KENYA- Anche gli africani hanno il mal di denti


Questa è la storia dell’Apa, una piccola associazione di dentisti italiani, che, quando possono, fanno i volontari in Africa.

Il Kenya, uno degli stati più belli del continente nero, è spesso preso come immagine oleografica dell’Africa letteraria o turistica. A molti richiama alla memoria i romanzi di Hemingway o Karen Blixen, oppure le immagini viste nei documentari televisivi e nelle agenzie di viaggio: tribù quasi «primitive», grandiosi paesaggi naturali, savane e foreste abitate da animali feroci.
Anch’io, fino a qualche anno fa, così immaginavo il Kenya e quando, nel 1992, i missionari della Consolata mi invitarono a lavorare come dentista volontario nel loro Consolata Hospital di Nkubu, uno sperduto villaggio del Kenya equatoriale, non esitai a dare la mia disponibilità.
Gli immensi scenari erano un’attrattiva irresistibile e l’idea di offrire gratuitamente la mia professione a persone che avevano necessità di cure dentarie, ma impossibilità di ottenerle, mi appagava la coscienza. Certo non mi sarei mai immaginato di trovarmi immerso in una natura così fantastica, ma soprattutto di fronte a una miseria così diffusa e profonda, accettata dagli africani con stupefacente dignità.
In realtà, chiunque abbia visitato il Kenya, come del resto gran parte dell’Africa, al di fuori dei lussuosi villaggi turistici o lontano dalle classiche rotte turistiche, avrà constatato l’estrema povertà che colpisce la stragrande maggioranza della popolazione. Milioni e milioni di persone che vivono dimenticate nel loro tragico presente ed escluse da ogni benevolo futuro. Abitano villaggi sperduti, desolanti suburbi a ridosso delle grandi città o spaventose baraccopoli che non hanno nulla da offrire, se non povertà, fame, malattie.
Quando per la prima volta ho visto la miseria in cui versa l’Africa, i bambini affamati che cercano cibo fra i rifiuti delle discariche, la gente che muore come le mosche per l’Aids (700 al giorno solo in Kenya) o per malattie curabili (come la malaria o la tubercolosi), i giovani che non potranno mai imparare a leggere e scrivere per indisponibilità di mezzi e di scuole, la mia vita è un po’ cambiata e con i miei amici mi sono chiesto se noi non potevamo fare qualcosa.

POVERTÀ E INDIFFERENZA
Sì, la povertà, una parola scomoda, complessa nelle sue implicanze, che non definisce soltanto uno stato di indigenza materiale, ma una più tragica e vasta realtà che caratterizza gran parte della popolazione del nostro pianeta; in espansione anche nei paesi ricchi, ma nel Sud del mondo rappresenta un problema di vera e propria sopravvivenza.
Per quale ragione i media continuano ad ignorare la miseria africana che si consuma così nell’indifferenza generale? Perché la tragedia delle Torri gemelle di New York, ha riempito per mesi le pagine dei giornali e i programmi televisivi, ma nessuno parla mai dei 9.000 bambini (fonti Unicef) che ogni giorno in Africa muoiono per malattie da denutrizione? Forse esistono morti di serie A e morti di serie B? Forse bisogna produrre immagini shock, affinché i media parlino della piaga della fame?
Ormai mi sono reso conto che esistono almeno due modi di vedere l’Africa: il primo tristemente realistico; l’altro mediato dai sistemi informativi di massa che, quasi sempre per ragioni economico-politiche, dipingono il continente con toni erroneamente ottimistici. Ma poiché ho avuto la ventura di conoscere la prima Africa e la gente stupenda che la abita, con alcuni amici ho pensato che anche noi, nel nostro piccolo mondo di odontorniatri, potevamo fare qualcosa; senza pensare a progetti faraonici o a chissà quali grandi mete, ma così, in semplicità, e soprattutto senza quella fastidiosa ostentazione o senso di superiorità che caratterizza una parte del volontariato umanitario.
Perché interessarsi dei poveri dell’Africa, mi si chiede, quando sono tanti i poveri qui in Italia, alcuni dei quali provenienti proprio dal continente nero? È vero. Però da noi fortunatamente non si muore di fame e chiunque può accedere a un ospedale per farsi curare o può frequentare una scuola elementare per imparare a leggere e scrivere, a meno che non viva nella clandestinità.
È altresì vero che l’Africa è flagellata da malattie ben più gravi che non le malattie dentali, basti pensare alla lebbra, la malaria, la febbre gialla, la poliomielite e oggi l’Aids, la nuova malattia dei poveri che sta causando in questo continente la più devastante epidemia a memoria storica. Se però consideriamo che la patologia dentale è la più diffusa al mondo, in quanto ne colpisce il 95% della popolazione, viene da sé che il «mal di denti» è una pena aggiuntiva per persone già martoriate da fame, analfabetismo, siccità, penuria di mezzi, sfruttamento.

«AMICI PER L’AFRICA»
In questo contesto, nel 1999, dopo anni che già si lavorava in Kenya come dentisti volontari, noi colleghi medici, insieme ad amici di vecchia data, abbiamo pensato di fondare un gruppo di volontariato odontorniatrico, che abbiamo chiamato Apa.
Queste tre lettere sono l’acronimo di «Amici per l’Africa», ma «apa» è anche una parola che in lingua swahili significa «giuramento», una felice coincidenza suggeritaci da un missionario, che richiama un patto di amicizia tra noi e l’Africa. Un giuramento per un impegno di amicizia fra odontorniatri e professionisti del dentale, che ha l’ambizioso proposito di coniugare professione medica e volontariato, nel complesso mondo della povertà africana. Non un’associazione dalle idee grandiose (che poi magari non trovano realizzazione), bensì un gruppo agile e consolidato di colleghi e vecchi amici, ognuno con un proprio ruolo preciso, che non intende far l’elemosina agli africani, ma condividere tempo, mezzi, capacità professionali, con riguardo alle loro diversità e senza sensi di superiorità nei confronti di alcuno.
Mentre nel mondo occidentale vi è abbondanza di dentisti e di tutte le più sofisticate tecniche di cura, in quello che genericamente è ancora definito «Terzo mondo», il ridotto numero di professionisti, l’elevato costo delle apparecchiature e dei materiali odontorniatrici, rendono di fatto impossibile la cura dei denti alla maggioranza delle persone. Questo spiega perché la percentuale di dentisti ammonti, per esempio, a 1 su 1.000 abitanti in Italia, mentre in Kenya si riduca drasticamente a 1 su 200.000, in prevalenza concentrati nelle grandi città.
Oggi lavoriamo in 5 ambulatori, che sono ubicati alla periferia di Nairobi, a ridosso delle bidonville di Kahawa e di Embul Bul, e in zone rurali del Kenya centro-settentrionale (Nkubu, Sagana e Isiolo). Si trovano all’interno di strutture ospedaliere o di ambulatori missionari cattolici, e sono stati da noi allestiti ex novo, oppure erano già esistenti prima del nostro arrivo, ma di fatto non utilizzati per mancanza di operatori.
Il centro di Nkubu, dove iniziò la nostra attività nel lontano 1992, da cinque anni è stato ceduto all’ospedale missionario di sua pertinenza, il Consolata Hospital, sotto la direzione di un dentista keniano e di una suora del medesimo ospedale, che si è recata due anni nei nostri studi in Italia per acquisire le nozioni di odontorniatria di base, qual’è quella richiesta in quei luoghi. Non intendiamo infatti lavorare soltanto in prima persona, ma cerchiamo di istruire personale locale, che possa portare avanti l’attività anche in nostra assenza. Riteniamo infatti che l’africano a cui offriamo la nostra professionalità, debba essere motivato ad uscire dal circolo vizioso dell’aiuto fine a sé stesso, che gli addormenta la mente senza incentivarlo a migliorare, ma anzi lo rende dipendente dal donatore.
Daniele Comboni, fondatore dei missionari comboniani, più di un secolo fa, sosteneva che «bisogna aiutare l’Africa con gli africani».

PERCHÉ VOLONTARI?
Nel tragico scenario di povertà e sventure di questi popoli abbandonati, nell’ indifferenza del mondo, quale significato può avere il lavoro di noi dentisti volontari?
Più di una volta ce lo siamo chiesti. Ovviamente noi dell’Apa non ci siamo prefissati l’impossibile obiettivo di ribaltare la situazione; semplicemente non possiamo stare con le mani in mano ad assistere alla miseria di popoli e paesi, di cui abbiamo conosciuto l’inimmaginabile povertà e le continue privazioni.
Ciò non di meno, quando pensiamo alle migliaia di persone che abbiamo curato in tutti questi anni e a tutte quelle persone che beneficiano degli studi medici che abbiamo loro donato, oggi affidati a personale locale africano, allora diventa chiara la validità del nostro operato, dimostrata anche dalle parole e dai gesti di riconoscenza dei nostri pazienti.
Non sono incline alla retorica o all’esibizionismo e spero che nessuno di noi dell’Apa voglia ritenersi chissà quale campione della causa dei poveri o aspiri ad arrivare primo a una qualche fiera delle vanità, ma al di là del mio credo religioso, penso (e continuo a pensarlo da 11 anni, di là dalle mode e dai sentimentalismi passeggeri) che per quanto poco importanti, anche piccole e volontarie azioni solidaristiche di singole persone o di piccoli gruppi come il nostro, possano avere una loro utilità.
Forse serviranno più a noi che agli africani, ma non penso sia un gran male; forse serviranno per una gratificazione personale, ma anche questo ritengo sia umano e non mi dispiace che un’«umana debolezza» in questo frangente si rilevi utile e preziosa. Martin Luther King diceva: «Non mi fa paura la cattiveria dei malvagi, ma il silenzio degli onesti».
Come si racconta nelle pagine di Pole Pole, da questa nostra lunga e mai conclusa esperienza, noi se non altro impariamo quanto piccoli siano in verità i nostri problemi davanti a chi non ha cibo per cibarsi, acqua per gli usi quotidiani, farmaci e ospedali per curarsi, scuole per imparare a leggere e scrivere e non possa confidare sull’aiuto di nessuno. Persone tuttavia che accettano queste sventure con un’incredibile e toccante dignità, che lungi da un’inutile retorica, dovrebbe esserci di insegnamento.

