Il web ti vede


Il social network più popolare si è lanciato alla conquista del mondo. Per far questo stringe accordi con compagnie telefoniche e fornisce servizi gratuiti. Qualche stato, spinto dalla società civile, dice no. Facebook punta al controllo totale della rete e a incamerare enormi quantità di dati su ognuno di noi. Per poi orientare le nostre vite.

Uno scontro tra due delle più popolose potenze mondiali si è consumato tra il 2014 e il 2015: da una parte l’India, con un miliardo e 250 milioni di abitanti, dall’altra Facebook, con un miliardo e mezzo di utenti. I due giganti sono venuti ai ferri corti, legali, per l’iniziativa Facebook Free Basics, lanciata dal social network in 53 paesi in Africa, Medio Oriente, Asia, Oceania e America Latina, economie emergenti in cui la maggior parte della popolazione ha accesso limitato a internet a causa della scarsa diffusione di computer e smartphone, o per la parziale copertura di rete del territorio nazionale, o ancora per i costi proibitivi delle connessioni. Il programma Facebook Free Basics, fortemente voluto da Mark Zuckerberg in persona (fondatore di Facebook, ndr), consiste essenzialmente nella stipulazione di accordi con operatori mobili locali per fornire un accesso a Facebook di default, ovvero senza la necessità di usare un browser (programma per la navigazione in rete, ndr) per aprire il sito del social network, e con costi di navigazione completamente a carico della compagnia mobile.

Facebook o internet?

Il fatto che l’iniziativa si chiamasse precedentemente Internet.org rivela la vera ambizione del progetto: quella di rendere Facebook non solo la porta d’accesso alla rete, ma un vero e proprio sinonimo di internet. Questa tendenza, in realtà, precede il lancio di Internet.org nel 2014 in Zambia. Due anni prima, nel 2012, nel corso di uno studio per l’organizzazione Research ICT Africa, il capo del team di ricerca, Richard Stork, aveva notato un dato bizzarro: il numero degli intervistati che dichiarava di usare Facebook era superiore a quello di chi affermava di usare internet.

Un caso simile si era verificato, nello stesso anno, in Indonesia, dove Helani Galpaya, una ricercatrice per il think tank LIRNEasia, aveva commentato così i risultati del suo studio: «Sembra che, per gli intervistati, internet non esista. C’è solo Facebook». Altre ricerche condotte in Africa e Asia del Sud confermarono questa tendenza: Facebook e internet sono ormai termini intercambiabili. Un fatto incoraggiante alla vigilia dello sbarco di Facebook Free Basics nella frontiera più ambita: l’India. Per Zuckerberg, intenzionato a far crescere la sua creatura nel più grande mercato mondiale ancora disponibile (in Cina Facebook è tuttora proibito) questo era tutt’altro che un problema: del resto, come ribadito dallo stesso fondatore del social network in interventi pubblici, articoli pubblicati su giornali locali e incontri a porte chiuse con autorità politiche indiane, il punto fondamentale del progetto era consentire a centinaia di milioni di persone di restare in contatto e condividere ricordi, notizie e opinioni. Cento milioni sono già utenti di Facebook ma il potenziale è di 800 milioni. Che tutto ciò avvenga all’interno di un recinto è, a detta della multinazionale, secondario. Facebook Free Basics, nelle parole di Zuckerberg, era un regalo. Che però l’India ha rifiutato.

Il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari (centro) e il Vice President eYemi Osinbajo (sinistra) posano con Mark Zuckerberg, fondatore di facebook,  2/09/2016. / AFP PHOTO / SUNDAY AGHAEZE

Il controllo del web

La campagna contro l’iniziativa di Zuckerberg ha portato per la prima volta al centro del dibattito pubblico il tema della neutralità della rete, ovvero il principio che i provider di banda larga debbano concedere a tutti i produttori di contenuti lo stesso spazio. Un controllore (in questo caso Facebook) a guardia dell’accesso al web avrebbe potuto decidere a quali organi d’informazione dare la priorità, lasciando in ombra altri. La scelta potrebbe essere dettata da ragioni politiche o di mercato, dando spazio a contenuti che hanno più possibilità di essere cliccati. La mobilitazione di attivisti ed esperti della rete ha così costretto l’autorità indiana per le telecomunicazioni a revocare l’autorizzazione al servizio offerto dal gigante digitale tramite un operatore di telefonia mobile locale. Un no, arrivato a febbraio 2016, che è stato il più traumatico nei 12 anni di esistenza di Facebook. Per Nikhil Pahlwa, fondatore di «Medianama», un sito d’informazione sul settore delle telecomunicazioni indiane, la minaccia principale sarebbe stata quella di rendere la compagnia di Menlo Park (Facebook) l’unica porta d’accesso al web per la gran parte dei cittadini indiani, che così avrebbero attinto prevalentemente alle informazioni disponibili nel social network per farsi delle opinioni sulla politica, l’economia e la società del proprio paese e del mondo intero.

False notizie, che costano

Non si tratta di riflessioni oziose tra addetti ai lavori, perché le conseguenze sono reali e riguardano la vita, e spesso la morte, di migliaia di persone. Sempre in India, nel novembre 2016, il governo di Navendra Modi ha deciso di mettere al bando, da un giorno all’altro, l’86% della carta moneta in circolazione come misura radicale contro la corruzione. Poche ore prima dell’annuncio ufficiale, la notizia del bando circolò a velocità vertiginosa su WhatsApp, il servizio di instant messaging di proprietà di Facebook, usato da 180 milioni di indiani, e sullo stesso Facebook, scatenando un vero e proprio assalto a banche e altri istituti finanziari per cambiare le banconote di piccolo taglio. Inoltre, secondo la voce che circolava sui social media, le nuove banconote da 500 e 2.000 rupie avrebbero contenuto un microchip per tracciarne i movimenti. La notizia era ovviamente falsa, ma aveva contribuito a seminare il panico e a rendere più frenetica la corsa all’accumulo di banconote di grosso taglio prima del passaggio al nuovo formato. Nella ressa, decine di persone hanno perso la vita.

Un effetto ancora più drammatico della diffusione di notizie false su Facebook si è verificato in Sud Sudan, il più giovane paese africano insanguinato da una guerra civile dal dicembre 2013. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato lo scorso novembre, «i social media sono stati usati dai sostenitori di tutte le fazioni, inclusi alcuni membri del governo, per esagerare incidenti, diffondere falsità e minacce o lanciare messaggi d’odio».

L’uso dei media per incitare alla violenza non è una novità: è nota l’esperienza di Radio Mille Colline, che contribuì attivamente ad aizzare estremisti Hutu nel 1994 in Rwanda contro i propri compatrioti di etnia Tutsi. E l’importanza delle notizie false come strumento di propaganda governativa per coalizzare le masse contro un nemico, o per inventare il nemico tout court, ha una lunga storia alle spalle. Certo, i social media consentono una circolazione più rapida e virale della propaganda, come il recente dibattito sulle fake news, esploso dopo la vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni statunitensi, ha messo più volte in luce.

Visitatori al Africa Web Festival (AWF) in Abidjan il 29/11/2016. / AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO

Cosa sono i Big Data?

Nella discussione sulla rivoluzione in atto nella comunicazione politica, resta sullo sfondo un elemento centrale. Facebook e altri social media consentono di identificare con estrema precisione gli individui non solo più recettivi nei confronti delle fake news, ma anche più autorevoli nella loro rete di contatti, cosicché una bufala rilanciata da loro ha maggiore credibilità. Tutto ciò è reso possibile dalla capacità di social media come Facebook di raccogliere una mole senza precedenti di informazioni personali, i cosiddetti Big Data.

