Tijuana è un’area geografica controllata dal narcotraffico per la sua posizione strategica per il traffico di droga verso gli Stati Uniti.

Da gennaio 2019, l’amministrazione Trump ha proposto una nuova misura di contenimento della migrazione, denominata «Protocolli di protezione ai migranti». Stabilisce che i richiedenti asilo devono aspettare la conclusione del procedimento legale in territorio messicano. Nell’attesa, alcuni migranti hanno richiesto un visto umanitario in Messico e molti lo hanno ottenuto. Dal 1 dicembre 2018 il presidente messicano è Andrés Manuel López Obrador, che ha favorito la consegna di circa 10mila visti umanitari a migranti centroamericani che desiderano rimanere in Messico. Il governo di Obrador apparentemente dimostra una discontinuità rispetto all’amministrazione di Enrique Peña Nieto, tuttavia al momento non è stato smantellato l’Istituto nazionale di migrazione messicano che continua a esistere con 50 stazioni migratorie disposte sull’intero territorio nazionale, dove i migranti rischiano di essere incarcerati, prima di essere deportati. Fino a oggi, infatti, il Messico ha seguito le stesse direttive migratorie degli Stati Uniti e rappresenta il primo posto di blocco per i migranti senza documenti diretti in America del Nord. Viene chiamata frontiera verticale, perché tutto il territorio messicano è disseminato di centri di controllo migratorio.

A Tijuana si sono perse le tracce di molti migranti delle carovane. Qualcuno sarà arrivato a destinazione, riuscendo a evitare i controlli frontalieri. Qualcuno forse avrà deciso di rimanere in Messico e di provare a chiedere asilo in quel paese. Qualcuno sarà stato deportato nel suo stato d’origine dalle autorità statunitensi. Altri ancora vivono a Tijuana, in attesa di una risposta alla loro richiesta d’asilo.


La storia di Wilson, Francisco, Sabina

Nell’aprile del 2018, il governo degli Stati Uniti dichiarò di voler applicare una politica di tolleranza zero e perseguire penalmente tutti i migranti entrati senza documenti in territorio statunitense.

Le separazioni delle famiglie, catturate mentre provavano a superare la frontiera, sono state una delle conseguenze più dure dell’applicazione della politica di contenimento della migrazione considerata illegale. La pratica prevedeva che i genitori, in quanto maggiorenni, fossero trasferiti in carcere in attesa del processo. I bambini, invece, erano inviati in centri appositi per minori.

«Quando mi hanno strappato dalle braccia mio figlio Wilson di 7 anni, gli agenti della polizia di frontiera non mi hanno neppure detto dove lo avrebbero portato – ricorda Francisco Raymundo Bernal, giovane papà guatemalteco -. Wilson piangeva e anche io, ma in pochi minuti è scomparso dalla mia vista e io non sapevo cosa fare. La polizia mi diceva di stare zitto, perché mio figlio sarebbe stato bene, mentre io sarei andato in prigione». La storia di Francisco e Wilson è simile a quelle di altre famiglie centroamericane, che a partire da aprile 2018 hanno vissuto sulla propria pelle una delle conseguenze più dolorose della politica di tolleranza zero.

«Da aprile a settembre 2018, 6mila unità famigliari sono state separate in frontiera – spiega Carolina Jimenez di Amnesty International Las Americas -. Si tratta di tortura vera e propria che ha generato dei traumi insostenibili per i genitori e per i minori. E se per separare le famiglie è bastata una manciata di minuti, per poterle riunificare, invece, sono serviti mesi».

Il 20 giugno 2018, il presidente Donald Trump, sotto la pressione della comunità internazionale e di alcuni democratici del Congresso Usa, ha revocato la pratica di separazione delle famiglie con un ordine esecutivo, tuttavia, la procedura ha continuato a esistere fino a marzo 2019. La riunificazione delle famiglie è stata un procedimento complicato, perché il numero delle persone coinvolte era molto alto e la separazione è avvenuta in maniera frettolosa, aspetto che ha reso molto difficile dimostrare, successivamente, le parentele.

«Ho potuto parlare con mio figlio dopo tre settimane che ci avevano separato – spiega Francisco, il padre di Wilson -. Ero in carcere e mi stavano processando per poi deportarmi. Io volevo che mi rimandassero in Guatemala con mio figlio, ma non è stato così. Lui è ritornato a casa molto dopo di me».

Per poter riunificare le famiglie, le autorità migratorie statunitensi richiedono ai famigliari tutti i documenti anagrafici necessari per dimostrare la paternità. La madre di Wilson, che si trovava in Guatemala, ha dovuto cercare documenti non facili da reperire nel villaggio di cui sono originari. Le pratiche anagrafiche hanno un alto costo, aspetto che ha reso ancora più complicata e lunga la riunificazione.

«Ho fatto di tutto per riavere mio figlio tra le mie braccia – spiega Sabina Brito, la mamma di Wilson -. Ho mandato negli Stati Uniti diversi documenti, ma ci sono voluti 5 mesi prima di poter rivedere Wilson che è rimasto da solo per tutto quel tempo».

Wilson ha vissuto da settembre 2017 a fine gennaio 2018 in un centro per minori in Michigan. I genitori di Wilson, che avevano pensato di migrare in due gruppi, prima il papà con il bambino e, in una seconda fase, la mamma con la secondogenita, hanno saputo del luogo in cui è stato tenuto in custodia Wilson quasi un mese dopo la separazione.

Oggi Wilson vive in Guatemala con i suoi genitori, che stanno provando a ricrearsi una vita nel loro villaggio. «La ferita di questa vicenda non si può rimarginare – spiega Francisco -. Ora stiamo provando a sopravvivere qui, ma il lavoro è poco e malpagato. Non torneremo negli Stati Uniti, ma spesso pensiamo di migrare in Europa o, chissà, in Canada, perché qui non riusciamo a guadagnare sufficientemente per far studiare i nostri figli».


Il potere del passaporto

Molti centroamericani fanno domanda di visto per gli Usa. Ma per i poveri, gli indigeni, i senza reddito, è praticamente impossibile ottenerlo. E i loro passaporti non sono sufficienti per transitare in Messico, Stati Uniti e Canada. Viaggio in Guatemala, tra i Maya Ixil, per raccontare storie di chi ha tentato di rincorrere il sogno.

Nebaj, provincia di Quiché, Guatemala. Era un giorno di primavera in Guatemala. L’aria era calda e il cielo terso, come quasi sempre nei giorni della Semana Santa che precedono Pasqua.

Erano settimane che Petrona stava aspettando una risposta. Era emozionata e fiduciosa.

Qualche tempo prima, aveva fatto richiesta di un visto per viaggiare regolarmente verso gli Stati Uniti. In quell’occasione, era stata intervistata sulle sue motivazioni da un impiegato dell’ambasciata statunitense. Alla fine dell’incontro, il funzionario le aveva fissato un nuovo appuntamento per ricevere l’esito della sua domanda.

Nei progetti di Petrona c’era una vita statunitense, di duro lavoro, ma anche di tante soddisfazioni. Immaginava una terra nuova, dove poter guadagnare sufficientemente da riuscire, un giorno, a ritornare in Guatemala, costruire una casa per la sua famiglia e aprire una piccola attività commerciale. In più, il suo fidanzato, originario come lei della regione maya ixil nel Guatemala occidentale, era negli Stati Uniti da due anni e lei non vedeva l’ora di raggiungerlo.

Il giorno della risposta, Petrona si era svegliata alle 2 del mattino per essere sicura di salire sulla prima corriera e arrivare in tempo al suo appuntamento all’ambasciata degli Stati Uniti. «Ero piena di speranza – racconta Petrona -. Ma quando l’impiegato mi ha chiamato, mi ha semplicemente consegnato dei fogli e mi ha detto che mi era stato negato il visto. Non mi ha spiegato nient’altro. Io non capivo perché e dalla disperazione ho rotto i fogli e mi sono messa a piangere. A quel punto ho capito che avrei dovuto trovare un altro modo per andare negli Stati Uniti».

Secondo i dati del 2017 dell’Organizzazione mondiale per le Migrazioni (Oim), solo un 21,3% dei guatemaltechi che vive negli Stati Uniti ha viaggiato verso il paese in aereo, con un regolare visto. Tutti gli altri hanno attraversato le frontiere terrestri per entrare in Messico e, in seguito, negli Stati Uniti.

Passaporti e visti: asimmetrie

Senza visto, a poco vale possedere un passaporto del Guatemala, Honduras, Salvador o Nicaragua, se l’intenzione è viaggiare verso gli Stati Uniti. Le persone centroamericane che intendono muoversi legalmente verso il Nord devono richiedere un visto direttamente alle ambasciate dei paesi di destinazione, che decidono chi ha accesso ai propri paesi sulla base di alcuni requisiti. Per transitare in Messico si può richiedere un permesso direttamente all’ambasciata del paese oppure mostrare alla frontiera un visto statunitense, che è accettato anche in territorio messicano.

«Per ottenere un visto regolare per transitare in Messico e Stati Uniti bisogna dimostrare alcuni requisiti economici, tra cui avere un lavoro formale con uno stipendio regolare e possedere alcune proprietà come casa, terreni e automobile – ci spiega Ursula Roldàn Andrade, coordinatrice dell’area migrazioni dell’Istituto di ricerca sociale dell’Università Rafael Landívar di Città del Guatemala -. Per un migrante economico è praticamente impossibile avere o provare tali requisiti e, di conseguenza, ottenere un visto. Se non lo ottiene, è facile che ricerchi modi alternativi per raggiungere gli Stati Uniti, come affidarsi alle reti di trafficanti, ma in questo caso il viaggio è molto caro e rischioso».

Nel mondo contemporaneo, non tutti i passaporti danno ai loro possessori lo stesso potere di circolazione. Nel 2019, ad esempio, con un passaporto degli Stati Uniti è possibile viaggiare liberamente, senza bisogno di visto in 165 paesi, inclusi il Messico e tutti gli stati dell’America Centrale. Al contrario, il movimento dal Sud al Nord è controllato dall’obbligo di visto.

Anche i passaporti europei hanno un elevato potere di circolazione visa free. Secondo i dati del Passport Index 2019, la classifica annuale dei passaporti secondo il loro potere di circolazione senza richiesta di visto, con un passaporto italiano è possibile viaggiare in 166 paesi, così come con quello portoghese, irlandese, olandese o svedese. Con un passaporto siriano, invece, ci si muove liberamente in 37 paesi e con uno afghano in 30. Molti passaporti dei paesi dell’Africa del Nord e centrale forniscono ai loro possessori una possibilità di viaggio molto limitata. Avere un passaporto dal basso potere di circolazione senza  visto non ha un effetto deterrente su chi si sente forzato a migrare, lo obbliga, anzi, ad affidarsi a reti illegali di trafficanti, esponendosi a conseguenze violente per la propria integrità fisica, psicologica e identitaria.

Con un passaporto europeo è possibile viaggiare facilmente anche negli Stati Uniti, usufruendo del Visa Waiver Program con una possibilità di permanenza di 90 giorni. In poche ore si può ottenere l’autorizzazione elettronica Esta a un costo di 14 dollari. Chi usufruisce del visto turistico non può lavorare nel paese, tuttavia ha una possibilità maggiore, seppur le procedure siano alquanto complicate, di modificare il proprio status migratorio in loco, magari ottenendo un visto lavorativo o di studio, rispetto a chi entra nel paese in forma irregolare.

Quanto costa il viaggio

In media il costo del viaggio dall’America Centrale agli Stati Uniti per chi possiede un visto oscilla tra i 500 e i 1.000 dollari, includendo il prezzo del biglietto aereo e delle pratiche burocratiche per la richiesta del documento. Chi si deve affidare alla rete del traffico di persone gestito dai coyotes paga tra i 12mila e i 15mila dollari per un trasbordo in parte realizzato in camion in parte a piedi. In genere, un viaggio dal Centro America dura tra i 15 giorni e un mese. Negli ultimi anni, i coyotes propongono un pacchetto chiamato «viaggio di tre tentativi sicuri» per un prezzo che si aggira intorno ai 15mila dollari. In questo caso, se il migrante viene catturato dalla polizia di frontiera messicana o statunitense, una volta deportato nel paese d’origine, ha ancora a disposizione due tentativi.

Anche Isabel vive a Nebaj e ha 25 anni. Non conosce Petrona, ma hanno una vita simile. Entrambe hanno tentato di andare negli Stati Uniti. Entrambe sono state forzate a scegliere di viaggiare affidandosi alle reti del traffico gestito dai coyotes. «Non c’era scelta – racconta Isabel -. Io non ho neppure il passaporto perché so che tanto poi non mi danno il visto, per cui non ha senso farselo. Ho speso circa 10mila dollari per il mio viaggio negli Stati Uniti con il coyote e ho dovuto chiedere un prestito a una banca». La maggior parte delle persone che migrano dall’America Centrale non ha la possibilità di pagare il viaggio, per cui richiede prestiti a banche e cooperative, fornendo come motivazione la necessità di ingrandire casa o comprare un terreno. Se viene ottenuto il prestito, la famiglia del migrante deposita sul conto bancario del coyote parte del costo del viaggio alla partenza e il resto all’arrivo.

In alcuni casi i coyotes si trasformano in usurai e permettono ai migranti di rateizzare il costo del viaggio e pagarlo mentre lavorano negli Stati Uniti, a fronte di interessi molto alti. Chi non paga rischia di rimanere indebitato tutta la vita e di perdere, in caso ne abbia, appezzamenti di terreni famigliari e piccole proprietà, aggravando le proprie condizioni economiche.

Perché migrare

«Qui in Guatemala, io ricamo, rammendo vestiti e cucio – racconta Isabel -. Guadagno circa 450 quetzales al mese (58 Usd). Con questi soldi riesco a comprare il cibo per me e mio figlio, ma niente più di questo».