Andrea Moiraghi




Dall’«asiatica» alla «Sars»


In queste pagine Guido Sattin ricorda Carlo Urbani ripercorrendo la sua vita attraverso gli eventi della storia e della medicina.

Noi che siamo nati alla metà degli anni ’50, che abbiamo visto arrivare nelle nostre case i primi elettrodomestici, che siamo cresciuti con la Tv dei ragazzi in bianco e nero e che andavamo a dormire dopo Carosello; noi che abbiamo frequentato le scuole superiori nei turbolenti anni successivi al 1968 e le Università nel cupo decennio degli anni ’70 e ’80; noi che siamo cresciuti nei grandi ideali di quegli uomini che, al di là delle diverse ideologie e fedi, volevano cambiare il mondo, che abbiamo pianto la morte di Gandhi, Che Guevara, Luther King, John Kennedy, papa Giovanni, Salvador Allende; noi che abbiamo visto crescere e cadere l’Unione Sovietica, la Cina di Mao, che abbiamo visto sconfitta l’apartheid del Sud Africa, morire con Franco l’ultimo fascismo d’Europa, cadere i colonnelli greci; noi che, nati nel pieno della tragedia dell’Ungheria, abbiamo vissuto poi quelle del Vietnam, della Cecoslovacchia, del Cile e dell’Argentina, della Cambogia dei Khmer Rossi, le guerre in Palestina, il terrore di Sendero Luminoso in Perú; noi che abbiamo vissuto le bombe fasciste degli anni Settanta in Italia e poi la pazzia del brigatismo rosso; noi che, credenti o non credenti, abbiamo però creduto insieme nella possibilità di un mondo migliore fatto di pace, libertà e giustizia sociale; noi che in quegli anni, e con la storia che correva intorno a noi, siamo diventati medici e poi siamo andati a lavorare in Africa, in Asia ed in America Latina, lo sapevamo. Noi sapevamo che un certo tipo di progresso umano si scontrava con l’ambiente che ci circonda e lo comprometteva con l’acqua contaminata, con l’aria appestata dai fumi, con le medicine mal utilizzate, con la concentrazione degli abitanti nelle città e l’abbandono delle campagne, con la manipolazione della natura, con la nostra ricchezza e con la nostra povertà. Èil 19 ottobre del 1956 e a Castelpiano, in provincia di Ancona, nasce Carlo Urbani. Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie infettive che di più uccidono nel mondo in quegli anni. Nel 1957 vengono isolati in Cina i primi casi di «influenza asiatica», un’altra pandemia che però, grazie al progresso medico, non provoca i danni della «spagnola» del 1918.  È il 1965. Carlo frequenta le scuole elementari e, con 4 anni di ritardo (è del 1961 la scelta dell’American Medical Association), viene introdotta in Italia la vaccinazione antipolio con il vaccino di Sabin. Dal 1966 è resa obbligatoria. Nel 1967 il vaiolo è ancora endemico in 31 paesi del mondo. Solo in quell’anno tra 10 e 15 milioni di persone furono colpite dalla malattia. Di queste, circa 2 milioni morirono e, tra coloro che erano sopravvissuti, milioni rimasero sfigurati o ciechi. Carlo Urbani finiva le scuole medie e sicuramente anche lui portava su di un braccio il segno della vaccinazione antivaiolosa.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti continuano ad essere le malattie infettive che di più uccidono nel mondo. Nel 1968 si scatena l’ultima grave pandemia, l’influenza di Hong Kong che provoca in Europa decine di migliaia di morti (20.000 nella sola Francia) fra le persone anziane o già debilitate da altri disturbi. Nel 1969 Piero Sensi, ricercatore della Lepetit, scopre le rifamicine e da queste nel 1969 mette a punto la rifampicina, antibiotico attivo contro la tubercolosi. È l’ultimo dei grandi antibiotici scoperti e tutt’ora utilizzati nella terapia della tubercolosi; evidentemente la ricerca sulla tubercolosi, ha smesso, d’allora, di essere una priorità per l’industria farmaceutica.  Nel 1973 la pandemia di colera coinvolge anche l’Italia toccando Napoli. Carlo frequenta il liceo a Jesi.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono sempre le malattie infettive che di più uccidono nel mondo.  Nel 1976 viene isolato per la prima volta il virus Ebola. L’Ebola è un virus in grado di provocare gravi febbri emorragiche e deve il suo nome al fiume della repubblica democratica del Congo, dove fu isolato per la prima volta. Probabilmente il contagio alla nostra specie è avvenuto dalle scimmie e da qualche altro mammifero della foresta africana, ma l’origine e la modalità di trasmissione rimangono un mistero. A oggi si sono registrate quattro epidemie di Ebola: nello Zaire, nel Sudan, nel Gabon e nella Costa d’Avorio. La mortalità ha raggiunto l’88% dei casi rilevati. La morte sopraggiunge dopo circa 72 ore dall’insorgenza dei primi sintomi. Attualmente non si conosce una cura all’infezione di Ebola, né un vaccino. L’Ebola è stata elencata dalla Nato tra i 31 agenti potenzialmente utilizzabili nelle azioni di bioterrorismo.  Nel 1976 a Filadelfia, tra i partecipanti ad un convegno della legione americana, si manifesta un’epidemia che per questo viene denominata la malattia del legionario. Si tratta di una forma di polmonite che successivamente viene chiamata «legionella » e che si sviluppa nell’acqua, distribuendosi con gli impianti di condizionamento. Continua tutt’ora ad essere una malattia pericolosa e silente, ed interessa particolarmente hotels ed ospedali. Il 26 ottobre 1977 l’ultimo caso conosciuto di vaiolo viene registrato in Somalia, quando Carlo sta frequentando l’Università di Ancona ed iniziava a formarsi come medico. Nel 1981 vengono descritti i primi casi di Aids. La «peste del secolo» è iniziata. In questi anni Carlo si laurea in medicina e chirurgia all’Università di Ancona. Ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  L’«encefalopatia spongiforme bovina» (ESB), una malattia neurologica degenerativa che colpisce i bovini in maniera costantemente fatale, fa la sua comparsa come nuova malattia nel Regno Unito nel 1985. Viene descritta ufficialmente nel novembre 1986, ma ancora non si immagina il coinvolgimento umano. Carlo si specializza in malattie infettive presso l’Università di Messina. Il 31 maggio 1988, come ogni altro giorno, 1.000 bambini sono paralizzati dalla polio. La maggior parte di loro vive nei paesi più poveri. Nello stesso giorno, a Ginevra i leaders sanitari del mondo hanno deciso di eradicare la poliomielite per sempre.  È il 1989 quando viene individuato il virus dell’epatite C (Hcv). Contrariamente agli altri virus dell’epatite (A, B, D ed E), questa infezione porta, in un numero straordinariamente alto di casi, alla malattia epatica cronica. Si perfezionano i controlli sul sangue e si scopre che, negli anni anteriori, migliaia di persone sono state infettate da questo virus, trasmesso con le trasfusioni e con la dialisi.  Carlo lavora come medico presso l’Ospedale di Macerata. Nel 1991 la pandemia di colera per la prima volta arriva in America Latina, contagiando migliaia di persone in Perù.  Nel 1994 le Americhe sono certificate libere da polio.  La nuova variante della malattia di Creutzfeld-Jakob ha fatto la sua comparsa nel Regno Unito nel 1995. Il ministro della sanità inglese successivamente (marzo 1996) ammette che 14 persone sono decedute in seguito a questa nuova forma della malattia e che probabilmente si sono ammalate per aver assunto tessuti bovini infetti da Esb. Le dichiarazioni del ministro della sanità inglese Stephen Dorrell nel marzo 1996 e la pubblicazione dei risultati di queste ricerche nel 1997 scatenano una crisi economico-sociale con notevoli conseguenze sulla zootecnia europea; la crisi è dovuta ad una marcata perdita di fiducia da parte dei consumatori nei confronti del prodotto carne. Carlo entra in «Medici senza frontiere » (Msf) e parte per la Cambogia con la famiglia. Lavora in un progetto per la lotta alla «schistosomiasi», una malattia parassitaria intestinale.  Hong Kong, 1997: l’influenza aviaria provoca la morte di 6 persone. L’anno seguente l’Organizzazione mondiale della sanità la inserisce tra le malattie determinate da nuovi microrganismi capaci di provocare infezioni nell’uomo e invita ad aumentare la sorveglianza. Il 26 novembre 1998 viene segnalato l’ultimo caso di poliomielite nella regione europea. Si tratta di un bambino di nome Melik Milas di 33 mesi, che viveva in un piccolo villaggio della provincia di Agri, in Turchia al confine con l’Iran. Non aveva ricevuto nessuna vaccinazione contro la polio ed è stato colpito da un poliovirus di tipo 1.  Nel 1999 Carlo Urbani viene eletto presidente di «Medici senza frontiere» – Italia (e trova anche il tempo d’inventare questa rubrica per Missioni Consolata).  Nel gennaio 2000, dopo poco più di 10 anni dal lancio dell’iniziativa di eradicazione, sono soltanto 30 i bambini che ogni giorno nel mondo sono paralizzati dalla polio. Ma ancora 30 tutti i giorni.  Tre interi continenti sono già liberi da polio e sempre nel 2000, la regione del Pacifico orientale, che comprende la Cina, viene certificata come libera dalla poliomielite. Nell’anno 2000, 3,8 milioni di persone si sono infettate con l’Hiv nell’Africa a sud del Sahara e 2,4 milioni di persone sono morte per Aids. Nello stesso anno 30.000 persone si sono infettate in Europa occidentale e 45.000 nell’America del Nord. Dall’inizio della pandemia di Aids sarebbero morte 21.800.000 persone.  È il 2000 ed ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  Carlo inizia la sua collaborazione con l’«Organizzazione mondiale della sanità» (Oms) e con la famiglia parte per Hanoi, in Vietnam. Da 10 anni se ne parla, ma il primo caso italiano di «mucca pazza» scoppia a gennaio 2001. Crollano i consumi di carne, psicosi tra i banconi dei supermercati e delle macellerie, caccia a prodotti alternativi. Partono i controlli che portano a trovare decine di mucche italiane infette. Le autorità prima minimizzano, poi, sull’onda emotiva di un’opinione pubblica sempre più preoccupata, prendono i primi drastici provvedimenti.

