Bosnia. Memorie della guerra


È stata l’ultima guerra in Europa del XX secolo. Con episodi di genocidio. Il conflitto degli anni 90 in ex Jugoslavia pare lontano. Ma i popoli che ne sono stati coinvolti hanno costruito i loro memoriali. La nostra collaboratrice li ha visitati.

«Sarajevo ha due parvenze e due volti: uno oscuro e severo, l’altro luminoso e amabile». Così il premio Nobel Ivo Andrić descriveva nel racconto «Uno sguardo su Sarajevo» la capitale della Bosnia-Erzegovina.

Esistono luoghi nel mondo che portano impressi i segni di ciò che è stato. Segni non cancellabili o che, più semplicemente, non si vogliono cancellare.

Questo è sicuramente il caso della città di Sarajevo. Per abbracciare tutta con un solo sguardo basta salire in cima al Trebević, il monte che la sovrasta. Pochi minuti dal centro città alla cima della montagna. Giunti al belvedere si può comprendere come questo luogo, nascosto fra i monti, fosse un luogo perfetto per un assedio: nessuna via di scampo, se non i boschi attorno all’abitato, che ancora oggi rappresentano un rischio. Non tutte le mine antiuomo, infatti, sono state rimosse.

L’assedio di Sarajevo, da parte delle forze serbe, durò dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. È stato il più lungo della storia bellica del XX secolo.

Sarajevo, ponte tra oriente e occidente, era una città nella quale le culture cristiana, musulmana ed ebrea si amalgamavano in un mix pacifico. Un mix che i sarajevesi, abituati alla convivenza, vedevano come normale. Una realtà scomparsa negli anni Novanta, quando il feroce assedio delle forze serbe pose fine alla pace.

Memorie

Oggi camminando per le vie di questa vivace città (con circa 320mila abitanti, ndr) non si può fare a meno di notare come, a fianco di locali alla moda e negozi scintillanti, i palazzi presentino ancora i segni della guerra.

Segni che nessuno vuole cancellare a imperitura memoria di un passato di sangue, e che anzi, vengono esaltati così da renderli più evidenti, come fossero monumenti.

Sui marciapiedi, sulle mura, è facile vedere le cosiddette «rose di Sarajevo», (in bosniaco sarajevske ruže). Si tratta di simboli commemorativi realizzati riempiendo di resina rossa i fori dei proiettili di mortaio che, durante l’assedio, hanno colpito la città.

Ancora oggi all’interno di Markale, il mercato all’aperto tristemente noto per due attentati nei quali persero la vita più di cento persone, si può vedere a terra l’enorme foro di un colpo di mortaio, al cui interno si scorge ancora una parte dell’ordigno. I bordi frastagliati del foro sono dipinti di rosso, come le rose di Sarajevo.

Se il museo dei Crimini contro l’umanità, presente in questa città e a Mostar, è una visita doverosa, altrettanto potente e commovente è la galleria fotografica «Galerija 11/07/95».

Si tratta della prima galleria d’arte in Bosnia-Erzegovina dedicata alla memoria delle 8.372 persone che persero la vita nel genocidio di Srebrenica. Aperta simbolicamente il 12 luglio 2012, un giorno dopo l’anniversario della strage, contiene un’esposizione permanente di ciò che è rimasto. Immagini dal campo dei sopravvissuti, ritratti di famiglia, ritrovamenti di ossa nelle fosse comuni, foto di graffiti offensivi e scritte dei Caschi blu dell’Onu sulle mura del complesso della «Forza di protezione delle Nazioni Unite». Il tutto per ricordare come un monito quello che fu e che si spera non debba accadere di nuovo.

Autori dell’esposizione sono il Centro memoriale di Srebrenica-Potocari, l’Associazione movimento delle madri delle enclavi di Srebrenica e di Zepa, l’Istituto per le persone disperse della Bosnia Erzegovina, l’Iniziativa dei giovani per i diritti umani Yihr/Fama, il Cinema for peace foundation, il Video archivio del genocidio, il Genocide film library Bosnia-Herzegovina e il fotografo Tarik Samarah.

