«Buon vento, ResQ»


Negli ultimi anni la società civile ha riempito il vuoto lasciato nel Mediterraneo dalle istituzioni. Le navi umanitarie hanno salvato migliaia di vite finendo nel mirino della propaganda anti Ong. Ora, la «ResQ – People saving people» sta per salpare grazie a una grande mobilitazione.

«La storia la fanno le persone semplici, gente comune, con famiglia a casa e un lavoro ordinario. Che si impegnano per un ideale straordinario come la pace, per i diritti umani, per restare umani». Questo scriveva Vittorio Arrigoni nel 2008, tre anni prima della sua morte nella Striscia di Gaza.

Di persone semplici che si impegnano, oggi più che mai, il mondo ha un gran bisogno. Per arginare la deriva dell’umanità e la decrescita dell’empatia verso il diverso, lo sfortunato.

Il compianto attivista non immaginava che il suo motto, «Restiamo umani», sarebbe diventato un baluardo contro l’indifferenza di chi volta la testa dall’altra parte ogni volta che una barca cola a picco nel mare Mediterraneo portando con sé decine, centinaia di vite che cercavano solo un futuro migliore.

È successo il 3 ottobre 2013 con i suoi 366 morti, l’11 ottobre dello stesso anno con altre 268 persone annegate, il 18 aprile 2015, quando sono state non meno di 800. E continua ad accadere. Tanto che dal 2013 a oggi si calcolano almeno 20mila vittime.

Anche negli ultimi mesi i drammi non hanno dato tregua: a fine marzo sono state oltre 60 le vittime accertate dall’Helpline alarm phone, 41 il 16 aprile, e il 22 aprile, proprio mentre scriviamo, altre 120, per ricordare solo i naufragi più rilevanti.

Persone salvano persone

Come si può restare umani in quel mare che è diventato un enorme cimitero?

«È possibile e doveroso». Parola di Gherardo Colombo, ex magistrato che non si tira mai indietro e che, con un gruppo di amici, nell’estate 2020 ha lanciato una sfida enorme: mettere in mare una nave di salvataggio della società civile italiana: «Un’imbarcazione battente bandiera italiana, finanziata grazie alle donazioni dei cittadini. Pronta ad andare a soccorrere, perché salvare vite umane è la priorità», spiega Colombo presentando ResQ – People saving people, progetto che, sebbene sia nato in piena pandemia, sta raccogliendo continue adesioni e donazioni che probabilmente metteranno in acqua la nuova nave in estate.

In meno di 10 mesi, ResQ (gioco di parole del termine inglese rescue, soccorso) ha raccolto 900 soci, 425mila euro e, a oggi, una cinquantina di associazioni sodali, in quella che è chiamata la Rete degli amici di ResQ, a cui qualunque ente interessato può aderire (www.resq.it).

«Si tratta di un’iniziativa non solo moralmente giusta, ma assolutamente indispensabile», ha sottolineato Filippo Grandi, capo dell’Unhcr, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel prendere la parola durante il lancio ufficiale del sodalizio di ResQ. L’iniziativa è stata promossa all’inizio da Colombo con amici avvocati, giornalisti ed esperti di migrazioni, e aperta subito dopo alla libera adesione di chi ne condivide i valori.

Il vuoto istituzionale

«Siamo persone, proprio come te, stanche di restare a guardare. Crediamo nell’importanza di colmare il vuoto che si è creato nel Mediterraneo», si legge nel sito di ResQ.

«Dovrebbero essere le istituzioni a salvare le persone e poi garantire loro dignità», riprende Gherardo Colombo. «La Costituzione è chiara e le leggi ci sono. Vanno attuate. Noi ora svolgiamo una supplenza che in futuro non dovrebbe più esserci».

Così come non c’era tra la fine del 2013 e il 2014, quando l’Italia, proprio sulla scorta della commozione e del dolore del naufragio del 3 ottobre, aveva promosso l’Operazione di soccorso Mare Nostrum, salvando decine di migliaia di persone in poco più di un anno di attività.

Successivamente si era sostituita all’Italia l’Unione europea con l’Operazione Triton, che però non si era rivelata per nulla la stessa cosa: promossa tramite l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere Frontex, aveva visto una diminuzione progressiva dei dispositivi di salvataggio in un’Europa sempre meno salda e unità dal punto di vista politico sul tema dell’immigrazione.

Le Ong criminalizzate

È stato allora che la società civile europea ha messo in mare le proprie navi dopo avere raccolto i fondi necessari, fino ad arrivare a una dozzina d’imbarcazioni di Ong presenti nel Mediterraneo tra il 2015 e il 2017: tra esse ricordiamo Moas, Sos Mediterranée – sulla cui nave Aquarius è salita anche «Missioni Consolata» per un reportage pubblicato a inizio 2018 -, Proactiva open arms, Sea eye, Save the children, Medici senza frontiere, Emergency, Jugend rettet, Sea watch, a cui è seguita la nascita della prima compagine italiana, Mediterranea.

Cosa è successo dopo quel momento di massima presenza?

È iniziata la campagna di «criminalizzazione della solidarietà»: nel momento del graduale ritirarsi delle navi militari, le imbarcazioni delle Ong hanno iniziato a finire nel mirino di alcuni procuratori e della propaganda politica di alcuni partiti, e lo sono ancora oggi, sebbene non si sia mai arrivati a sentenze sfavorevoli al salvataggio umanitario in mare.

Tale criminalizzazione nel tempo ha colpito navi delle Ong, attivisti per i diritti umani e altre persone che, in nome dei valori umani, cercano di togliere dal pericolo i migranti forzati. Osteggiati da una parte del mondo politico, dei mass media e, di conseguenza, dell’opinione pubblica, l’accusa nei loro confronti è quella di «favoreggiamento dell’immigrazione irregolare».

Dal Codice di condotta del ministro dell’Interno Marco Minniti ai «porti chiusi» del successivo titolare del ministero, Matteo Salvini, i salvataggi in mare hanno avuto una brusca riduzione senza soluzione di continuità.

Una nave in più

«C’è un atteggiamento ostruzionistico che continua da anni, con inchieste sul nulla, blocchi delle navi con fermi amministrativi di mesi che di fatto lasciano il mare sguarnito di soccorritori: per questo una nave in più serve eccome», indica Luciano Scalettari, giornalista di lungo corso e primo ideatore di ResQ assieme al cooperante internazionale Giacomo Franceschini. «Un giorno, di fronte all’ennesimo naufragio, ci siamo guardati in faccia e abbiamo deciso che dovevamo fare qualcosa in più: abbiamo radunato tutti gli amici chiedendo loro di coinvolgere i propri contatti, e così ha preso il via l’esperienza di ResQ», ricorda Scalettari.

I due hanno colpito nel segno: dopo pochi giorni, una ventina di persone, tra cui alcuni avvocati di Asgi, (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), ovvero Luca Masera, Livio Neri e Alberto Guariso, si sono aggregate.

In breve tempo è nata l’associazione ResQ – del cui consiglio direttivo, oltre ai già citati, fanno parte anche Lia Manzella, Sarah Nocita, Cecilia Guidetti, Emiliano Giovine, Corrado Mandreoli e Francesco Cavalli – e si è pensata una tempistica per allargare la base e mettere in atto in primi passi per acquistare un’imbarcazione.

Entro l’estate 2021

L’obiettivo iniziale era di avere la nave a disposizione per la primavera 2021. La pandemia ha rallentato il processo, ma «contiamo di averla per l’inizio dell’estate», sottolinea Scalettari, nominato presidente dell’associazione (Gherardo Colombo ne è il presidente onorario).

Nonostante le limitazioni causate dal coronavirus, la raccolta fondi sta raggiungendo ottimi traguardi, e, in particolare un evento alle porte del Natale 2020, «Tra il dire e il mare», ha portato in sole 8 ore di maratona mediatica in diretta facebook ben 189mila euro raccolti grazie a oltre 1.500 donatori e al contributo di 100mila euro annunciato in diretta dall’Unione buddhista italiana.

Nella diretta, che ha raggiunto 150mila persone con 10mila interazioni tra commenti e apprezzamenti sul social network, si sono alternati oltre 80 ospiti, molti dei quali volti noti che hanno pubblicamente aderito a ResQ.

«Vorrei che i principi di ResQ mi rappresentassero per tutta la vita», ha detto Paolo Maldini, ex calciatore e ora direttore tecnico del Milan. «L’accoglienza è la prima cosa. Diamo possibilità di muoversi anche agli animali, perché non agli esseri umani che vivono diseguaglianze che ha creato l’Occidente?», ha domandato Giovanni Storti, attore del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. «Avevamo pensato di mettere in mare personalmente una nave, quando ci hanno invitati a salire a bordo di ResQ lo abbiamo fatto subito. Dobbiamo cancellare l’indifferenza», sono state le parole delle sorelle Paola e Giulia Michelini, attrici della televisione italiana. Ancora, il velista Giovanni Soldini: «L’idea che a pochi chilometri dalle nostre coste succedano simili tragedie è un’idea pazzesca. Buon vento a ResQ».

Non fanno più notizia

È proprio il pensiero rivolto alle persone morte nei naufragi che rende Luciano Scalettari così determinato nel voler portare la nave di ResQ in acqua il prima possibile. «Oggi la necessità è ancora di più che in passato, le navi che operano sono pochissime. Il problema è che sia l’Italia che l’Europa non fanno più nulla per evitare le vittime in mare, addirittura consentono alla Libia di riportarsi indietro i malcapitati che vengono “salvati” dalla Guardia costiera libica. Una volta tornati in Libia, per i migranti ricomincia la discesa all’inferno», conclude Scalettari.