29 marzo 2003: Carlo Urbani, medico italiano dell’Organizzazione mondiale della sanità, muore in un ospedale di Bangkok a causa della Sars («Sindrome respiratoria acuta grave»). La notizia si diffonde e provoca grande emozione. «Il dottor Urbani ha lavorato in programmi di salute pubblica in Cambogia, Laos e Vietnam. La sua sede di lavoro era ad Hanoi. Aveva 46 anni. Carlo Urbani era stato il primo medico dell’Oms ad identificare la nuova malattia in un uomo d’affari americano ricoverato all’ospedale di Hanoi. La sua segnalazione precoce della Sars ha messo in allarme il sistema di sorveglianza globale ed è stato possibile identificare molti nuovi casi e isolarli prima che il personale sanitario ospedaliero venisse contagiato. Ad Hanoi, il focolaio di Sars sembra sulla via di essere messo sotto controllo». «Carlo era una persona meravigliosa e siamo tutti costernati – ha detto Pascale Brudon, il portavoce dell’Oms in Vietnam -. Era soprattutto un medico, il suo primo obiettivo era quello di aiutare le persone. Carlo è stato il primo ad accorgersi che c’era qualcosa di molto strano. Mentre in ospedale le persone diventavano sempre più preoccupate, lui era là ogni giorno, raccogliendo campioni, parlando con il personale dello staff e rafforzando le procedure di controllo dell’infezione». È il 2003. È appena terminata la guerra «preventiva» contro l’Iraq ed ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  La storia la facciamo noi uomini con le nostre guerre, i nostri interessi economici, ma anche con i nostri ideali, le nostre scoperte, la nostra cultura e la nostra capacità di comunicare. Ma non solo.  La peste, la sifilide e la tubercolosi hanno segnato alcuni secoli della nostra umanità e perfino della nostra cultura.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti continuano a minare l’esistenza di milioni di individui nell’indifferenza generale. Della Sars si sa ancora poco, ma è un altro segnale di pericolo per il nostro mondo, così come poco prima lo è stato la variante umana della malattia di Creutzfeld-Jakob, Ebola o l’influenza aviaria.  L’Aids ha definitivamente cambiato i costumi sessuali della nostra società e sta tuttora cambiando la nostra umanità, incidendo profondamente in tante culture ed economie del mondo, in particolare dell’Africa. Le malattie infettive e parassitarie, causa e conseguenza di tanti passaggi della nostra storia, continuano ad essere protagoniste dell’umanità e delle sue scelte economiche, politiche e sociali.

Guido Sattin




Il matto della


Come curare la malattia mentale?

«Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però
non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Con che terrore, quindi, mi sono trovato davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile!». Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, in Perù.

Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Poi, per quegli strani scherzi del destino, nella mia vita di medico mi trovai ad affrontare proprio quegli aspetti della medicina che più mi erano apparsi ostici durante il lungo periodo degli studi universitari.
Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, quando per la prima volta mi trovai davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile.

Nella «Posta medica municipal» numero 1, la prima del sistema ambulatoriale di Villa El Salvador, lavoravo come di consueto con Julio, il «mio» infermiere che ne sapeva sempre una più di me.
Un giorno, dopo aver visitato i soliti bambini con bronchiti e mal di gola e aver ricettato come sempre Ampicillina e «agua de eucalipto» (però di quello canforato), Julio fece entrare nello studio un grasso signore con il viso sporco, ma soddisfatto, e le mani macchiate di sangue.
«Buenos dias señor – gli dissi – que le pasa?».
«Niente» mi rispose.
«Come mai allora – gli ribattei con la mia stringente logica universitaria – ha le mani sporche di sangue?».
«È la Gillette, dottore. Mia cognata non voleva farmi uscire».
Solo a questo punto mi accorsi che la camicia, sotto la giacca unta, era coperta da una spaventosa macchia di sangue.
«Ma che ha fatto, señor?» e rapidamente gli sfilai la giacca.
«Julio corri!» gridai spaventato.
«Si calmi, doctorcito, non è niente – mi ribattè l’uomo ferito -. Mia cognata non voleva farmi uscire e allora con la Gillette… È un taglio perfetto, sono un esperto».
Julio arrivò con la calma che gli ho sempre invidiato e mi aiutò a togliergli la camicia.
«Carajo (forte esclamazione gergale, ndr) – esclamai -, non ho mai visto un taglio così».
Lo distendemmo sul lettino e ci guardammo con gli occhi spalancati. Mandai Julio a prendere il metro e insieme misurammo quel taglio, pressoché perfetto, che in tutti i suoi 35 centimetri di lunghezza metteva in mostra il sottocutaneo e un notevole strato di grasso.
«E adesso – dissi – che facciamo?».
«Cuciamo!» mi rispose con tono tranquillissimo il nostro matto.
«Cuciamo lo dico io!» gli ribattei un poco ferito nell’orgoglio, ma anche ricordando che l’orlo dei pantaloni (che avevo tentato di fare un paio di giorni prima) mi era venuto talmente storto che la signora Mila me li aveva fatti sfilare per rifare la cucitura.
Nel frattempo, Julio si era munito di garze, disinfettante e pinze e aveva cominciato a pulire la ferita. La boccetta di Xilocaina era pronta per anestetizzare la parte e cominciare a cucire.
Il matto continuava intanto ad osservarci con sempre maggiore ammirazione ed interesse (se i pazienti fossero stati tutti così, forse anch’io sarei diventato un grande medico).
«Che cos’è quella boccetta» mi chiese.
«Xilocaina, è un anestetico locale» gli risposi.
«Eh no dottore – mi rispose fermandomi la mano -. Non voglio niente del genere».
«È per non farle sentire dolore» gli spiegai.
«Ma per me è un piacere. Ho molta esperienza».
Effettivamente, pulendo la ferita e la pelle intorno, cominciarono a comparire i segni di anteriori imprese dello stesso tipo.
«D’accordo! Julio, passami ago e filo. Cominciamo!».
«Dottore, che splendida mano, che passi da gigante ha fatto la chirurgia ai giorni nostri, che strumenti perfetti!».
Con Julio ci guardammo e ci immaginammo in una modea sala operatoria alle prese con un difficile intervento, circondati da monitors, con un nugolo di studenti che ci osservavano. Invece, ci trovavamo sotto il neon di un ambulatorio di periferia a cucire la pancia di una persona, feritasi con una lametta Gillette a causa di una cognata insofferente. Un matto che ci spronava e si ergeva a unico testimone dell’impresa di un medico alle prime armi e di un grande infermiere ai suoi inizi.
Nonostante le mani tremanti e il filo che finiva, arrivammo in fondo, pieni del nostro orgoglio e con i complimenti del matto. Gli bendammo la pancia e lo mandammo a casa con tante raccomandazioni.

Tre o quattro giorni dopo, mentre stavo visitando un’intera famiglia con «rasca-rasca» (letteralmente «gratta-gratta», è il termine popolare per definire la scabbia, ndr), Julio mi chiamò: «Dottore, venga è tornato il matto».
«Arrivo subito. Controllagli la ferita intanto».
«Corra dottore, presto!» sentii la voce insolitamente trafelata del fido infermiere.
Corsi nella stanza e vidi la faccia allucinata di Julio e quella tranquilla e soddisfatta del matto.
«Carajo – esclamai -, si è infettata?».
«No dottore, sa …, ho trovato una Gillette e allora ho pensato a voi… E poi mia cognata…».
«Cosa ha fatto? Un’altra volta!».
Ci guardammo in faccia con Julio che mi lesse nel pensiero dicendo: «Chiamo subito l’ambulanza, dottore. Abbiamo finito il filo».
Lo mandammo a Larco Herrera, il manicomio di Lima.

Solo anni dopo, seduto nella grande sala del «castello» del «Residuo psichiatrico» (che razza di nome, eh?) di Montecchio Precalcino (Vicenza), mi resi pienamente conto della tragedia del matto della Gillette e di sua cognata.
La primavera è prepotente nelle verdi campagne venete sulle quali sorge questa collinetta popolata di alberi e matti. Anche qui capitai per caso, accettando una sfida che mi avevano proposto: demolire il «Residuo psichiatrico» (ma chi mai avrà inventato una definizione così grossolana e tremendamente vera e frustrante?), nel quale vivevano ancora 2.500 ospiti e un centinaio fra infermieri, suore e impiegati.
La paura e l’orrore della malattia mentale non mi hanno mai abbandonato e, se affrontare un paziente psichiatrico mi stressava, affrontare un intero manicomio mi terrorizzava.
Forse fu la signora Spiller, con i suoi deliri di persecuzione che lasciavano improvvisamente posto a grandi e composti gesti d’affetto, che mi aiutò a cercare più in profondità. Forse fu la rabbia di ascoltare rimpianti di un passato in cui, a Montecchio, un medico si occupava di 700 ospiti e dove, anche da morti, i matti non uscivano dai recinti del manicomio. O forse furono la grande speranza e serenità di Riccardo, psichiatra dall’eterno toscano in bocca, a coinvolgermi e farmi intravvedere la possibilità di un cambiamento.