Poco fuori dalla città, vicino all’aeroporto, si trova il cosiddetto «Tunnel della speranza»: costruito dagli assediati bosniaci a partire dal gennaio del 1993 per collegare la città a un’area del territorio bosniaco molto più estesa passando al di sotto dell’area neutrale dell’aeroporto istituita dalle Nazioni Unite.

La galleria permise ai bosniaci di oltrepassare l’embargo internazionale di armi e di fornire ai combattenti le armi necessarie, oltre a far arrivare cibo e medicinali a chi era bloccato nella città sotto assedio. Con i suoi ottocento metri di lunghezza e solo 1,60 di altezza, il tunnel rappresentò per molti l’unica via di salvezza.

Oggi è possibile visitarne una parte: percorrendone circa venti metri, si può avere un’idea di cosa voleva dire avere come unica via di fuga un luogo tanto angusto.

Il Ponte vecchio (Stari most) di Mostar, ricostruito. Bosnia. Foto Valentina Tamborra

Srebrenica

Uno dei più terribili eccidi dai tempi dell’Olocausto avviene nella piccola cittadina di Srebrenica, lungo la valle del fiume Drin, le cui acque segnano il confine tra la Bosnia e la Serbia.

È l’11 luglio del 1995: le truppe serbo bosniache del generale Ratko Mladić – soprannominato in seguito «il boia di Srebrenica» – invadono la città, dichiarata «zona protetta» nel 1993, e uccidono più di 8mila persone del gruppo etnico bosgnacco (bosniaci musulmani). La popolazione della piccola enclave in territorio bosniaco viene decimata. Un detto locale recita: «Chi è sopravvissuto non può avere sentimenti in corpo».

Oggi arrivare a Srebrenica da Sarajevo significa compiere un viaggio in una memoria viva: a gestire e fare da guida al Memoriale, ci sono alcuni dei sopravvissuti al genocidio.

I locali di quella che un tempo era la base dei Caschi blu delle Nazioni Unite sono oggi sede di un museo che porta il visitatore all’interno di quello che fu uno dei più grandi fallimenti della comunità internazionale.

Alle pareti, fotografie e installazioni video raccontano l’inazione dei Caschi blu dovuta al fatto che le risoluzioni Onu, votate sino a quel momento, non davano ai militari i mezzi e il benestare per agire. I Caschi blu assistettero impotenti alla cattura, attorno al compound, di circa duemila uomini tra i 12 e i 70 anni che vennero destinati all’esecuzione. Donne, anziani e bambini, in tutto circa ventimila, furono deportati e subirono stupri e violenze.

Ancora oggi molti sono i corpi non ritrovati e si procede alla ricerca e alla successiva verifica tramite esame del Dna. Il cimitero che fronteggia l’ex base delle Nazioni Unite sembra estendersi all’infinito: file e file di lapidi bianche in marmo, le più vecchie, interrotte da quelle più nuove, verdi, di legno.

Una distesa di morti che finalmente hanno un nome, un luogo dove piangerli. L’11 luglio di ogni anno una lunga processione parte da Sarajevo per raggiungere Srebrenica: si seppellisce ciò che è stato ritrovato negli ultimi dodici mesi – siano poche povere ossa o i resti di abiti o oggetti personali -, si dà loro degna sepoltura affinché ancora una volta resti viva la memoria di ciò che è stato.

Sarajevo, le rose, ovvero dipinti nati dai danneggiamenti delle bombe. Foto Valentina Tamborra

Dove il tempo si è fermato

Se si vuole avere un’idea dello straordinario paesaggio che circonda Sarajevo e se si vogliono «dimenticare» per un attimo i segni della guerra, è d’obbligo una visita a Lukomir. Si tratta dell’unico villaggio non toccato dalla guerra dei Balcani. Si trova a 110 km da Sarajevo e a 1.469 metri sul livello del mare, vicino al monte più alto del paese, il Bjelašnica. Affascinante ma insignificante da un punto di vista strategico, è riuscito a non veder sconvolta la propria esistenza e ancora oggi ospita quella che è una delle ultime comunità di pastori musulmani.