Per il presidente di ResQ, uno dei problemi maggiori di questo periodo è legato anche all’indifferenza che si è insinuata nella società: «Le morti in mare non fanno più notizia», e questo, per Scalettari «non è dettato solo dall’assuefazione, c’è anche una componente di razzismo, ed è un problema molto più serio di qualche anno fa». Un razzismo che le persone in fuga dalla Libia conoscono già molto bene, dato che in quel paese rapimenti e schiavismo sono da anni all’ordine del giorno.

Salvare più vite possibili

In Libia anche le locali istituzioni hanno le loro colpe. Ad esempio, di negligenza, come illustrano le carte di alcune intercettazioni giudiziarie eseguite su giornalisti esperti di tematiche migratorie. Queste intercettazioni, come riportato dal giornalista Lorenzo Tondo sul quotidiano inglese The Guardian, hanno portato alla luce, ad esempio, un episodio nel quale la Guardia costiera libica, dopo aver negato il suo intervento, richiesto dall’omologa italiana, per soccorrere un gommone che aveva lanciato un Sos, rispondendo di non essere in servizio quel giorno, in seguito, si è dimostrata ostile all’azione di salvataggio da parte di una nave umanitaria.

Di fronte a questo scenario, la ResQ è pronta a mollare gli ormeggi e chiede a ogni cittadino di salire a bordo effettuando donazioni. «Persone, gruppi informali, fondazioni, aziende e ogni altro componente della società civile: ci rivolgiamo a tutti e in particolare suggeriamo una donazione continuativa, con una quota mensile che permetta a ResQ di avere le risorse per continuare», spiega Scalettari.

L’obiettivo della raccolta fondi, infatti, non è solo quello di mettere in mare la nave, ma quello di rendere sostenibile il progetto nel tempo tenuto conto che i costi per l’equipaggio, il cibo, il carburante, sono alti.

«Puntiamo a operare in mare almeno per un anno, nella speranza che gli stati abbiano un sussulto di coscienza e ritornino protagonisti dei salvataggi». Una speranza oggi più che flebile, ma che va mantenuta ostinatamente viva. «L’esempio da seguire è dato dalle migliaia di persone che, in tempi difficili di preoccupazioni, dolore e paura causati dalla pandemia, non si dimenticano che c’è chi muore in mare e danno il proprio contributo per salvare più vite possibili».

Daniele Biella




Affogati in un mare di plastica

testo di Rosanna Novara Topino |


La plastica è ormai ovunque: spiagge, fondali marini, stomaco di cetacei e pesci. Tutti i mari della terra sono inquinati da residui plastici. Con conseguenze devastanti.

Tutte le volte che, dopo una forte mareggiata, facciamo una passeggiata sul bagnasciuga di una qualsiasi località di mare dobbiamo evitare di calpestare oggetti (bottiglie, tappi, cannucce, contenitori vari, ecc.) e frammenti di plastica avvolti in resti di alghe. Sono anni che questo capita, ma la situazione ormai sta diventando insostenibile, come dimostrano i ritrovamenti sempre più frequenti di grossi cetacei spiaggiati che, all’autopsia, rivelano grandi quantità di plastica di ogni tipo nello stomaco. È capitato nell’aprile 2019 a Porto Cervo, dove si è arenato un giovane capodoglio femmina di 8 metri, in agonia dopo avere abortito un feto di 2,40 metri. Una volta morto, nello stomaco di questo esemplare sono stati rinvenuti sacchi neri, tubi corrugati, un involucro di detersivo, piatti usa e getta e sacchetti della spesa. La stessa sorte è toccata ad un capodoglio spiaggiato in Indonesia con 6 kg di plastica nello stomaco e ad uno morto per shock gastrico nelle Filippine, che ne aveva ben 40 kg.
Già negli anni ’70, il problema della plastica in mare allarmò gli scienziati, che ne predissero la pericolosità senza peraltro essere ascoltati finché nel 1997, di ritorno in California dalle Hawaii l’oceanografo e skipper Charles J. Moore trovò un’enorme quantità di plastica galleggiante al centro del Nord Pacifico, una vera e propria «isola» di plastica, denominata Great Pacific Garbage Patch. Ben presto ci si rese conto che non era l’unica. La plastica viene infatti trasportata attraverso l’oceano (inteso come insieme di tutti i mari della terra) grazie ai venti e alle correnti marine. Sono state rinvenute alte concentrazioni di detriti di plastica galleggianti nel Nord Atlantico, Sud Atlantico, Nord Pacifico, Sud Pacifico e Oceano Indiano.

Il Mediterraneo: piccolo mare, tanta plastica

A queste cinque zone se ne aggiunge un’altra, in cui la plastica si trova in concentrazione assai elevata, il mare Mediterraneo, anche se in esso non si trovano isole, essendo la plastica più dispersa. Per le sue peculiari caratteristiche geografiche, essendo un mare semichiuso, circondato da tre continenti e interessato da molteplici attività umane, il Mediterraneo, che rappresenta solo l’1% di tutti i mari, contiene una concentrazione di microplastica quasi 4 volte superiore a quella di una delle grandi isole oceaniche, raggiungendo il valore di 1,25 milioni di frammenti di microplastica per km2 mentre si arriva a 10mila frammenti per km2 nei sedimenti. Questa situazione è dovuta al fatto che, nel Mediterraneo, la plastica permane molto a lungo, senza fuoriuscirne e frantumandosi ripetutamente fino a raggiungere dimensioni infinitesimali. La plastica rappresenta circa il 95% di tutti i rifiuti rinvenuti nel Mediterraneo. Ogni anno nei mari europei, in primis proprio nel Mediterraneo, finiscono tra le 150mila e le 500mila tonnellate di macroplastica e tra le 70mila e le 130mila tonnellate di microplastica. Quella del Mediterraneo è il 7% della microplastica globale. I paesi che maggiormente rilasciano plastica nel Mediterraneo sono la Turchia (144 tonnellate/ giorno), la Spagna (126), l’Italia (90), l’Egitto (77) e la Francia (66). La popolazione costiera del Mediterraneo è di circa 150 milioni di persone, che producono tra i 208 e i 760 kg di rifiuti solidi urbani pro capite l’anno. Alla popolazione stanziale vanno aggiunti circa 200 milioni di turisti l’anno, che visitano le coste mediterranee, con un aumento del 40% dell’inquinamento soprattutto nella stagione estiva. Le principali vie fluviali della plastica verso il mare sono rappresentate dai grandi fiumi, che sfociano nel Mediterraneo come il Nilo, l’Ebro, il Rodano, il Po, il Ceyhan e il Seyhan. Oltre al danno ambientale, il notevole inquinamento da plastica nel Mediterraneo colpisce l’economia dei paesi costieri; ne risultano penalizzati soprattutto i settori della pesca e del turismo. Per quanto riguarda la pesca, la plastica provoca una riduzione del numero di catture, danni alle imbarcazioni e alle attrezzature e riduzione della domanda di prodotti ittici da parte dei consumatori, per timore di contaminazioni. In questo settore, l’Unione europea registra, a causa della plastica in mare, una perdita di circa 61,7 milioni di euro l’anno. Riguardo al turismo, spiagge e porti sporchi possono allontanare i turisti, con una ricaduta sui posti di lavoro in questo settore. Per scongiurare che accada tutto ciò, nelle località colpite aumentano i costi per la pulizia degli stabilimenti balneari e delle zone portuali.

© Collin Key

Plastica recuperata, bruciata, spedita

L’elevata presenza di plastica nel Mediterraneo è correlata alla produzione di questo materiale e alla sua dismissione. Dai dati del Wwf, l’Europa risulta il secondo produttore di plastica mondiale, dopo la Cina. Nel 2016 in Europa sono stati prodotti 60 milioni di tonnellate di plastica, di cui 27 milioni si sono trasformati in rifiuti. Solo il 31% dei rifiuti in plastica sono stati riciclati, il 27% è andato in discarica e il rimanente è stato utilizzato per il recupero energetico. In pratica attualmente viene riciclata solo un terzo della plastica prodotta, cioè quella del packaging e questo per motivi tecnici ed economici. Solo le plastiche omogenee, come quelle per gli imballaggi possono essere triturate, lavate, fuse e quindi rigranulate (la manifattura di prodotti plastici parte da granuli e piccole palline di resina dette pellets o nibs, come materia prima), mentre le plastiche miste, tra cui le pellicole per alimenti, finiscono nei termovalorizzatori e nei cementifici oppure in discarica. In quest’ultimo caso si crea un ulteriore problema perché spesso gli imprenditori che gestiscono le discariche, pur di non pagare per lo smaltimento della plastica stoccata, danno fuoco alla discarica (in Italia sono bruciate oltre 100 tra discariche e aziende di riciclaggio negli ultimi due anni) o ne inviano il contenuto in paesi con leggi ambientali poco efficaci a contrastare l’inquinamento, come la Malesia, che si sta trasformando nella nuova «Terra dei fuochi», dove bruciano sia i rifiuti locali che la spazzatura proveniente dall’Occidente. La combustione incontrollata della plastica genera il rilascio nell’ambiente di sottoprodotti altamente tossici per la salute, tra cui le diossine, i furani, i policlorobi-fenili (Pcb) e gli idrocarburi aromatici policiclici.