A distanza di anni, una cosa debbo scrivere per liberarmi da un peso troppo grande per la mia coscienza di uomo, più che di medico. La medicina, la psichiatria e la società civile che hanno inventato, moltiplicato e poi tollerato i manicomi hanno fallito e in questo loro fallimento hanno trascinato migliaia e migliaia di persone.
E se, a quasi 25 anni dall’abolizione ufficiale dei manicomi (legge n.180 del 13 maggio 1978, conosciuta come legge Basaglia, ndr), a Montecchio Precalcino ci sono ancora persone, la società civile ha rimosso il problema e la modea psichiatria ha fallito ancora.
Cucire la pancia al matto della Gillette bisognava certamente farlo, ma cosa bisognava fare per convincerlo a non tagliarsela più? Non ho ancora trovato una risposta.
Ma il mio vero cruccio non è tanto questo, quanto piuttosto di averlo mandato in un manicomio. Ovvero nel luogo che racchiude tutti i fallimenti dei nostri maldestri tentativi di affrontare la malattia mentale.

di Guido Sattin (*)
La «Fondazione Ivo de Caeri»

IL LABORATORIO DI PEMBA

Nei paesi in via di sviluppo, malattie respiratorie, malaria, diarree, parassitosi di varia origine sono tra le principali cause di malattia e di morte nei bambini al di sotto dei 5 anni.
Risultati di recenti ricerche hanno messo in evidenza che l’aggiunta di piccole quantità di ferro e di zinco alla dieta quotidiana di questi bambini è in grado di migliorae la crescita e lo sviluppo fisico e mentale.
La «Johns Hopkins School of Public Health», una delle più importanti scuole inteazionali di salute pubblica, in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha scelto per l’Africa l’isola di Pemba, in Tanzania, e il laboratorio di sanità pubblica «Ivo de Caeri», per valutare i primi risultati di questa sperimentazione sulla popolazione infantile.
Il progetto durerà due anni e si svolgerà contemporaneamente anche in India e in Nepal. Dal punto di vista finanziario, esso è sostenuto da diverse organizzazioni: «United States Agency for Inteational Development», «United Nations Foundation», «Bill and Melinda Gates Foundation».
Il laboratorio di Pemba, ultimato nel maggio del 2000, sorge su un’area di oltre 700 metri quadrati e comprende laboratori di parassitologia, microbiologia e virologia, un’aula per formazione, educazione sanitaria e conferenze, una biblioteca, uffici e servizi generali. È stato ufficialmente inaugurato il 12 giugno (giorno della nascita del prof. Ivo de Caeri) alla presenza delle autorità sanitarie locali, di membri dell’Oms e dell’ambasciatore italiano in Tanzania. Il personale occupato sarà tutto locale.
Il sostegno economico dei donatori e l’opera volontaria di tutte le persone che lavorano per la «Fondazione de Caeri» hanno permesso la realizzazione di questo importante laboratorio di sanità pubblica, in un’area geografica dove non esistono strutture sanitarie. Ancora oggi parte della popolazione (non solo infantile, ma anche adulta e produttiva) soccombe a causa di malattie che, in altri paesi del mondo, sono ormai dimenticate.
Per la Fondazione Ivo de Caeri la collaborazione con la «Johns Hopkins» (che coinvolge, oltre al personale del laboratorio, strutture governative, sanitarie e popolazione dell’isola) è motivo di grande soddisfazione e di stimolo a intensificare la propria opera e l’impegno futuro in Africa.
Silvana Maggioni


La campagna di «Medici senza frontiere» (MSF)

L’ACCESSO AI FARMACI ESSENZIALI

Il cornordinatore della campagna MSF per l’accesso ai farmaci essenziali, dottor Pecoul, così si è sfogato: «Sono stanco di constatare come il profitto abbia sempre la meglio sul diritto alla salute. Sono stanco della logica secondo cui chi non può pagare, muore».
L’accesso a farmaci essenziali ed efficaci è negato ai poveri per una delle seguenti ragioni:
– il prezzo proibitivo dei nuovi farmaci sotto brevetto;
– la ricerca e lo sviluppo trascurano le malattie dei poveri, mentre farmaci attualmente in uso sono ormai inefficaci per la diffusione di microrganismi resistenti;
– la produzione di farmaci, pur efficaci, è insufficiente o abbandonata, perché i pazienti non garantiscono un profitto.
La disponibilità di medicine non è l’unica garanzia per una condizione di buona salute. Ma è essenziale. Le attuali politiche farmaceutiche, in termini di mercato e di ricerca, sono regolate in modo da escludere la maggior parte dell’umanità. Consideriamo questo squilibrio un’inaccettabile violazione del diritto fondamentale alla salute.
Per questo motivo MSF, insieme ad altre associazioni non governative italiane (Lila, Farmacisti senza frontiere, AiBi, Cuamm, Mani tese, Fondazione internazionale Lelio Basso, Aifo), rivolge un appello a tutti i cittadini per sollecitare una forte presa di posizione del nostro governo e dell’Unione europea, affinché l’accesso ai farmaci salvavita sia sempre e comunque garantito.

Per ulteriori informazioni:
«Medici senza frontiere» – via Voltuo, 58 – 00185 Roma
tel. 06.4486921
fax 06.44869220
E-mail: msf@msf.it

Guido Sattin




Laggiù, oltre la frontiera


Dove anche un antibiotico è un lusso

Laggiù, oltre la frontiera Medici e infermieri che curano i bambini di strada violentati, le persone ferite dalle mine, i malati di Aids. Medici e infermieri che lavorano in paesi dove le popolazioni sono in balia di malattie parassitarie, perché mancano gli ospedali e le medicine. Non bastano le Ong, l’Oms o i Medici senza frontiere. Per migliorare, occorre «investire» nel personale medico dei paesi del Sud. Ecco il resoconto di un’esperienza di questo tipo.

Mary-Lu Miranda è un giovane medico di Manila. Ha due bambini e ne aspetta un terzo. Ogni giorno Mary-Lu attraversa la turbolenta capitale filippina, nel frastuono del traffico e nello smog, per raggiungere il suo posto di lavoro. Fa parte di una équipe che, nell’ambito di una Organizzazione non governativa (Ong) internazionale, opera nella capitale filippina. Lei ed i suoi collaboratori fanno un lavoro particolare: si occupano di garantire cure di base a quella sfortunata popolazione che sono i bambini di strada. Ogni giorno ne esamina alcuni, cura le loro malattie, prevalentemente di natura sessuale (sono facile preda di pedofili e mercati illeciti), e cerca di fare un po’ di counselling in loro supporto e protezione. Fa il lavoro con interesse, pur se tra le mille difficoltà che la particolare tipologia dei suoi giovani assistiti comporta.
Beard Kanimba ha 50 anni. Da parecchi lustri è medico e chirurgo, in Burundi, nel secondo ospedale del paese. Vi lavora da abbastanza tempo per essere stato, come lui stesso racconta, testimone delle ferite e lacerazioni che hanno scosso il suo paese negli ultimi decenni. Ma Beard non si lamenta più… In città ora si spara solo la sera e il numero di bambini che saltano su una mina sembra ridotto negli ultimi mesi… E così sono ridotti quegli odiosi interventi disperati per salvare una gamba o un braccio. Anche il materiale scarseggia, ma ora con una Ong ora con un’altra si tira avanti. Basta mantenere il capo basso sul lavoro. Beard racconta il tutto con serenità, come la sua difficile storia personale di dover crescere tre ragazzi dopo la morte della giovane moglie, lavorando e vivendo in un paese in guerra.
Josephine Maende ha 40 anni. Lavora a Nairobi, dove dirige per conto del suo governo un ospedale di 180 letti nella periferia della capitale. Un ospedale per malattie infettive, racconta Josephine, con oltre 100 letti riservati ai malati di Aids. Sembra stanca nel raccontare le delusioni quotidiane del suo lavoro, quando si affanna a fornire palliativi ai suoi pazienti, per la mancanza totale di farmaci veramente efficaci. Nell’ospedale dove lei lavora i farmaci «potenti» contro l’Aids non arrivano perché costano troppo, così come molti degli antibiotici ed antifungini che servirebbero quantomeno a far vivere più degnamente i loro ultimi mesi a questi condannati. Ma lei ed i suoi colleghi sono ostinati, e con il supporto di Medici senza frontiere (Msf) continuano a tentare l’impossibile, salvare una ennesima polmonite da Pneumocistis, un classico killer dei malati di Aids, con del Bactrim. Peccato poi che, una volta rimandato a casa il paziente, questi non sia più in grado di comprarsi la compressa quotidiana dell’antibiotico, poco costosa per noi, ma irraggiungibile per lui. E così…
Francesco fa l’infermiere in Veneto. Ha già fatto due missioni di emergenza in Africa, in zone di guerra. Racconta che forse ripartirà presto, perché così sente di poter valorizzare il suo lavoro. Ha conosciuto quelle ferite lontane e ora non può far finta di ignorarle. Ha scoperto quanto di eccezionalmente utile lui sa e può fare.
Claudia è medico ed ha frequentato, dopo la laurea, una scuola di medicina tropicale. Le piacerebbe che nella sua vita professionale entrasse una esperienza «di terreno», in uno di quei lontani paesi, dove le malattie tropicali, che lei ha conosciuto soprattutto sui libri, sembrano avanzare incontrastate.