Il Guatemala si situa al nono posto al mondo, e al terzo in America Latina, per disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Questo è evidente nei salari delle donne indigene che, lavorando come tessitrici informali, in genere guadagnano 50 dollari al mese a fronte di un salario minimo nazionale di 350.

«Tre persone su dieci dell’area maya ixil provano a migrare negli Stati Uniti – spiega Francisco Marroquin dell’organizzazione di diritti umani Asaunixil di Nebaj -. Lo stato guatemalteco non si è impegnato a generare nuovi posti di lavoro. Qui non ci sono attività commerciali e le infrastrutture, come le scuole e gli ospedali, sono mal gestite».

Il Guatemala ha vissuto un conflitto armato interno tra il 1960 e il 1996 (vedi MC giugno 2019). L’esercito, appoggiato dagli Stati Uniti, si è scontrato per più di 30 anni contro la guerriglia e la resistenza dei civili. Tra il 1982 e il 1983, l’esercito ha programmato una fase genocida contro il popolo indigeno maya ixil e la quasi completa distruzione del territorio. «Con la firma degli accordi di Pace nel 1996, in teoria lo stato guatemalteco avrebbe dovuto ricostruire le nostre comunità – continua Francisco Marroquin -. Ma purtroppo non ha fatto nulla e la gente ha cominciato a disperarsi e a cercare una via di fuga da qualche altra parte, come lavorare nelle piantagioni o, soprattutto negli ultimi 10 anni, migrare verso gli Stati Uniti».

L’Oim ha confermato un aumento della migrazione femminile guatemalteca in fuga da una situazione economica precaria, e dichiara che il 55,2% della popolazione è spinta a migrare verso gli Stati Uniti per ricerca di lavoro e mancanza di opportunità nelle proprie comunità di origine.

Il cammino in Messico

«Il viaggio attraverso il Messico è stato triste e faticoso – continua Isabel -. I coyotes si approfittano delle donne che viaggiano da sole. A volte obbligano qualche ragazza ad appartarsi e cercano di mettere loro le mani addosso. Una donna in questa situazione cosa può fare? Quando si viaggia con i coyotes non puoi neppure gridare o chiedere aiuto, perché loro comandano e se vogliono ti abbandonano in mezzo al deserto o ti ammazzano».

Nel 2017 la Commissione economica per l’America Latina (organismo Onu, ndr) ha riportato che il 50,1% dei migranti provenienti dalla regione centroamericana sono donne e Amnesty International ha confermato che 6 donne su 10, obbligate ad affidarsi alle reti del traffico umano per raggiungere gli Stati Uniti, sono vittime di violenza sessuale da parte del crimine organizzato e, a volte, anche delle forze di polizia messicana. «L’Istituto nazionale di migrazione messicano ha commesso numerosi crimini contro la popolazione migrante – dichiara Carolina Jimenez, vicedirettrice ricerche di Amnesty International Las Americas -. In particolare, la polizia ha spesso estorto denaro ai migranti e ha collaborato con il crimine organizzato nella gestione del traffico e della tratta».

Il viaggio attraverso il Messico per i migranti senza documento è una sorta di corsa a ostacoli guidata da uno o più coyotes che, in certi punti del viaggio, dividono il gruppo di migranti in sottogruppi, per essere meno visibili alle forze di polizia messicana. Molto spesso le reti di coyotes fanno accordi con i cartelli del narcotraffico che gestiscono le rotte migratorie e pagano una sorta di tangente per transitare nei loro territori, come spesso accade nei dipartimenti di Veracruz e di Tamaulipas.

In alcuni casi vengono consegnati interi carichi di persone ai narcotrafficanti che li usano per richiedere il riscatto ai famigliari. Nel 2010 a San Fernando di Tamaulipas i narcos Los Zetas uccisero 72 persone i cui corpi furono poi impilati uno sull’altro ed esposti alle intemperie perché i famigliari non avevano la possibilità di pagare il riscatto.

«In Messico abbiamo camminato spesso di notte – racconta Petrona -. Dovevamo vestirci di nero in modo che non ci vedesse la polizia. Abbiamo attraversato fiumi, camminato tra le sterpi, ci hanno buttato uno sull’altro in camion bestiami. Poi un giorno, attraversando un fiume, una ragazza che viaggiava con me è caduta e la corrente l’ha trascinata a valle. Avevamo paura, ma andavamo avanti. Dovevamo arrivare negli Stati Uniti».

Ultimamente pochi migranti usano il treno per muoversi dal Sud del Messico fino alla frontiera con gli Stati Uniti. Fino a qualche anno fa, il treno denominato La Bestia era il mezzo di trasporto più frequentato. I migranti si sedevano sul tetto del treno fino alla frontiera con gli Stati Uniti. Oggi non è più utilizzato perché è diventato un mezzo troppo pericoloso. Per scoraggiare l’immigrazione sulle rotte messicane, il governo di Enrique Peña Nieto aveva deciso di aumentare la velocità del treno, rendendo più difficile reggersi. Inoltre, La Bestia era spesso assaltato da narcos e dagli agenti dell’Istituto nazionale di migrazione messicano.

«I narcos organizzavano i sequestri in maniera rapida ed efficiente – commenta il professore e scrittore Rodolfo Casillas della facoltà latinoamericana di scienze sociali (Flacso) -. Con la complicità dei coyotes, tutte le persone che avevano una famiglia in grado di pagare il riscatto e le ragazze giovani che viaggiavano da sole erano fatte sedere nello stesso vagone. Quando i narcos fermavano il treno, sequestravano solo le persone di quel vagone. L’operazione durava pochi minuti e poi il treno riprendeva il suo viaggio».

L’arrivo (non-arrivo) negli Stati Uniti

Superare indenni il Messico non è garanzia di successo del viaggio. «Pensavo di essere arrivata – racconta Petrona -. Dopo aver attraversato la frontiera, ero piena di gioia, ma improvvisamente ci sono venute incontro delle moto e dei quad e abbiamo capito che era la polizia degli Stati Uniti».

Entrare in territorio statunitense senza un regolare visto, è considerato un reato, punito con la detenzione e, in molti casi, la deportazione nel paese d’origine. Da quando il presidente Donald Trump ha iniziato il suo mandato, le misure di contenimento della migrazione considerata illegale si sono indurite. Secondo i dati dell’agenzia statunitense per le dogane e la sicurezza delle frontiere Customs and Border Protection (Cbp), tra ottobre 2018 e marzo 2019 si sono verificate 361.087 catture di migranti in frontiera, che corrispondono al dato più alto dal 2007.

Oltre ad aver predisposto la costruzione di un muro di cemento lungo la frontiera con il Messico, il presidente degli Stati Uniti ha eliminato la pratica del catch and release, «cattura e rilascio», spesso attuata dai governi precedenti. In quel caso, la persona entrata nel paese senza documenti era rilasciata, durante il procedimento legale per discutere il suo caso.

Con la politica di tolleranza zero dell’amministrazione Trump, tutti i migranti catturati sul confine sono detenuti fino al momento della deportazione o della liberazione, nel caso di ottenimento di permesso negli Stati Uniti. «È una forma di detenzione arbitraria – spiega Carolina Jimenez di Amnesty International -. Non c’è nessun motivo per tenere in carcere i migranti durante il processo, ma è la forma che usa il governo di Donald Trump per scoraggiare le persone a migrare. L’obiettivo è che queste persone, una volta deportate, raccontino quanto hanno sofferto e i loro parenti o conoscenti intenzionati a partire, rinuncino a farlo».

Una volta catturate sulla frontiera, le persone sono trasferite in celle di detenzione, dove inizia il processo di identificazione gestito dalla Cpb. «Mi hanno chiuso in una cella freddissima – racconta Isabel -. L’aria condizionata era al massimo e io avevo solo una maglietta a maniche corte. Sono stata lì con la luce accesa di notte e di giorno, senza sapere che ora era, per 5 giorni. Ero disperata». Le celle in frontiera sono chiamate dai migranti hieleras, ghiacciaie, perché le temperature sono tenute basse con l’utilizzo di condizionatori. In genere, le celle in frontiera non sono attrezzate con letti, perché considerate luoghi di passaggio in cui le persone dovrebbero essere detenute per poche ore. «Numerosi migranti hanno dichiarato di essere stati detenuti per molti giorni nelle hieleras – spiega la professoressa Ursula Andrade -. Le temperature basse servono, ufficialmente, per evitare il rischio di contagio, ma si tratta di una pratica inumana e degradante molto simile alla tortura».

Durante il procedimento legale in cui le autorità verificano se i migranti possono essere considerati titolari di protezione internazionale, le persone vengono trasferite in strutture detentive all’interno del paese. «In carcere, ho indossato l’uniforme arancione – racconta Petrona -. Come se fossi una criminale, come se avessi ucciso qualcuno, come se avessi rubato qualcosa. A un certo punto l’avvocato che seguiva il mio caso mi ha detto che non avevo diritto a uscire dietro cauzione, ma potevo fare appello e chiedere che rivalutassero il mio caso. Erano già 5 mesi che ero in carcere e non me la sono sentita. Ho quindi firmato la mia stessa deportazione».

Durante l’amministrazione Obama era possibile essere rilasciati dietro cauzione durante il processo, ma molti migranti non potevano pagarne il costo, per cui firmavano deportazioni volontarie per evitare di rimanere ulteriormente in carcere. «In prigione stavo sempre a letto, non mangiavo, vivevo con detenute violente che avevano commesso dei crimini gravi e io mi sentivo morire – racconta Isabel -. Ho chiesto di rimandarmi in Guatemala. Non ce la facevo più a vivere così».

Per chi riesce a superare la frontiera senza essere catturato, inizia la vita negli Stati Uniti che, in parte, verrà vissuta nel timore della deportazione. Nell’anno fiscale 2018, l’Ice, Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia statunitense che si occupa del controllo di dogana e dell’immigrazione anche all’interno del paese, ha ordinato 287.741 deportazioni di persone senza documenti che vivevano nel paese. Si tratta del più alto numero di deportazioni dal 1992. Tra di loro c’erano persone che vivevano e lavoravano negli Stati Uniti da anni.

Secondo i dati Oim del 2017, il 37% dei migranti guatemaltechi non riesce ad arrivare negli Stati Uniti e viene deportato nel paese di origine. Oltre al peggioramento delle proprie condizioni economiche a causa del pagamento dei debiti di viaggio, la detenzione e la deportazione lasciano traumi individuali difficili da sanare e che spesso coinvolgono la dimensione collettiva, perché per molti la migrazione è un progetto di famiglia, più che personale.

Dopo la deportazione, Petrona e Isabel non hanno pensato di provare nuovamente a migrare negli Stati Uniti a differenza di molte altre persone che continuano a cercare una via di fuga dal loro paese di origine. Nonostante le violenze subite lungo il cammino e sulle frontiere, c’è chi vive più esperienze migratorie nel corso della propria vita, perché l’obiettivo rimane «arrivare dall’altra parte», come si dice in America Latina, anche se il prezzo è alto.

«Gli stati di origine, destinazione e transito della migrazione devono provare a collaborare per creare delle politiche a favore delle persone più vulnerabili economicamente in modo che non siano obbligate a migrare – conclude Carolina Jimenez di Amnesty International -. E in caso una persona volesse migrare, dovrebbero garantire che possa viaggiare in forma sicura, fornendole dei documenti regolari, invece di anteporre, come avviene ora, la protezione delle frontiere e della nazione ai diritti umani delle persone».


I nuovi desaparecidos

Maria Ceto Sanchez ha solo una fotografia di sua figlia. L’ha fatta plastificare in modo che non si rovini nel tempo. Ogni tanto la prende in mano e la lucida, quasi ad accarezzarla. Altre volte la ripone nell’unico mobile che ha in casa e la copre con un pezzo di stoffa. In quei momenti, Maria non ha la forza di guardare negli occhi sua figlia Angelina.

«Quando è partita per gli Stati Uniti, Angelina aveva 16 anni e 2 mesi. Nel nostro villaggio girava la voce che i minorenni riuscissero ad avere un permesso per vivere negli Stati Uniti – racconta Maria Ceto -. E allora mi ha detto che voleva partire. Io non ero d’accordo, perché è la più piccola delle mie figlie e sapevo che mi sarebbe mancata tantissimo, ma alla fine ho ceduto e le ho dato il permesso».

Angelina aveva il sogno di costruire una casa per sé e sua madre, perché l’abitazione dove era nata era di lamiera, ma a lei sarebbero piaciute le pareti di cemento. Aveva pensato a tutto. Sarebbe arrivata in Virginia, dove viveva una sua cugina, e avrebbe lavorato una decina di anni come cameriera in qualche ristorante.

«Dopo quel periodo voleva tornare – continua Maria -. Mi aveva detto che avrebbe avuto i soldi sufficienti per pagarsi la retta di una buona scuola a Città del Guatemala e saremmo state sempre insieme».

Angelina è partita per il suo viaggio, insieme a un coyote, il 24 maggio del 2014. Pochi giorni dopo ha telefonato a sua madre Maria per dirle che stava bene ed era in procinto di entrare nel deserto di Altar Sonora da dove avrebbe attraversato la frontiera.

«Quella è stata l’ultima volta che le ho parlato – continua Maria -. Mi diceva di pregare per lei, di credere che ce l’avrebbe fatta e io pregavo e pregavo, ma poi è sparita. Deve essere successo qualcosa nel deserto, ma non so cosa. Dopo qualche giorno che non ricevevo sue notizie, ho chiamato il coyote, ma aveva staccato il telefono. Nessuno mi ha mai detto come sono andate le cose. Ho cominciato a disperarmi».