La plastica italiana

In Europa la produzione della plastica, che per il 90% prende origine da materie fossili, utilizza il 4-6% del totale di petrolio e gas usati in questo continente. Nell’area mediterranea, l’Italia è il maggiore produttore di manufatti in plastica (che rappresentano il 2% della produzione globale) con 8 milioni di tonnellate all’anno e genera 3,9 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica, di cui 0,5 milioni (13%) non vengono raccolti, 2,5 milioni finiscono in discarica o nell’inceneritore e un milione viene riciclato. In Italia si consumano ogni giorno 32 milioni di bottiglie di acqua minerale (in media 178 litri a testa all’anno); in questo abbiamo il primato europeo e siamo tra i primi al mondo. L’Italia rappresenta il secondo maggiore produttore di rifiuti che vengono rilasciati nel Mediterraneo. Per quanto riguarda la raccolta differenziata degli imballaggi in plastica (la sola tipologia di plastica riciclata in Italia), nel nostro paese esiste un forte divario regionale, passando dal 57% di raccolta differenziata nel Nord Est al 27% nel Sud. Il 13% dei rifiuti in plastica non viene raccolto per carenze infrastrutturali di alcuni comuni o regioni. Il ricorso alla discarica è maggiore al Sud (40%), rispetto al Centro (24%) e al Nord (12%). Al contrario, i termovalorizzatori sono più diffusi al Nord con 26 impianti su 37 presenti nel nostro paese.

Esaminando in dettagliato le percentuali della raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani per regione, si nota che in alcune regioni del Sud, come Sicilia, Molise, Calabria e Puglia, i cittadini e le aziende separano meno di 1/3 dei rifiuti, oppure questi non sono gestiti correttamente. Molto probabilmente sono due i problemi che andrebbero risolti in queste regioni: una maggiore informazione dei cittadini e una migliore organizzazione della raccolta differenziata. Andrebbe poi risolto, nelle regioni costiere ad elevato afflusso turistico come Liguria, Sicilia, Lazio e Campania, il problema del sovraccarico stagionale dei rifiuti, che può compromettere il sistema di gestione della raccolta differenziata.

La plastica dispersa

Ciò che non viene raccolto ha un’elevata probabilità di finire prima o poi in mare e l’Italia ogni anno disperde nel Mediterraneo 53mila tonnellate di plastica, di cui il 4% è trasportato dai fiumi (il Po trasporta il 3% del totale e il Tevere l’1%), il 18% deriva da attività in mare come pesca, acquacoltura e navigazione e il 78% deriva dalle attività costiere, da una cattiva gestione dei rifiuti, dal notevole afflusso turistico e da attività ricreative. Tra le città costiere che riversano più rifiuti in plastica ci sono Catania, Venezia, Bari, Roma, Palermo e Napoli.

Una volta dispersa in mare, il 65% della plastica rimane in superficie per circa un anno e può viaggiare per una decina d’anni sospinta dalle correnti e dal vento, ritornando infine sulle coste. Il 24% ritorna già entro un anno sulle nostre coste, che sono ulteriormente gravate di un altro 2% proveniente da altri paesi. I fondali marini contengono circa l’11% della plastica finita nel Mediterraneo, quindi un quantitativo nove volte inferiore a quello delle coste, ma quasi impossibile da rimuovere.

La Situazione italiana

Le coste italiane, essendo le più lunghe ed esposte del Mediterraneo, sono destinate a ricevere maggiori quantitativi di rifiuti, che si aggirano in media in 5,3 kg al giorno per km2. Nelle acque italiane, la concentrazione di plastica galleggiante è tra le più alte che si possano trovare nel Mediterraneo, con oltre 20 g/m3 di frammenti plastici nella zona del delta del Po e nella laguna di Venezia. L’inquinamento da plastica del mare e delle spiagge ha un notevole impatto su diversi settori dell’economia italiana. Si stimano perdite annue sui 30,3 milioni di euro nel settore del turismo.
L’Italia non dovrebbe dimenticarsi che il turismo costiero rappresenta il 12% del Pil nazionale. Sulla pesca si stimano perdite annue di circa 8,7 milioni di euro. Il commercio marittimo subisce delle perdite annue stimate in 28,44 milioni di euro a causa dell’attorcigliamento della plastica nelle eliche dei motori e del suo ingresso nei circuiti di raffreddamento, che si traducono in spese straordinarie di manutenzione, ritardi e inattività delle imbarcazioni. A questi si aggiunge l’aumento dei rischi di collisione. Ci sono poi i costi per le operazioni di pulizia degli impianti portuali, anch’essi a rischio di danneggiamento, che possono comportare il blocco delle vie di accesso e ritardi. La pulizia delle aree costiere, a sua volta, può essere più o meno costosa, a seconda del grado d’inquinamento e si può arrivare fino a 18mila euro per tonnellata di rifiuti per aree gravemente inquinate. Si stima che i costi annui per la pulizia di porti e di litorali in Italia siano di circa 16,6 milioni di euro. A tutto ciò vanno aggiunti i 40 milioni di euro di una sanzione, che è stata comminata all’Italia nel 2014 dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, per il mancato adeguamento di 44 siti adibiti a discarica alle norme di sicurezza della direttiva 99/331/EC. Detto questo, pur con i suoi limiti, l’Italia ha la più grande industria di riciclo di rifiuti di imballaggi di plastica del Mediterraneo e punta a raggiungere un tasso di riciclo del 55% entro il 2030.

Rosanna Novara Topino
(fine prima parte)


Cosa si trova

Spiagge della nostra inciviltà

Gli oggetti in plastica più comunemente rinvenuti sulle nostre spiagge sono piccoli frammenti, tappi, cotton fioc, pezzi di polistirolo, bottiglie, contenitori per alimenti, cannucce e posate. Oltre a questi, sulle nostre spiagge e in acqua si rinvengono spesso mozziconi di sigaretta, che vengono gettati ogni anno nella ragguardevole cifra di 3mila miliardi a livello globale e che rappresentano una notevole fonte d’inquinamento perché, una volta giunti in mare, rilasciano nicotina, catrame e la plastica che li compone, cioè l’acetato di cellulosa, che si disgrega in microplastica. I mozziconi, oltre a rappresentare una fonte di inquinamento, sono anche un grave pericolo per diverse specie di animali marini, che li scambiano per prede.

Pur essendo diversi i tipi di plastica prodotti, il 50% è rappresentato dalle seguenti tre tipologie:

  • polipropilene (PP), utilizzato per costruire cruscotti e paraurti di autoveicoli, tappi delle bottiglie, custodie dei CD, reti antigrandine, bicchierini per il caffè;
  • polietilene a bassa densità (LDPE), usato per sacchi di plastica e sacchetti della spesa, film da imballaggio, giocattoli, coperchi, tubi flessibili, contenitori, rivestimenti di cavi;
  • polietilene ad alta densità (HDPE), usato per cavi delle telecomunicazioni, tubazioni interrate, flaconi, bottiglie del latte, taniche, mobilio in plastica, zanzariere, tappi di bottiglia, fogli di plastica per isolare le discariche.

Per quanto riguarda la tipologia dei manufatti in plastica prodotti in Italia, il 42% è rappresentato dagli imballaggi (che costituiscono l’80% dei rifiuti in plastica, data la loro breve vita media); il 30% è rappresentato da manufatti utilizzati nei settori tessili, della casa, ricreativo e agricolo (che generano il 15% dei rifiuti in plastica); il 21% riguarda i settori di edilizia, costruzioni e trasporti (che generano solo il 2% di rifiuti in plastica, essendo materiali a lunga vita media); il 6% riguarda il settore elettrico/elettronico (che genera il 2% di rifiuti in plastica).

(Rnt)

 

 




Migranti: reportage dalla nave Aquarius

 


Testi e foto di Daniele Biella |


Sommario

L’umanità sulle grandi acque.

«In mare eravamo pronti alla morte».
L’esperienza su una nave di soccorso nel Mediterraneo.

Sos Mediterranée.

Cosa (non) vediamo in Libia.
I Diritti umani violati e l’accordo Italia-Libia.

«Ho visto cose terribili».
La testimonianza di un volontario italiano.

E come li accogliamo.
Da dove e perché.

fake news.

1: 35 euro al giorno.

2: malaria e nozze.

 


L’umanità sulle grandi acque

Daniele Biella è nostro collaboratore da diversi anni. Alla fine della scorsa estate ha avuto l’opportunità di accompagnare il viaggio di una nave della Ong Sos Mediterranée in zona Sar, la zona di ricerca e salvataggio del Mare Mediterraneo ai confini con le acque territoriali libiche. Da quell’esperienza è nato questo Dossier. Un reportage dalle «grandi acque», accompagnato dall’analisi del controverso accordo Italia-Libia, dal racconto di un volontario, testimone della strage in mare del 6 novembre avvenuta con qualche responsabilità della Guardia costiera libica finanziata dall’Italia, da una panoramica sul perché e da dove vengono i migranti e su come li accogliamo, e da qualche spunto sulle fake news che sul tema delle migrazioni trovano terreno fertile.