Cosa hanno in comune Mary-Lu, Beard, Josephine, Francesco e Claudia? Nulla, fino a poche settimane fa non si conoscevano, e operano a fusi orari di distanza. Si sono conosciuti l’11 marzo, al loro arrivo a Macerata, insieme ad altri 18 loro colleghi provenienti da 15 paesi in via di sviluppo ed un’altra ventina di italiani medici ed infermieri. Tutti erano stati ammessi a partecipare ad un addestramento avanzato di medicina tropicale, l’«Advanced Training on Tropical Medicine», appunto, come si chiamava il corso di Macerata. Organizzato da una collaborazione nata tra Medici senza frontiere (Msf), la Fondazione de Caeri, e l’Ospedale di Macerata.
Il corso era organizzato in tre moduli di formazione indipendenti. Uno per il controllo nei paesi tropicali di Aids e malattie trasmesse per via sessuale; un secondo per il controllo delle principali malattie parassitarie, quali malaria, schistosomiasi, filariasi e altre ancora; un terzo per un addestramento alla chirurgia «difficile», quella di guerra o quella fatta nei remoti ospedali rurali dei paesi poveri.
È cosa nota che in molti paesi tropicali importanti problemi di salute non trovano una adeguata risposta nei fragili e poveri sistemi sanitari esistenti. In questi contesti nuove strategie sono oggi proposte per rendere il controllo di tali malattie sostenibile anche per quei paesi, ma per questo occorre una specifica preparazione, sia dello staff locale che del personale di organizzazioni umanitarie. Questi ultimi poi si trovano a volte ad operare in zone di instabilità e conflitto, con la necessità di applicare una chirurgia «di emergenza» disponendo di scarsissime risorse. Per tutte queste situazioni il corso era stato pensato come uno strumento per preparare, al di fuori di qualsiasi schema accademico, il personale sanitario per fronteggiare al meglio le calamità sanitarie che minacciano la salute di milioni di persone. Un addestramento avanzato, quindi, a completare la preparazione di base, rendendola il più possibile efficace ed efficente sul piano operativo.
Endemie di malattie parassitarie (alcune delle quali sono tra le prime cause di malattia e morte) avvengono proprio in aree dove i farmaci sono carenti e il personale non è preparato.
Recenti stime mostrano addirittura che alcune di esse sono in incremento, nonostante in questi recenti anni vari donatori, istituzionali e non, abbiano investito nel potenziamento dei sistemi sanitari di molti paesi, in particolare in Africa. Ma situazioni di cronica instabilità, conflitti, migrazioni, inadeguato sviluppo delle risorse idriche, tutto conduce ad una diffusione di queste malattie parassitarie. Recentemente nuove strategie di controllo sono state introdotte per ottimizzare l’utilizzazione delle risorse in particolare in paesi poveri e con scarsi supporti economici.
Le nuove strategie propongono modelli di controllo decentralizzato (ma integrato nelle comuni attività dei sistemi sanitari) di quel settore che si chiama «Primary Health Care» o delle cure di base, sancito dalla dichiarazione di Halma Ata una quindicina di anni fa. Questo modello si pone in alternativa ai programmi «verticali», quelli per intenderci in cui poche persone di un gruppo qualificato, che opera a livello centrale (di solito, nella capitale del paese), si occupa di tutto: dalla programmazione alla esecuzione delle attività (come distribuire farmaci o praticare diagnosi). Negli anni questo modello ha mostrato le sue debolezze, in particolare la sua incapacità di sviluppare il sistema sanitario del paese. Senza dire dei fallimenti nel controllo di specifiche malattie. Queste nuove strategie di controllo integrato e decentralizzato hanno costituito uno dei temi principali del corso organizzato a Macerata.
Come l’Aids. La malattia non solo si sta sviluppando come un enorme incendio nell’Africa sub-sahariana, ma contribuisce a rendere ogni possibilità di sviluppo, anche economico, ancor più difficile per il numero di malati e morti tra le fasce produttive della popolazione. L’assenza (a causa dei costi irragionevolmente proibitivi) dei farmaci specifici rende poi pressoché impossibile anche ogni cura mirata a migliorare la qualità di vita delle migliaia di persone colpite dall’infezione.
Ci sono aspetti inquietanti di questa epidemia, come ad esempio l’incapacità di applicare gli strumenti (esistenti ed efficaci) per fermare quantomeno il contagio da madre a bambino durante la gravidanza. E la prevenzione non sembra ancora funzionare, se si pensa che il contagio sessuale è ancora la prima fonte di infezione in Africa e nel Sud-est asiatico. In questo settore giocano un ruolo fondamentale programmi di educazione, informazione, sicurezza del sangue, controllo delle malattie sesso-trasmesse. Per questi interventi sono state sviluppate competenze ed abilità specifiche, illustrate in profondità nel corso di Macerata.

Questi sono stati i contenuti fondamentali che sono stati affrontati nel corso delle due settimane di corso. I docenti delle più qualificate istituzioni scientifiche europee (come la London School of Hygiene and Tropical Medicine della London University, o dello Swiss Tropical Institute) hanno animato la discussione interagendo con questo gruppo di medici «di frontiera», ovvero proprio con coloro che sono chiamati ad applicare le linee guida e raccomandazioni che escono dai loro istituti. Per gli stessi docenti l’opportunità è stata di grande interesse, quella cioè di poter lavorare, in questa full immersion di due settimane, con direttori di ospedali e dirigenti di servizi o programmi dei ministeri della sanità di paesi in via di sviluppo. Il corso era patrocinato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha partecipato con alcuni docenti. Rientra proprio negli obiettivi dell’Oms l’assicurare che adeguate strategie siano proposte, in rispetto dei bisogni e delle risorse disponibili.
Per Medici senza frontiere la formazione del personale è una priorità assoluta, per poter sempre assicurare cure di qualità anche nei contesti difficili dove in genere i suoi teams si trovano ad operare. Non esistono mai giustificazioni per fornire cure di scarsa qualità, neanche l’insicurezza o l’instabilità costante in alcune aree. A Msf, nella organizzazione del corso, si è affiancata la Fondazione Ivo de Caeri (vedi riquadro), fondazione milanese da alcuni anni impegnata nel promuovere lo studio delle malattie parassitarie, una priorità per la sanità pubblica della maggioranza della popolazione mondiale.
E cosa ha portato un ospedale non universitario, quello di Macerata, ad ospitare il corso? Una scelta lungimirante e coraggiosa della sua direzione generale che ha riconosciuto come nella mission di un moderno ed evoluto ospedale debba rientrare il contribuire ad un incremento della qualità delle cure in altre strutture sanitarie. Soprattutto in quei contesti difficili, disagiati e con poche risorse che sono una caratteristica comune a tutti i paesi in via di sviluppo.

In conclusione dell’intenso, stancante ma appassionante corso, i partecipanti hanno voluto riassumere gli aspetti focali del problema. Ne è nato un Macerata Statement in cui vengono elencate le priorità e le principali raccomandazioni per la salute delle popolazioni del Sud del mondo. La «dichiarazione di Macerata» (vedi riquadro) è un documento rappresentativo delle ansie, angosce e bisogni di chi fa del «fornire salute» il proprio appassionante lavoro e la principale sfida dell’esistenza.
Soprattutto laggiù, oltre la frontiera.

Carlo Urbani



Prima il profitto poi i brevetti


Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore è la possibilità di guadagnare,
indipendentemente dai bisogni. I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto. Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta dell’umanità.

Un pomeriggio di ottobre del 1999, nella Cambogia nord-orientale. Stiamo percorrendo una pista che costeggia il fiume Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento di un programma di controllo delle malattie parassitarie, gestito dal ministero della sanità con il nostro supporto tecnico. Il programma sembra andar bene, e siamo orgogliosi di aver abbattuto i tassi di mortalità per queste malattie nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta per sgranchirci un po’ e bere dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso villaggio, affacciato su una bella insenatura del grandioso fiume. L’aria è pulita e profumata, e la luce dell’imminente tramonto colora di violetto le acque del fiume, incoiciato dal verde della esplosiva vegetazione. Mi allontano un po’ dalla Toyota, e mi fermo sotto una delle casupole, tutte uguali, tutte estremamente precarie: un pavimento di bambù su quattro alti pali (le case sono così, anche per proteggersi dalle inondazioni), quattro pareti di foglie di palma intrecciate e un tetto, anch’esso di foglie. Una bambina sorridente sta appoggiata alla ripida scala che conduce all’interno, e in alto sua madre – così credo – è seduta intenta a eliminare le scorie da una manciata di riso. Mi sorride. Così mi tolgo le scarpe e salgo.
Seduta sul pavimento, la donna ha sulle gambe un fagotto, che si muove ritmicamente. Lei sposta un lembo degli stracci e scopre un bimbetto (10-12 mesi) ansimante, viso affilato, occhi spalancati e una colata di muco dal naso. Chiamo l’interprete, per avere notizie di quel piccolo visibilmente sofferente. È così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche smesso di succhiare il seno. Lo tocco: è bollente. Avvicino un orecchio al suo dorso: polmonite. Non si lamenta mentre lo esamino, continua solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo di utile in quella condizione: trovo delle compresse di ampicillina e di paracetamolo. Dovrebbero andare. Poi l’interprete spiega alla mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in una ciotola, scioglierla e dae un cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi reidratarlo con acqua, zucchero e sale, poi il paracetamolo… cose banali insomma, una serie apparentemente semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto della mamma sembra indicare tutto il contrario: manovre complicate, quasi impossibili, gesti del tutto estranei alla quotidianità della sua vita. Ci allontaniamo dalla casupola lasciando il rantolo del bambino con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno, ci fermiamo di nuovo. La mamma in lacrime ci dice che la sera prima il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il tramonto e durante la notte ha smesso di respirare.