Il limbo dei migranti desaparecidos è il luogo dove si trovano tutte le persone che hanno intrapreso un percorso migratorio sulle rotte messicane e improvvisamente sono sparite. Si suppone che alcune di loro siano morte durante il cammino a causa della fatica del viaggio e degli agenti atmosferici, altre siano state rapite a fini di tratta, altre siano state investite mentre camminavano di notte sul ciglio della strada, o uccise dai narcos per mancato pagamento del riscatto. Di loro non si sa nulla. «In Messico si stimano tra i 70mila e 120mila migranti desaparecidos – spiega Marta Sanchez Soler, presidentessa del Movimento migrante mesoamericano -. Ma sono invisibili. Anche se dovessero essere ritrovati i loro corpi, non è possibile l’identificazione, perché quasi nessuno di loro viaggia con un documento di identità per paura di essere riconosciuti durante un controllo migratorio in Messico o alla frontiera degli Stati Uniti».

Sebbene sia raro incontrare viva una persona desaparecida, Maria non perde le speranze e vive il suo tempo nell’attesa. «Quando guardo la sua foto, io sento che Angelina è viva – sussurra Maria -. Altre volte piango perché mi demoralizzo, ma io sono qui. Io l’aspetto e so che lei tornerà da me».


Hanno firmato questo dossier:

• Simona Carnino

Giornalista e documentarista, è specializzata in diritti umani, migrazioni e cooperazione internazionale. Ha scritto per anni di temi ambientali e politici. Nel 2015 ha realizzato il documentario «Aguas de Oro» (www.aguasdeoro.org) sulla lotta di Maxima Acuña Chaupe, vincitrice del premio Goldman, in Perù. Ha lavorato 5 anni per Amnesty International e ha maturato esperienza nella gestione di progetti di cooperazione in America Latina. In Italia ha lavorato nel sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati politici. È coautrice della serie «Passaggi», su cui MC ha pubblicato un dossier nel maggio 2017.

• A cura di:

Marco Bello, giornalista redazione MC.

• Frame Voice Report

La realizzazione di questo dossier rientra nell’ambito del progetto «The Power of Passport», eseguito da MAIS Ong, ed è stata possibile grazie al finanziamento dell’Unione Europea attraverso al bando «Frame, Voice, Report!» del Consorzio Ong Piemontesi (Cop). Il sito del progetto e un video sulla carovana:
www.thepowerofpassport.org
video.sky.it/news/mondo/sky-tg24-mondo-terra-promessa/v505199.vid

 

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I Perdenti 42. I «Niños mártires de Tlaxcala»: Cristóbal, Antonio e Juan

Testo di don Mario Bandera |


Tre adolescenti indigeni del popolo Azteco sono considerati i primi martiri cristiani del Messico e dell’intero continente americano. Essi sono: Cristóbal (nato nel 1514 o nel 1515 e ucciso nel 1527), Antonio e Juan (nati nel 1516 o nel 1517 e martirizzati nel 1529).

Cristóbal e Antonio erano di ascendenze nobili, appartenevano alle famiglie di due «cacicchi» (capi indigeni tradizionali), mentre Juan era di una famiglia di servitori nella casa del padre di Antonio. I tre ragazzi si erano avvicinati alla fede cristiana frequentando la scuola dei missionari e staccandosi gradualmente dalle tradizioni dei loro avi. Essi accolsero con gioia la nuova fede e aiutarono anche i missionari a distruggere le statue degli idoli locali, ai quali venivano offerti cruenti sacrifici umani. Per questo furono puniti e perseguitati a morte dai componenti della loro comunità, aizzati dai sacerdoti della religione tradizionale che non accettavano la presenza di una fede diversa da quella praticata dalle popolazioni precolombiane. Cristóbal morì nel 1527, mentre Antonio e Juan vennero uccisi due anni dopo.

Tutti e tre sono considerati i protomartiri del continente americano. Papa Giovanni Paolo II li ha beatificati il 6 maggio 1990; mentre papa Francesco li ha canonizzati il 15 ottobre 2017. A questi intrepidi adolescenti abbiamo rivolto alcune domande, a nome loro risponde Cristóbal.

Che cosa vi ha attratto così visceralmente alla fede in Cristo Gesù, tanto da abbandonare quasi subito la fede dei vostri avi?

La cosa che più ci colpì della nuova fede religiosa arrivata nei nostri villaggi, proclamata dai missionari francescani, fu il constatare che il cardine del loro annuncio, Gesù Cristo il figlio di Dio, aveva offerto la sua vita per la salvezza di tutti gli uomini di qualunque popolo, tramite la sua morte in croce. Invece le nostre divinità erano assetate di sangue, tanto da spingere i nostri sacerdoti a offrire loro in sacrificio un certo numero di giovani e fanciulle come gesto di sottomissione da compiersi in alcuni periodi dell’anno.

Tlaxcala city. Palacio de Gobierno, murale dedicato ai protomartiri

Se ben capisco, voi siete rimasti impressionati dal fatto che nella verità della fede cristiana è il Figlio di Dio che versa il suo sangue per salvare l’umanità, mentre per le divinità degli Aztechi sono le persone del popolo che devono offrire il loro per rendere un culto veritiero.

I nostri sacerdoti passavano di villaggio in villaggio cercando giovinetti di bella presenza e fanciulle di ottimo aspetto da offrire in sacrificio. Voi capite che nella nostra cultura millenaria, non obbedire a questi comandi che ci venivano rivolti dalla classe sacerdotale, significava attirare la maledizione degli dei su tutta la comunità. Pertanto, anche se questo stato di cose era per la nostra gente un enorme sacrificio, offrire un componente della propria famiglia per le divinità era considerato un grande onore.

Voi però, dopo l’incontro con Cristo, non la pensavate più così.

Essendo io figlio ed erede del principale “cacico” della nostra zona, insieme ai miei fratelli e amici cominciai a frequentare la scuola dei missionari francescani. Mi si aprirono orizzonti nuovi e fui anche istruito nella fede cattolica.

Fu allora che prendesti la decisione di chiedere il battesimo e di ricevere nel contempo il nuovo nome di Cristóbal (portatore di Cristo)?

Proprio così, gradualmente il mio modo di pensare e di agire come quello dei miei amici – a mano a mano che ci addentravamo nella conoscenza della nuova fede – cominciava a trasformarsi. Volevamo far capire alla nostra gente che era necessario distruggere i templi pagani e le statuette dei vari idoli e abbracciare la nuova fede portata nelle nostre terre dai missionari francescani e domenicani.

La vostra testimonianza si colloca tra il 1527 e il 1529, quindi pochi decenni dopo la cosiddetta scoperta (in realtà «conquista») del Nuovo Mondo e il conseguente inizio dell’evangelizzazione di quel continente.

L’inizio dell’evangelizzazione nella nostra realtà bisogna inquadrarlo nel contesto storico e nello stile adottato da quei primi missionari, i quali avanzando di pari passo con i conquistatori spagnoli, raccoglievano conversioni per la capacità che avevano nel presentare un Dio la cui caratteristica principale era l’amore per tutti gli uomini e verso il quale non bisognava offrire nessun tipo di sacrificio umano cruento. È vero che in alcuni casi ci furono delle forzature, ma in generale l’adesione alla nuova fede fu rapida e spontanea.

Bisogna dare atto che i missionari provenienti in gran parte dalla Spagna seppero agire con duttilità e intelligenza di fronte alla nuova realtà con la quale erano venuti in contatto.

I Francescani e i Domenicani incominciarono da subito ad impegnarsi con passione e costanza per la promozione umana dei più poveri della nostra gente, degli “Indios” (come preferivano chiamarli loro, convinti com’erano di essere sbarcati in India).

Soprattutto colpì la nostra immaginazione, il fatto che in nome di Cristo difendevano la vita degli appartenenti al nostro popolo (specialmente dei più poveri) dalla casta dei sacerdoti aztechi che erano incessantemente alla ricerca di ragazzi e fanciulle da sacrificare ai loro dei.

Allo stesso tempo non avevano paura di utilizzare mezzi drastici, come la distruzione dei templi, delle statue e raffigurazioni degli idoli pagani, per sradicare una religione ritenuta ottusa e sanguinaria?

Vero, questo loro modo di fare influì anche su di noi, io stesso volendo convertire mio padre, distrussi tutte le statuette degli idoli che tenevamo in casa.

Questo atteggiamento segnò così la tua fine, ovvero il tuo martirio.

Per quel fatto mio padre mi bastonò senza pietà tanto da rompermi braccia e gambe, e poi mi gettò nel fuoco e mi bruciò vivo, quasi come un sacrificio riparatore ai suoi idoli.

Alcuni giorni dopo la stessa fine toccò a mia mamma che aveva tentato di difendermi da tanta violenza.

Per concludere il nostro colloquio dicci due parole sui tuoi amici Antonio e Juan.

Essi nacquero tra il 1516 e il 1517 a Tizatlán (oggi Tlaxcala), Antonio era nipote ed erede del cacicco locale, mentre Juan, suo coetaneo e compagno di giochi, era il figlio di una famiglia di servi della casa. Ambedue frequentavano la scuola dei Francescani. Quando nel 1529 i missionari Domenicani decisero di fondare una missione ad Oaxaca, chiesero al direttore della scuola, di indicare loro alcuni ragazzi che potessero accompagnarli come interpreti presso gli Indios. Riuniti i ragazzi della scuola, venne fatta loro la richiesta avvisando che si trattava di un compito pericoloso. Subito si fecero avanti i tredicenni Antonio e Juan. Quando il gruppo arrivò a Tepeaca presso Puebla, i ragazzi aiutarono i missionari a raccogliere le statuette degli idoli pagani per distruggerli. Antonio era entrato in una casa e Juan era rimasto di guardia alla porta. Alcuni abitanti del villaggio, armati di bastoni, si avvicinarono e picchiarono Juan talmente forte da ucciderlo sul colpo. Antonio, accorso in suo aiuto, si rivolse agli aggressori: «Perché battete il mio compagno che non ha nessuna colpa? Sono io che raccolgo gli idoli, perché sono diabolici e non divini». Gli indigeni, nonostante avessero visto il lui il figlio di un nobile, percossero anche lui con i bastoni, finché morì. I corpi di Antonio e Juan furono poi gettati in una scarpata.

Il domenicano padre Bernardino li recuperò e li trasferì a Tepeaca, dove vennero sepolti in una cappella.

Niños Mártires de Tlaxcala

I primi martiri del Messico

Il sangue dei tre ragazzi messicani fu il primo seme della grandissima fioritura del cattolicesimo nel loro paese. Gli storici della Chiesa messicana li considerano protomartiri non solo del Messico, ma dell’intero continente americano; costituiscono quindi le primizie dell’evangelizzazione del Nuovo Mondo.

L’opera dei missionari si allargò: aprirono scuole, stamparono i primi testi catechistici in lingua locale, condivisero la vita e la povertà degli Indios, lavorando per la loro promozione umana.

Li difesero anche dai soprusi degli «encomenderos», ossia dai coloni spagnoli, perlopiù militari, autorizzati a riscuotere dagli indigeni tributi o in natura, o sotto forma di lavoro obbligatorio.

Il 7 dicembre 1982, la Congregazione delle Cause dei Santi diede il nulla osta per l’inizio del processo per la beatificazione di Cristóbal, Antonio e Juan. Il 21 giugno 1988 si riunirono i consultori storici della Congregazione delle cause dei Santi, mentre la «Positio super martyrio» fu consegnata nel 1989. La riunione dei consultori teologi, svolta il 24 novembre 1989, ebbe esito positivo, confermato dai cardinali e vescovi membri della Congregazione, il 6 febbraio 1990.

Il 3 marzo 1990 san Giovanni Paolo II autorizzò la promulgazione del decreto con cui i tre ragazzi venivano ufficialmente dichiarati martiri. Lo stesso Pontefice li beatificò il 6 maggio 1990 nella Basilica di Nostra Signora di Guadalupe a Città del Messico, fissando la loro memoria liturgica al 23 settembre. Insieme a loro fu elevato agli onori degli altari Juan Diego, il messaggero della Madonna di Guadalupe, loro contemporaneo.

Il 23 marzo 2017, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, papa Francesco accolse i voti della Congregazione favorevoli alla canonizzazione dei tre martiri, senza bisogno di un ulteriore miracolo per loro intercessione. La loro canonizzazione fu celebrata e presieduta da lui domenica 15 ottobre 2017.

Don Mario Bandera

Clicca qui per vedere il video preparato in occasione della beatificazione




Messico, la corruzione, madre di tutti i mali


Con 30mila omicidi all’anno e oltre 53 milioni di poveri, con ampie zone del paese nelle mani dei narcos e i difficili rapporti con l’imprevedibile Donald Trump, il compito che attende il neopresidente Andrés Manuel López Obrador (Amlo) è titanico. Paolo
Pagliai, rettore dell’Università «Alta Escuela para la Justicia», individua però il principale problema messicano nella corruzione che nega i diritti fondamentali delle persone trasformandoli in «favori».


Testo di Paolo Moiola


Dal primo dicembre Andrés Manuel López Obrador detto Amlo, è il nuovo presidente del Messico. Amlo, 64 anni, era stato sconfitto nelle presidenziali del 2006 e del 2012, queste ultime molto contestate. Al terzo tentativo, lo scorso 1 luglio, ha ottenuto oltre 30 milioni di voti, pari al 53,19 per cento del totale, più del doppio del secondo arrivato, Ricardo Anaya del Partido Acción Nacional (Partito d’azione nazionale, Pan). Il neopresidente ha vinto guidando Juntos Haremos Historia (Uniti faremo la storia), una coalizione tra due partiti di sinistra (il Partido del Trabajo e il Movimiento Regeneratión Nacional, Morena) e un piccolo partito di centrodestra (il Partido Encuentro Social), dissoltosi dopo le elezioni.