Luca Lorusso


«In mare eravamo pronti alla morte»

L’esperienza su una nave di soccorso nel Mediterraneo

Ecco, scandito per singoli giorni, il reportage del nostro viaggio sull’Aquarius, a documentare quanto accade oggi nel «Mare Nostrum», da sempre conosciuto per la bellezza delle sue acque ma, negli ultimi anni, sempre più associato alla morte di migliaia di persone che annegano nel tentare la fuga verso una vita migliore.

Siamo partiti da Catania l’8 settembre scorso in 40, siamo tornati a Trapani il 16 in 411. Questo è stato il carico umano della nave Aquarius dell’Ong (organizzazione non governativa) Sos Mediterranée.

Tra i 40 della partenza, 14 erano ufficiali e marinai, 12 membri della squadra di Sos Mediterranée, 10 dell’èquipe medica dell’Ong Medici senza frontiere (Msf) e quattro giornalisti, tra cui il sottoscritto.

Gli altri 371 erano persone migranti provenienti da 16 nazioni diverse, recuperate da gommoni in difficoltà in mare aperto e tolte, quindi, a morte certa. Tutte salvate nella quinta giornata di navigazione, il 14 settembre. È questo – salvare persone – che le navi delle Ong fanno dal 2015, a fianco delle imbarcazioni della Guardia costiera italiana e delle Marine militari di vari stati europei.

L’arruolamento

La chiamata arriva 72 ore prima dell’inizio della missione: «Sei stato selezionato come uno dei quattro giornalisti a bordo della ventisettesima rotazione della nave Aquarius», mi dice un membro dello staff a terra dell’Ong Sos Mediterranée (ci sono diversi gruppi di volontari che prestano servizio sulla nave e si alternano a rotazione, ndr.). Sapevo già che, in caso di chiamata, i tempi sarebbero stati stretti: passaporto alla mano e organizzazione familiare effettuata, parto. Come giornalista impegnato da anni a narrare le migrazioni forzate e i drammi in mare e lungo le altre frontiere, ritenevo l’esperienza diretta su una nave umanitaria un passo fondamentale del mio lavoro.

Una volta tornato sulla terraferma, la mia frase più frequente sarà: «Dovrebbero passare tutti un periodo su una nave come l’Aquarius, per capire come stanno le cose e quindi per raccontarle in modo corretto».

«L’opinione pubblica deve sapere»

Eccomi quindi nella cabina 14 dell’Aquarius assieme a un esperto giornalista della radio pubblica francese, Raphael Krafft. Gli altri due colleghi, anch’essi navigati reporter, sono il fotografo Tony Gentile e il videomaker Antonio Denti, entrambi dell’agenzia Reuters. «Consideratevi parte dell’equipaggio fin da subito: di fronte a un’emergenza, anche voi siete chiamati ad aiutare a salvare vite», ci viene detto da Madeleine Habib, australiana coordinatrice delle attività Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) dell’Aquarius. Sono lei e Marcella Kraay, responsabile dell’èquipe medica di Msf – che opera sulla nave grazie a un contratto con Sos Mediterranée – i punti di riferimento del personale umanitario della missione. «Documentare quello che avviene è importante. Per questo chiediamo ai giornalisti di venire a bordo con noi: l’opinione pubblica deve sapere da fonti dirette il dramma in atto nel Mar Mediterraneo», aggiunge Madeleine.

I primi due giorni

I primi due giorni sulla nave, il 9 e il 10 settembre, passano attraverso una serie di incontri conoscitivi ed esercitazioni: iniziamo, alle 8.15 del mattino, con un incontro collettivo che si ripeterà ogni giorno e che riguarda le informazioni sulla rotta, sulle necessità a bordo, e sugli eventuali salvataggi. Ci viene spiegato quali saranno le fasi del viaggio: il warm up, ovvero le esercitazioni iniziali, lo sprint, cioè il recupero di persone in mare, e la marathon, il ritorno alla terra ferma al porto indicato dalla Guardia costiera italiana (l’Imrcc, Italian maritime rescue coordination centre, il Centro italiano di coordinamento del soccorso marittimo). È l’Imrcc che, dalla propria sede centrale di Roma, coordina le navi in mare, sia le proprie che quelle delle Ong, dell’agenzia europea Frontex e i mercantili di passaggio.

Dopo l’incontro del mattino, andiamo a conoscere il comandante della nave e seguiamoL’esercitazione medica per le situazioni di emergenza, in particolare sul massaggio cardiaco, tenuto da Margherita Colarullo, medico di Msf. Margherita è una dei pochi italiani (mezza dozzina) a bordo in questa rotazione. Gli altri provengono da diversi paesi dell’Europa, ma anche da altri continenti. L’età media è di 30-35 anni.

Ancora, facciamo la simulazione di evacuazione generale, quella di un attacco di pirateria (in cui bisogna recarsi in una zona della nave a chiusura ermetica, chiamata citadel), e si approfondisce la conoscenza della tipologia di persone vulnerabili che potrebbero essere recuperate. Msf ha previsto una serie di braccialetti di diverso colore per segnalare, per esempio, i minori stranieri non accompagnati (Msna), le persone con malattie (che vengono prese in cura già a bordo) e i casi estremamente vulnerabili, come le persone con tutta evidenza vittime di violenze.

La prima notte di navigazione e la giornata successiva non sono facili dal punto di vista fisico: il mare è molto mosso. Dato però che sono tra quelli che non accusano malesseri, ne approfitto per ascoltare le storie e le motivazioni che hanno portato le persone a bordo a passare mesi in mare per salvare vite. «Quando nel 2015 stavano arrivando centinaia di migliaia di persone sull’isola greca di Lesbo dalla Turchia sono andato sulle spiagge ad aiutare. È stata un’esperienza che non dimenticherò mai, mi ha fatto capire quanto ognuno di noi può essere utile per gli altri», mi racconta Iasonas Apostolopoulos, 29 anni, originario della Grecia continentale. «Finita l’emergenza lì, ho capito che potevo ancora dare il mio contributo: ho fatto pratica di soccorso e sicurezza in mare e ho chiesto e ottenuto di imbarcarmi sulle navi delle Ong nel Mediterraneo centrale, fino ad arrivare qui sull’Aquarius». Iasonas ha salvato, con le proprie mani, centinaia di persone issandole a bordo dei rhib, i gommoni di soccorso. Purtroppo ne ha recuperate anche altre senza vita. Nonostante la giovane età di molti, trovo un incrocio di professionalità e umanità che non dimenticherò, e che getta luce utile a fugare tutte le ombre che si sono create nell’estate 2017 sull’operato delle Ong in mare.

Terzo e quarto giorno: l’arrivo in zona Sar

Quando il maltempo si placa, l’acqua diventa placida. «Bisogna stare all’erta, perché con il mare calmo i trafficanti fanno partire i gommoni», spiega Max Avis, uno dei soccorritori più esperti a bordo, 29enne come Iasonas, nato in Inghilterra ma vissuto soprattutto in California. È lui il punto di riferimento delle operazioni di salvataggio, ovvero la prima persona che, con un mediatore culturale al seguito, parla con le persone migranti quando un barcone in pericolo viene avvistato e raggiunto dai rhib. Max cerca di infondere tranquillità nei migranti e distribuisce giubbotti di salvataggio prima di issarli a bordo.

Una volta arrivati nella zona Sar, ovvero in quella parte di Mediterraneo che arriva fino a 12 miglia di distanza dalle coste libiche in cui si fa l’attività di ricerca e soccorso, nel pomeriggio della terza giornata simuliamo un salvataggio.

Sono per me momenti molto intensi, anche perché Sos Mediterranée dà l’opportunità ai giornalisti di salire a bordo dei gommoni di soccorso e quindi di vivere in prima persona le manovre di contatto con l’imbarcazione in pericolo. Per la simulazione issiamo sul gommone dei manichini. Più tardi dovremo issare persone.

Mi fa impressione rendermi conto che tutto questo succeda veramente nel 2017, in un mare splendido in cui avvistiamo gruppi di delfini giocare con le onde create dalla nave.

Nel solo 2016, l’anno peggiore di sempre, sono state ben 5.096 le vittime nel Mediterraneo, e 3.081 all’11 dicembre 2017 in cui sono diminuite le partenze per effetto di accordi critici come quelli tra Unione europea e Turchia o tra Italia e Libia. Rispetto all’anno precedente, nel 2017 è aumentata la probabilità di non farcela: a morire oggi, tra quelli che tentano la traversata, è una persona ogni 42, mentre nell’annus horribilis 2016 si era al rapporto di uno ogni 51.

Durante le esercitazioni, pensare alle migliaia di persone abbandonate in acqua dai trafficanti è disarmante. Si è da soli in quel mare così grande, in balia delle onde, con un’alta probabilità di non rivedere mai più la terra.

La prima chiamata

Una volta entrati nella zona di possibili segnalazioni di imbarcazioni in pericolo, gli operatori della squadra Sar si alternano nei turni al ponte di comando, usando anche il binocolo, a fianco degli uomini dell’equipaggio.

La mattina del quarto giorno, mercoledì 13 settembre, arriva in effetti la prima chiamata del Imrcc di Roma per soccorrere un’imbarcazione nel mare a Ovest di Tripoli. Noi siamo a Est, per indicazione della stessa Guardia costiera italiana, quindi il luogo del soccorso è molto lontano dall’Aquarius: ci vorranno almeno 7-8 ore per arrivare. Per fortuna, dopo meno di tre ore, Imrcc richiama dicendo all’Aquarius che una nave militare tedesca è riuscita a fare il salvataggio e che non ci sono vittime. La giornata si conclude quindi con un sollievo generale, affiancato alla preoccupazione per l’indomani.