Il tema dei Big Data sta suscitando l’entusiasmo di esperti di cooperazione per lo sviluppo e interventi umanitari, interessati al modo in cui le tecnologie digitali possono aumentare la precisione degli interventi e migliorarne l’efficienza. Meno discusso è il lato oscuro dei Big Data, ovvero quello che la matematica e attivista americana Cathy O’Neil chiama, nell’omonimo libro appena pubblicato, le Weapons of Math Destruction (armi di distruzione matematica, ndr), un gioco di parole sull’espressione Weapons of Mass Destruction, armi di distruzione di massa. Nel saggio della O’Neil le armi sono gli algoritmi usati per elaborare l’enorme quantità di dati prodotti dalle nostre comunicazioni sui social media, transazioni finanziarie e spostamenti fisici, per costruire dei profili che possono essere sfruttati per gli scopi più vari. Il mercato dei Big Data è particolarmente sofisticato negli Stati Uniti, dove sono usati per predire in quali aree urbane verranno commessi dei crimini, o il tasso di rischio per chi chiede un prestito, o il premio per un assicurato.

Cathy O’Neil sostiene che, attingendo alle reti sociali dei cittadini, questi servizi rischiano di cristallizzare delle disuguaglianze esistenti. Pertanto, una persona che proviene da un quartiere disagiato e ha amici o parenti con una storia di insolvenze alle spalle ha meno possibilità di ricevere un prestito e rischia di essere fermato e perquisito più spesso dalla polizia nella zona in cui vive. Anche nei paesi in via di sviluppo un numero crescente di fornitori di servizi finanziari sta usando dati estratti dai social media per stabilire il livello di rischio dei potenziali clienti: è il caso, ad esempio, di Branch e First Access, due fintech, ovvero compagnie finanziarie che usano tecnologie digitali, che offrono prestiti a centinaia di migliaia di utenti di denaro mobile (mobile money, vedi MC luglio, agosto-settembre e novembre 2014, ndr) in Kenya e Tanzania sulla base dei dati raccolti tra contatti telefonici e su Facebook.

Minaccia alla democrazia

Secondo Frank Pasquale, un giurista dell’Università del Maryland e autore di The Black Box Society, la fiducia cieca nei dati generati dall’uso di tecnologie digitali e soprattutto l’opacità dei meccanismi decisionali fondati sugli algoritmi, nasconde una minaccia al principio fondativo delle istituzioni democratiche, ovvero il «conoscere per deliberare». E qui, per chiudere il cerchio, conviene tornare ai social media, ai due maggiori terremoti politici del 2016, ovvero il referendum sul Brexit britannico e l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, e al filo rosso che lega questi due eventi.

Lo scorso dicembre, due giornalisti investigativi, Hannes Grassegger e Mikael Krogerus, hanno pubblicato sulla rivista svizzera Das Magazin il frutto di un’inchiesta durata diversi mesi che getta una luce inquietante sul modo in cui i Big Data estratti dai social media possono essere usati per individuare elettori tentennanti e condizionarli in una certa direzione. I due reporter hanno puntato la lente su un’agenzia con sede a Londra, la Cambridge Analytica, che ha prestato consulenza sia per Leave.EU, il fronte anti-europeista nel referendum del 23 giugno sulla permanenza britannica nell’Unione europea, che per la campagna elettorale di Trump nella corsa alla Casa Bianca. Cambridge Analytica appartiene al Scl (Strategic Communication Laboratories) Group, una società di comunicazione politica che ha seguito le campagne elettorali di partiti e movimenti politici in tutto il mondo, dalle elezioni in Sud Africa nel 1994 a quelle in Kenya nel 2013, passando da quelle in Ucraina nel 2004 a quelle in Romania nel 2008, incluso un progetto di ricerca condotto in Italia nel 2012 per un non specificato partito politico.

Identikit digitali

Guidata dal 41enne britannico Alexander James Ashburner Nix, la Cambridge Analytica è specializzata nella raccolta ed elaborazione di dati per «audience targeting», ovvero per identificare con la massima precisione i membri del corpo elettorale in modo da modulare messaggi politici che tocchino, per così dire, i tasti giusti. I social media offrono un enorme bacino di dati, e la potenza di calcolo degli strumenti a disposizione permette di trasformare questi dati in informazioni leggibili, stabilendo rilevanze statistiche. Ma ciò che trasforma queste informazioni in proiettili che colpiscono nel segno sono delle tecniche psicometriche ispirate alle ricerche di uno psicologo polacco dell’università di Cambridge, Michal Kosinski.

Durante i suoi studi nello Psychometric Centre dell’ateneo britannico, Kosinski si era occupato di ampliare le possibilità offerte da un modello per identificare diverse tipologie di personalità umana sviluppato negli anni ‘80, il cosiddetto modello Ocean, un acronimo dei termini che, in inglese, significano apertura (Openness), coscienziosità (Conscientiousness), estroversione (Extroversion), piacevolezza (Agreeableness) e nevrosi (Neuroticism). Secondo la teoria alla base di questo modello, la personalità di chiunque può essere ricondotta a una miscela, in parti diverse, di queste caratteristiche. Dopo aver messo a punto un test, MyPersonality App, per ricostruire le personalità dei partecipanti, Kosinski l’aveva condiviso su Facebook aspettandosi che poche decine di amici partecipassero al gioco. Aveva raccolto invece milioni di risposte.

Kosinski e il suo team di ricerca avevano lavorato su questa mole mastodontica di dati e, nel 2012, hanno pubblicato un articolo su un giornale accademico dimostrando che, conoscendo una media di 68 «mi piace» cliccati da utenti americani di Facebook, è possibile indovinare, al 95%, il colore della pelle e, all’85%, se il rispondente è democratico o repubblicano. Il ricercatore si spingeva fino al punto di affermare che conoscendo 70 «mi piace» di una persona la si conosce come se fosse un amico, con 150 come se fosse un figlio e con 300 come se fosse una moglie o un marito. Una disponibilità di oltre 300 «mi piace», elaborati secondo il modello Ocean, consente di conoscere l’utente più di quanto questo conosca se stesso.

Programmatori della start-up company Hacklab.in in Bangalore (India). / AFP PHOTO / Manjunath KIRAN

Big Data e politica

Secondo quanto riportato dai due giornalisti svizzeri, lo stesso giorno della pubblicazione dell’articolo Kosinski ha ricevuto una minaccia di denuncia e un’offerta di lavoro, entrambe da Facebook. Spaventato dai risultati della sua ricerca, e dalle sue implicazioni politiche, Kosinski però ha declinato l’offerta e, da quel momento, si è dedicato a mettere in guardia sull’impatto dei social media sul dibattito democratico, prevedendo il rischio che questa tecnica possa massimizzare l’influenza delle notizie false sui social media, marcando un pericoloso passaggio dal «conoscere per deliberare» al «conoscere per condizionare». Un incubo che è sembrato realizzarsi quando è emerso che Cambridge Analytica ha usato un metodo ispirato alla ricerca di Kosinski, e basato sull’applicazione del modello Ocean ai dati raccolti sui social media, sia per la campagna della Brexit che per quella di Trump. E che potrebbe rivelarsi molto più di una collaborazione una tantum: uno dei membri del consiglio di amministrazione di Cambridge Analytica è Stephen Bannon, ex direttore di Breitbart, il megafono della cosiddetta Alt-Right, la nuova estrema destra americana, stratega della vittoriosa campagna di Donald Trump e tuttora braccio destro dell’inquilino della Casa Bianca.