Di Obrador e dei problemi del paese abbiamo parlato con Paolo Pagliai, italiano cinquantenne, sposato con una messicana, da vent’anni a Città del Messico. Dottorato in pedagogia presso la Universidad Nacional Autónoma de México (Unam), già preside della Facoltà di lettere e filosofia presso l’Università del Claustro di Sor Juana, Paolo Pagliai è attualmente rettore di un’università con un nome impegnativo, Alta Escuela para la Justicia. Esperto e appassionato di memoria storica, diritti umani e pace, il professor Pagliai è la persona giusta per parlare di un paese che, pur essendo l’undicesima economia del mondo, è però gravato da problemi giganteschi con intere regioni nelle mani dei narcos (narcotrafficanti), oltre 53 milioni di poveri e una violenza da guerra civile (29.168 omicidi nel 2017).

Andres Manuel Lopez Obrador (© PCU)

Perché Amlo è la speranza

Professor Pagliai, ci sono tre aggettivi con cui lei descriverebbe la data del 1 luglio 2018?

«Il primo luglio: teso, emozionante, euforico (in quest’ordine). Il 2 luglio (the day after): allegro, speranzoso, meraviglioso».

Nel suo editoriale del 2 luglio su La Jornada parlava della vittoria di Amlo come del trionfo di un progetto trasformatore nella politica, nel sociale, nell’economia e nell’etica. Non è una affermazione esagerata ?

Il prof. Paolo Pagliai durante una conferenza nella capitale messicana.

«No, anche se scritto su La Jornada che – durante tutta la campagna – non ha certo appoggiato con chiarezza Andrés Manuel, può apparire piuttosto sorprendente. Morena può rappresentare effettivamente quel progetto trasformatore della politica di cui il Messico e tutto il continente latinoamericano hanno tanto bisogno. Le sue idee in campo economico, sociale e perfino etico, sono indubbiamente innovative. Amlo parla apertamente di “amore” in un contesto politico mondiale cinico dove l’egoismo di classe e il neo-sovranismo la fanno da padroni: amore come motore del cambiamento, come elemento decisivo per la soluzione e la trasformazione dei conflitti, come punto di partenza per una nuova politica di sicurezza pubblica; l’amore per gli altri come strumento per il dialogo politico, anche aspro, ma sempre rispettoso dei diritti altrui. Potrebbe deluderci, è vero. Potrebbe fare esattamente il contrario di quello che dice, esiste questa eventualità. Ma, in linea di principio, le aspettative dei messicani e delle messicane che hanno votato Morena sono altissime. Siamo di fronte a un momento storico, non ci sono dubbi».

Amlo è un populista?

Molti giornali internazionali, negli Usa ma anche in Europa, parlano di una (nuova) vittoria del populismo. Amlo è un politico di sinistra, un populista, un populista di sinistra o nulla di tutto questo?

«Dipende da cosa si intende quando parliamo di “populismo”. Non credo che ci sia – oggigiorno – parola più inflazionata e mal utilizzata di questa.

Se populista è la politica che appella ai bassi istinti della maggioranza, allora io escluderei che Amlo appartenga a questa categoria di politici molto in voga. In un mondo dove chiudiamo i porti e lasciamo in mezzo al mare navi cariche di disgraziati con l’appoggio incondizionato della maggioranza degli elettori, le parole di Andrés Manuel appaiono come veri e propri trattati di “politica complessa, difficile e raffinata”. Qui in Messico, durante la campagna, c’era il “Bronco” – uno dei candidati, un indipendente (Jaime Heliodoro Rodríguez Calderón, ex Pri, ndr) – che proponeva il taglio delle mani per i ladri; il partito verde, invece, proponeva la fucilazione per i sequestratori. Il populismo, da queste parti, non manca davvero e, così come in Italia, fa appello agli istinti più bassi dell’opinione pubblica, ma quando Amlo parla di riconciliazione nazionale, di giustizia sociale includente, di ricostruzione cooperativa del paese, il suo non è certo un discorso populista. Si tratta piuttosto di una proposta politica innovatrice e, in molti sensi, coraggiosa.

Ora se invece vogliamo intendere “populismo” come essere dalla parte degli ultimi, scegliere la causa dei poveri come se fosse la causa di tutti, rappresenta una scelta che fa riferimento a un non meglio precisato populismo, beh, allora, Andrés Manuel è un presidente populista. Che cos’abbia poi a che fare questo populismo con quello che lascia che i bambini affoghino in mezzo al mare, o si rifiuta di fare una legge contro la tortura o diminuisce le tasse ai più ricchi perché la classe media torni a sentirsi importante, lascio che lo chiariscano coloro che dalle sponde della vecchia Europa osservano con sospetto quanto sta succedendo in Messico».

(David Jones Zocalo)

La classifica dei problemi

In una ipotetica classifica dei problemi messicani in che ordine di importanza metterebbe la violenza, la corruzione, le diseguaglianze? Esiste tra queste problematiche una correlazione?

«Esiste una stretta relazione tra tutti i problemi di cui patisce il Messico, ma non è quella di causa-effetto che le persone potrebbero pensare o di cui vengono convinte dal processo di semplificazione della realtà i cui principali responsabili sono i mezzi di comunicazione di massa, completamente asserviti agli interessi dei partiti politici e dei grandi gruppi industriali e finanziari.

È la corruzione la madre di tutti i nostri mali: nega i diritti fondamentali delle persone trasformandoli in “favori”, genera dipendenza dai poteri e relazioni pericolose con i più forti, riduce sensibilmente gli effetti positivi delle politiche pubbliche e annulla ogni tipo di partecipazione genuinamente democratica da parte dei cittadini. Nella lotta alla criminalità organizzata, riduce l’efficienza e l’affidabilità delle forze dell’ordine, restituisce una magistratura assolutamente incapace di fare giustizia, e dei procuratori così inquinati dagli interessi politici che non possono, in nessun modo, garantire indagini minimamente indipendenti e degne di fede.

La corruzione, dunque, è la principale fonte di insicurezza, ma – non dobbiamo dimenticarlo – sta anche alla base della grande povertà che colpisce quella che è, a tutti gli effetti, la decima potenza economica mondiale e che, malgrado questo, conta, tra i propri cittadini, oltre 53 milioni di poveri. Nel nostro sistema corrotto, la ricchezza viene distribuita in maniera iniqua, cosicché, mentre i nostri ricchi sono tra i più ricchi del mondo (secondo Forbes, il messicano Carlos Slim Helu è al settimo posto nella classifica 2018 dei miliardari, ndr), i nostri poveri appartengono alla parte più povera. Già di per sé questa sarebbe una forma di violenza inaccettabile, ma se vi aggiungiamo la sistematica negazione dei diritti umani, accesso alla salute, all’educazione, alla giustizia, ecco allora che la povertà messicana assume dimensioni veramente angoscianti. Se poi, a tutta questa angoscia, sommiamo 200mila morti e 40mila desaparecidos negli ultimi 12 anni, un numero imprecisato di cartelli narco e di organizzazioni criminali che sottraggono il controllo del territorio alle istituzioni dello stato, il lento ma inesorabile esaurimento delle riserve petrolifere, e i riflessi su scala nazionale della crisi del lavoro che si registra a livello planetario, la relazione tra i problemi che affliggono il Messico, in questo momento nevralgico della sua storia, tesse un panorama complesso che richiede soluzioni creative, originali, collaborative, plurali e – prima di tutto – nonviolente».

Per 4 euro al giorno

In tutti i paesi, il sistema economico privilegia la finanza e maltratta il lavoro. La disoccupazione e la sottoccupazione sono il problema socioeconomico per eccellenza. Com’è messo il Messico? Cosa potrà fare il governo di Amlo?

«In Messico, il lavoro non costa niente. Il salario minimo non arriva a 89 pesos al giorno (circa 4 euro, ndr). Molte famiglie, moltissime, devono sopravvivere con due o tre salari minimi, scegliendo – giorno dopo giorno – se la priorità è mangiare, proteggersi dal freddo, muoversi con un mezzo pubblico o comprare un farmaco che a volte può essere vitale: ognuna di queste opzioni esclude automaticamente tutte le altre. Siamo il paese dell’economia informale, dove più della metà dei lavori si fa in nero, senza contributi e senza assicurazioni. Professioni come insegnare nelle scuole di ogni ordine e grado, o la ricerca scientifica sono oggetto di retribuzioni basse e sempre esposte alla precarietà del mercato. Non è difficile incontrare una persona che sia ingegnere chimico o architetto e che, in mancanza di altro, abbia scelto di guidare un taxi più o meno autorizzato.

In questo contesto che definirei più di miseria che di povertà, le grandi imprese – messicane e straniere – fanno affari d’oro. Per i governi anteriori, creare posti di lavoro era un’impresa relativamente facile: in fondo bastava regolare il mercato del lavoro informale e mettere, sul vassoio d’argento delle imprese straniere, migliaia di posti di lavoro sottopagati o, come preferisco dire io, offrire al miglior offerente centinaia di schiavi. Questo scandalo, con Amlo, deve avere fine. La nuova ministra del Lavoro, Luisa Alcalde (avvocatessa di 35 anni appena) ha già annunciato un incremento sensibile del salario minimo che, in pochissimo tempo, dovrebbe addirittura raddoppiare, spingendo in questo modo verso l’alto tutti gli altri salari».

(David Ludwig) elaborazione MC/Kreativezone

I vicini del Nord

Negli Stati Uniti, Donald Trump fa il bello e il cattivo tempo, governando via tweet. Il presidente accusa il Messico di varie cose: di esportare negli Usa migranti illegali e droga, ma anche di rubare lavoro agli statunitensi con le industrie Usa delocalizzate sul territorio messicano. Questi problemi indubbiamente esistono. Come è possibile affrontarli e risolverli senza arrivare alle soluzioni drastiche proposte da Trump?

«Migliorando le condizioni di vita di milioni di messicani in Messico. Restituendo, una volta per tutte, il suo vero significato alla sicurezza umana: accesso universale alla salute, all’educazione e alla giustizia; stipendi e condizioni lavorative rispettosi della dignità umana; un accordo di libero commercio che includa anche il libero movimento delle persone. In realtà sono queste le misure drastiche e coraggiose di cui abbiamo bisogno. Quelle di Trump sono solo il riflesso becero delle pulsioni più basse dell’opinione pubblica statunitense».

 Si ha l’impressione che il Messico sia indeciso tra l’essere un paese latinoamericano o un paese più legato ai vicini del Nord, Usa e Canada. È un’impressione errata?

«Verrebbe quasi da dire che ogni Sud ha il proprio Nord e che, per ovvie ragioni, ogni Nord ha il proprio Sud. Il Messico è un paese latinoamericano dell’America Settentrionale. In questo, non c’è nessuna contraddizione. La nostra realtà è peculiare proprio grazie alla nostra posizione geografica e alle nostre caratteristiche culturali: non siamo un paese sudamericano, con buona pace dei giornalisti italiani che continuano a descriverci come tale, perché sul planisfero non ci troviamo a Sud del mondo; siamo piuttosto un paese nordamericano di cultura e lingua latine. In questo contesto di diversità, si forma la nostra ricchezza culturale e, proprio da qui, ha origine una rete di opportunità per il Messico e per tutto il continente americano. Noi, oggi, abbiamo l’occasione di proporci come ponte fra il Nord e il Sud, una sorta di cerniera tra le due Americhe: un ponte culturale, sociale, politico, economico, senza muri e con pari opportunità per tutti gli abitanti di tutti i paesi che costituiscono questo meraviglioso e variegato bi-continente. Sento che il progetto di Amlo è portatore proprio di quei principi necessari per trasformare il Messico nella terra di incontro tra tutti i popoli americani: il suo è un messaggio di dialogo, nonviolento e carico di segnali positivi e umanistici che mettono sempre al centro il bene della persona umana a prescindere dalla sua appartenenza etnica, partitica e religiosa».

Professor Pagliai, il benessere di una persona è legato alla salute e all’educazione. In Messico esistono una sanità e una educazione pubbliche?

«In Messico esistono sia un’educazione che una sanità pubblica. La qualità dei servizi è profondamente scaduta negli ultimi 25 anni,  a causa di una cultura neoliberale che ha relegato i poveri nel settore pubblico spostando i ricchi verso quello privato. Da quando l’educazione pubblica è diventata, essenzialmente, l’educazione dei poveri, la sua qualità è scesa vertiginosamente. Lo stesso dicasi per la salute: gli ospedali per poveri hanno una bassa qualità dei servizi. Il tutto, però, non è irreversibile. Siamo ancora in tempo per cambiare il senso di marcia».

Per chi votano i poveri

Amlo è stato eletto soprattutto dai poveri, ma anche Matteo Salvini e Donald Trump sono stati votati ed eletti da disoccupati, emarginati, impauriti. Dove sta la differenza? È il fallimento della democrazia?

«Vero, ma la povertà di cui parlo io è un’altra cosa, si tratta di morire di fame, di diarrea, di un raffreddore banale… Vero, ma i disoccupati che votano Salvini non sono necessariamente gli ultimi. Vivono difficoltà grandi, non possono pagare l’affitto, perdono la casa che stavano comprando, ma di lì alla fame e alla disperazione assoluta il salto è grande. Direi piuttosto che alla base del voto leghista e, solo in parte, pentastellato, c’è una buona dose di povertà culturale, quella che, con grande scandalo di alcuni, chiameremmo più volentieri “ignoranza”. Quando poi è la “paura” a scegliere, beh, allora sì, la democrazia ha fallito miseramente. E non si tratta di sminuire i problemi degli italiani – problemi indubbiamente enormi – quanto di dimensionarli su scala mondiale: molti “poveri” italiani sono convinti che la loro povertà sia come quella dei “poveri” africani che si imbarcano sui gommoni. Si sbagliano. C’è povertà e povertà. E, comunque, la povertà non santifica il povero a priori. Se per combatterla, il povero italiano finisce per aggredire il povero extracomunitario con il peso e il potere delle proprie leggi, del proprio sistema, della propria ricchezza insomma, ecco che la povertà dell’italiano diventa un motore di violenza come tanti altri. Il carburante dell’odio. Chi erano gli elettori di Hitler? Chi sono i sostenitori di Maduro? Essenzialmente poveri. Poveri che, per uscire dalla propria condizione, autorizzarono la limitazione dei diritti di tutti (compresi i propri), sopportano la violenza esercitata contro gli altri e chiedono a gran voce la criminalizzazione, la stigmatizzazione, l’emarginazione e l’espulsione degli altri poveri. Ora, se per fallimento della democrazia si intende il fallimento globale di un progetto-paese chiamato Costituzione, mi trova tristemente d’accordo».