Quinto giorno: i salvataggi

E infatti, giovedì 14 settembre inizia con un rumore di elicottero sopra le nostre teste: è un mezzo militare del dispositivo europeo «Operazione Sophia» che pattuglia l’area contigua alla Libia. La chiamata all’Aquarius questa volta arriva a sorpresa dalla Guardia costiera libica per segnalare un gommone in avaria che loro non riescono a recuperare, a 25 miglia dalla costa. Una lancia con quattro militari libici arriva rapidamente fin sotto alla nostra nave. Temendo intimidazioni da parte loro, come è successo di recente verso alcune Ong (con tanto di spari in aria), la coordinatrice Sar chiede a tutti noi di andare in coperta. L’apprensione, però, si stempera quasi subito. I libici chiedono all’Aquarius di farsi carico del recupero. Successivamente, durante il salvataggio, rimangono a fianco dei due gommoni di Sos Mediterranée, collaborando in parte alle operazioni. Nel giro di tre ore, prima che l’acqua faccia affondare l’imbarcazione malridotta, iniziando da donne, bambini e casi medici problematici (per fortuna nessuno grave), 20 persone alla volta, i 142 occupanti del gommone vengono trasferiti dai soccorritori dell’Ong sulla Aquarius. Poco dopo, la Guardia costiera libica smonta il motore e brucia il mezzo, poi torna verso le proprie coste.

Un giovanissimo migrante subsahariano, appena salito sull’Aquarius, racconta: «I libici ci avevano intercettato e intimato di tornare indietro, ma il motore si è rotto in quel momento e quindi il vostro salvataggio è stato per noi un miracolo, altrimenti ora saremmo morti o di ritorno nelle prigioni libiche». Sono evidenti i segni delle torture sui loro corpi, così come la spossatezza delle donne, alcune delle quali in seguito testimonieranno alle operatrici di Msf gli abusi subìti nei centri di detenzione.

Subito donne e bambini sono condotti nello shelter, «rifugio», zona della nave al chiuso, mentre gli uomini rimangono sui vari ponti all’esterno, dove passeranno la notte. A tutti viene consegnato un kit comprendente una tuta, una coperta, un integratore energetico e una salvietta.

Poco dopo aver concluso il salvataggio, arriva un’altra chiamata, ancora dalla Guardia costiera libica, per altre 120 persone in difficoltà in mare aperto. Questa volta non c’è un’imbarcazione libica ad accompagnare l’Aquarius, quindi, date le maggiori condizioni di sicurezza, a noi giornalisti viene concesso di salire sui rhib.

Fortunatamente il gommone è in buone condizioni e nessuno è caduto in mare.

Basta Libia!

«No more Lybia», basta Libia, gridano in molti. Via dall’inferno dove hanno vissuto gli ultimi mesi. Verso una vita di sicuro non facile, ma migliore di quella che hanno lasciato alle spalle.

Nel tardo pomeriggio, alla fine dei due salvataggi, le persone recuperate sono 262: il più piccolo ha una sola settimana di vita ed è con i genitori, il più anziano ha 56 anni.

Ma non è ancora finita: a notte inoltrata, questa volta su indicazione di Imrcc, sono trasferiti da noi, dalla nave dell’Ong Save the children, la Vos Hestia, altri 109 migranti recuperati in un’altra zona delle acque internazionali. Arriviamo al totale di 371 persone, di 16 nazioni diverse, tra cui 54 minori non accompagnati.

«Ora fate rotta verso l’Italia, domani vi diremo il porto di sbarco», è l’indicazione della Guardia costiera italiana.

Sull’Aquarius si fa evidente la stanchezza di una giornata pazzesca, e tutti si addormentano, mentre la squadra di Sos Mediterranée rimane sveglio a turni per controllare la situazione generale.

Il ritorno verso l’Italia e lo sbarco

Il giorno dopo i salvataggi è un giorno fondamentale. Le persone, per la prima volta dopo mesi, se non anni, in cui sono state alla mercé di predoni del deserto, sfruttatori e trafficanti di ogni specie, finalmente hanno qualcuno di cui fidarsi: la sensazione è immediata, e molti si aprono sia con il team medico di Msf, sia con noi giornalisti.

Raccontano storie di speranza e di orrore, di quanto hanno subito in Libia e in altri luoghi dove l’umanità sembra essere stata dimenticata.

«Sono stato venduto cinque volte, mi trattavano come un oggetto, non una persona», mi dice un ragazzo 17enne proveniente dal Gambia. Poco lontano, un ragazzo non riesce a camminare bene per le conseguenze di colpi d’accetta ricevuti sui piedi.

Una donna piange disperata mentre guarda i bambini sani e salvi a bordo: non sono i suoi. I suoi li ha persi in un naufragio a luglio, prima di essere respinta dalla Guardia costiera libica. Erano tre, avevano 1, 3 e 5 anni.

Ci sono anche famiglie intere, scappate dai rapimenti sempre più frequenti a Tripoli, capitale della Libia, e ci sono famiglie siriane che hanno sperato fino all’ultimo che la guerra iniziata nel 2011 terminasse, ma alla fine hanno lasciato tutto per partire. Loro hanno pagato di più per il viaggio, attorno ai mille dollari a testa, e in cambio hanno ricevuto un «trattamento» migliore, senza violenze.

Gran parte delle persone dell’Africa subsahariana, con meno soldi a disposizione, hanno subito vessazioni quotidiane dai carcerieri, comprese le telefonate ai parenti per spillare loro soldi da inviare via money transfer.

Tutto il male del recente passato, però, scompare temporaneamente sulla nave che li ha salvati: partono i canti, i balli, prima sommessi, poi di festa collettiva. Sono momenti indimenticabili, di liberazione.

«Non sappiamo domani dove verremo mandati, ma l’importante è avercela fatta». «È come una rinascita, perché in mare eravamo pronti alla morte. Meglio infatti morire di speranza che rimanere in mezzo alle violenze libiche», sono alcune delle voci che raccolgo.

Intanto, i bambini giocano sia nella zona riservata a loro e alle donne, sia sul ponte della nave, e l’atmosfera è tranquilla. Non ci sono situazioni mediche gravi e, soprattutto, i tre salvataggi sono stati completi, senza nessuna salma da riportare a terra, come invece avviene in molti altri casi.

Io passo la giornata e quasi tutta la notte successiva a dialogare e ascoltare testimonianze, e ad aiutare gli operatori delle Ong: è talmente evidente la necessità di darsi da fare che non si può stare a guardare.

Terra (europea) in vista

Alla mattina dell’ultimo giorno di viaggio, ecco la terra: Sicilia, Italia, Europa. A colazione il texano Jay Berger, logista di Msf, spiega a tutto l’equipaggio come avverrà l’operazione di sbarco. Arriviamo a Trapani, dove in un paio d’ore tutte le 371 persone salvate in mare vengono fatte sbarcare. Portate nei presidi del ministero dell’Interno e delle Ong per i primi accertamenti, ricevono ulteriori visite mediche dopo quelle sulla Aquarius.

Scendiamo anche noi quattro giornalisti lasciando il posto ad altri colleghi che ci danno il cambio. La Aquarius ripartirà poche ore dopo, di nuovo verso la zona Sar, dove le navi di salvataggio in questo periodo sono poche, nonostante le partenze dalla Libia continuino.

È il momento dei saluti sia con lo staff che con i migranti, ed è emozionante, perché tutte queste persone, con cui ora ho stabilito un contatto, hanno davanti a loro un futuro nuovo, di certo difficile, ma almeno più sicuro. Persone, ognuna diversa dalle altre, «non numeri, ma volti e storie», come dice papa Francesco. È proprio così: donne e uomini come noi. Potremmo essere noi al loro posto se fossimo nati dalla parte sbagliata del mondo.

Daniele Biella

Sos Mediterranée

L’Ong italo-franco-tedesca Sos Mediterranée nasce nel 2015 in Germania e va nel mar Mediterraneo con la nave Aquarius (che prima era un’imbarcazione della Guardia costiera tedesca) nel febbraio 2016. Da allora fino allo sbarco dell’11 dicembre 2017, l’Aquarius, lunga 77 metri, ha salvato 25.646 persone: 11.261 nel 2016, 14.385 nel 2017. Ben oltre 25 le nazionalità di provenienza delle persone, sia dall’Africa che dal Medio Oriente.

Sito web: www.sosmediterranee.org


Cosa (non) vediamo in Libia

I Diritti umani violati e l’accordo Italia-Libia

Lo sappiamo da tempo: in Libia i migranti subiscono brutali forme di violazione dei loro diritti. Nonostante questo, l’Italia ha fatto un accordo con Al-Sarraj che mira a scoraggiarne la partenza. Così sono diminuite le partenze e i morti in mare, ma di fatto sono peggiorate le condizioni delle persone sulla terra ferma.

Quello che sta accadendo nel mar Mediterraneo e sulle coste libiche non si può più tacere. Ci sono filmati e testimonianze che ora pesano come macigni sulla Comunità internazionale, e sull’Europa in primis. Racconti che arrivano all’attenzione dell’opinione pubblica grazie al coraggioso lavoro di giornalisti disposti a rischi personali in nome della verità dei fatti, grazie alle stesse persone migranti che fanno conoscere la loro storia nonostante il rischio di ritorsioni, e grazie alla presenza in mare di soccorritori che partono con un preciso scopo: salvare vite umane.