Cosa ha di particolare questa storia? Nulla, assolutamente nulla. Rivela semplicemente quanto accade ogni giorno, in migliaia di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi piede in Africa, fresco di studi di medicina tropicale. Aspettavo con ansia di vedere malati affetti da quei misteriosi e «affascinanti» morbi esotici. Rimasi quasi deluso quando, nella prima giornata di consultazioni mediche, vidi solo bambini gravemente malati o prossimi al decesso per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie: sono queste le prime cause di morte nei paesi in via di sviluppo. Il 95% dei decessi sono dovuti a malattie infettive, per le quali esistono efficaci trattamenti. Ma un terzo della popolazione mondiale non ha accesso ai farmaci basici. Gran parte di queste malattie sarebbero facilmente curabili; però, proprio là dove più servono, i farmaci relativi non sono disponibili, spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza tra bisogni e offerta risiede in rigide leggi di mercato, in base alle quali i prezzi dei farmaci, protetti da brevetto, sono fissati sulla disponibilità a pagarli nei mercati dei paesi industrializzati. Alla base di gran parte dei disastri sanitari, dell’impossibilità a gestire epidemie o endemie, a prevenirle, a impedire la morte per banali infezioni, alla base di tutto possiamo affermare oggi con certezza che c’è un problema di farmaci. Vediamo di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci utili in medicina tropicale, che siano poco tossici, a basso costo ed efficaci per debellare le malattie (parassitarie, ad esempio), causa di sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni, tra i 1.233 nuovi farmaci offerti dal mercato internazionale, solo 11 avevano come indicazione malattie tropicali, e di questi 7 venivano dalla ricerca veterinaria. Per cui appena lo 0,3% della ricerca farmaceutica contemporanea è indirizzata alle malattie ai vertici di ogni classifica mondiale di morbosità e mortalità. Perché? Semplice, perché queste malattie imperversano in mercati poco remunerativi. Le priorità sono, quindi, più di ordine economico-commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono investiti sulla ricerca di nuove pillole contro l’obesità e l’impotenza, dall’altro quasi niente per malattie tropicali. Se poi talvolta (e c’è l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un farmaco attivo su una malattia tropicale, spesso il fabbricante decide di non commercializzarlo, poiché la sua vendita sarebbe poco remunerativa nei paesi dove i pazienti interessati sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci già disponibili, efficaci e semplici da somministrare scompaiono improvvisamente, come è stato il caso della sospensione oleosa di cloramfenicolo, usata per trattare la meningite meningococcica (malattia capace di uccidere in 24 ore). Tale farmaco era l’alternativa al trattamento con ampicillina, che richiede 4 infusioni endovenose al giorno, contro un paio di iniezioni intramuscolari in tre giorni per il cloramfenicolo. Una bella differenza, per trattare pazienti in strutture sanitarie carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina. Questo farmaco serve per trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi, più conosciuta come malattia del sonno (trasmessa dalla famosa mosca tse-tse). Bene, mentre il vecchio farmaco usato (un derivato dell’arsenico estremamente tossico e somministrabile in dolorose iniezioni) diveniva anche inefficace per l’insorgenza di ceppi di parassiti resistenti, appare questo nuovo ritrovato. Sfortunatamente due anni fa la ditta produttrice, detentrice del brevetto, ha deciso di sospendee la produzione per motivi commerciali. E i circa 300 mila malati si vedono rioffrire il vecchio melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo mercato globalizzato.

Uno dei problemi principali è causato dal brevetto che protegge il farmaco. Il brevetto rappresenta un diritto sacrosanto dell’industria per salvaguardare i frutti dei sui investimenti in sperimentazioni. Accade però che i brevetti si tramutino in micidiali armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di sviluppo, ma in realtà detentori di tecnologie sufficienti per una produzione farmaceutica. Nazioni come India, Thailandia, Sudafrica o Brasile sono in grado di produrre farmaci utili per le loro popolazioni e quindi rivenderli a prezzi accessibili. Il prezzo di farmaci come il fluconazolo, efficace in gravi infezioni fungine, crolla così dai 20 dollari al giorno per un trattamento in Kenya, dove è importato, a meno di un dollaro al giorno in Thailandia, dove è prodotto da una azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una norma che si chiama compulsory licensing, o licenza obbligatoria (vedi box).
A questo punto, la domanda che sorge è: etica e sviluppo economico del settore farmaceutico sono obiettivi incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche inteazionali (ad esempio, British Medical Joual e JAMA) sostengono che l’etica è compatibile con l’economia. Per questo i medici, che operano in questi contesti, sono stanchi di dover pensare, di fronte all’ennesima morte di un loro paziente: «Mi spiace. Stai morendo a causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’AIDS mostra poi cifre apocalittiche. Il 95% dei malati di Aids nel mondo non ha accesso a farmaci efficaci per restituire salute e dignità. Ma (fatto ancor più grave) i trattamenti per ridurre significativamente la trasmissione verticale dell’infezione da madre sieropositiva a figlio al momento del parto non sono disponibili proprio nei paesi dove questa modalità di trasmissione sta segnando le nuove generazioni, condannando a morte entro 5-8 anni un bambino già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina, efficaci anche se somministrati per solo 4 settimane intorno alla data del parto, sono vittime delle stesse regole di mercato. Spietati brevetti ne permettono la vendita a prezzi proibitivi e ne impediscono la produzione da parte di altre aziende. Se è vero, si può sempre applicare la licenza obbligatoria. Ci ha provato la Thailandia iniziando a produrre Azt per le sue donne (tantissime) incinte e sieropositive. Il farmaco ha avuto il costo abbattuto del 7000%.
La reazione degli USA, dove risiede la ditta detentrice del brevetto, è stata: non possiamo impedirtelo, ma possiamo però ridurre le importazioni dalla Thailandia… Cosa questa insostenibile in questo momento di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano troppo; farmaci che esistono, ma non vengono prodotti, germi che divengono resistenti ai comuni trattamenti (TBC, leismaniosi, tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca farmaceutica ha altri obiettivi… e le cifre di morte e malattia continuano ad avere parecchi zeri nei paesi dei poveri del mondo. Quello che basterebbe è esigere un «diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

Carlo Urbani




Guarigioni vere con medicine presunte


Si ricorre a placebo, come il bastone, ma anche occhi di vetro, cuori di corallo o d’oro, nonché al sangue del paziente, urina, saliva, unghie, capelli.

Spesso capita di sentire o leggere cose strane su credenze e pratiche terapeutiche esotiche o nostrane, che ci lasciano stupiti, increduli ed anche un po’ scettici. Come è possibile, ci si chiede, che miscele di foglie «fredde» o poltiglie di erbe «calde», possano influire sul decorso di una malattia con effetto risolutivo? Che infezioni, intossicazioni, ferite, gravidanze, malattie nervose, asma… possano essere curati con organi e prodotti del regno animale, usati anche solo in effigie e quando il loro modo di applicazione esclude, a priori, un’azione farmacologica?
Vien da pensare che ci sia qualcosa in più in queste pratiche mediche tradizionali, qualcosa che è legato al concetto di suggestione più che a quello di sostanza curativa. In altre parole, si tratta di ciò che viene definito dalla medicina occidentale «effetto placebo», definizione data ad ogni medicamento che si somministra più per compiacere l’ammalato che a scopo curativo.
Il placebo comprende qualsiasi mezzo chimico, fisico, chirurgico o psicologico che simuli un effetto terapeutico. Anche nella medicina occidentale l’«effetto placebo» è ben documentato, particolarmente dove sono presenti sintomi soggettivi accentuati e intensa partecipazione psicologica del paziente, come nelle malattie psicosomatiche. Angina pectoris, artrosi, malattie reumatiche, cefalee, ipertensione essenziale, febbre da fieno, stati asmatici, mal di mare, tosse, disturbi dell’ulcera peptica e stati dolorosi post-operatori… beneficiano in molti casi di effetti favorevoli con la somministrazione di un placebo.
Servirsi di sostanze-placebo, pur essendo una prassi non abituale e non sempre ben accetta nella medicina occidentale, si è rivelato in diversi casi, particolarmente nell’ambito della patologia psichiatrica, un importante sostegno morale per il malato, quasi «un oggetto» investito di potere terapeutico con funzione simbolica.
Secondo uno studioso, il 35-45% di tutti i medicinali, somministrati come placebo, è costituito da sostanze incapaci di avere un effetto sulle malattie per le quali è prescritto.

I nteressante, a questo proposito, è un placebo un po’ particolare: il bastone; convalescenti di malattie agli arti inferiori che sono dovuti ricorrere al bastone per i primi passi, in seguito non possono più fare a meno di portarlo anche se perfettamente guariti. Il bastone, anche solo tenuto in mano, dà loro un senso di forza e sicurezza che è necessario per rinforzare l’equilibrio e l’attività motoria.
Se l’«effetto placebo» vale nella nostra medicina, vale di più per l’etnomedicina, ossia per le medicine tradizionali in cui un’infinità di «placebo» e di insolite pratiche mediche e credenze trovano una spiegazione in quel vasto campo, solo in parte esplorato, dei fenomeni psicosomatici.