(da vignetta di Patrick Chapatte NYT)

Una cattedra speciale

Professore, perché dedicare – in una Università messicana – una cattedra a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, giudici italiani uccisi dalla mafia? Non sarebbe stato più giusto dedicarla a martiri della giustizia messicani? Se non ci fossero giudici messicani da ricordare, ci sono stati tantissimi difensori dei diritti umani e giornalisti…

«La prima risposta che mi viene in mente è la più ovvia: perché si tratta di una cattedra straordinaria fondata in collaborazione con l’ambasciata d’Italia.

Ma, lo riconosco, potrebbe non essere sufficiente. Dunque tenterò di sviluppare una breve riflessione intorno alla collaborazione internazionale su problemi che di locale non hanno assolutamente nulla. Uno di questi, il più grave nei propri effetti immediati, è quello della criminalità organizzata.

La libera cattedra “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” per la cultura della legalità e della responsabilità è il luogo della memoria e della ricerca al servizio della lotta alle mafie che infestano il Messico e il mondo intero. I due giudici siciliani rappresentano, simbolicamente e a livello internazionale, questa lotta. È vero: ci sono 200mila morti e più di 40mila desaparecidos in questo paese, dovuti – direttamente o indirettamente – al fenomeno criminale dei cartelli, ma la nostra situazione non è esattamente quella italiana, dove abbiamo – per il momento – ancora uno stato che si contrappone chiaramente al fenomeno mafioso. Qui in Messico, la contaminazione reciproca tra stato e criminalità è praticamente costante, in una sorta di sistema osmotico che non lascia margini apparenti alla speranza.

Ecco, all’università abbiamo un memoriale dedicato ai 43 di Ayotzinapa (gli studenti scomparsi nel 2014 in circostanze mai chiarite, ndr), così come un centro di documentazione dedicato alla figura del benemerito delle Americhe, Benito Juárez (1806-1872, eroe nazionale, primo indio del continente a rivestire la carica di presidente, ndr). Per la cattedra, la scelta di due simboli “stranieri” ha messo tutti d’accordo. Quella è la magistratura che non c’è e che invece vorremmo anche qui».

Paolo Moiola
(seconda puntata – continua)




Messico: E giunse il tempo di Amlo


Dal prossimo 1 dicembre, per la prima volta nella storia del paese, al governo ci sarà un uomo di sinistra: Andrés Manuel López Obrador. Conosciuto con l’acronimo di Amlo, 64 anni, il nuovo presidente è stato votato dal 53,19 per cento dei messicani, stanchi di corruzione, ingiustizie e di una violenza che pare inarrestabile. Lo attende un compito molto difficile.
Un’analisi di padre Jorge García Castillo che, a Città del Messico, dirige le riviste «Esquila Misional» e «Aguiluchos».

Andrés Manuel López Obrador (Amlo) durante l’ultimo comizio prima delle elezioni del 1° luglio. Foto: Francisco Estrada, Notimex / AFP.

Per molte ragioni, in buona parte negative, le elezioni generali messicane che si sono svolte lo scorso 1° luglio, sono state speciali: il Movimiento de Regeneración Nacional (Movimento di rigenerazione nazionale, Morena), fondato e guidato da Andrés Manuel López Obrador (detto Amlo), in coalizione con il Partido del Trabajo e il Partido Encuentro Social (Pes), ha vinto con percentuali mai viste prima.

Dall’altra parte, i grandi perdenti sono stati i due partiti con le maggiori radici politiche in Messico: il Partido Revolucionario Institucional (Partito rivoluzionario istituzionale, Pri) e il Partido Acción Nacional (Partito di azione nazionale, Pan). La parte peggiore è toccata al Pri, che per decenni aveva vinto in quasi tutte le contese elettorali fino a diventare ciò che il peruviano Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura, ha definito (già nel 1990) «una dittatura perfetta». I motivi della sua sconfitta? Lotte interne a vari livelli, l’elezione di José Antonio Meade (una persona grigia e discutibile) come candidato per la presidenza della Repubblica, la corruzione, il clientelismo, il coinvolgimento dell’ex presidente Carlos Salinas de Gortari [nella guerra sporca contro Amlo, ndr], il discredito derivante dal comportamento criminale di diversi governatori, membri di rilievo del partito, ecc.

Al momento delle elezioni, il presidente Peña Nieto aveva appena il 20% di approvazione del suo operato. La peggiore situazione nella storia del Pri, motivata da molte ragioni alle quali va aggiunto un caso estremo: la scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa (rapiti il 26-27 settembre 2014 e mai ritrovati ndr); una questione che rimane irrisolta fino ad oggi e che, di per sé, sarebbe sufficiente per far cadere molte personalità del mondo della politica e delle forze dell’ordine, incluso il presidente.

La campagna pre elettorale (in senso lato) è stata lunga, costosa, combattuta e logorante. Durante la stessa sono stati usati tutti i mezzi: denaro in quantità industriale, dibattiti, insulti, minacce e violenza. Non possiamo dimenticare, ad esempio, che più di 130 candidati a diverse cariche pubbliche sono stati uccisi nel tentativo di scoraggiare elettori e chi osava presentarsi. C’è stato persino un «processo per frode» nello stato del Messico e in Coahuila da parte del partito al potere.

Il presidente messicano uscente, Enrique Peña Nieto, a una parata militare. Foto: Daniel Aguilar – Presidencia de la Repu?blica Mexicana.

Amlo e una campagna lunga dodici anni

Prima di andare avanti, dobbiamo ricordare che il processo elettorale del 1° luglio ha avuto due livelli: uno federale che includeva la presidenza della Repubblica e il Congresso (128 senatori e 500 deputati della camera bassa) e uno locale per eleggere i governatori degli stati di Chiapas, Guanajuato, Jalisco, Morelos, Puebla, Tabasco, Veracruz e Yucatan, il capo del governo di Città del Messico, congressi locali, municipi e sindaci per un totale di 3.326 posizioni.

Niente e nessuno è riuscito a fermare un processo in cui i cittadini hanno deciso di andare a votare il 1° luglio. Nella gara hanno trionfato in modo schiacciante Andrés Manuel López Obrador e il movimento da lui guidato che ha vinto la maggioranza dei seggi nel Congresso, cinque governatori, i sindaci delle cinque maggiori città del paese e molti altri eletti in posti di minore rilevanza.

Hanno contribuito a questo successo travolgente la tenacia del politico nativo di Tabasco, che ha perseverato in una campagna elettorale durata 12 anni (Amlo si era già presentato nel 2006 e nel 2012, ndr) e le tante situazioni di corruzione, impunità, indegnità morale dei partiti di governo, suoi avversari, che hanno portato alla disintegrazione dello stato, di varie istituzioni e della stessa società civile.

Che paese troverà

A questo punto, è conveniente chiedersi e fare un’analisi del paese che Andrés Manuel López Obrador si troverà a governare. La risposta non è semplice perché c’è un «eccesso di diagnosi» e l’informazione che abbiamo è abbondante e, a volte, contraddittoria. Per evitare di perdersi in un mare di dati, ho scelto di dare un’occhiata a un libro intitolato ¿Y ahora qué? México ante el 2018 («Cosa succede ora? Il Messico prima del 2018»)1. Nel libro, 34 accademici e intellettuali fanno un’analisi sistematica dei fallimenti e delle carenze di questo paese; allo stesso tempo, propongono una serie di iniziative in vista di una radicale trasformazione della realtà.

Tra le questioni affrontate dal libro vi sono la corruzione, l’impunità, l’incompetenza dello stato, le elezioni truccate, il traffico di droga e gli errori compiuti nel combatterlo, l’abbandono della gioventù, la polizia traballante, le carceri come luoghi del crimine, la disuguaglianza, la disconnessione tra il mondo educativo e quello produttivo, le falle del sistema sanitario, il disordine federativo, la debolezza della politica estera, l’inefficienza amministrativa e molte altre piaghe. Tutte situazioni che mantengono il paese in un’arretratezza sistemica. Vediamo di analizzarne alcune.

La violenza

Nel dicembre 2006, Felipe Calderón del Pan, allora neoeletto presidente del Messico, prima delle accuse di brogli elettorali, dichiarò guerra al traffico di droga e lanciò un’offensiva militare e di polizia che non fece altro che peggiorare la situazione. Il presidente sbagliava nelle strategie e non teneva conto che il narcoterrorismo e le organizzazioni criminali a poco a poco erano diventati uno stato all’interno dello stato. In molte occasioni questi gruppi avevano armi più potenti di quelle delle forze dell’ordine ed erano meglio organizzati. A ciò si aggiungeva la complicità dei membri dell’esercito, della marina e della polizia e dei settori della società civile. Le incalcolabili ricchezze delle imprese criminali avevano permesso loro di acquistare il silenzio e la complicità di coloro che avrebbero dovuto proteggere la legalità e la giustizia.

Per quanto riguarda le cifre, in 12 anni di combattimenti contro la criminalità sono state giustiziate, secondo le stime più prudenti, più di 200mila persone senza contare le 35.000 scomparse. Questa situazione supera per la sua portata, la sua modalità e l’estrema crudeltà, quella di alcuni paesi che vivono una guerra dichiarata.

La questione più seria è che il problema è peggiorato invece di migliorare. Per alcune agenzie di stampa, tra cui Animal Político, durante i primi cinque mesi del 2018, ci sono stati più di 13mila omicidi; 2.890 dei quali si sono verificati a maggio, poche settimane prima delle elezioni. Inoltre, in diverse località e stati la percentuale di omicidi è aumentata senza poter fare nulla per evitarlo.

Questo è senza dubbio uno dei problemi più seri che il nuovo governo guidato da Amlo dovrà affrontare.

La corruzione e l’impunità

Su questo argomento, Maria Amparo Casar, nel libro citato, afferma che la corruzione è sistemica e l’impunità una regola che ammette poche eccezioni. I loro costi sono molto pesanti per il paese (p. 24).

Per l’analista, la situazione è aggravata dal fatto che «la lotta alla corruzione è nei programmi di governi e partiti, ma le promesse non sono state seguite da fatti concreti. In altri termini, riguardo alla corruzione, quasi tutto è stato detto e quasi nulla è stato fatto» (p. 33).

La scritta sul cartello ricorda la tragedia dei 43 studenti di Ayotzinapa: «Vivi se li sono portati via, vivi li rivogliamo». Foto di: Daniel Cima / CIDH.

L’illegalità

Collegato al problema precedente è la questione dell’illegalità. Secondo Héctor Raúl Solís, coautore del lavoro sopra citato, c’è una convinzione generale – per lui falsa – che i messicani siano corrotti per natura. «Allo stesso modo tutti – dal taquero dell’angolo che ruba l’elettricità al funzionario che devia milioni di pesos – soffriamo di un’innata tendenza a infrangere la legge» (p. 47). Per Solís questa convinzione è falsa perché «non tiene conto dei moltissimi messicani che ogni giorno si conformano alla legge» e, in ogni caso, la repubblica può essere rinnovata, non attraverso atti spettacolari ma piccole azioni che costruiscano l’istituzionalità necessaria (p.52).

Da parte sua, il famoso intellettuale e diplomatico José Ramón Cossio Díaz, scrivendo delle fratture legali che si verificano nel paese, dice che il Messico non ha uno stato di diritto o almeno esso è seriamente manomesso. In questo caso, ci sono due opzioni (p. 63): «Cercare un nuovo modello o persistere nell’attuale», consapevoli che «l’istituzione di uno stato di diritto in una società anonima, diseguale e ferita come quella messicana non è né semplice né veloce» (p. 65). Senza che tutto questo ci debba far cadere nella disperazione o nel cinismo, la lotta deve continuare. Questo è ciò che il popolo messicano si aspetta dalle persone e dalle istituzioni che governeranno il paese nei prossimi anni.

La povertà

Un altro dei grandi problemi che affliggono il Messico è quello della povertà, in particolare la povertà estrema, perché colpisce, secondo le parole del ricercatore John Scott, coautore del lavoro, «il diritto a risorse minime per la sopravvivenza», che «è il diritto umano più basilare» (p. 309). In effetti, in un paese come il Messico a reddito medio-alto, «la persistenza della povertà estrema è moralmente intollerabile» e rappresenta «un doppio fallimento in due aree: l’inclusione produttiva e la protezione sociale» (p. 310).

Lo sconforto di questo male endemico è stato il vessillo degli ultimi governi, anche se poco o nulla è stato fatto per sanarlo. In effetti, il divario tra ricchi e poveri continua a crescere e finora il capitale dei supermilionari aumenta esponenzialmente a scapito dei milioni di messicani che non hanno il minimo necessario. Il salario minimo è da considerarsi un attentato contro la vita e il benessere della maggioranza. Non è sufficiente (si tratta di circa 123 euro mensili, ndr) nemmeno per il paniere di base, tanto meno per coprire i bisogni di salute, educazione, abitazione e spazi di gioco.

Questo problema è una bomba a tempo che può esplodere in qualsiasi momento. Le persone sono stufe di soluzioni palliative e assistenziali che non fanno altro che perpetuare la povertà. Le risorse, in una nazione con un territorio prodigo e generoso, esistono. Solo che sono mal distribuite e, mentre alcuni nuotano nell’abbondanza, altri non hanno l’indispensabile.