Migliaia, se non decine di migliaia di esseri umani, prima di venire obbligati a partire affidandosi alla roulette russa del mare, sono vittime per mesi di violenza da parte di carcerieri e trafficanti.

Succede da anni, ma solo dall’autunno del 2017 se ne parla apertamente, dopo la strage del 6 novembre (almeno 52 morti causati dal comportamento scorretto delle autorità libiche, si veda box) e altri fatti angoscianti come quelli mostrati dal video della Cnn in cui si assiste a una compravendita di giovani dell’Africa subsahariana. Un vero e proprio commercio di «schiavi» in terra libica. Il 27 novembre, poi, hanno destato ulteriore indignazione le immagini di decine di bambini denutriti e coperti di piaghe recuperati dalla nave Aquarius dell’Ong Sos Mediterranée su indicazione del Imrcc di Roma. Sul peschereccio dal quale sono stati prelevati c’erano 421 anime. Prima di lasciare la terra ferma erano stati chiusi per mesi in condizioni più che disumane in prigioni illegali gestite dai trafficanti.

Un accordo

La Libia, che non ha firmato la Dichiarazione Onu sui diritti umani, è considerata uno dei luoghi più pericolosi al mondo. Per questo sta sollevando una forte discussione il fatto che, prima con un Memorandum del febbraio 2017, poi con un vero e proprio accordo nell’estate, il governo italiano abbia stretto un patto con quella parte della Libia governata dal premier Al Sarraj. L’Italia, in cambio del controllo delle partenze dei migranti, garantisce navi e formazione alla Guardia costiera del paese nordafricano, in particolare della città di Zawiya e, a detta degli stessi libici, un apporto economico (rimasto imprecisato).

Il problema è duplice: da una parte il «controllore» potrebbe benissimo essere anche il «controllato» (il miliziano trafficante che cambia casacca e diventa membro della Guardia costiera libica, come denunciato dal giornalista Rai Amedeo Ricucci); dall’altra in quelle zone si continua a combattere e nuove milizie si impossessano dei territori di altre, come avvenuto a settembre, quando quelle riconosciute da Al Sarraj sono state sconfitte da altre vicine al rivale, il generale Haftar che controlla gran parte della Cirenaica. La conseguenza è il caos totale per le persone migranti rinchiuse nei centri di detenzione in attesa di partire per l’Italia (più che di un improbabile rimpatrio): esse si trovano in balia degli eventi, esposte a un fuoco incrociato di libici contro libici e al rischio di essere di nuovo rapite o vendute e, ovviamente, trattate senza alcun rispetto dei diritti umani.

L’Unhcr, l’alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, può entrare a visitare i campi di detenzione «ufficiali» solo con permesso delle autorità libiche. Quando lo fa, di solito trova situazioni ripulite per l’occasione, ma appena i detenuti riescono a parlare, raccontano di soprusi e compravendite di persone che avvengono anche lì, nei centri più controllati. La partenza per il mare è una liberazione, ma, da quando sono in atto i respingimenti, l’incubo è destinato a continuare, perché in caso di intercettazione da parte della Guardia costiera libica si è costretti a tornare. Questo, il ministro dell’Interno italiano Marco Minniti, promotore dell’accordo con la Libia, lo sa, ma la sua linea è quella di fare qualcosa in ogni caso per fermare gli arrivi in Italia. Per questo dopo il naufragio del 6 novembre 2017, nonostante l’appello del volontario di Sea-Watch Gennaro Giudetti, che ha visto da vicino la violenza delle autorità libiche, nonostante il video della Cnn e le prove delle torture subite dalle persone migranti in Libia, non ha cambiato la linea governativa rivendicando «la lotta ai trafficanti» e «la diminuzione del numero degli sbarchi».

Lo stesso ministro Minniti ha creato nel luglio 2017 un Codice di condotta per le Ong sull’onda del clamore di una campagna mediatica di attacco alle stesse organizzazioni, sospettate di essere d’accordo con i trafficanti, nonostante in un anno di accuse da parte di blogger, media e politici schierati con la «criminalizzazione della solidarietà», nessun fatto concreto sia mai stato accertato. Al momento una sola Ong, la tedesca Jugend Rettet, pur vedendosi riconosciuti i suoi fini umanitari, è stata indagata dalla Procura di Trapani per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Quasi tutte le organizzazioni non governative hanno firmato il Codice di condotta accordandosi con il ministero. Molte poi si sono rifiutate di tornare nelle acque internazionali, ma più per l’atteggiamento aggressivo della Guardia costiera libica che per le regole del Codice, che di fatto sono le stesse già in vigore in mare e già osservate anche dalla stessa Guardia costiera italiana. È l’atteggiamento libico il vero problema: da esso dipende se un salvataggio va a buon fine o se centinaia di persone trovano la morte. Una situazione inaccettabile.

Daniele Biella


«Ho visto cose terribili»

La testimonianza di un volontario italiano

Il 6 novembre 2017 c’è stata l’ennesima strage in mare. Almeno 52 morti, anche a causa del comportamento della Guardia costiera libica. Ce ne parla un testimone oculare.

Gennaro Giudetti ha 27 anni, è originario di Taranto e negli ultimi sette anni ha vissuto un anno in Albania con i Caschi bianchi in Servizio civile all’estero, poi come volontario in Kenya, nei Territori Palestinesi e in Libano per il corpo di pace Operazione Colomba dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII.

A maggio 2017 e a novembre si è imbarcato con l’Ong Sea Watch per partecipare, come mediatore culturale, alle operazioni di salvataggio e soccorso nel Mediterraneo, durante le quali ha dovuto personalmente trarre in salvo dall’acqua decine di persone, donne e bambini compresi.

Il 6 novembre 2017 è stato testimone di un naufragio che ha causato la morte di decine di persone. Sono state chiare fin da subito le responsabilità del personale della Guardia costiera libica presente sullo scenario. Giudetti è stato il primo a denunciare tutto questo, chiedendo in un appello su Vita.it di incontrare il ministro dell’Interno Marco Minniti e i membri del Parlamento europeo. Ecco il suo racconto di quei momenti drammatici, ripreso da giornalisti e politici di tutto il mondo, compresa la presidente della Camera Laura Boldrini, ex portavoce di Unhcr, Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati.

«Ciò che ho visto con i miei occhi»

«Non appena sono tornato a terra, dopo il naufragio del 6 novembre, ho deciso di raccontare a tutti quelli che vorranno ascoltare ciò che ho visto con i miei occhi.

Insieme ad altri volontari dell’Ong Sea Watch abbiamo tirato fuori dall’acqua, uno a uno, a braccia, 58 persone, salvandole dalla morte.

Di fronte a noi, la Guardia costiera libica ha agito in modo disumano, lasciando decine di uomini e donne in mare ad annegare, senza lanciare salvagenti e picchiando chi non voleva essere preso da loro per non tornare in Libia e voleva, invece, venire sulla nostra nave, dove vedeva al sicuro i fratelli, le mogli, i padri. È stato straziante vivere tutto questo.

Quel giorno eravamo a 30 miglia marine dalla Libia, in piene acque internazionali. L’Imrcc di Roma, la Centrale di comando della Guardia costiera, ci ha contattato per effettuare il salvataggio di un gommone in difficoltà, aggiungendo che sullo scenario avremmo trovato anche una nave della Marina francese con cui collaborare. Quando siamo arrivati sul punto indicato, però, abbiamo capito fin da subito che era già in corso un dramma».

Abbiamo dovuto farci largo tra i corpi

«Prima di noi e dei francesi era arrivata una nave della Guardia costiera libica, che aveva agganciato il gommone dei migranti. Il natante era bucato e c’erano decine di persone in mare. Alcuni indossavano il salvagente, molti altri non avevano nulla.

Dalla nave della Sea Watch 3 abbiamo lanciato i due gommoni di salvataggio. Io ero su uno di questi con altri tre componenti dell’equipaggio.

Abbiamo dovuto farci largo tra corpi di persone che erano già annegate per riuscire a raggiungere e cercare di recuperare quelli che invece erano ancora in vita. Abbiamo tirato a bordo i superstiti con le braccia. Dopo un po’ facevano talmente male che mi si stavano per bloccare. C’erano naufraghi che si attaccavano al mio collo mentre salvavo altri. Sono stati istanti tanto tragici quanto rischiosi.

A un certo punto ho visto un bambino che galleggiava davanti a me, apparentemente senza vita. Avrà avuto 3 o 4 anni. L’ho tirato su nel gommone con le mie mani, sperando in un miracolo. L’abbiamo riportato sulla nave e abbiamo provato a effettuare la rianimazione, ma purtroppo non c’è stato nulla da fare».

La Guardia costiera libica

«I militari libici sembravano non interessarsi delle persone che erano più lontane da loro. C’erano intorno alcuni corpi senza vita. Loro hanno lanciato delle corde alle quali le persone ancora in acqua si aggrappavano per salvarsi. Ma molti, sapendo che con la Guardia costiera libica sarebbero ritornati in Libia – dove oramai sono documentate le tante violenze commesse -, hanno iniziato a nuotare verso di noi non appena ci hanno visto. I libici all’inizio sembravano collaborativi, non ostacolavano chi si dirigeva verso di noi. Poi, però, hanno iniziato a fare un gesto folle: ci hanno lanciato addosso delle patate, mentre ci urlavano di andarcene. Nello stesso tempo si rendevano protagonisti di brutalità sulla loro nave: prendevano a frustate e bastonate chi era già a bordo ma cercava di alzarsi e ributtarsi in mare per venire da noi.