Il paesaggio è straordinario: un canyon profondo quasi 800 metri fa da sfondo a un villaggio che sembra fermo nel tempo. Casupole a pianta quadrata sormontate da tetti aguzzi, Lukomir è uno dei villaggi d’Europa ininterrottamente abitati da più anni.

Fra i viottoli di sassi e terra, vivono circa sessanta persone che si prendono cura dei propri animali, per lo più pecore e galline, difendendoli dagli attacchi dei lupi che da queste parti sono tutt’altro che rari. Raggiungere Lukomir comunque, è possibile solo per circa tre o quattro mesi l’anno. Durante il lungo inverno, infatti, la strada che conduce a questo luogo remoto rimane chiusa per neve.

Il Ponte vecchio, Stari most, di Mostar, bombardato nel novembre 1993 e sostituito da una passerella. Qui nell’agosto 1994. Foto Marco Bello

Lo Stari moste il cimitero violato

Il ponte di Mostar è forse uno dei simboli più dolorosi e vivi nella memoria di chi ha vissuto o visto – anche solo dal soggiorno di casa propria seduto davanti alla tv – la guerra dei Balcani. È il 9 novembre del 1993 quando, sotto i colpi dell’artiglieria croato-bosniaca, crolla lo Stari most, il Ponte vecchio di Mostar, un gioiello architettonico ottomano – oggi riconosciuto come patrimonio Unesco – che unisce le due rive del fiume Neretva.

Oggi ricostruito, fa da sfondo al paesaggio da cartolina che Mostar offre a chi vi arriva per la prima volta.

Eppure basta guardarsi intorno, parlare con gli abitanti, soffermarsi nelle vie periferiche della cittadina, per ritrovare, come a Sarajevo, colpi di proiettile sulle mura delle abitazioni o segni di mortaio a terra.

Oggi a preservare la memoria di ciò che è stato, esistono dei «free walking tours», nei quali guide locali raccontano la città e ciò che ha subito.

La ferma volontà di non dimenticare è una legge non scritta in Bosnia-Erzegovina dove persino nella periferia di Mostar le vecchie case abbandonate e disastrate sono diventate monumenti alla memoria.

Opere d’arte, installazioni permanenti – come quella che rappresenta un bimbo che si dondola su un’altalena appesa a un vecchio palazzo crivellato dai colpi dei proiettili -, riportano costantemente alla memoria ciò che è stato.

Purtroppo, però, nonostante gli sforzi e il continuo parlare di pace e di convivenza fra culture, il seme della violenza non è ancora stato estirpato e ne è triste prova il cimitero partigiano che sorge alle porte di Mostar. Creato dall’architetto belgradese Bogdan Bogdanovic, il monumento eretto per accogliere le spoglie degli antifascisti jugoslavi morti durante la Seconda guerra mondiale, è oggi un cumulo di macerie. Nel giugno del 2022 infatti, le oltre 600 steli dell’opera monumentale sono state fatte a pezzi.

Molte le manifestazioni antifasciste che si sono mosse in difesa di questo luogo. Le accuse che vengono rivolte alla politica locale sono quelle di aver lavorato negli anni alla riabilitazione di episodi e personaggi storici del periodo fascista. Forte la denuncia dell’attivista Samir Beharic: «Generazioni di giovani croati sono state cresciute in un ambiente dove i collaboratori nazisti venivano onorati, in alcune parti di Mostar, le strade sono dedicate ai responsabili dei massacri contro gli ebrei bosniaci».