L’offerta di Amlo

Alle 23:00 del 1° luglio, prima che vengano diffusi i risultati degli exit poll del suo trionfo, López Obrador convoca un meeting all’Hilton Hotel della Alameda Central (noto parco pubblico, ndr) a Città del Messico. Da lì tiene un discorso che riassume quello che sarà il suo modus operandi come presidente. Una folla osannante lo ascolta nel quartiere dell’hotel e applaude infervorata dal suo messaggio. Soprattutto quando tocca temi come la lotta alla corruzione e all’impunità, il protagonismo dei poveri e il rispetto delle differenze sessuali.

Il tono di questo primo discorso è cambiato radicalmente rispetto a quello portato avanti negli ultimi anni, specialmente durante la pre-campagna e la campagna elettorale. Il politico litigioso, ironico, creativo nell’arte dell’insulto e della minaccia, lascia il posto alla realpolitik e tende la mano a tutti con uno spirito conciliatorio e umanistico. Non parla più di mafie del potere né attacca il mondo degli affari. Al contrario, chiama tutti al dialogo e alla collaborazione.

Lo stesso tono viene usato nel discorso che rivolge pochi istanti dopo ai suoi seguaci concentrati nello Zócalo (piazza della Costituzione, cuore della capitale, ndr), a pochi metri dal Palazzo nazionale, dalla Cattedrale metropolitana e dal quartier generale del governo di Città del Messico.

La strada sarà lunga

Nelle settimane successive all’elezione, López Obrador ha iniziato una frenetica attività chiamando persone, aziende, istituzioni, media, a dialogare e far conoscere quale sarà la sua metodologia di lavoro, a presentare coloro che formeranno il suo gabinetto, a riferire su questioni fondamentali come gli stipendi dei dipendenti pubblici, la sua politica di austerità e decentramento, il trattamento degli ex presidenti e le proposte per combattere la violenza e la corruzione, tra le altre cose.

Niente ha potuto fermare questo processo verso la democrazia: le campagne di discredito, gli attacchi velati ed espliciti al politico del Tabasco, in particolare sui social network, l’avvertimento che la sua elezione avrebbe portato il Messico a una situazione simile a quella del Venezuela di Chávez e la Bolivia di Evo Morales, hanno prodotto l’effetto opposto.

Nella lunga e difficile strada verso la democrazia, la sconfitta del partito di governo e l’indiscutibile trionfo di Amlo segnano un nuovo modo di fare politica in Messico. Più che per il disgusto, la disillusione e il disprezzo verso la classe dei politici e un sistema marcio dalle radici, la gente ha votato per un uomo e un movimento che ispirano fiducia e speranza che le cose cambino.

Questo è ciò che noi messicani speriamo e desideriamo per il bene di tutti, specialmente per le maggioranze impoverite.

Jorge García Castillo

(fine prima puntata – continua)
Traduzione e adattamento del testo a cura di Paolo Moiola.

Note

(1) Aguilar Camín, Héctor et al., ¿Y ahora qué? México ante el 2018, Debate, segunda edición, Ciudad de México, febrero 2018.

La protesta di una donna che ha perso un proprio caro nella tragedia dei 43 studenti di Ayotzinapa. Foto: Leonardo Gonzalez / Fotografias emergentes


Politica e religione

Voto laico, ma non troppo

Il Messico è un paese a maggioranza cattolica, ma con una crescita esponenziale degli evangelici. Come sono state affrontate dalle Chiese le elezioni dello scorso luglio?

In Messico, come in molti altri paesi dell’America, non si può parlare più della «Chiesa», ma delle «Chiese» perché queste e il numero dei loro seguaci aumentano di giorno in giorno.

Su questo argomento, Leonardo Alvarez, l’11 maggio scorso, ha scritto sul quotidiano El Pais (nella sua versione internazionale): «Il Messico non sfugge al contesto latinoamericano che ha trasformato il culto evangelico in una forza elettorale importante e diffusa».

Cita anche l’esempio del Costa Rica, dove, ai primi di aprile, Fabricio Alvarado era sul punto di ottenere la vittoria elettorale con un programma marcatamente evangelico e, nel 2016, in Colombia, il voto maturato nei templi è stato decisivo per la vittoria del «No» nel plebiscito per la pace con le Farc. Ma, se prendiamo in considerazione la sua dimensione, non possiamo non citare il Brasile dove il gruppo parlamentare evangelico ha provocato la caduta e l’allontanamento della presidente Dilma Rousseff.

Per quanto riguarda il Messico, anche se l’articolo 40 della Costituzione lo definisce come un paese laico e la legge elettorale vieta partiti religiosi, il Partito incontro sociale (Pes) nelle elezioni del 1° luglio si è presentato in coalizione con il Movimento di rigenerazione nazionale (Morena) di Amlo.

Il Pes è stato fondato da Éric Flores, appartenente ad una chiesa evangelica, ed ha tra i suoi obiettivi la difesa dei valori tradizionali e della famiglia tradizionale. Situazione questa che contrasta con l’ideologia di Morena su questioni come il matrimonio di coppie omosessuali, l’aborto e la legalizzazione delle droghe. Per Roberto Blancarte, uno studioso di questo tema, l’unione tra Obrador e il Pes è «più spirituale che strategica», perché le chiese evangeliche, sorte soprattutto tra i settori emarginati, riproducono gli schemi dei cacicchi (cacicchismo, inteso come l’esercizio personalistico del potere, ndr), legati a una cultura autoritaria che trova analogie in López Obrador.

Venditore di lumini votivi per la Vergine di Guadalupe, molto venerata in Messico. Foto: Geraint Rowland.

Per quanto riguarda la Chiesa cattolica messicana, la sua gerarchia non ha mai nascosto le sue preferenze per i candidati di destra e giudica la sinistra partendo da pregiudizi e paure, soprattutto su temi morali considerati non negoziabili. Mi riferisco a questioni quali il matrimonio omosessuale, l’aborto, l’eutanasia. Fino a un recente passato molti hanno collocato la Chiesa cattolica nel campo del conservatore Partito d’azione nazionale, in cui hanno militato cattolici e anche movimenti di estrema destra come Muro e Yunque (gruppi nati negli anni Sessanta, ndr).

Durante l’ultimo processo elettorale, in particolare nelle fasi della campagna, la gerarchia cattolica ha invece evitato di sbilanciarsi.

Più chiare e profetiche si sono dimostrate molte parrocchie, comunità di base, collettivi cattolici, comunità religiose e gruppi di vescovi, in particolare l’arcivescovo di Guadalajara, cardinale José Francisco Robles Ortega, e i vescovi di Veracruz. Tutti questi soggetti hanno accompagnato e guidato il popolo a votare in coscienza.

Jorge García Castillo

 

 




I Maya, il mistero di una civiltà perduta


Visitare lo stato messicano dello Yucatán è come tuffarsi in un mare misterioso. Il mistero, naturalmente, è quello della civiltà Maya che si sviluppò lì e nelle regioni contigue dell’America centrale (in Chiapas, Guatemala, Belize, Honduras, El Salvador) raggiungendo la sua età classica tra il 250 e il 900 dell’era cristiana. Ciò che sorprende sono le loro impressionanti realizzazioni, ma anche l’improvvisa scomparsa della loro civiltà.

Edgardo Coello, la guida che mi accompagna con grande preparazione e passione nel mio breve tour nelle terre dei Maya, afferma che le massime realizzazioni di questo popolo furono la scrittura, la matematica, il calendario e l’architettura monumentale, che lo pongono al livello delle massime civiltà della storia, come gli Egizi e i Romani. E ha ragione. Quando ci si trova di fronte alle loro piramidi, ai palazzi amministrativi, agli sferisteri o campi di pelota (il gioco rituale con una palla più importante della religione maya), alle stele e alle sculture, non si può non provare lo stesso senso di meraviglia che si prova di fronte alla grandiosa maestà delle piramidi egizie o dei massimi monumenti delle grandi civiltà di ogni continente.
E ciò che più sorprende è che tali costruzioni furono realizzate in un continente isolato dal resto del mondo dove non si conoscevano ancora la lavorazione dei metalli e l’uso della ruota. Costruzioni così grandiose indicano una forte organizzazione sociale, guidata da una gerarchia militare/sacerdotale, ma sostenuta dalla fatica di migliaia di lavoratori. Segnalano anche la maturazione di competenze architettoniche e tecniche molto evolute, tali da consentire a quegli edifici di essere assolutamente stabili ancora oggi a distanza di più di mille anni.

Le ipotesi fantasiose

L’avvento di una civiltà così straordinaria in condizioni così improbabili suscita la fantasia di molti appassionati. Alcuni arrivano a sostenere che i Maya fossero extraterrestri giunti sulla Terra per lasciare con la loro impronta un messaggio di armonia e rispetto della natura, e poi partiti improvvisamente, forse per la previsione di un periodo nefasto. Altri riprendono il mito platonico di Atlantide, isola o continente dove viveva un popolo estremamente evoluto. Il diluvio universale sommerse Atlantide e il suo civilissimo popolo si disperse in diverse aree, tra le quali non ci furono più rapporti fino all’era moderna. Questo spiegherebbe la somiglianza sorprendente tra le piramidi maya e quelle egizie, somiglianza altrimenti incomprensibile, a parere di questi interpreti, se i due popoli non derivassero da una lontana origine comune.

Piramide a gradoni di Sakkara o Saqqara in Egitto

Le piramidi

In effetti le affinità tra le piramidi maya e quelle egizie sono numerose, dalla forma (la somiglianza in questo caso è maggiore con le primissime piramidi, come quella a gradoni del faraone Zoser a Sakkara, e con gli ziggurat della Mesopotamia), alla loro funzione sepolcrale, alla presenza di simbologie astronomiche, astrologiche ed esoteriche, all’uso della pietra. In entrambi i casi si tratta di opere che stupiscono per la grande competenza costruttiva e la complessità realizzativa messe in atto da popoli che non disponevano dei potenti mezzi tecnici moderni. Nelle città maya erano molto importanti, oltre alle piramidi, altri edifici ornati con sculture e stele che, nati probabilmente come centri cerimoniali, avevano conservato un’importante funzione religiosa anche quando erano ormai abitazioni e sedi del potere politico e militare. L’evoluzione delle città comportò anche cambiamenti culturali e simbolici: le iscrizioni sui monumenti, per esempio, che in origine erano prevalentemente mitologiche o astrologiche, nel tempo si trasformarono in narrazioni di storie riguardanti le dinastie regnanti. Una grande differenza tra Centroamerica ed Egitto sta, comunque, nella cronologia: le piramidi maya furono costruite millenni dopo quelle egizie. Viste le molte somiglianze, ci si è domandato se ci sia una relazione tra le due civiltà, ma questo per ora è un quesito senza risposta.

Ziggurat di Ur

La storia

La ricostruzione degli storici è naturalmente molto diversa dalle interpretazioni fantasiose che abbiamo visto, anche se è in continua evoluzione, data la scarsità di informazioni a loro disposizione. Molti monumenti maya sono tuttora nascosti dalle foreste e il lavoro che gli archeologi devono ancora fare è enorme. La scrittura non è stata integralmente decifrata. Per non parlare degli innumerevoli documenti che sono andati distrutti a causa di secoli di guerre intestine tra le città maya e i popoli del Messico centro-settentrionale e poi per mano della colonizzazione spagnola. Nei primi decenni del XVI secolo, Diego de Landa, vescovo e inquisitore dello Yucatán, ebbe un ruolo ambiguo e contraddittorio. Da un lato distrusse codici importantissimi e proibì usanze tradizionali per sradicare quella che lui definiva l’eresia, dall’altro cercò di comprendere la cultura maya e di decifrarne la scrittura. Nacque così quello studio della civiltà maya che è tuttora in corso.

Quello che si sa è che i Maya si stanziarono in America centrale nel secondo millennio prima di Cristo e maturarono la propria cultura in un lungo periodo, detto formativo o preclassico, in cui, grazie anche al contatto con altre culture come quelle mesoamericane degli olmechi e degli zapotechi, svilupparono i principali elementi della loro civiltà. Questa raggiunse l’apogeo nel cosiddetto periodo classico, tra il 250 e il 900 d.C., quando l’organizzazione sociale si diede la forma politica di città stato rette da monarchie assolute ereditarie, spesso in guerra tra loro, ma a volte alleate. Si affermarono soprattutto le città di Tikal, in Guatemala, e di Calakmul, nel Petén, che si posero a capo di alleanze (tra loro ostili) alle quali aderirono le altre città come Palenque, Copán e Yaxchilán. Furono i secoli delle massime realizzazioni della civiltà maya.

Stele davanti a un tempio di Calakmul

La matematica, il calendario, l’astronomia

Matematica, astronomia e calcolo del tempo erano strettamente intrecciati.

Matematica

I Maya elaborarono un efficace sistema di calcolo su base vigesimale (cioè su base 20), funzionale quanto il nostro sistema decimale e forse più adatto a fare operazioni su numeri elevati. Mentre le cifre dei nostri numeri, infatti, rappresentano, da destra a sinistra, le unità, le decine, le centinaia, le migliaia, ecc., i glifi dei numeri maya erano, dal basso verso l’alto, le unità (rappresentate graficamente con dei punti, mentre le cinquine erano raffigurate con delle barrette), le ventine, i multipli di 360, di 7.200, di 144.000 e così via.

In un sistema vigesimale ci si sarebbe aspettati una serie 20-400-8.000-160.000. Il fatto che la terza cifra indichi invece i multipli di 360 deriva dal legame tra la matematica e il calendario. Venti era il numero dei giorni del mese maya e l’anno era considerato composto di 18 mesi per un totale di 360 giorni: quindi il mese si fondava sulla matematica in sé (20 giorni, secondo il sistema vigesimale) e la matematica sul calendario (la terza cifra si fonda sui 360 giorni dell’anno). I Maya – e forse ancor prima di loro gli Olmechi e gli Zapotechi – furono i primi a utilizzare lo zero, già prima dell’era cristiana, mentre gli Indiani lo scoprirono nel V secolo d.C. e gli Arabi lo ereditarono dagli Indù nell’VIII.