Nonostante ciò, tante persone continuavano a provare a sfuggire alla Guardia costiera libica, anche perché alcuni dei loro parenti erano già in salvo sui nostri gommoni e vedersi separati aumentava la loro disperazione. Improvvisamente, i libici hanno deciso di andarsene, a tutta velocità e senza una chiara motivazione.

Un elicottero militare italiano, presente sulla scena, si è abbassato di colpo, costringendoli a rallentare almeno per un attimo. La loro fuga ha aggravato il dramma già in corso. Molte persone, infatti, erano ancora in mare, attaccate alle corde e la motovedetta in movimento li ha messi in estremo pericolo.

Ho assistito a una scena orribile: un marito che si è aggrappato a una corda per scendere dopo avere sentito la moglie che lo chiamava dal nostro gommone, ma non sapendo nuotare aveva paura di lanciarsi in acqua. Proprio in quel momento la nave libica è partita e lui è rimasto appeso. Chissà cosa ne è stato di lui: noi non l’abbiamo potuto recuperare e non sappiamo se sia vivo o morto. Lascio immaginare quanto sia disperata ora sua moglie, così come la mamma del bimbo che ho visto annegare davanti ai miei occhi. Nelle ore successive al salvataggio ho passato molto tempo a cercare di consolarla, anche se è impossibile pensare di alleviare un trauma simile».

Fermare l’accordo con la Libia

«Come italiano ed europeo chiedo scusa alle persone la cui unica colpa è essere nati nella parte sbagliata del mondo. Queste donne, questi uomini, questi bambini, non sono solo numeri: sono esseri umani, con un nome, una faccia, e vorrei che tutto il mondo venisse sulle barche nel Mediterraneo per capire davvero come stanno le cose. Mi amareggia pensare che c’è chi liquida quanto accade con frasi come “c’è un’invasione che va fermata”. Credo che di fronte a questa tragedia dovremmo ascoltare la nostra coscienza.

E mi preoccupa l’accordo che il governo italiano ha fatto con la Libia e il modo in cui vengono utilizzate le navi donate alla Guardia costiera libica. Credo che si debba fermare o modificare immediatamente l’accordo con la Libia. Ora più che mai, nessuno può dire “chissà cosa succede veramente?”. Io c’ero, ho visto, ed è tutto vero. E quello che sta succedendo non deve succedere mai più».

Testimonianza di Gennaro Giudetti, raccolta da Daniele Biella


E come li accogliamo

Da dove e perché.

Vengono via da regimi oppressivi, da zone di conflitto, dai gruppi jihadisti. O anche «solo» da una condizione di povertà e di assenza di prospettive. L’Unione europea fatica a prendersi carico della loro sorte. L’Italia affronta la situazione nel tentativo di uscire dalla condizione di emergenza.

Da dove vengono e dove vanno le persone che migrano verso l’Europa? C’è la rotta libica, quella su cui ci concentriamo qui, ma non dimentichiamoci della rotta balcanica, diretta in particolare verso il Nord Europa, con passaggi anche a Est dell’Italia, vedi Trieste e Gorizia: migliaia di persone, bambini compresi, che puntano all’asilo politico venendo da nazioni come Siria, Afghanistan, Pakistan e Iraq e che oggi sono in gran parte bloccati in campi di accoglienza sulle isole o sulla terraferma greca o, in condizioni peggiori, ai confini dell’Est Europa. Una delle ultime vittime, lo scorso 23 novembre 2017, una bambina afgana di 6 anni investita da un treno merci al confine tra Croazia e Serbia: era stata appena respinta dalla polizia croata assieme alla propria famiglia.

La Libia è un collo di bottiglia

Per quanto riguarda la rotta libica, stiamo parlando di quello che viene spesso paragonato a un «collo di bottiglia», ovvero un luogo in cui le persone vengono assembrate dai trafficanti prima della partenza obbligata verso l’Europa. Molti, provenienti dall’Africa Subsahariana, non puntano al vecchio Continente, ma piuttosto alla Libia stessa come luogo di lavoro. Una volta giunti in Libia, però, si rendono conto che la scelta è sbagliata, anche per le atroci violazioni dei diritti umani che finiscono per subire e, non essendoci una rotta di ritorno, l’unica via d’uscita è la traversata del Mediterraneo. Verso la Libia convergono rotte migratorie sia dal Corno d’Africa (dall’Eritrea in particolare, dove c’è una decennale dittatura, ma anche dalla Somalia dove terrorismo e violenze sono pericoli quotidiani), sia da paesi in guerra come il Sud Sudan o il Congo, sia da altri paesi alle prese con diverse forme di terrorismo (si veda Boko Haram in alcune zone della Nigeria o gruppi jihadisti in Mali), persecuzioni governative o anche situazioni di dissesto climatico e povertà diffusa. Tutti motivi che spingono migliaia di persone, soprattutto giovani, a partire: i figli maggiori sono quelli su cui una famiglia punta, spesso indebitandosi. Quando il ragazzo arriverà alla meta, potrà iniziare a inviare denaro.

Ma non è solo in Libia il pericolo: ogni passaggio è rischioso, perché trafficanti e criminali comuni stabiliscono rotte ben precise e se non hai i soldi per percorrerle vieni lasciato indietro. Nel deserto del Sahara questo significa morte certa di stenti o a mano armata. Se superi deserto, Libia e mare, alla fine l’Europa la trovi.

In Italia, le maggiori nazionalità di arrivo nel 2017 sono state: Nigeria, Guinea Conakry, Costa d’Avorio, Bangladesh, Mali ed Eritrea (vedi tabella).

Il Regolamento di Dublino

Per il Regolamento di Dublino, in atto nell’Unione europea dal 1990 con una serie di modifiche successive non sostanziali, il primo paese d’approdo in Europa è quello in cui una persona deve chiedere asilo politico. Molti però non vogliono, perché hanno parenti o conoscenti altrove, e provano a passare illegalmente le frontiere di terra, per esempio tra Italia e Francia, Svizzera e Austria. Il risultato sono altre morti, come le cronache locali purtroppo riportano tra Ventimiglia, Como e Brennero.

A metà novembre 2017, dopo anni di lavori, finalmente il Parlamento europeo ha varato una riforma del Regolamento che supera il blocco del primo paese d’approdo, prevedendo l’invio della persona dal centro di prima accoglienza in nazioni diverse attraverso il sistema delle quote: ma tale riforma va approvata anche dal Consiglio europeo, composto dai capi di stato e di governo dei singoli membri Ue, che oggi su questo argomento ha posizioni molto rigide di avversione. I più contrari sono soprattutto i paesi dell’Est Europa, appartenenti al cosiddetto «Gruppo di Visegrad».

La prima accoglienza

In attesa di questo cambiamento, fortemente voluto dalla società civile italiana ed europea, il sistema di accoglienza prevede due fasi: la prima attraverso il meccanismo degli hotspot, e la seconda attraverso strutture dove le persone rimangono il tempo necessario a vagliare la loro domanda di asilo (protezione internazionale).

Gli hotspot sono luoghi in cui le persone vengono trattenute appena sbarcate, in attesa di ricevere la loro richiesta d’asilo. Ce ne sono una decina
distribuiti tra le isole greche e l’Italia, con situazioni diverse tra loro. In Grecia, infatti, in conseguenza dell’accordo tra Ue e Turchia del marzo 2016, migliaia di persone, bambini compresi, sono trattenute per mesi in attesa di una risposta sul loro ricollocamento. La situazione è particolarmente esplosiva sull’isola di Lesbo: nell’hotspot di Moria a dicembre 2017 erano presenti almeno 6mila persone, a fronte di una capienza di 2.500, molti in tende nonostante il freddo. Accade spesso che le persone migranti vengano addirittura rimandate in Turchia, considerato dall’Europa un «terzo stato sicuro» dove le persone non rischiano la vita. L’Europa però non prende in considerazione le dure condizioni dei campi profughi turchi in cui vivono in milioni, soprattutto siriani.

Gli hotspot italiani, invece, oggi funzionano meglio e le persone che ne hanno diritto – ovvero che hanno possibilità di chiedere asilo e non provengono da quegli stati con cui l’Italia ha accordi bilaterali di rimpatrio, come Marocco o Tunisia – vengono smistate nei centri di seconda accoglienza lungo la penisola e in quota residuale all’estero (le cose cambieranno, appunto, se il Regolamento di Dublino verrà modificato).

La seconda accoglienza

Le strutture di seconda accoglienza in Italia si basano su quote regionali e sono di due modelli: il Cas e lo Sprar. Il referente del ministero dell’Interno per i Cas (Centri di accoglienza straordinaria) è la Prefettura territoriale. Questa, con un bando, assegna un numero di persone in accoglienza a enti gestori che possono essere profit e non profit, in cambio di 35 euro per ospite. Di questi 35 euro al singolo ospite ne vanno 2,5, il resto è utilizzato dal gestore che deve spenderlo per i servizi previsti dal bando, altrimenti può essere denunciato per lucro. Le persone vengono alloggiate in strutture dell’ente stesso o che quest’ultimo affitta da privati.