Ciò che rimane di un viaggio in Bosnia-Erzegovina oggi, è l’impressione di un paese ferito ma dignitoso e fiero della propria resistenza. Un paese che, pur guardando avanti, non vuole lasciarsi alle spalle il passato e resta deciso a fare del dolore memoria viva e potente.

Valentina Tamborra

Sarajevo, Bosnia. Musici in un locale notturno. Foto Valentina Tamborra.

 




Donne che scrivono la storia


Cosa accade quando le vicende della gente commune si incontrano con la grande Storia? Ce lo illustrano le autrici de «Le storie siamo noi». Una preziosa operazione di riscatto della memoria e della tradizione orale, in cui emerge il ruolo di avanguardia delle donne, protagoniste spesso dimenticate.

«Ognuno di noi lascia una traccia. Quando si cammina scalzi sulla spiaggia, sul prato bagnato, nel fango, i piedi imprimono un’orma. Dentro c’è la nostra biografia rara, anzi unica».

Così scrive Anna Grieco ne La notte uterina, uno dei 59 racconti contenuti nel volume «Le storie siamo noi», pubblicato nel febbraio scorso dall’editore Fernandel di Ravenna.

La raccolta, realizzata da diciotto autrici di età compresa tra i 45 e gli 80 anni, ci guida attraverso un inedito viaggio nel tempo: dal 1908 ai giorni nostri la «Storia» con la S maiuscola incrocia le vicende della gente comune, vissute in prima persona da chi scrive o sentite narrare dai propri famigliari e da testimoni ormai scomparsi.

Si tratta di una preziosa operazione di riscatto della memoria e della tradizione orale, che permette di salvare dall’oblio persone, avvenimenti, territori altrimenti destinati a essere cancellati per sempre dallo scorrere del tempo.

Centrodonna della cascina Marchesa (torino) evento per l’8 marzo, con copertina del libro. Massimo Maiorino.

Donne resilienti

L’idea di realizzare questa raccolta è nata all’interno delle «Donne di parola», un gruppo di scrittura attivo dal 1997 nella periferia nord di Torino, coordinato da Claudia Manselli.

«All’epoca il Centrodonna della VI Circoscrizione, nel quartiere popolare Barriera di Milano, propose un corso di avvicinamento alla scrittura pensato per le donne, cui si chiedeva il coraggio di mettersi in gioco, di cercare la propria voce, vincendo insicurezze e tabù», ricorda Claudia. «Ci s’incontrava e si scriveva una volta alla settimana, dalle cinque alle sette. Molte donne erano sorprese dalle loro capacità, sperimentate prima solo nella costrizione dei temi scolastici.

Leggere ad alta voce un proprio testo risultava sconcertante anche quando apparivano doti inaspettate.

Alcune cercavano di schermirsi, quasi sempre svalutandosi».

Da quella prima esperienza è scaturito il desiderio di continuare l’avventura, grazie anche alla disponibilità di Claudia che a un certo punto ha scelto di offrire i suoi insegnamenti a titolo gratuito, «perché i rapporti tra noi fossero liberi da secondi fini».

Per oltre vent’anni le Donne di parola hanno perseverato nella loro ricerca di una scrittura personale, capace di rompere il silenzio dettato dalle convenzioni e dalle convenienze sociali, rivendicando il diritto, la libertà e la gioia di esprimersi.

La musa ispiratrice del gruppo  – formato oggi da casalinghe, impiegate, docenti, assistenti sociali, pensionate, ecc. – è stata da sempre Professioni per le donne di Virginia Woolf, in cui la scrittrice inglese uccide simbolicamente l’angelo del focolare colpevole di inibire la creatività femminile.

Con l’arrivo della pandemia la potenza della parola, fino a quel momento impiegata per ripensare le proprie esistenze e le proprie identità creando condivisione e scambi culturali, si è trasformata anche in uno strumento di resilienza e di rivincita contro l’isolamento.