Astronomia

I Maya applicarono il proprio efficiente sistema di calcolo all’astronomia, dove raggiunsero risultati notevoli che stupiscono per la semplicità dei mezzi utilizzati, i quali si riducevano all’osservazione a occhio nudo e al calcolo matematico. Oltre alla precisione quasi assoluta nella determinazione dell’anno solare in 365,242 giorni, essi erano in grado di prevedere con altrettanta precisione le eclissi solari, di calcolare le rivoluzioni di Venere (pianeta al quale prestarono grande attenzione) e i cicli della luna e avevano profonda conoscenza delle stelle. Gli osservatori astronomici erano tra gli edifici più importanti delle principali città, come Palenque e Chichén Itzá.

El Caracol, osservatorio astronomico di Chichén Itzá

Calendario

Il calendario maya era molto complesso e si collegava con la matematica, con la religione e con l’astronomia. È chiaramente di origine matematica la divisione, che abbiamo già visto, del mese in 20 giorni e astronomica quella dell’anno in 18 mesi per raggiungere i 360 giorni. Ma i Maya sapevano benissimo che l’anno solare è composto di 365 giorni e una frazione, per cui ai 18 mesi aggiungevano 5 giorni, che consideravano infausti. Accanto a questo calendario civile, essi ne seguivano uno rituale, che prevedeva un anno di 260 giorni, cioè di 13 mesi di 20 giorni. E dato che il primo giorno dei due calendari coincideva una volta ogni 52 anni (cioè 18.980 giorni, laddove 18.980 è il minimo comune multiplo di 260 e 365), questo periodo era considerato un ciclo storico di estrema importanza.

I Maya avevano una concezione ciclica del tempo, ispirata dalle loro conoscenze astronomiche. Come i giorni sono cicli di dì e notte e gli anni solari cicli di stagioni, così, a livello più grande, la vita universale si divide in cicli cosmici. Essi temevano che alla fine di un ciclo potesse avvenire la fine di un mondo, sempre seguita però dalla nascita di uno nuovo. Secondo i Maya la quinta era cosmica doveva finire per il 21 dicembre 2012, giorno nel quale sarebbe iniziata la sesta era (cfr. MC 1-2/2013 p.51).

Poiché ogni era cosmica era stimata in circa 25.000 anni, è evidente che i Maya avevano un’idea dell’antichità del mondo molto più estesa rispetto al pensiero europeo dello stesso periodo storico.

Era considerato importante anche il periodo di 20 anni, detto katun. Sia la vita del singolo uomo, sia le vicende politiche erano scandite in katun, che si credevano governati dalle divinità che decidevano la fortuna favorevole o sfavorevole di ogni giornata e di ogni periodo. Il computo degli anni della storia si teneva a partire da un anno zero che coincideva con il 3.114 a.C., per motivi che sono ancora ignoti.

Un chacmool di Chichén Itzà

La religione

La religione dei Maya era un politeismo estremamente complesso, con una divinità suprema, Itzamná, circondata da un pantheon di numerosissimi dei associati ai punti cardinali, ai colori, ai numeri, ai periodi del tempo (ogni giorno ha un dio benefico o malvagio che lo governa), ai corpi celesti (Sole, Luna, Venere), agli elementi naturali (pioggia, mais, alberi, animali come il giaguaro e il colibrì). Erano particolarmente importanti il culto del dio del mais, su cui si fondavano l’agricoltura e l’80% dell’alimentazione, e della pioggia (Chac), poiché la siccità era la principale causa di carestia. Compito dell’importantissima casta sacerdotale era interpretare, servendosi anche della matematica e dell’astronomia, la complicatissima ragnatela di influenze positive e negative delle varie divinità per stabilire i giorni fausti o nefasti per ogni azione umana, dalla guerra al matrimonio, alla semina, all’incoronazione di un re.

sacro cenote di Chichén Itzà

I sacerdoti organizzavano e conducevano le cerimonie, precedute da lunghi periodi di purificazione mediante digiuno e astinenza sessuale. L’aspetto più importante dei riti religiosi, che prevedevano anche danze, banchetti e feste pubbliche, erano le offerte e i sacrifici agli dei, per ottenerne la benevolenza. Venivano offerti oggetti di valore e sacrificati animali e, per nutrire e saziare soprattutto gli dei della guerra, esseri umani. In cima alle piramidi destinate ai sacrifici umani era collocata una scultura di pietra, il chacmool, sul quale alle vittime veniva estratto il cuore ancora pulsante e offerto agli dei. I sacrifici umani erano un’antichissima tradizione mesoamericana, ma aumentarono quando i Maya furono conquistati e dominati dalle popolazioni del Nord, i Toltechi, che introdussero il culto del serpente piumato, Quetzalcoatl, che in lingua maya fu chiamato Kukulkan.

Oggetti e vittime sacrificali erano gettati anche nei sacri cenote, pozzi sacri, in genere all’interno di grotte, per ottenere il favore di Chac, il dio delle piogge, fondamentale per evitare le sofferenze della siccità. I Maya operavano anche gli autosacrifici, cioè donavano il proprio sangue agli dei, gli uomini pungendosi i genitali, le donne la lingua.

La scrittura

Non sarebbe stato possibile raggiungere risultati così profondi in matematica e astronomia se i Maya non avessero disposto di un sistema efficiente di segni per registrare, comunicare, trasmettere e sviluppare osservazioni, calcoli, teorie e interpretazioni. Essi furono la civiltà americana che elaborò il linguaggio scritto più complesso. Oltre ai segni per indicare i numeri, produssero un complicato sistema di grafemi per esprimere la loro lingua, tuttora compreso solo in parte dagli studiosi.

Nelle epigrafi sulle stele, gli architravi, le pareti e i gradini dei monumenti raccontarono prevalentemente le gesta, la vita e la storia dei regnanti delle città stato, sempre accuratamente datate, mentre nei codici (scritti in genere su fogli ricavati da pelle di cervo o da cortecce dell’albero del fico) trasmisero soprattutto le proprie dottrine religiose, astronomiche e scientifiche. Per tanto tempo gli studiosi hanno discusso se si trattasse di una scrittura fonetica (i cui caratteri, cioè, rappresentassero i suoni della lingua) o ideografica (se rappresentassero, invece, direttamente gli oggetti e i concetti). Le ricerche della seconda metà del XX secolo hanno dimostrato che si trattava di un sistema misto, in cui alcuni caratteri sono fonetici sillabici, altri ideografici.

La scomparsa

Un altro grande mistero è quello della scomparsa della civiltà Maya. Come sono stupefacenti le loro realizzazioni con i pochi mezzi tecnici di cui potevano disporre, così è sorprendente la rapidità con cui la loro civiltà scomparve. Edgardo, la mia ottima guida, sottolinea che a scomparire non fu la popolazione, che esiste ancora oggi e conta milioni di individui, ma la civiltà che si era manifestata nelle città stato e nei loro maestosi monumenti. Alla fine dell’età classica, dopo il 900, gran parte delle città furono abbandonate, al punto che la foresta le inghiottì. Ancora oggi molti monumenti e, chissà, interi centri sono sepolti o nascosti e ci vorranno tempo e finanziamenti per recuperarli. Nel cosiddetto periodo postclassico la civiltà maya sopravvisse nelle regioni settentrionali, dove, però, subirono l’invasione e il dominio dei popoli del Messico centrosettentrionale, come i Toltechi di Tula. Ci fu una fusione che produsse quella che viene chiamata la civiltà maya-tolteca, in cui ai caratteri tradizionali della cultura maya si aggiunsero una mentalità più fortemente militaristica e l’introduzione di nuovi culti.

Inizialmente ebbe un periodo di splendore ed egemonia locale la città di Chichén Itzá, dove furono costruiti monumenti di tale interesse (come la piramide detta El Castillo) da far entrare il sito nel novero delle sette meraviglie del mondo. Alla sua crisi, intorno al 1220, emerse l’ultima importante città maya, Mayapán, che esercitò il proprio dominio regionale fino al 1440. Quando nella regione arrivarono gli spagnoli (lo Yucatán fu conquistato da Francisco de Montejo nel 1541), la grande civiltà maya era pressoché scomparsa. Gli spagnoli s’impegnarono in un’opera di sradicamento di quel che era rimasto della cultura e della religione locali, distruggendo monumenti, documenti e usanze e imponendo i propri modelli culturali e la religione cattolica. Il re di Spagna affidò ai conquistatori, con l’istituzione dell’encomienda (affidamento), lo sfruttamento del territorio e degli abitanti, con l’impegno a convertire la popolazione indigena al cattolicesimo. Le antiche città maya furono sostituite da città di modello europeo, come Mérida, nuova capitale dello Yucatán.

Quali furono le cause del declino di una civiltà tanto forte? Alcuni studiosi ipotizzano cause come l’eccessivo incremento demografico, lo sfruttamento esasperato del suolo, la deforestazione, la siccità, epidemie, disastri naturali come terremoti e uragani. Altri – ed Edgardo è d’accordo con loro – ritengono più decisive le guerre tra le diverse città stato, forse rivolte interne della popolazione contadina contro la casta dominante guerriera/sacerdotale (è l’ipotesi di Eric Thompson) e, in una società già indebolita, le invasioni dei Toltechi e successivamente degli spagnoli, che diedero il colpo finale a un mondo già in crisi per ragioni interne.

I Maya oggi

Quando chiedo a Edgardo, che è orgoglioso della percentuale di sangue maya ricevuto dalla madre, che cos’è rimasto dell’antica civiltà nei milioni di Maya che ancora oggi vivono nel Messico meridionale e in altri paesi dell’America centrale, mi risponde: la lingua, il cibo (fondato sulla netta prevalenza del mais), molte tradizioni, lo sciamanesimo e abitudini, come dormire sulle amache, assolutamente adatte al clima tropicale. I Maya sono ancora un popolo fondamentalmente contadino, anche se oggi nello Yucatán si sta affermando il turismo.

Mercato “Maya” oggi

Eric Thompson, archeologo che visse diversi decenni a contatto con i Maya odierni, riassunse il loro carattere in tre parole chiave: religiosità, moderazione, obbedienza. L’antica religione maya sacralizzava ogni aspetto della natura e della vita individuale e sociale degli esseri umani. Oggi i Maya hanno assorbito la religione cristiana, ma l’hanno fusa, soprattutto nelle campagne, con le antiche credenze. Spesso i santi cristiani sono associati ad antiche divinità e le cerimonie religiose conservano aspetti dei vecchi culti. I Maya sono un popolo che ama il lavoro ed è portato a dominare le proprie passioni. Il digiuno e l’astinenza sono sempre state per loro le vie della purificazione. Solo l’alcol, da sempre presente nella loro cultura e nei rituali religiosi come mezzo per raggiungere esperienze estatiche e allucinatorie, può talvolta alterare animi altrimenti moderati e misurati. I Maya hanno tuttora un forte senso della tradizione e il culto della propria famiglia.

Anche al turista che li ha frequentati per pochi giorni appaiono come un popolo sereno, pacifico, accogliente, sorridente e molto laborioso. Come scrisse Thompson, il loro motto potrebbe essere: «Vivi e lascia vivere».

Sergio Parmentola

Sergio Parmentola insieme alla sua guida, Edgardo Coello

 

 




Messico. Migranti: un salto nel buio


Ogni anno migliaia di migranti centroamericani cercano di attraversare il Messico per raggiungere la frontiera Nord e passare illegalmente negli Stati Uniti. È un viaggio estenuante e molto pericoloso a causa dei narcos e delle autorità locali. Pochissimi raggiungono la meta. La maggioranza torna indietro o si ferma lungo il cammino sopportando violenze e angherie e mettendo a rischio la vita stessa. In questo quadro di disperazione, si inserisce l’opera di padre Alejandro Solalinde e dei suoi rifugi per migranti. Questo è il suo racconto.

Sono 4.301 i chilometri della frontiera terrestre del Messico. Per la precisione, 3.152 quelli della frontiera Nord con gli?Stati Uniti e 1.149 quelli della frontiera Sud con Guatemala e Belize. Confini che contribuiscono a fare del Messico un «paese di partenza, transito e arrivo di migranti»1.

Per inquadrarne i problemi sono sufficienti tre dati: la povertà interessa 57 milioni di messicani su 127 totali; le persone assassinate nel 2016 hanno raggiunto il livello record di 22.9672, senza conteggiare le migliaia di persone scomparse; la corruzione costa ogni anno il 9 per cento del Prodotto interno lordo3.

Dal Messico si scappa (è il secondo paese al mondo con più emigranti4) e nel Messico si arriva, ma quasi sempre soltanto per tentare il salto verso gli Stati Uniti, l’American dream. Un progetto questo di difficile realizzazione e soprattutto molto rischioso a causa dei pericoli in cui i migranti possono imbattersi. Se va bene, furti ed estorsioni.?Se va male, sequestri di persona, violenze sessuali, mutilazioni, commercio di esseri umani, sparizioni ed assassinii.

A confermare la gravità della situazione è padre Alejandro Solalinde, sacerdote messicano di 72 anni (molto ben portati), fondatore dell’«Albergue de migrantes “Hermanos en el Camino”», un centro per l’accoglienza dei migranti illegali a Ixtepec, nello stato messicano di Oaxaca.

Padre Solalinde, candidato al premio Nobel per la pace 2017, vive da anni sotto scorta a causa della sua condanna a morte decretata dai narcos, che sulla pelle dei migranti fanno grossi affari.

Chi parte, chi si ferma, chi torna indietro, chi arriva

Padre Alejandro, ci racconti in poche parole chi è lei.

«Prima di tutto, direi che sono un missionario cattolico. Lavoro a Ixtepec, stato di Oaxaca, nell’albergo-rifugio dei migranti. Iniziai nel 2005, quando chiesi al mio vescovo di occuparmi di loro. Non fu facile perché pareva uno spreco che un sacerdote si dedicasse alla gente di strada, ai migranti. Però, alla fine, ottenni il permesso».