La tecnica, usata per la prima volta nel referendum britannico e nelle elezioni americane potrebbe trovare presto applicazione altrove. E potrebbe essere migliorata da agenzie concorrenti. Una delle più avanzate e opache compagnie che operano nel campo dei Big Data applicati alla comunicazione politica e alla raccolta d’intelligence è la Palantir Technologies, creata nel 2004 da Peter Thiel, miliardario tedesco-americano già fondatore di PayPal, il gigante dei pagamenti online nel 1999, e tra i primi a credere in Facebook, di cui tuttora detiene cinque milioni di azioni e siede nel consiglio d’amministrazione. Thiel, a differenza della grande maggioranza degli imprenditori della Silicon Valley, ha preso pubblicamente posizione a sostegno di Trump. La sua Palantir si occupa di analisi di antiterrorismo per il Dipartimento americano della difesa e per altre agenzie di spionaggio e attinge, tra gli altri, ai dati generati dalle comunicazioni sui social media.

Un semplice «mi piace» non dirà poi tanto, ma centinaia possono fornire un profilo completo. Un click non costa nulla ma, come nel famoso slogan forgiato dal video-artista Richard Serra nel 1973 e diventato popolare negli anni ‘90, «Se qualcosa è gratis, vuol dire che il prodotto sei tu».

Gianluca Iazzolino

 




Cina la storia aiuta il dialogo


Il rapporto tra Cina e gesuiti è antico. Una società di produzione cinese realizza film sulla vita di alcuni gesuiti famosi. Il successo è grande: l’audience raggiunge numeri a 9 cifre. Dopo un decennio (di film) i tempi sono maturi per un progetto ambizioso. Che potrebbe contribuire a migliorare i rapporti Cina – Chiesa cattolica.

La Cina sta riscoprendo la sua storia. E lo sta facendo attraverso i gesuiti. Negli ultimi anni, i film televisivi su Paolo Xu Guangqi, Johann Adam Schall von Bell, Giuseppe Castiglione e Ferdinand Verbiest, tutti missionari gesuiti, sono diventati veri casi mediatici con audience che in Europa non riusciamo neppure a immaginare. Questa riscoperta è frutto di una collaborazione tra le autorità di Pechino e la stessa Compagnia di Gesù. Una collaborazione che va avanti da più di un decennio con risultati che, all’inizio, sembravano impensabili.

Produzioni orientali

Tutto ha inizio alla fine degli anni Cinquanta con la nascita della Kuangchi Program Service, la società di produzione cinematografica dei gesuiti a Taiwan. «La Kuangchi Program Service – spiega Emilio Zanetti, gesuita italiano, che vi lavora – è la più vecchia società di produzione televisiva di Taiwan. È stata creata dai gesuiti nel 1958 e, da sempre, produce programmi educativi e di valore sociale. Nel 2003 i vertici dell’azienda sono entrati in contatto con la Jiangsu Broadcasting Corporation, la più grande società pubblica di produzione televisiva della Cina continentale. Allora il Presidente di Kuangchi era un laico ed era amico della presidentessa della Jiangsu. Dall’incontro è nata l’idea di produrre una pellicola su Matteo Ricci (1552-1610), gesuita, figura molto nota e apprezzata in Cina. L’idea piaceva a tutti, però è apparsa subito irrealizzabile, non tanto per motivi tecnici, ma di opportunità politica. Le autorità di Pechino non avrebbero apprezzato un film su Ricci che era uno straniero e un missionario cattolico (sebbene fosse anche un apprezzato scienziato). Si è così deciso di girare una pellicola su Paolo Xu Guangqi, amico cinese e collaboratore di Ricci, che si era convertito al cristianesimo. In questo modo, si poteva parlare in indirettamente anche del più noto gesuita italiano».

Il governo siamo noi

All’inizio delle lavorazioni, il gesuita Jerry Martinson, allora vicepresidente della Kuangchi, si preoccupa della censura e chiede ai funzionari della Jiangsu: «Ma siete sicuri di voler parlare di cristiani? Che cosa dirà il governo?». Gli rispondono: «Padre, non ci sono problemi: il governo siamo noi». A sottolineare che la Jiangsu è una struttura pubblica che si muove in piena sintonia con le autorità di Pechino. E, se c’è l’avallo della Jiangsu, dal punto di vista politico non ci sono problemi perché loro sanno come scrivere la sceneggiatura, sanno quali punti possono essere affrontati e quali è meglio evitare. «Con il film su Paolo Xu Guangqi – continua Zanetti -, i gesuiti sono entrati nei media cinesi dalla porta principale, cosa che risulta impossibile per qualsiasi altra organizzazione religiosa. Il fatto di essere gesuiti ci ha certamente favoriti perché la Cina e la Compagnia di Gesù hanno una relazione storica, fatta di rispetto e apertura dell’uno verso l’altro».

Audience da capogiro

La pellicola su Paolo Xu Guangqi va in onda nel 2005 su Cctv (China Central Television), la radiotelevisione pubblica cinese. E qui c’è la prima grande sorpresa: l’audience supera i cento milioni di telespettatori. Un risultato insperato, che stimola i gesuiti di Taiwan a rilanciare. L’occasione arriva nel 2006. L’allora Presidente cinese Hu Jin Tao va in visita ufficiale in Germania e nel suo discorso cita Johann Adam Schall von Bell (1592-1666), un gesuita tedesco che, come Ricci, visse e lavorò alla corte degli imperatori cinesi e fu la personalità occidentale che riuscì a raggiungere il più alto grado nella gerarchia dei mandarini (funzionari imperiali). Quando la presidentessa di Jiangsu viene a sapere che Hu Jin Tao ha parlato di Schall von Bell, contatta la Kuangchi proponendo di realizzare un film sul gesuita tedesco. E anche questo film riscuote un ottimo successo di pubblico.

«I buoni risultati raggiunti con Xu Guangqi e Schall von Bell – ricorda Zanetti – hanno convinto Martinson che era possibile insistere su questa strada. Nel 2009, quindi, ha lanciato l’idea di produrre, sempre in collaborazione con la Jiangsu, un film su Giuseppe Castiglione.

In Occidente, Matteo Ricci, Johann Adam Schall von Bell e il belga Ferdinand Verbiest (1623-1688) sono molto conosciuti. Castiglione, invece, è sconosciuto non solo in Europa, ma nel suo stesso paese, l’Italia (a parte una ristretta cerchia di esperti di arte).

In Cina, è in assoluto il gesuita più noto. Anch’io pensavo che Castiglione fosse un artista minore che, grazie alla fortuna, si era fatto un nome in Cina. Mi sbagliavo. Castiglione, nato a Milano, è rimasto 51 anni nella Città proibita e, in quel periodo, ha dato vita a quasi 550 progetti artistici. Ha realizzato dipinti di imperatori, delle loro mogli e concubine e di animali (famosi i quadri sui cavalli). Ma ha anche progettato i padiglioni occidentali dell’antico palazzo d’estate dell’imperatore». Castiglione rappresenta una svolta per la storia dell’arte in Asia perché ha introdotto le tecniche del chiaro-scuro e della prospettiva. Tecniche che ha inserito in una tradizione artistica millenaria, miscelando elementi occidentali e orientali con un gusto e una sapienza unici. Ai suoi tempi, gli imperatori invitavano moltissimi artisti occidentali a corte, ma solo pochi riuscivano ad avere successo. La memoria di Castiglione è talmente viva nei cinesi che il film, e qui è la seconda grande sorpresa, ha un successo enorme: nell’aprile 2015 raggiunge un’audience di seicento milioni di telespettatori.

I tempi sono maturi

Grazie al successo ottenuto dal film su Castiglione, il governo di Pechino si convince a fare un passo avanti e a mettere in programma una serie televisiva su Matteo Ricci. «Stavamo realizzando il film sul pittore gesuita Castiglione – spiega Zanetti -, quando Martinson è andato a Nanchino a parlare con il direttore della divisione documentari della Jiangsu Broadcasting Corporation. E questi gli ha detto: “Adesso i tempi sono maturi per realizzare un film documentario su Matteo Ricci”. Martinson ha colto la palla al balzo e gli ha risposto: “Va bene, noi siamo pronti!”». Le restrizioni sulle tematiche che riguardano gli stranieri e i religiosi sono cadute ed è possibile affrontare anche un tema delicato come quello di Ricci, missionario cattolico, straniero.