Il secondo modello è quello dello Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati): un’accoglienza gestita direttamente tra Ministero dell’Interno e Comune. Quest’ultimo riceve incentivi e, soprattutto, grazie alla «clausola di salvaguardia» emanata dal ministero nel 2016, può evitare Cas sul proprio territorio se completa la propria quota Sprar che è attorno ai tre richiedenti asilo accolti ogni mille abitanti.

Molti studi affermano come sia opportuno il passaggio graduale dal sistema Cas (chiamato anche «emergenziale») a quello Sprar («strutturale»). Oggi i dati, seppure indichino un ampliamento del sistema Sprar, parlano ancora di una forte presenza di richiedenti asilo nei Cas, a volte in sovrannumero rispetto al territorio in cui sono ospitati, con conseguente disagio sia per la popolazione locale che per i migranti stessi che trovano difficoltà di conoscenza reciproca. A fine 2016, a fronte di 170mila in accoglienza Cas, erano 34mila in Sprar (fonte Anci).

Il Piano nazionale d’integrazione

Dopo anni di tentennamenti, da qualche tempo anche il governo promuove la diffusione generale del modello Sprar e ha emanato a settembre il primo Piano nazionale d’integrazione: l’integrazione è la vera sfida da vincere al di là dell’accoglienza, per la quale, a parte evidenti casi di malaffare, l’Italia si distingue in positivo rispetto ad altri paesi europei.

Lo stato deve promuovere azioni sistematiche, non sperare solo nella buona volontà del singolo tessuto sociale. Altrimenti, in un momento in cui l’opinione pubblica è molto divisa sul tema dell’accoglienza anche per causa di un’informazione fatta male sia a livello di mass media che istituzionale, il rischio è quello di dividere la società su un tema che invece andrebbe affrontato in modo unitario, chiedendo conto all’Europa di una redistribuzione complessiva degli ospiti che oggi non avviene.

Daniele Biella


Fake news

1: 35 euro al giorno

«Solo il 5% dei richiedenti asilo in Italia è rifugiato». «Si prendono 35 euro al giorno». Benvenuti nel mondo delle notizie false, propaganda o fake news anti-migranti: un mondo pericoloso dove le paure vengono amplificate e le persone portate alla diffidenza estrema sia da politici senza scrupoli che da quegli stessi mass media che dovrebbero invece portare più chiarezza. Smascherarle è un lavoro lungo ma necessario (in inglese si chiama debunking, mentre la verifica dei fatti narrati fact-checking), anche se spesso le smentite, soprattutto nel mondo dei social network, non raggiungono  nemmeno la metà della portata di un articolo falso sparato in prima pagina e condiviso da migliaia di utenti.

In Italia, rispetto alla media dell’Europa, è alto il numero degli «analfabeti funzionali», ovvero delle persone che leggono frasi ma ne travisano il significato. Ma il dato che spaventa di più, in questo caso tutta l’Europa, raccolto dalla Stanford University, riguarda l’incapacità della maggior parte degli adolescenti – con punte dell’80% – di riconoscere una notizia tendenziosa o una pubblicità, nemmeno di fronte a prove evidenti, come il logo di un sito o di un prodotto. Il messaggio viene recepito come notizia vera e quindi assimilata.

«La credibilità delle notizie è il tema centrale di questi anni», conferma Stefano Pasta, giornalista e membro dell’Associazione Carta di Roma che porta il nome del documento firmato nel 2008 da Ordine dei giornalisti e Fnsi, il sindacato di categoria, proprio per «rispettare la verità sostanziale dei fatti osservati». Se uno studente «non riesce a riconoscere la palese falsità di una notizia è un problema che le agenzie educative devono affrontare aumentando con urgenza il loro senso critico», osserva Pasta. L’associazione Factcheckers, in questo senso, ha messo online gratuitamente un’efficace «Guida galattica per esploratori di notizie» (factcheckers.it/guida).

«L’altro fenomeno preoccupante da arginare e poi scardinare è la diffusione delle post-verità», riprende il referente di Carta di Roma. «Di fronte a una supposta notizia che ci sconvolge, facciamo prevalere il nostro stato emozionale sulla realtà dei fatti: i nostri sentimenti rendono vero quello che non lo è e la nostra interpretazione del mondo è falsata. È successo così, per esempio, con il tema delle allusioni alla collaborazione tra Ong in mare e trafficanti: nessun fatto concreto, ma notizie a cui molti hanno creduto perché spinti da sentimenti di paura e rifiuto, stimolati e orientati da persone abili a manipolare le coscienze». Come bloccare l’insinuarsi della post-verità? «Osservare a fondo la realtà, trovare fonti diverse che confermino o meno una notizia che ci salta all’occhio», continua Pasta. «E allargare i propri orizzonti: quanti di noi sanno, per esempio, che meno del 10 per cento dei profughi nel mondo viene verso l‘Europa?». Infatti i dati Onu parlano chiaro: tra i paesi che ne ospitano di più al mondo ci sono Turchia, Giordania, Libano, Colombia e due stati della stessa Africa, Kenya e Rwanda. A conti fatti, fake news e post-verità sono due facce della stessa medaglia e vanno affrontate assieme, ribattendo punto su punto. Solo il 5% dei richiedenti asilo in Italia è rifugiato? No, «rifugiato» è una delle tre forme legislative previste, le altre due sono «protezione sussidiaria» e «protezione umanitaria». La somma (su dati ministeriali) fa almeno 40% in prima udienza, 60% dopo l’appello, ovvero la quota di accoglienza delle domande di asilo è in media positiva in sei casi su dieci. «Si prendono 35 euro al giorno». No: 35 euro li prende l’ente gestore, al richiedente asilo ne vanno 2,50 al giorno, quindi circa 75 al mese.

D.B.

2: malaria e nozze

«Dopo la miseria, portano malattie», titolava il quotidiano Libero mercoledì 6 settembre 2017 sul caso di una bambina di 4 anni che a Trento aveva preso la malaria. E nel sommario: «Immigrati affetti da morbi letali diffondono infezioni». In questo caso l’Ordine dei giornalisti è intervenuto per denunciare il «rischio di incitamento all’odio», ma la notizia in questi termini è girata per giorni, ampiamente trattata con toni allarmistici anche nelle televisioni, mentre chi portava spiegazioni ragionevoli dell’accaduto non veniva preso in considerazione. «È stata una macroscopica falla nelle procedure, un errore umano, ovvero un’iniezione sbagliata con siringa già infetta da parte di un infermiere», è stato infine accertato dalle indagini a inizio novembre, ma questa notizia ha trovato rilievo su ben poche testate nazionali.

«Mi hanno piantato un coltello nella mano, è stato un africano».
Questo il grido di dolore di un controllore delle Ferrovie milanesi di Trenord. Era il 19 luglio 2017: notizia sotto i riflettori ovunque, sciopero successivo indetto dai colleghi, indignazione collettiva. Infuria la caccia all’aggressore, ma il 28 luglio emerge, grazie alle telecamere della stazione, la sconvolgente verità: «Se l’è fatto da solo». Nessun africano criminale! Denuncia dell’azienda e probabile licenziamento per il controllore. Nel frattempo però la notizia falsa, ma data per vera dalla maggior parte dei media e parecchio ghiotta per «sbattere il mostro in prima pagina», è girata, purtroppo, molto di più della smentita.

Il caso in Veneto del matrimonio combinato tra una bambina di 9 anni e un adulto musulmano di 35 che avrebbe usato violenza su di lei: bufala apparsa come notizia vera il 21 novembre 2017, prima sul Messaggero, poi su altre testate nazionali e addirittura riportata nella nota rubrica «Buongiorno» de La Stampa, curata dal pur attento giornalista Mattia Feltri, nonostante la smentita da parte delle forze dell’ordine fosse arrivata entro la sera stessa. Feltri la mattina successiva è dovuto correre ai ripari, perlomeno sulla versione online, dato che il cartaceo era già in edicola.

Un caso emblematico che ha strumentalizzato il problema delle spose bambine, non molto comune in Italia ma diffuso in altri paesi del mondo, allo scopo di alimentare l’islamofobia.

D.B.


Questo dossier è stato firmato da:

  • Daniele Biella Classe 1978, giornalista, collabora con diverse testate nazionali scrivendo di tematiche sociali, in particolare migrazioni e cooperazione internazionale. Ha all’attivo due libri: L’isola dei Giusti. Lesbo crocevia dell’umanità (Paoline, 2017) e Nawal, l’angelo dei profughi (Paoline, 2015). Interviene come referente di progetti educativi e formativi sul tema dell’accoglienza in scuole, assemblee cittadine e altri centri di aggregazione. In particolare, tramite il progetto «Con altri occhi», lungo l’anno scolastico 2016-2017, ha incontrato più di 5mila alunni di scuole primarie e secondarie. Al termine degli studi universitari ha vissuto in Cile, dove ha svolto un anno di servizio civile volontario nel corpo di pace «Caschi Bianchi».
  • A cura di: Marco Bello e Luca Lorusso, redazione MC.

 

Foto di questo Dossier

  • Tutte le foto, eccetto quelle di pp. 42-44 – che sono di Sea-Watch e.V. / Lisa Hoffmann, sono state scattate da Daniele Biella durante il viaggio sulla Aquarius.