Il rifugio quante persone riceve?

«In questo momento, l’Albergue de migrantes accoglie un centinaio di persone al giorno. I migranti si fermano un paio di giorni o al massimo tre, per poi riprendere il cammino».

Da dove provengono?

«Soprattutto dall’Honduras, dal Salvador, dal Guatemala, dal Nicaragua. Però anche dal Brasile, dal Venezuela, dal Costa Rica, dal Perù, dall’Ecuador, da Panamà e anche dal Belize. Secondo le statistiche, il 50% di costoro si ferma in Messico, mentre il 25% rinuncia e torna indietro. Si arrende».

E quanti di loro arriveranno fino alla meta finale, nel «paradiso» statunitense?

«Stando ai numeri, un 25% dei migranti raggiunge la meta e riesce a entrare, anche con Donald Trump. Chi controlla la frontiera non è il Messico o gli Stati Uniti, ma continua ad essere il crimine organizzato. Se tu paghi o se porti la droga, loro riescono a farti passare. Non c’è muro che tenga. Per sofisticato che esso possa essere».

In Europa la maggioranza dei migranti sono giovani e maschi. E da voi?

«Anche qui la maggioranza sono giovani. Io calcolo siano circa l’80 per cento del totale. Però ci sono anche bambini e donne. Persone anziane ne ho viste poche, probabilmente rassegnate a rimanere nel loro luogo d’origine. Ed anche i malati rimangono a casa. Sono le persone più giovani e sane quelle che viaggiano».

L’accoglienza

Come si svolge una sua giornata tipica all’Albergue di Ixtepec?

«Non ce n’è una eguale all’altra, ma una cosa è identica: ogni giorno è sempre molto intenso. Al mattino presto – verso le cinque e mezza – prego e leggo il vangelo del giorno. Faccio esercizi. Lavo e stiro i miei vestiti: se voglio essere pulito, nessuno lo deve fare per me. Poi scendo al piano dove ci sono i migranti. A volte faccio colazione con loro, dopo che questi hanno fatto le pulizie del luogo. Poi visito i diversi reparti dell’Albergue per vedere come procedono: la falegnameria, la panetteria, la fattoria, la cucina (un settore questo che sempre necessita di molto lavoro). Abbiamo anche una biblioteca e una sala computer dove le persone possono comunicare con i loro cari. C’è un’area medica con due medici e due infermiere. Ed anche un’area psicologica con cinque addetti. Insomma, siamo come una piccola città».

Quando al centro arrivano i migranti, lei che fa? Come li accoglie?

«Io non posso parlare con ognuno. Allora li riunisco. Di solito, nella cappella. Quando hanno mangiato, si sono lavati e cambiati i vestiti, allora li chiamo. La prima cosa che dico loro è: “Com’è andato il viaggio fino a qui?”. E poi: “Alzi la mano chi viene dall’Honduras. Chi dal Guatemala. Chi dal Salvador”. E così via. In questo modo mi rendo conto che gruppo è. E ancora: “Alzi la mano chi è cristiano evangelico”. A chi l’ha alzata dico di presentare la sua chiesa con il nome. Ad ogni chiesa diamo un applauso. Sì, è un modo per riconoscere che il loro cammino è corretto. E che siamo fratelli nella fede. Poi faccio lo stesso con i cattolici. Infine, dico: “Alzi la mano chi non ha nessuna chiesa o religione”. E anche qui molti alzano la mano. Poi chiedo cosa è accaduto durante il viaggio. Mi faccio dire se già hanno presentato la propria denuncia o ancora no».

A che denuncia si riferisce?

«La legge dice che se un migrante è stato vittima di un delitto, deve avere un visto umanitario. Identicamente se nel suo paese è perseguitato o se il suo paese è luogo di violenza. Il nostro ufficio di registrazione valuta la condizione giuridica di ogni persona che arriva. E prima ancora la sua condizione psicofisica: se una persona ha bisogno di cure, viene mandata in infermeria. Se presenta problemi emozionali per ciò che ha passato, viene mandata dal gruppo degli psicologi».

A parte lei, quante sono le persone che fanno funzionare l’Albergue?

«Abbiamo uno staff di otto persone stabili. Però siamo aiutati da numerosi volontari che provengono da tutto il mondo. Addirittura dalla Cina e dall’Australia. E?moltissime persone che arrivano dall’Europa».

Narcos e migranti

Quando e perché i cartelli della droga – i cosiddetti narcos – hanno iniziato a interessarsi ai migranti?

«Tutto è cominciato con Felipe Calderón, il precedente presidente, che fece una guerra insensata (e perdente) al narcotraffico (121 mila morti e 26 mila scomparsi tra il 2006 e il 2012, ndr). Questa guerra provocò la decapitazione di alcuni cartelli e una spoliazione di altri, tra cui los Zetas.

Questi ultimi rimasero senza liquidi per pagare la droga. La droga non si può pagare a credito: va pagata immediatamente. Dunque, los Zetas pensarono di ricavare denaro dai migranti. Sapevano che essi non posseggono nulla, ma hanno amici e familiari negli Stati Uniti. Cominciarono dunque a sequestrarli e a chiedere un riscatto. In pochi mesi riuscirono a estorcere milioni di dollari.

Oltre al riscatto, capirono presto che dai migranti si poteva ottenere di più: con la prostituzione, lo sfruttamento del lavoro, il traffico di organi».

Quanti cartelli sono coinvolti?

«Principalmente los Zetas e in misura minore il cartello del Golfo. Gli altri non si sa, ma certamente non trafficano con i migranti in maniera sistematica».

Autorità criminali

E le autorità messicane che fanno?

«Sono parte del business. Chiaro! Gli agenti di migrazione, i poliziotti, i politici di qualsiasi livello sono complici, soprattutto nel caso dei migranti. Sanno che è una fonte di denaro facile e molto grande. Io sono solito definire il mio governo come una “narcocleptocrazia”. I narcos hanno infiltrato tutte le istituzioni messicane. È raro – io non ne ho mai conosciuti – trovare un politico o un funzionario che non rubi».

Anche Enrique Peña Nieto, il presidente del suo paese?

«Quel signore è il più corrotto. In questo momento ha un grado d’accettazione da parte della popolazione messicana del 9 per cento! È un ripudiato».

Che pensa di Donald Trump, presidente del paese che è nei sogni dei migranti?

«Trump è un pover’uomo. L’unica cosa che ha è il denaro. Ha vissuto per accumulare denaro ma non potrà portarlo con sé».

Viaggiare sulla «Bestia»

Da noi ci sono le carrette del mare o i gommoni, da voi c’è La Bestia.

«Hanno cominciato a chiamarla La Bestia perché è un treno merci (de carga), non deputato a trasportare persone. Per questo i migranti viaggiano sul tetto o negli angusti spazi tra i vagoni. Per 12-13-14 ore.

Possono capitare molti incidenti, soprattutto se le persone si addormentano. O quando salgono gli uomini del crimine organizzato che li buttano giù se non pagano.

Il treno parte dal Sud, dal Chiapas, circa un’ora dal Guatemala. Ha differenti ramificazioni (cartina a pagina 54, ndr) e può arrivare fino a Mexicali o Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti».

I messicani negli Usa

Anche lei frequenta il (presunto) paradiso statunitense?

«Sì, viaggio negli Stati Uniti 4-5 volte all’anno. Per incontrare gruppi di emigrati, per capire come sta andando o cosa possiamo fare per i loro diritti. Sono oltre 34 milioni i messicani che vivono là legalmente. E 6 milioni che non hanno documenti. Tutti costoro inviano denaro in Messico. L’ultima cifra parla di 27.000 milioni di dollari in un anno. Per questo dico che, dopo il narcotraffico, le rimesse sono l’entrata maggiore per il paese».

Il diritto a emigrare e il modello capitalistico

Padre, in Italia e in Europa si litiga sui migranti che dovrebbero essere accolti e quelli che andrebbero respinti. Secondo lei, esiste un «diritto a emigrare»?

«Io credo che ci sia un diritto a non emigrare quando ci siano tutte le giuste condizioni di vita nei luoghi d’origine. Tuttavia il sistema capitalista ha fatto a pezzi le condizioni di vita nei paesi d’origine dei migranti: per la violenza, per la mancanza di lavoro, per l’assenza di una possibilità di sviluppo per i giovani.

I movimenti migratori sono sempre esistiti. Però è la prima volta nella storia dell’umanità che le migrazioni sono dal Sud al Nord. Storicamente sono sempre state all’opposto: dal Nord al Sud».

In tutto il mondo le migrazioni e i migranti sono il problema del secolo. Cosa si può fare, padre?

«Se siamo d’accordo che il problema è strutturale, cioè che nasce dal sistema liberal-capitalista, allora l’unica soluzione è cambiare il modello. Di sicuro non si può continuare così.

Non è possibile avere il 99 per cento della popolazione mondiale che vive con le briciole lasciate cadere dall’1 per cento della popolazione».

Da chi vengono le minacce

Lei usa sempre parole molto forti, senza edulcorare le situazioni.

«Uso parole molto forti perché la realtà è molto forte. Occorre dire le cose chiaramente».

Ha paura per la sua vita?

«Io ho paura per il Messico. In questo momento abbiamo vari governatori nelle carceri, altri espatriati. Non uno. Tanti. (Erano 16 ad aprile 2017 su un totale di 32, ndr)».

Però ha subito minacce ed aggressioni fisiche.

«Preso a botte, certo. Ma anche incarcerato due volte. Il 24 giugno del 2008 tentarono di bruciare me e il rifugio. In un’altra occasione il sindaco e la giunta municipale mi chiusero dentro per 7 ore dicendo: “Tu da qui non esci fintantoché non firmi che chiuderai il rifugio”. Risposi: “Puoi amazzarmi se vuoi, ma io non firmerò nulla. Questa è una proprietà della chiesa cattolica”.

La sera di quello stesso giorno arrivarono gruppi di migranti. Dissi al sindaco: “Se succede qualcosa ai migranti o a membri della mia équipe, io la denuncerò”. “Lei mi sta minacciando”, disse costui. “La pensi come vuole”, risposi io».

Tuttavia, quella volta non furono i narcos. Furono le autorità!

«Perché c’è forse differenza?».

Non c’è differenza?

«Certo che no! Sono la stessa cosa! Non puoi dire qui sta il crimine organizzato e qui l’autorità. Noooo».

Questo è molto triste.

«Tristissimo. Il Messico sta vivendo una situazione molto difficile. Di decadenza totale».

«Io non sono solo»

Nonostante da anni sia costretto a vivere sotto scorta, lei appare molto sereno.

«Io sono un uomo di fede. Gesù continua ad ispirarmi. Mi sento molto orgoglioso di essere battezzato, di essere una persona consacrata, missionaria, itinerante del regno di Dio. Io non sono solo».


Si definisce «migrante» la persona nata in un paese diverso da quello di residenza e che ha lasciato volontariamente il proprio paese d’origine. Sotto questa definizione, sarebbero 244 milioni i migranti nel mondo5.

A questa cifra ne va affiancata un’altra: quella che riguarda le persone che sono state obbligate a lasciare le proprie case. Questa condizione riguarderebbe 65,6 milioni di persone, così distinte: 22,5 milioni di rifugiati, 2,8 milioni di richiedenti asilo e 40,3 milioni di sfollati interni6.

Migranti, rifugiati, richiedenti asilo, sfollati interni: in qualsiasi parte del mondo il fenomeno si presenti, sorgono problemi.

Personaggi come padre Alejandro Solalinde sono encomiabili per l’opera che svolgono e veramente meriterebbero il Nobel, ma la questione di fondo è epocale e al momento all’orizzonte non s’intravvedono soluzioni indolori.

Il diritto a non emigrare – ovvero il diritto a restare a casa propria – sarebbe l’unica, vera soluzione. Ma rimane un obiettivo difficile e molto lontano. Significherebbe assicurare a ogni persona cibo, lavoro, casa, educazione, sanità, pace. Un sogno che l’attuale sistema economico e politico non pare intenzionato a considerare.

Paolo Moiola

Note

(1) Rapporto paese dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim, agenzia dell’Onu).
(2) Dato riferito agli «omicidi volontari». Nel 2015 in Italia gli omicidi volontari sono stati 469.
(3) Questi dati sono confermati da varie fonti tra cui: istituto Imco, istituto pubblico Coneval, Sistema Nacional de Seguridad Pública (rapporto del 20 giugno 2017).
(4-5) Fonte: «International Migration Report 2015», Nazioni Unite.
(6) Fonte: rapporto «Global Trends. Forces Displacement in 2016», Unhcr.

L’articolo completo con le cartelle statistiche si trova sullo sfogliabile:

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* Mauro Pagnano è nato a Napoli. Laureato in giurisprudenza, vive a Caivano nel cuore di quel territorio tristemente noto come Terra dei Fuochi. È proprio con un progetto sulla Terra dei Fuochi che comincia a fotografare e a pubblicare su testate nazionali e straniere. I suoi lavori sono realizzati in collaborazione con l’agenzia di comunicazione sociale di cui è socio, «La Etiket Comunicazione», che opera in un bene confiscato alla camorra a Casal di Principe. In Messico ha seguito la rotta dei migranti dal confine con il Guatemala fino al Centro Nord. Il progetto è ancora in itinere.

Archivio MC

Tra gli articoli sui migranti centroamericani e messicani verso gli Stati Uniti segnaliamo:

Documentari

Sulla tematica sono visibili su YouTube numerosi documentari tra cui:

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=r_s6HOYo6SI?feature=oembed&w=500&h=281]

Videointervista

Un ampio stralcio della videointervista a padre Alejandro Solalinde – arricchita con inserti filmati sull’Albergue e La Bestia – è visibile su YouTube sul canale di Paolo Moiola: www.youtube.com/user/pamovideo.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=S3rGfU-avxo?feature=oembed&w=500&h=281]