Così, quando nel 2015 le riprese del film su Roberto Castiglione terminano, la Kuangchi Program Service inizia a raccogliere fondi per un film sul gesuita di Macerata. «Nel settembre dello scorso anno ho iniziato a raccogliere fondi in Italia e in Germania – ricorda Zanetti -, poi mi sono recato negli Stati Uniti, infine a Taiwan e nella Cina continentale. È stato un lavoro non facile, ma all’inizio del 2016 ho messo insieme il budget necessario. A febbraio il direttore della televisione di Nanchino mi ha dato il via libera per partire e a marzo, gli autori hanno iniziato a scrivere la sceneggiatura».

Quattro pilastri

La sceneggiatura seguirà quattro blocchi tematici, che sono i pilastri della vita e dell’azione di Ricci. Il primo, che si intitolerà «Stringendo amicizie», tratta dell’amicizia tra persone e tra culture, valore portante del messaggio ricciano. La seconda «Oriente che incontra Occidente», riguarda l’amicizia di Ricci con Xu Guangqi. La terza si intitolerà «Curando i mali della Cina», perché Ricci e Xu Guangqi hanno lottato per migliorare il sistema agricolo, per superare la malnutrizione, per difendere l’impero, per minimizzare le perdite provocate dai disastri naturali e per massimizzare le risorse. La quarta «Sincronizzati con il mondo», riguarderà lo sforzo di Ricci per modificare il calendario, semplificandolo e rendendolo conforme a quello occidentale; nel campo della geografia, famoso il planisfero di Ricci con la Cina al centro invece dell’Europa; e della matematica, con gli elementi delle geografia euclidea tradotti da Ricci in cinese.

«Il flusso narrativo – conclude Zanetti – dipenderà dalla sensibilità di Gao Wei, il regista che curerà la realizzazione del film. Probabilmente userà la tecnica del flashback: Ricci anziano ricorda alcuni momenti della sua vita. Ma molto dipenderà anche dalle decisioni che verranno prese in fase di montaggio. Le riprese prenderanno il via a fine giugno, inizio luglio. Il film parla di Matteo Ricci e dei gesuiti in Cina, sarebbe interessante se nel documentario ci fosse anche una testimonianza di Papa Francesco che è gesuita e ha espresso più volte la volontà di recarsi in Cina e di riprendere le relazioni diplomatiche con Pechino. Un sogno? Forse, ma ogni tanto anche i sogni diventano realtà…».

Enrico Casale

 




Guatemala misericordia e new media


Dopo gli anni dell’orrore e dei massacri, padre Rigoberto si impegna nel recupero della memoria storica. Per una pace effettiva. Aperto sul fronte della comunicazione, utilizza la radio e i social media. Fino a essere chiamato a capo del dipartimento di comunicazione delle conferenze episcopali latinoamericane.

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Ordinato 22 anni fa, padre Rigoberto Pérez Garrido, guatemalteco, ha lavorato a lungo nella diocesi del Quiché, nel Nord Ovest del suo paese. Una delle regioni più martoriate dal conflitto armato durato 36 anni (1960-’96). La guerra civile guatemalteca ha visto il confronto tra diversi governi militari e la guerriglia. È stata particolarmente sanguinosa per la popolazione civile, causando 200.000 morti e almeno 450.000 rifugiati in Messico.

Parroco di piccole comunità, come quella di Nebaj, padre Rigoberto si è integrato nella pastorale dei diritti umani, partecipando al progetto di Recupero della memoria storica cornordinato da monsignor Juan Gerardi.

«La diocesi del Quiché fu militarizzata, e soffrì tutti i problemi tipici di una guerra. Restò senza guida, perché il vescovo, monsignor Juan Gerardi dovette andare in esilio in Costarica, e pure diversi missionari dovettero partire a causa della repressione crudele che la Chiesa stava vivendo negli anni ’80. Le chiese parrocchiali e le cappelle furono chiuse o distrutte da squadristi e militari.

Nel 1987 fu nominato vescovo monsignor Julio Cabrera Valle. Questi iniziò un lavoro di recupero della Chiesa e lo fece a partire dalla ricostruzione umana e sociale delle comunità. Invitò esperti di pastorale, sacerdoti, religiose e religiosi da diversi paesi del mondo, che si integrarono nella missione. In questo modo fu possibile essere presenti, nei diversi luoghi della diocesi.

Durante il periodo più duro, era rimasto solo un sacerdote guatemalteco, originario del Quiché, che sopravvisse perché protetto dalle comunità. La guerra si intensificò, con costi sociali molto alti e pesanti limitazioni ai diritti umani della gente.

Il processo di costruzione della pace iniziò nel 1986 con il primo “governo civile”, e la creazione della Costituzione della Repubblica, che voleva superare la dittatura iniziata negli anni ’40».

E qui la Chiesa assunse un ruolo molto importante.

«La Chiesa fece mediazione tra le parti, per assistenza, appoggio al processo di pace, che stava nascendo. Monsignor Juan Gerardi toò nel paese. Era partito perché aveva subito tre attentati e le squadre della morte dello stato lo avevano sequestrato. Si inserì nella diocesi di Città del Guatemala e creò l’ufficio dei Diritti umani dell’arcivescovato. Lavorò con mons. Pròspero Penado del Barrio e fu parte della commissione di vescovi, con il cardinal Rodolfo Quezada Toruño, come delegati della Conferenza episcopale al processo di pace».

E arrivò la pace

Monsignor
Padre Rigoberto Pérez Garrido durante l’intervista con Paolo Moiola.

Quindi nello specifico si trattava di aiutare le vittime della guerra. Ma non solo.

«Fin dal 1994 si intensificò una pastorale di difesa dei diritti umani – prosegue padre Rigoberto -. Nel 1996 furono firmati gli accordi di pace. Monsignor Gerardi guidava questo settore in quanto era un conoscitore speciale, diretto, delle preoccupazioni di tutta la gente che aveva vissuto la repressione.

Il lavoro consisteva nell’accompagnamento di rifugiati, sfollati interni, ritornati, nel contatto con rifugiati all’estero, soprattutto in Centro America. Facendo tutto questo dal punto di vista dell’impegno della Chiesa per il Vangelo, come attività pastorale.

Alla fine del 1994 si propose che la Chiesa creasse la Commissione per il chiarimento storico, con mons. Gerardi alla testa, iniziò così il Progetto del recupero della memoria storica (Remhi, Recuperaciòn de la memoria històrica). Voleva essere uno studio, un’analisi, sulla situazione reale che il paese aveva vissuto per valutare quale potesse essere la via per la pace, e per aprire il cammino al processo di riconciliazione, che era necessario.

Dal ‘95 al ‘98, si aggiunse anche il lavoro della commissione ufficiale di chiarimento storico delle Nazioni unite che riprendeva il lavoro di quella di Gerardi. Il 24 aprile 1998 fu pubblicato il risultato della ricerca Guatemala nuca mas (Guatemala mai più). Cinque tomi su impatto, meccanismo dell’orrore, storia, nomi delle vittime. Furono il prodotto del lavoro realizzato da 700 animatori della riconciliazione, che raccolsero testimonianze e interviste. Monsignor Gerardi fu assassinato il 26 aprile, appena due giorni dopo».

Un sacrificio importante, che fa di questo vescovo un martire.

«Mons. Gerardi, alla presentazione del lavoro aveva detto: “Conoscere la verità fa male ma senza dubbio è un’azione salutare e liberatrice”. Lui conosceva i pericoli e i rischi, ma tutti ne vedevamo la necessità. I vescovi impegnati in questo lavoro continuarono a essere convinti che non era stato un cammino sbagliato, e neanche un sacrificio senza senso. Quel lavoro apriva un percorso per le nuove generazioni in Guatemala. Fu un lavoro profondamente evangelico.