«Durante il lockdown, quand’eravamo rinchiusi in casa, impossibilitati a portare avanti le nostre attività e a incontrare le persone care, ero piuttosto abbattuta, perciò ho accolto con piacere l’invito di un’amica, “veterana” del gruppo, a cimentarmi anch’io negli esercizi di scrittura che Claudia proponeva ogni settimana e su cui ci confrontavamo in videoconferenza», racconta Stefania Garini. «Ero abituata a scrivere per lavoro ma non mi ero mai dedicata alla scrittura creativa, ed ero convinta di non avere fantasia; grazie a questa esperienza ho scoperto di possedere qualità che ignoravo. Sono grata alle Donne di parola che mi hanno accolta tra loro e mi hanno insegnato tanto.

Nei due anni più gravi della pandemia, l’esperienza nel gruppo è stata per me una sorta di prevenzione dal disagio psichico, che mi ha permesso di sentirmi meno sola, occupare il tempo e trovare un senso nuovo a giornate in tono minore».

Proprio durante la pandemia Claudia Manselli ha avuto un’idea: perché non creare una raccolta di fatti originali, facendo emergere i momenti in cui le storie individuali – quelle di cui magari rimane solo un oggetto, una foto, un ricordo personale che altrimenti andrebbe perduto – si sono imbattute nella storia collettiva?

Alcune autrici del libro, in occasione della presentazione l’8 marzo 2023. Massimo Maiorino.

Rapporti di forza

Ecco dunque fissate sulla carta vicende che si intersecano con le due guerre mondiali, il fascismo, le migrazioni, il ’68, la legge Basaglia, il terrorismo, i referendum su divorzio e aborto, le stragi di mafia. E ancora l’incendio al cinema Statuto, i mondiali di calcio, le vittime dell’Eternit, fino alla pandemia da Covid-19.

In alcuni casi «Le storie siamo noi» racconta fatti direttamente legati agli eventi della grande storia: il bambino che a cinque anni conosce per la prima volta il padre, reduce di guerra; la piccola sfollata in seguito all’alluvione del ‘66, costretta ad andare a servizio da una famiglia che la relega nello sgabuzzino; gli studenti che manifestano contro la guerra del Vietnam; il giovane obbligato a sposarsi con rito civile perché il Sant’Uffizio ha lanciato una scomunica contro gli aderenti al partito comunista; il malato di mente torturato nel manicomio dove l’elettrochoc è ancora la norma.

In altri racconti gli avvenimenti storici restano sullo sfondo e a emergere sono i dettagli della vita quotidiana e del folclore: il lavoro nei campi, i chilometri a piedi per raggiungere la scuola, le vacanze in colonia, il festival di Sanremo visto in tv al bar del paese, l’ascensore che funziona inserendo monete da dieci lire.

A volte bastano poche, semplici pennellate per ricostruire un’intera epoca, con i suoi processi produttivi e le sue gerarchie sociali. Scrive Pierisa Cavallero in Nascite e prodigi: «Nelle stanze di sopra si allestivano i graticci per i futuri bachi da seta. Si sceglievano i locali più luminosi e meno umidi, quelli che si potevano aerare. […] La famiglia dormiva nelle stanzette accanto alla stalla. Si mettevano diversi materassi di foglie di granturco a terra e ci si accampava lì. Solo gli anziani suoceri avevano il privilegio di riposare su un pagliericcio coperto da un piumino d’oca».

Nel racconto Oro, Maria Muresan ricorda l’infanzia in Romania, quando i contadini dei collettivi dovevano cedere allo Stato tre quarti del raccolto: «Per poter vivere, di notte si andava a rubare quello che si lavorava di giorno, cioè il mais, le barbabietole, il grano. Una sera io, che avrò avuto nove anni, e mia sorella Violeta, che aveva un anno e mezzo di più, siamo andate a rubare le nostre patate. Nello stesso campo abbiamo incontrato i figli dei vicini, bambini come noi. Ci siamo spaventati tutti, ma una volta capito chi eravamo, abbiamo iniziato a giocare a nascondino».