E cco una «carrellata etnologica», quasi un affresco carico di colore, di placebo: l’occhio (in vetro) come talismano contro il malocchio, il cuore (in oro, argento, corallo) per preservare da varie malattie, ma anche sangue, urina, saliva, unghie, capelli!
Secondo credenze arabe, poiché nel sangue possono risiedere spiriti apportatori di malattie, si ricorre immediatamente al salasso quando si presentano disturbi di un certo tipo. In Angola il sangue sano, estratto con il metodo delle ventose, viene utilizzato per curare ustioni. In Marocco si è convinti che si possa migliorare la bellezza dei denti estraendo qualche goccia di sangue dal mento. Nel Gabon si ricorre al sangue per fare una prognosi per la malattia del sonno; lo stregone (n’ganga) prende il sangue del malato e lo versa su foglie di colocasia esculenta: se il sangue diventa nero, la malattia è incurabile e il malato deve morire. Nelle Filippine si fa bere alla gestante una piccola quantità del suo sangue per alleviare le sofferenze del primo parto.
Anche l’urina umana è un farmaco di grandissimo uso nelle medicine tradizionali. In Libia il bambino, che stenta a parlare, o la persona che ha poca memoria devono urinare in una pozza di acqua stagnante per guarire il loro disturbo. In Eritrea si cura l’asma bevendo un bicchiere della propria urina ogni mattina, per dieci giorni consecutivi, seguito subito da uno spicchio d’aglio.
Dulcis in fundo? In Australia con urina di persona sana si curano le ferite. Nelle Filippine con la propria urina si trattano le malattie degli occhi, purché il liquido sia raccolto alla sera e al mattino seguente, a distanza di 12 ore; inoltre, con la prima urina di un bambino, la madre si frizionerà i capelli per impedie la caduta. In Guatemala si cura l’asma dando da bere all’ammalato la sua urina; infine le coliche viscerali scompaiono se si ingerisce, per una sola volta, una miscela di urina (3-5 gocce), acqua e sale. Lavarsi la faccia con l’urina del neonato, ogni volta che fa «pipì», è una buona cura per la puerpera che soffre di macchie gravidiche.
La radice di chenopodium ambrosioides, macerata in un bicchiere di urina, è utile per combattere il parassitismo intestinale: si beve la pozione ad intervalli regolari. In Venezuela con l’urina si combatte l’alito cattivo (bee tre sorsi appena svegli), la stitichezza (clisteri di urina), la tigna del cuoio cappelluto (sedimenti di urine lasciate in riposo per 24 ore).
I Malargüe dell’Argentina curano gli eczemi con l’urina di lattante, la sterilità con quella di una donna gravida e nei parti difficili ricorrono all’agua del marchante, ossia l’«urina dell’eremita», un uomo che vive come un anacoreta del passato, in preghiera e lontano dal mondo.
La saliva, come rimedio, ha un uso universale. Nelle Filippine il tambalan (guaritore-erborista) cura con la propria saliva febbri, dolori di stomaco e altri disturbi; ma il manulutho, il medico «di base» del villaggio, cura esclusivamente con la saliva, sputandola sulla faccia del malato o bagnando con essa le zone infette della pelle. Tra i Malargüe la pedra bezoar (un calcolo spesso presente nello stomaco del lama) acquista poteri terapeutici solo se, appena estratta, viene bagnata con saliva. Nelle Hawai il kakuna (medico tradizionale) trasmette le sue conoscenze mediche agli allievi bagnando con la propria saliva l’interno della loro bocca.
In Burkina Faso e Etiopia, infine, le madri leccano il neonato per farlo crescere bello e sano. Un proverbio recita così: «Quando la madre lecca molto il bambino, Dio è contento, come quando ciascuno paga i suoi debiti».

Liliana Pizzoi




I parassiti del Mekong


QUESTA RUBRICA

Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un miglioramento globale della salute delle popolazioni. Tuttavia resta ancora elevatissimo il numero di individui, soprattutto nei paesi della fascia intertropicale, che non hanno accesso alle cure sanitarie, e lo scarto tra poveri e meno poveri si è ulteriormente approfondito.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), 2 miliardi di individui vivono nella povertà, e di questi 700 milioni vivono in situazioni di estrema precarietà. Per queste persone l’accesso a servizi sanitari e a cure mediche non è assolutamente assicurato, quando addirittura impossibile. La povertà genera malattie, attraverso la mancanza di igiene, strutture sanitarie e adeguati trattamenti, educazione. Per questo in molti paesi l’attesa di vita alla nascita non supera i 50 anni, e sono malnutrizione e tutta una serie di malattie tropicali a compiere la decimazione soprattutto nei primi anni di vita.
Nel 1977 i governi e l’OMS nell’Assemblea generale hanno fissato l’obiettivo di garantire la salute per tutti i popoli del mondo entro l’anno 2000. Purtroppo tale traguardo sembra ancora ben lontano, e addirittura in alcune aree si è assistito ad un deterioramento della situazione sanitaria e della qualità della vita.
Per chi vive in un paese sviluppato è in genere difficile immaginare la situazione nella quale la gran parte dell’umanità vive nei paesi in via di sviluppo. E di molte delle malattie più diffuse al mondo si sa quasi nulla, spesso anche il nome suona del tutto insignificante, come avitaminosi, schistosomiasi, dracunculosi, dengue, e così via. Si impiegano nel mondo risorse enormi per la ricerca sul cancro, o le cardiopatie, o le malattie vascolari, ma non tutti sanno che non è per queste malattie che la maggioranza dell’umanità soffre e muore.

In questa rubrica, attraverso brevi resoconti di giornate di lavoro in alcuni paesi tropicali, ci racconteremo qualcosa che riguarda la salute, o meglio l’assenza di salute, in questo mondo dei più sfortunati, dove povertà e malattia si generano a vicenda. Ca.U.


L’ATR72 della «Royal Air Cambodge» sfiora con il carrello le cime di alcuni alberi. Dopo aver posato rumorosamente le ruote sulla corta pista in terra battuta, le turbine frenano con un ruggito la corsa dell’aereo. Un’ora abbondante di volo ci ha portati all’aeroporto di Stung Treng, nel nord-est della Cambogia, dove il Sesan e il Sekong si versano nel Mekong, a circa 40 chilometri dalla frontiera con il Laos.
Pochi minuti prima, seduto vicino al finestrino, osservavo il paesaggio sotto di me e, nei varchi tra i cumuli di condensa tipici di quell’ora, intorno a mezzogiorno, scorrevano lentamente risaie, foreste e fiumi. Il corso del Mekong, visto dall’alto, lascia immaginare l’imponenza di questo fiume, che disegna ampie curve nel verde intenso della vegetazione. A stento si possono vedere i piccoli villaggi sulle sue sponde, giusto una linea di quadratini di un altro colore, tra cui è magari identificabile il tetto variopinto di una pagoda. Ed è difficile immaginare in questo stupendo quadro quante incredibili atrocità siano state consumate, e quanta sofferenza sia nascosta sotto quegli alberi. Il verde intenso della foresta a tratti scompare, per lasciare il posto ad ampie macchie grigiastre, testimonianza della deforestazione selvaggia che incombe nella regione.
Ora, sbarcati nell’aeroporto di Stung Treng, ci prepariamo a risalire un tratto del Sekong, per andare a visitare gli abitanti di un gruppo di villaggi più a monte. Poco più tardi stiamo già scivolando sulle acque blu e perfettamente lisce del fiume, tra due pareti di impenetrabile verde. Con me viaggiano due medici e due microscopiste cambogiani. Trasportiamo farmaci e materiale di laboratorio.

Sulla piroga sventola la bandiera di Médecins Sans Frontières (MSF), che dal 1993 cerca di far fronte in questa regione al grave problema della schistosomiasi. Oggi stiamo andando a verificare la presenza della malattia in una zona molto remota, ed eventualmente distribuire il farmaco che trasportavamo, il praziquantel.
La schistosomiasi è uno dei problemi sanitari più importanti dei paesi della fascia intertropicale, e la forma diffusa lungo il fiume Mekong è una delle più gravi. In Cambogia le dimensioni del problema sono state comprese solo di recente, grazie all’intervento di MSF che ne ha identificato l’area più colpita e ha messo in opera delle misure di controllo. In molti villaggi lungo il Mekong i segni della malattia sono drammaticamente evidenti.
Gran parte dei bambini soffrono di dolori addominali cronici, emettono feci con sangue e muco, il loro addome si gonfia progressivamente per l’ingrossamento di milza e fegato, ed a partire dagli anni dell’adolescenza sviluppano i primi sintomi della cirrosi epatica, la stessa malattie che colpisce gli alcolisti. Si forma acqua nella pancia (ascite), si gonfiano le vene sulla superficie dell’addome e si formano varici nell’esofago. Negli stadi avanzati della malattia il soggetto è estremamente emaciato, sofferente, con una enorme pancia, gambe magre ed edematose, fino a che la rottura delle varici esofagee e la conseguente emorragia ne causa il decesso. Coloro che sono infettati da molti parassiti hanno anche un arresto della crescita e dello sviluppo sessuale, così che l’età apparente trae spesso in inganno e un ventenne può essere facilmente preso per un bambino di 11-12 anni.
La schistosomiasi è causata da un piccolo verme che vive nelle vene intorno alla parete dell’ultimo tratto dell’intestino. Se le uova prodotte con le feci arrivano nelle acque del fiume, si chiudono e liberano un piccolo organismo che, nuotando, viene attirato particolarmente da un certo mollusco, una piccola conchiglia che vive nelle fessure delle rocce semisommerse nel fiume. All’interno della conchiglia il parassita matura e forma una piccola larva. Questa lascia la conchiglia e si libera nelle acque del fiume. Se entra in contatto con la pelle umana, è in grado di perforarla ed attraversarla. Una volta penetrato il parassita si lascia trasportare dal sangue e, dopo un complicato percorso, raggiunge la sede definitiva del suo sviluppo, appunto le vene intorno all’intestino, per diventare adulto.
Il problema principale è causato da quelle uova che, prodotte dalla femmina, non riescono a mescolarsi alle feci come previsto, ma vengono portate via dalla corrente sanguigna nelle piccole vene dove i vermi vivono. Queste uova finiscono intrappolate nel fegato, causandone l’ingrossamento, la fibrosi, e poi la cirrosi. Questo fa ingrossare la milza e fa aumentare la pressione del sangue nella vena porta. Questa «ipertensione» causa l’ascite e la formazione di varici esofagee. Più sono numerosi i vermi adulti, più grave è la malattia. Ne deriva che solo i soggetti continuamente esposti a nuove infezioni sviluppano gravi sintomi. Essere esposti all’infezione significa avere molti contatti con l’acqua del fiume, nelle zone dove ci sono quelle conchiglie e dove nelle acque finiscono le feci umane. In zone disabitate la trasmissione non può esistere. E chi ha più contatti con il fiume? Basta arrivare in un villaggio per capirlo.