Da lì continuammo con altri impegni, come il processo di recupero di resti dei morti durante la guerra. E ancora si incrociavano testimonianze arrivate da diversi luoghi del paese e dall’estero. Potemmo accedere agli archivi Usa. Si fecero anche altri studi, sulla militarizzazione, sui cimiteri clandestini. Fu una cosa che realizzai io con una squadra. I risultati furono impressionanti. Monsignor Cabrera disse che il Guatemala, e il Quiché in particolare, sono un unico enorme cimitero clandestino. Vivevamo su un territorio pieno di fosse comuni e resti di vittime del conflitto armato».

Nebaj, chiesa (© Francesca Rosa)
Nebaj, chiesa (© Francesca Rosa)

Un lavoro difficile ma necessario

«Creammo squadre tecniche di esumazione, per restituire i resti alle famiglie e favorire una riconciliazione che portasse a una pace reale. Era la richiesta della popolazione ed era l’aspetto centrale della nostra azione pastorale. Difficile da soddisfare, perché richiedeva strumenti tecnici e legali.

Le squadre erano composte da membri della società civile. Le prime esumazioni furono paradigmatiche perché mostrarono la dimensione delle violazioni dei diritti umani. Volontari giunti da Europa, Usa, Messico e Centro America, furono parte di queste équipe, insieme a gente indigena delle comunità. Io stesso andavo con loro scavando nelle fosse, recuperando i resti, le ossa. Ma avevamo molta paura di fare questo lavoro, perché si lavorava su braci ancora accese.

Infatti, nel 2002, a Nebaj, mi incendiarono la casa parrocchiale e, nello stesso periodo, monsignor Cabrera fu trasferito. Lui era quello che aveva sposato maggiormente la teologia indigena. Tutto questo ci indebolì. Ma cercammo di reagire in modo positivo. Realizzammo una marcia e una consultazione a livello delle comunità, per valutare se avevamo fatto male qualcosa e cambiare. La popolazione ci confermò il cammino che stavamo facendo».

Cotzal - memoriale (© JuanjoSagiPhoto)
Cotzal – memoriale (© JuanjoSagiPhoto)

La potenza della comunicazione

E da lì nacque in padre Rigoberto l’idea di utilizzare i mezzi di comunicazione per promuovere la pacificazione.

«Con l’appoggio di un gesuita esperto nei media realizzammo una prima radio comunitaria, allo scopo di parlare di riconciliazione, costruzione della pace, evangelizzazione e accompagnamento.

Iniziammo la ricostruzione della casa parrocchiale, che fu molto più grande, con uffici di servizio, e una biblioteca. E pure la costruzione di cappelle, che erano state bruciate durante la guerra per castigare le comunità cristiane e mettere in crisi la loro fede. Costruimmo circa 70 cappelle.

Nel 2008 il nuovo vescovo mi chiese di tornare a Santa Cruz (capoluogo del Quiché), in una piccola parrocchia, e mi incaricò della radio diocesana.

In seguito abbiamo creato la rete di radio cattoliche del Quiché, con l’idea dell’unificazione per avere più forza. Iniziai a dare un appoggio alla comunicazione a livello nazionale. Poi mi incaricarono dell’ufficio comunicazione sociale della Conferenza episcopale guatemalteca. Ero parroco a San Antonio Ilotenango. Cominciai a partecipare agli incontri centro americani sui media, dove insistevo sulla questione dell’integrazione o “comunione” delle piattaforme delle diverse conferenze episcopali, per avere direttrici chiare di comunicazione che aiutassero alla costruzione della vita, come aveva fatto monsignor Romero».

Così nell’estate del 2015 lo hanno chiamato come segretario esecutivo del dipartimento di comunicazione e stampa del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), e si è trasferito a Bogotá.

«Il Celam è un organismo di comunione delle Chiese latinoamericane attraverso le conferenze episcopali. Ci occupiamo di comunicazione intea, divulgazione di quello che il Celam fa. Comunicazione istituzionale, ma anche su quello che la Chiesa vive in ogni paese, al servizio del popolo».

Nebaj-Acul (© Francesca Rosa)
Nebaj-Acul (© Francesca Rosa)

L’importanza dei new media

A livello di America Latina c’è una grande diffusione dei nuovi media. Le nuove tecnologie, gli smarthphone, i social network, sono entrati nell’uso comune della gente. Il loro ruolo si affianca a quello dei media tradizionali, come la radio, molto seguita in queste latitudini.

«Le nuove tecnologie facilitano molto, rendono un poco “pazza” la vita perché fanno aumentare il numero di cose da fare, però permettono di lavorare superando gli spazi.

Questi sono strumenti di comunicazione, ma l’importante è cosa e come le persone comunicano. Non si può dimenticare che è tutto un processo di sviluppo.

È importante che i media “tradizionali” abbiano uno spazio in quelli nuovi, come radio, tv e giornali sono presenti in internet.

Ci dobbiamo chiedere: come i media possono servire al mondo, alle società, ai paesi? Quale efficacia hanno nella costruzione o distruzione della vita? Per scatenare guerre o costruire la pace, per promuovere uno sviluppo degno o per rafforzare il sistema di disuguaglianza che produce sofferenza?

Quelli della comunicazione sono gli strumenti privilegiati con i quali possiamo costruire un mondo migliore, la società sognata da tutti noi che abbiamo un cuore umanitario.

Sulle nuove tecnologie, che rendono possibile la comunicazione immediata, dobbiamo contare e dobbiamo imparare a utilizzarle al meglio, nel tentativo di costruire i migliori contenuti, necessari per ogni ambito umano.

Per l’America Latina, questi media sono importanti. Producono un risveglio enorme. C’è una riflessione profonda che sta accompagnando lo sviluppo dei new media. Perché essi possono prendere direzioni che invece di aiutare, attaccano la vita. Per questo è importante analizzare il loro sviluppo e prendere coscienza che stiamo comunicando, ma anche come questi media devono intervenire in politica, società, economia. È una realtà da valutare costantemente.

Facebook e Twitter e altri social network sono potenti in America Latina. Si può dire che la rivoluzione tecnologica sta generando una democratizzazione dei media. Arrivano a un numero sempre maggiore di persone e inoltre generano una comunicazione a doppia via. Le reti sociali, danno spazio a ogni persona, che può uscire dall’anonimato. È evidente che i media non devono considerare la popolazione solo come consumatori, per questo parliamo di umanizzazione dei media».

Nebaj, cofradia (© Francesca Rosa)
Nebaj, cofradia (© Francesca Rosa)

L’attenzione del Papa

«I media possono creare comunione. La Chiesa cerca di andare al loro ritmo, affinché il Vangelo sia annunciato anche attraverso di essi.

Il messaggio per la giornata mondiale della comunicazione, intitolato quest’anno “Comunicazione e misericordia”, affronta un tema centrale e attuale rispetto alla situazione mondiale.

Il Papa parla dell’importanza dei media digitali, che si stanno sviluppando sempre di più, e ha invitato ad abitare la strada digitale, il mondo digitale, che è ormai un nuovo mondo di interrelazioni e comunicazione, anche molto complesso. Sono già milioni i bambini, giovani e adulti che sono costantemente connessi tra loro senza conoscersi, magari solo attraverso un’immagine. Sono nuove realtà, che ci sfidano. Dobbiamo entrare nelle questioni, tenendo conto del fatto che possono trasformarsi in incontri pericolosi, ma anche in spazi in cui il Vangelo può essere la notizia che ci umanizza, ci permette di relazionarci con i valori di comunione, frateità, solidarietà e dignità umana».