Un antidoto al «presentismo»

Come scrive nell’introduzione al volume Valentina Pazè, docente di filosofia politica all’Università di Torino: «Grande è l’attenzione per i dettagli, a partire dalla descrizione degli ambienti e degli oggetti della vita quotidiana: le case di ringhiera della Torino di inizio secolo, le battane e le fiocine usate dai ladri di anguille, l’acqua di rose per farsi belle il giorno del matrimonio, lo sciaraball (carretto, nda) per muoversi nelle campagne, il lume a petrolio che rischiara le stanze degli anni Sessanta ancora prive di elettricità. Le vicende rimandano in parte a un mondo che non c’è più (i maestri che bacchettano sulle mani gli scolari, le lenzuola d’inverno intiepidite con un mattone caldo, l’olio di fegato di merluzzo, i peccati mortali e veniali da studiare a memoria al catechismo, il Carosello prima di andare a dormire), in parte a eventi e sentimenti perenni: la nascita, la morte, l’amicizia, l’abbandono, lo sconforto, la paura, la ribellione. E lo spaesamento di chi vive diviso tra due mondi, come testimoniano le molte storie dedicate al tema dell’emigrazione».

Le vicende narrate permettono di spostarsi non solo nel tempo ma anche nello spazio, attraverso il nostro Paese e oltre:
dal Piemonte alla Campania, dal Veneto alla Puglia fino alla Transilvania, al Burkina Faso, a Cuba, agli Stati Uniti e nelle terre dell’emigrazione italiana, in un viaggio storico-geografico ma soprattutto antropologico.
I lettori più anziani possono ritrovare pezzi e ricordi della propria giovinezza, rivivere momenti che sono stati importanti per la loro emancipazione, mentre i più giovani possono trarne una migliore comprensione del passato e confrontarsi pure con memorie più recenti che coinvolgono anche loro.

In questo senso, secondo Pazè, il libro costituisce un «antidoto alle amnesie e al “presentismo” (considerare solo il presente, dimenticando il passato, ndr) di cui è malato il nostro tempo».

Spinte in avanti

A differenza di quello che molti si aspettano dalla letteratura femminile, in «Le storie siamo noi» l’argomento sentimentale viene solo sfiorato dalle varie autrici, interessate piuttosto a dinamiche di solidarietà sociale, riconoscimento dei diritti umani e civili, impegno politico. In linea con José Saramago, quando afferma che «la storia è spuma che arriva alla spiaggia del presente, mare che muove quell’onda e ci spinge avanti».

In particolare, quel che emerge ai margini della storia è il ruolo delle donne, depositarie da sempre di drammi, gioie, scelte eroiche, cambiamenti epocali. «Insieme abbiamo scoperto che la verità, quella profonda, deve essere faticosamente cercata, anche con dolore», ci dicono le Donne di Parola. E può accadere che il prezzo da pagare sia troppo alto. Questo spiega perché, dei sessanta racconti originari, uno sia stato escluso dalla pubblicazione per scelta dell’autrice: avrebbe causato troppo dolore ad alcuni dei discendenti, ancora in vita, della protagonista del racconto, una donna che nel ’46 ha compiuto atti coraggiosi, ma anche scabrosi per i suoi tempi. Una donna le cui tracce sulla sabbia verranno cancellate dalla spuma del mare.

Nel libro un’attenzione importante è dedicata alla natura, presenza costante che emerge a tratti con il suo volto più duro (quando si presenta come siccità, grandinate, alluvioni), ma più spesso si mostra quale fonte di vita, rigenerazione fisica e morale, energia spirituale.

È qui, come leggiamo nel racconto Bosco del Vaj, di Elena Leonelli, che «troviamo la quiete e la forza di reagire alla barbarie dei nostri tempi». Ed è sempre nella natura – come anche nella scrittura – «che cresce il desiderio di un mondo migliore, la speranza nelle nuove generazioni, la necessità di un contatto più stretto con le radici del bene e con la parte più vera di noi».

Stefania Maiorino