La nostra piroga quel pomeriggio è arrivata a Sdau, un villaggio di un migliaio di abitanti, lungo il Sekong. È quasi il tramonto: i colori del fiume e del cielo sono stupendi. Spento il motore dell’imbarcazione per arrivare dolcemente sulla riva, piombiamo in un piacevole silenzio, nel quale è facile sentire le grida dei bambini che giocano poco lontano, tutti immersi nell’acqua del fiume… vicino le rocce dalle quali si tuffano. Ecco il primo bersaglio della malattia: i bambini.
Il loro contatto con l’acqua del fiume è importante. È forse l’unico gioco disponibile e offre un piacevole ristoro nell’afa soffocante. E poi correre nei campi non è, forse, così raccomandabile… in un paese con una delle più alte concentrazioni al mondo di mine antiuomo! Poco più vicine alla riva le sorelle più grandi, sedute sulle rocce semiaffioranti, a lavare i poveri panni o intente a sciacquare gli umili utensili domestici: un cesto di bambù, un mestolo, o qualche ciotola. E sulla riva qualche bambino più piccolo, che fa la cacca nel fiume. Una scena normale lungo un fiume tropicale, ma è questo il ritratto della trasmissione della schistosomiasi. Bambini infetti fanno la cacca, dove probabilmente ci sono delle uova di schistosoma. Poco lontano le rocce ospitano la conchiglia che fa diventare infettante la larva, e nella stessa zona altri che nuotano, ed il cerchio si chiude. Incuriositi dal nostro arrivo i bambini escono all’asciutto, mostrando i loro enormi ventri, costellati di tante piccole cicatrici. Ci accompagnano silenziosi lungo il sentirnero che sale al villaggio.
Girando nelle case, palafitte di legno o di bambù per i più poveri, incontriamo altri bambini, quelli che non hanno abbastanza forza per andare a schiamazzare nel fiume. Sono seduti sulla scala che sale al piano rialzato, con lo sguardo più triste degli altri, e la pancia ancora più grossa. Alcuni adulti sanno che quei bambini sono malati di qualcosa che ha a che vedere con il fiume, ma sanno anche che per loro, gli abitanti di Sdau, come per quelli di tantissimi altri villaggi in Cambogia, non ci sono cure. L’ospedale più vicino è a due ore di piroga, e poi bisogna pagare le medicine, e quassù soldi non ce ne sono. Non è facile avvicinare le persone, tutti sembrano diffidenti, ed anche un po’ spaventati. La strategia del terrore fa ancora sentire il suo alito in Cambogia. In questi villaggi è facile morire anche per molto meno: basta una diarrea o una polmonite, quando poi non si accanisca su questa gente una epidemia di febbre emorragica o di malaria. Le donne partoriscono nelle loro capanne senza alcuna assistenza sanitaria ed in precarie condizioni igieniche. Ci dicono che a volte i bambini muoiono vomitando sangue (la rottura delle varici esofagee). Nonostante l’evidenza decidiamo di esaminare alcuni campioni di feci per confermare la presenza della malattia.

Intanto do un’occhiata al resto del villaggio, mentre penso a cosa servirebbe per restituire la salute a queste persone. Sono colpito dalla loro povertà. L’unico bene che custodiscono in casa è una piccola riserva di riso e qualche utensile. Nella «passeggiata» mi accompagna Huong, silenzioso ragazzino con una fionda appesa al collo, un viso pallido e affilato, ed un enorme ventre che lo obbliga a camminare con la schiena curvata indietro, come una donna alla fine della gravidanza. Mi osserva curioso e, dal modo di sorridere, sembra evidente che si aspetta qualcosa da me.
Passiamo la notte nel villaggio, rassicurati dagli abitanti che ci mostrano i loro AK47, con i quali ci difenderebbero dai khmer rossi. Al mattino cominciamo a distribuire il farmaco. Verrebbe voglia di curare anche tutte le polmoniti, congiuntiviti, anemie e quanto altro scorre sotto i nostri occhi. Purtroppo, quando le risorse sono carenti, occorre stabilire delle priorità e la schistosomiasi, per la grave malattia e la mortalità che ne derivano, qui a Sdau rappresenta una priorità. Distribuiamo la dose di praziquantel ad ogni abitante. In queste situazioni costa meno trattare tutti che esaminare tutti e trattare solo le persone infette. È una delle regole in simili programmi di sanità pubblica nei paesi in via di sviluppo.

Huong vuole essere il primo a ricevere la medicina, e rimane vicino a noi ad assistere al trattamento degli altri del villaggio. Si fa anche fotografare orgoglioso il suo ventre enorme. La medicina tradizionale di queste regioni tratta il dolore addominale facendo delle piccole bruciature con dei tizzoni ardenti sulla pelle. Per questo le pance di chi ha la schistosomiasi qui sono piene di cicatrici: sono le bruciature che i bambini crescendo accumulano, ogni volta che si lamentano dei loro dolori. Purtroppo chi è già gravemente malato non beneficia del trattamento: la cirrosi del fegato è una malattia irreversibile.
Trattae i sintomi per allungare la sopravvivenza è possibile, ma tali trattamenti sono completamente fuori della portata di chi vive in villaggi come Sdau. Dopo due giorni lasciamo il villaggio, con almeno un problema in meno, ma allontanandoci lo immaginiamo sprofondare di nuovo nell’isolamento e nella mancanza totale di cure mediche.
In zone come queste la schistosomiasi interessa anche l’80% dei bambini, e il trattamento costa 12 centesimi di dollaro: circa 180 lire. Ma moltiplicare le 180 lire per le decine di migliaia che aspettano di essere trattati fa diventare il costo insostenibile per il paese, e poi la mancanza di infrastrutture ne rende difficile la distribuzione, e negli ospedali non c’è personale formato per controllare la distribuzione del farmaco e l’evoluzione della malattia, e ancora in molte aree l’accesso è difficile a causa dell’insicurezza: khmer rossi, banditi, anche gli infermieri cambogiani hanno paura ad andare in certe zone. Così un problema in apparenza semplice diventa in realtà difficile in paesi (e non sono pochi) come la Cambogia.

Quando, sei mesi dopo, torniamo a Sdau, Huong è già morto, ma in tanti altri l’infezione è scomparsa. L’infermiere che ci assisteva sa ora riconoscere agevolmente i malati attraverso i sintomi. E la gente è un po’ più fiduciosa.
A piccoli passi il programma sta dando i suoi frutti. Dopo tre anni di attività, in molti villaggi le «pance grosse» stanno scomparendo, ma ne restano altri in attesa. Di un po’ di salute e pace. E magari di una piroga di MSF.


LA SCHISTOSOMIASI (BILARZIOSI)

La schistosomiasi, anche conosciuta come bilarziosi, in alcune aree del pianeta è la seconda più diffusa malattia tropicale, dopo la malaria, ed è causa di una malattia potenzialmente grave. È causata dall’infezione di un parassita, le cui diverse specie causano o una schistosomiasi urinaria o una intestinale. La forma intestinale da Schistosoma mekongi rappresenta forse la forma più grave di queste infezioni, ed è diffusa in un tratto del Mekong nel sud del Laos, e in Cambogia, lungo il tratto superiore del Mekong che la attraversa ed in alcuni suoi affluenti. Si stima dell’ordine di decine di migliaia il numero dei soggetti infetti, e l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto in questa malattia una delle priorità in termini di salute pubblica nell’area.
La malattia che ne deriva è causata essenzialmente da una migrazione aberrante delle uova prodotte dal verme adulto nei plessi venosi del grosso intestino. Queste uova causano fibrosi e cirrosi del fegato, e conseguente ipertensione portale. Infezioni ripetute causano un aumento del numero di parassiti, e quindi una maggiore gravità della malattia. Per le loro abitudini i bambini rappresentano il gruppo più colpito. Non sono efficaci misure di controllo mirate, indirizzate contro l’ospite intermedio (una conchiglia che vive nelle fessure delle rocce del fiume), ma è notevolmente efficace un trattamento periodico di tutta la popolazione esposta al rischio di infezione, con una singola dose di praziquantel.
Il farmaco ha scarsissimi effetti collaterali, ed il suo impiego per campagne di trattamenti di massa ha ormai una enorme esperienza. Altre strategie di controllo, abbinate al trattamento di massa, sono l’educazione sanitaria e, quando possibile, migliorare l’igiene ambientale. L’educazione sanitaria mira a ridurre il versamento delle feci umane nei corsi d’acqua e a evitare il contatto delle persone con l’acqua dei tratti rocciosi del fiume. Questo dovrebbe fornire il risultato di diminuire il numero di infezioni successive. La costruzione di latrine rappresenta un importante traguardo, e non solo per la schistosomiasi. Ma il costo rende questo obiettivo irraggiungibile.

Carlo Urbani