Anche in Guatemala, il mondo digitale è «abitato».

«Sì, sempre di più. Abbiamo molti vescovi che usano Facebook. Per ora in modo spontaneo e per fare esperienza. Inizialmente abbiamo paura di tutto quanto è nuovo, che ci costringe a relazionarci in una maniera distinta rispetto a prima. Pian piano però impariamo questo nuovo modo di vita.

In Guatemala i bambini e i giovani comunicano con questi mezzi.

A Nebaj, fino a pochi anni fa, non c’erano neppure i telefoni fissi: solo poche case lo avevano. Poi iniziarono i telefoni pubblici. I bambini che scendevano dai villaggi della montagna, non avevano mai vito un apparecchio, e quando scorgevano qualcuno parlare in un telefono pubblico ridevano, perché sembrava che parlasse con un pezzo di ferro. Poi apparirono i cellulari e le comunicazioni si moltiplicarono.

In seguito abbiamo aperto uno spazio internet, e da quel momento la comunicazione è diventata sorprendente. Per la gente questo spazio è stato importante. Ad esempio pensando alla questione delle migrazioni, esso ha ravvicinato coloro che sono andati a lavorare negli Usa con chi è rimasto. La gente piangeva quando, tramite Skype, facevamo vedere loro i parenti lontani. Tenendo conto che queste persone stanno via anni senza poter ritornare. Ecco come questi sistemi hanno una valenza umana».

Guatemalan new President Jimmy Morales (L) waves next to his wife Hilda Marroquin during his inauguration ceremony in Guatemala City, on January 14, 2016. Morales, a former TV comic elected Guatemala's new president on a wave of public revulsion against widespread graft, took office in a ceremony attended by leaders from the Americas. AFP PHOTO / Luis ECHEVERRIA / AFP / LUIS ECHEVERRIA
Guatemalan il nuovo presidente Jimmy Morales (L) con sua moglia Hilda Marroquin durante la cerimonia di inaugurazione in Guatemala City, il 14/01/2016. / AFP PHOTO / Luis ECHEVERRIA

Guatemala il presidente attore

Il Guatemala vive un periodo politico particolare. Il presidente Otto Perez Molina è stato arrestato con gravi accuse di frodi. E questo anche in seguito a grandi manifestazioni pacifiche dei movimenti sociali guatemaltechi.

Si sono poi tenute le elezioni a settembre 2015 e, a sorpresa, è stato eletto l’attore comico Jimmy Morales, che si è insediato il 14 gennaio scorso.

«A inizio 2015 ci si rese conto che il presidente e la sua vice erano a capo di una struttura, chiamata “la linea”, che frodava tra il 50 e il 60% delle entrate tributarie della nazione e lo ripartivano tra di loro, creando un forte impatto negativo sul paese. Grazie al valore del direttore della Commissione internazionale contro l’impunità (Cicig) dell’Onu e di un pubblico ministero colombiano si sono potuti smascherare.

Il processo fu appoggiato dalla cittadinanza, che iniziò a scendere in piazza, ad aprile, in modo pacifico e costante. Fino a ottenere un fatto unico nella storia del Guatemala, ovvero il cambio di queste figure e il processo giudiziario. Le manifestazioni sono state convocate dai giovani, attraverso le reti sociali e appoggiate dalle università, diversi settori civili e dalla Chiesa.

La cittadinanza che manifestava stabilì criteri chiari, e si applicarono meccanismi per assicurare manifestazioni pacifiche e attive, nel senso gandhiano, per non dare pretesti alla violenza e quindi alla repressione. C’era un servizio d’ordine di persone che giravano in bicicletta per vedere se tutto era a posto.

All’inizio la partecipazione fu timida, ma poi fu crescente. Fu utilizzata musica, arte, poesia, creatività.

Furono convocate le elezioni e la cittadinanza, cercava un cittadino retto, corretto e onesto, che occupasse temporaneamente la carica di presidente, affinché ci fosse tempo per costruire strutture politiche. Ma il rischio era rompere lo stato di diritto. La gente non sapeva chi eleggere e Jimmy Morales, attore senza alcuna esperienza nel settore, è il risultato di un contesto di delusione profonda della gente per la politica.

C’è una coscienza della popolazione, che è cresciuta, ha superato la paura e sta cercando nuovi percorsi per la ricostruzione del sistema nazionale. Ma c’è ancora molto da camminare».

Marco Bello

 

MC e il Guatemala:

gennaio 2013, Simona Rovelli;
maggio 2011, Paolo Moiola;
luglio 2009, Ermina Martini;
– marzo 2004, Paolo Moiola (un precedente incontro con padre Rigoberto).




Ecuador. Microfoni appassionanti

 


Diritti, cittadinanza, dignità, diversità, sviluppo sostenibile sono le principali parole d’ordine di «Radialistas Apasionadas y Apasionados». I «Radialistas» non sono un’emittente, ma un centro di produzione di programmi radiofonici a contenuto sociale ed educativo, distribuiti – gratuitamente – in tutta l’America Latina. Siamo andati a trovarli nella loro sede di Quito.

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Quito. La prima cosa che si nota all’apertura della porta è una folta barba sale e pepe. Appartiene a José Ignacio López Vigil, cubano dalle molte esistenze. Siamo nella sede di Radialistas, un’associazione senza scopo di lucro nata nel 2001 per produrre e distribuire programmi radiofonici su tematiche sociali ed educative.

«Radialistas, sì – ci fa subito notare il padrone di casa -, ma anche Apasionadas y Apasionados». «Quando presentammo il nome ci dissero che era troppo lungo. Noi rispondemmo che era lungo come la nostra passione e i nostri obiettivi». Una passione che per José Ignacio nasce e cresce negli anni successivi all’abbandono di Cuba da parte della sua famiglia.

Restituire la parola

«Al terzo anno della rivoluzione castrista – racconta -, le cose iniziarono ad avvelenarsi. Venivano dette nefandezze di ogni tipo sul futuro della gente e del paese. Mio padre, che era giornalista, come tanti altri cattolici entrò in panico e ci portò tutti in Spagna».

Qui José decide di entrare nella Compagnia di Gesù. Va in Repubblica Dominicana, in Venezuela, in Ecuador. Nel 1973 diviene sacerdote gesuita. A Santo Domingo chiede e ottiene di lavorare in una radio, che da tempo è divenuta una sua passione.

«Un giorno alcuni contadini vennero a domandarmi di essere intervistati perché un latifondista aveva rubato loro la terra. Lo feci e il giorno seguente mandai in onda il servizio, che mi costò l’immediata cacciata dall’emittente. Quell’esperienza costituì per me il punto di svolta. Mi accorsi del potere della parola popolare quando si fa forte. Restituire la parola alla gente comune è senza dubbio la missione più importante di qualsiasi radio che si definisca comunitaria».

José Ignacio si sente stretto nelle vesti di sacerdote. Esce dalla congregazione e torna a casa in Spagna. «Lì, assieme a mia sorella Maria, anche lei uscita dal proprio ordine religioso (e oggi caporedattore a Envío, la rivista dell’Università Centroamericana di Managua), scrivemmo Un tal Jesús, uno sceneggiato radiofonico sulla vita di Gesù di Nazaret nell’ottica della teologia della liberazione». La radionovela, scritta nel 1979 e registrata nel 1980, è una bomba. Una bomba di critiche e di successi.

«La mandammo in onda – racconta José Ignacio – per la prima volta nel 1981, in Costa Rica. Ben presto il presidente della conferenza episcopale latinoamericana, Alfonso López Trujillo, inviò un prete domenicano per investigarla. Venne stroncata. A quel punto, tutte le conferenze episcopali, dal Messico in giù, condannarono l’opera, senza averla ascoltata né letta. Eravamo accusati di aver fatto un danno alla fede e soprattutto alla gioventù latinoamericana».

L’ostracismo dei vertici ecclesiastici non ferma però la diffusione della radionovela. Tanto che, ancora oggi, a distanza di 35 anni, Un tal Jesús viene trasmessa da emittenti di molti paesi. O viene scaricata (con audio e testi) dai siti di Radialistas.

La «passione» costa

José Ignacio lavora in vari paesi latinoamericani, sempre al seguito della sua passione per la radio. Nel 2001, assieme ad altre tre persone, fonda Radialistas Apasionadas y Apasionados, divenendone il cornordinatore.

«Produciamo micros – noti anche come radio clips – di 4-5-6 minuti. Alcuni più drammatici, altri più umoristici. Poi, attraverso internet, li inviamo a emittenti dell’America Latina e del Caribe. In pratica, siamo un centro di produzione che alimenta la programmazione di moltissime radio».

I temi trattati vanno dai diritti di cittadinanza alle relazioni di genere, dallo sviluppo sostenibile alle tecniche di abilitazione radiofonica. Scorrendo il vasto archivio di Radialistas, si scoprono lavori di altissima valenza educativa. Ad esempio, i 10 capitoli sul tema degli abusi sessuali ai danni dei minori (No al abuso sexual infantil). Oppure i 5 di Sueños rotos (Sogni infranti), sceneggiato radiofonico dedicato al problema della gravidanza delle bambine. La vicenda di Jessica e Roni – drammatica, ma molto comune in tutti i paesi latinoamericani – viene raccontata con delicatezza e partecipazione emotiva.

Né viene dimenticata la storia latinoamericana. Come i 20 capitoli di 500 años, basati su «Le vene aperte dell’America Latina», il capolavoro di Eduardo Galeano.

Se affrontare queste tematiche è difficile, ancora più complicato è trovare i soldi per portare avanti i progetti. «Sì, i costi sono alti – conferma José Ignacio -. Per fortuna, quasi la metà del nostro bilancio è coperto dai finanziamenti di Cafod, un’organizzazione cattolica inglese, che fa parte di Caritas Inteational e che mai ha cercato di condizionare il nostro lavoro. Il resto lo dobbiamo trovare noi attraverso la vendita di alcuni servizi: seminari di formazione, corsi online, pubblicazione di guide, sempre con riferimento alla comunicazione radiofonica».

Tra le guide sul «fare radio» e sull’«insegnare a fare radio» ci sono quelle firmate da José Ignacio, come Manual urgente para radialistas apasionados e Pasión por la radio. Libri posti in vendita per l’autofinanziamento, ma al tempo stesso scaricabili gratuitamente da internet.

Lavorando per molti paesi, lo sforzo di Radialistas non poteva limitarsi alla lingua spagnola. E così la maggior parte dei testi sono tradotti anche in portoghese. «E?poi – precisa José Ignacio -, nella nostra piattaforma internet chiamata “Radioteca”, nata nel 2006, si trovano gli audio di moltissime produzioni, che sono quindi ascoltabili in vari idiomi, dal portoghese all’inglese, fino ad alcune lingue indigene, come quechua, aymara, guarani, mazteco e altre ancora».

Da donne a protagoniste

La produzione più recente di Radialistas riguarda la trasformazione in radionovela di «Laudato si’», l’enciclica di papa Francesco dedicata al dissesto ecologico del pianeta. Una realizzazione che ha coinvolto molte persone: soltanto gli interpreti che hanno dato la loro voce ai protagonisti (uomini, animali, piante, elementi naturali) sono stati una trentina. A dirigere il tutto è stata Tachi Arriola, una peruviana di Iquitos, tutta verve e sorrisi, che lavora a Radialistas fin dalla fondazione, occupandosi principalmente di diritti della donna.

«Io credo – ci spiega con un ampio sorriso – che la comunicazione, per essere democratica, non soltanto debba comprendere le donne, ma anche il loro protagonismo. Le donne, cioè, sia come fonti d’informazione che come attrici. Dato che la comunicazione è potere, noi cerchiamo di utilizzare questo potere per diffondere i diritti». Anche quelli più controversi e dibattuti come i diritti sessuali e riproduttivi.

Sul tema, Tachi ha da poco terminato Comunicación de colores, una guida multimediale, con testi e video, sul come trattare, dal punto di vista giornalistico, le diversità sessuali. Una scelta molto coraggiosa in paesi dove il sentimento machista è ancora una solida realtà e l’omofobia assume spesso connotati violenti. Il primo capitolo inizia così: «Siamo diversi, valiamo allo stesso modo» (Somos diferentes, valemos igual).

«Io credo – commenta Tachi – che se le donne sono escluse e violentate, lo sono ancora di più le persone omosessuali e transessuali».

Liberare la cultura

José Ignacio ci accompagna a vedere lo studio di registrazione, che sta nello stesso appartamento: è una sala insonorizzata con alcuni microfoni, un computer e un mixer. «Ecco, in questa piccola stanza facciamo le registrazioni.  Tutte le nostre produzioni le mettiamo poi in internet con derechos compartidos. Perché noi non crediamo nel copyright, brutta invenzione del capitalismo. La cultura non deve essere confinata, ma liberamente distribuita».

È, questa, una delle tante sfide che ogni giorno Radialistas si trova ad affrontare. Con molta fatica, ma sempre con un’enorme passione.

 

Paolo Moiola
(fine 6.a puntata – continua)




La nobiltà umana di Ettore Scola

 

Se dovessi definire il carattere di una persona di grande talento, eppure generosa fino all’umiltà, citerei immediatamente Ettore Scola, che forse ha formato il proprio modo di essere con l’abitudine di scrivere per gli altri, imparata nei suoi primordi di soggettista e sceneggiatore, quando scrisse, per esempio, «Un americano a Roma», il film che lanciò Alberto Sordi, diretto da Steno, il padre dei fratelli Vanzina.

Ma questa riflessione è ancor più commovente, se penso che Scola, maestro di quella che hanno chiamato «la commedia all’italiana», ha scritto con Maccari, per Dino Risi, «Il sorpasso», la fotografia più precisa dell’Italia del boom economico e della voglia di stare al mondo in qualunque modo dopo una grande tragedia come la seconda guerra mondiale.

Ettore, che era arrivato a Roma da un paesotto dell’Irpinia, Trevico, così come Sergio Leone e i De Laurentiis da Torella dei Lombardi, aveva fin da subito, da giovane redattore del Marc’Aurelio, rivista satirica, sposato la collaborazione con chi gli stava vicino, il piacere di costruire insieme un’idea, un racconto, la capacità di lavorare in gruppo e di consegnarsi spesso ai sogni degli altri.

È per questo che il suo addio al mondo non ha portato solo il rammarico per una grande intelligenza e un grande talento che ci hanno lasciati, ma anche la nostalgia di una persona dal cuore nobile.

Mi è rimasta impressa la disponibilità con cui si mise a disposizione del regista brasiliano Walter Salles e mia per tratteggiare la figura del giovane Che Guevara, che ci accingevamo a studiare nella sua complessità per il film «I diari della motocicletta» che poi fu un successo. Era la storia del viaggio giovanile dell’eroe argentino attraverso il continente latinoamericano.

Ricordo, in particolare, il primo pomeriggio in cui, sul terrazzo di casa mia, praticamente, Ettore ci mise a lezione proponendoci poi un finale in cui era riuscito a riunire semplicemente tutto quello che il Che era diventato nel mondo e in quell’epoca. I due ragazzi, Eesto Guevara e Alberto Granado, al termine del loro viaggio, si lasciavano durante una manifestazione giovanile a Caracas e nell’immagine successiva «riapparivano» alla testa di un corteo di protesta di coetanei ventenni di tutto il mondo sventolando una bandiera con l’immagine dello stesso Che, proposta da un ragazzo con la faccia dell’eroe argentino.

Poi Salles scelse un finale un po’ più semplice, ma la suggestione fu fortissima.

Ettore Scola sapeva domandarsi nei suoi film le cose apparentemente più elementari, anche se incastrate nei dubbi più profondi che un uomo intelligente si pone. Memorabile il tenerissimo dubbio di un proletario innamorato (Marcello Mastroianni), iscritto al partito comunista, nel film interpretato anche da Monica Vitti e Giancarlo Giannini, «Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca»: doveva considerare disdicevole il fatto che un militante come lui si facesse distruggere dall’amore? In caso contrario, il partito avrebbe capito?

Era la grande dote di un cineasta, non a caso adorato in Francia, e dei suoi fedelissimi compagni di «scrittura», Age e Scarpelli, quella di tentare di dar risposte, facendo finta di niente, su dubbi apparentemente irrisolvibili della società che si ricomponeva nella stagione del Dopoguerra.

Per avere la conferma di quello che affermo, basta ricordare opere come: «C’eravamo tanto amati», «Brutti, sporchi e cattivi», «La terrazza», ma anche i suoi due capolavori: «La ciociara», con Sofia Loren, e «Una giornata particolare», con la stessa Loren e Marcello Mastroianni, due opere in cui la vita è raccontata con la forza inesauribile del nuovo cinema neorealista. In particolare nel secondo film, dove una semplice radiocronaca di Guido Nodari, la voce ufficiale del regime, rende l’idea di un paese prigioniero del fascismo, senza mai far vedere la tragedia incipiente, ma ascoltando la cronaca di una sofferenza che sta per spiegare tutto.

D’altronde Ettore Scola non si fece mai sfuggire, sia che facesse parodia, ironia o cronaca, l’occasione di documentare quello che stava accadendo.

Ricordo in questo senso il suo coraggio nell’andare con altri colleghi come Monicelli a documentare il G8 di Genova, la vergogna del comportamento delle forze dell’ordine nei confronti dei cittadini che pretendevano verità.

«Ho maledetto tutte le sigarette che ho fumato nella mia vita mentre, correndo nella polvere espulsa dalle strade battute dalle forze dell’ordine, tentavo di essere coerente con me stesso nel filmare quello che il sistema non voleva fosse visto» – mi disse qualche giorno dopo quando qualcuno tentava di sostenere che la protesta fosse dovuta a pochi facinorosi.

Lui sì, poteva essere candidato quattro volte all’Oscar per il miglior film straniero e nello stesso tempo documentare i guasti di una democrazia malata che non bisognava nascondere. Ci mancherà.

Gianni Minà

 




Pornografia del dolore

Qualcuno la chiama «pornografia del dolore», e la definisce uno sfruttamento dei drammi altrui per ottenere denaro. Qualcun altro, invece, pensa che mettere lo spettatore di fronte a immagini forti serva per spingerlo a reagire a un’ingiustizia. Il dibattito va avanti da anni e, nel mondo della cooperazione, con particolare intensità. Lo riprendiamo ora per capire a che punto siamo.

 

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Per parlare delle immagini con cui rappresentiamo i paesi in via di sviluppo bisognerebbe cominciare dal principio. Cioè dalla fonte dell’immagine, colui o colei che ne è il soggetto. A chiunque abbia passato più di qualche giorno in viaggio in Africa è capitato di puntare l’obiettivo della macchina fotografica o della videocamera e di trovare, dall’altra parte della lente, una mano aperta a coprire il volto e la voce di qualcuno che dice pas de fotos, no picture: niente foto (o video). Chiedere perché no? ottiene una serie di possibili risposte. Fra queste: «perché ho vergogna», «perché poi la usi per fare soldi», «perché in Europa fate vedere solo che siamo poveri». Queste frasi non rappresentano, ovviamente, l’unico punto di vista, ma sarebbe fuorviante non tenee conto.

Quando ci si trova in un paese in via di sviluppo perché si è operatori di Ong o organizzazioni inteazionali, però, le persone con cui si hanno contatti sono nella maggioranza dei casi i beneficiari dei progetti di cooperazione. È raro che una mano si frapponga fra volto e obiettivo perché in genere c’è un rapporto di fiducia fra chi raccoglie le immagini (di solito un membro dell’organizzazione oppure un professionista da questa incaricato) e chi viene ritratto, che è informato e consapevole.

Però, anche con queste premesse, che uso è davvero corretto fare di quelle immagini? È giusto mostrare persone in un momento di sofferenza, dolore, difficoltà estrema se lo scopo è coinvolgere attraverso tv e giornali quanta più gente possibile a sostenere iniziative che mirano a eliminare quella sofferenza, difficoltà e dolore? Ed è lecito tentare di allargare l’audience servendosi di personaggi famosi in grado di catturare l’attenzione di quella parte di pubblico che meno s’interessa di questi problemi? Queste sono le domande intorno alle quali ruota il dibattito che, ciclicamente, rimette in discussione i metodi usati dalle organizzazioni per la raccolta fondi.

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Spot contro la fame o fame di spot?

L’episodio che negli ultimi mesi ha riaperto la polemica è uno spot della ong Save The Children, che dal 2013 ha lanciato una campagna di raccolta fondi sostenuta da video. L’ultimo, dell’inizio 2015, mostra «John», un bambino malnutrito, che respira con affanno, con la pancia gonfia, la pelle disidratata e lo sguardo intontito. Dopo di lui, una bambina piange sommessamente e un altro piccolo è appoggiato al fianco della madre, debolissimo e con le ossa visibili sotto la pelle. (La versione inglese del video include anche, alla fine, l’immagine di una borsa con il logo della ong che i donatori riceveranno come ringraziamento per il contributo).

«Immagini strazianti che durano un’eternità», hanno commentato Pier Maria Mazzola e Marco Trovato di Africa, la rivista dei Padri Bianchi, in un editoriale dal titolo Fame di spot. Dopo i bambini degli altri video, rincarano gli autori, «adesso tocca a John impietosire i telespettatori per strappar loro nove euro al mese». Questo «ripescare il crudele cliché dello scheletrino africano», spinge Mazzola e Trovato a chiedersi che ne è stato della Carta di Treviso, il protocollo su informazione e minori approvato nel 1990 da Ordine dei giornalisti italiani e Telefono Azzurro: è un documento che disciplina solo l’informazione giornalistica, «ma la questione riguarda tutti». Al punto 7 la Carta afferma che «nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi a un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona». «Vale solo per i bambini bianchi?», chiedono gli autori.

Quello della tutela dei minori non è l’unico problema. Ce n’è un altro al quale, ammettono gli editorialisti, anche i missionari in passato hanno contribuito: quello di rafforzare «il già ben radicato immaginario coloniale dell’Occidente sull’Africa». Cioè di continuare a dipingere il continente – e il Sud del mondo in genere – come un luogo bisognoso e indifeso il destino del quale deve essere deciso altrove, sdoganando così un colonialismo «a fin di bene».

Daniele Timarco, direttore dei programmi inteazionali di Save the Children Italia, intervistato da Eleonora Camilli su Redattore Sociale, ha opposto che quelle immagini sono quelle viste ogni giorno dagli operatori impegnati sul campo: «Proprio perché inaccettabili, sono immagini anche giuste da trasmettere con l’obiettivo di sensibilizzare e spingere le persone a reagire con indignazione». «Le immagini sono state realizzate con il consenso dei genitori», ha aggiunto Timarco, «con il coinvolgimento dei bambini e delle bambine e della comunità stessa. Molto spesso sono le famiglie stesse che ci chiedono di raccontare la loro vera storia, di far vedere la drammaticità delle loro situazioni». Quel che interessa Save the Children, ha concluso il suo funzionario, è «toccare la coscienza delle persone al di là del contributo economico».

Di confine fra sensibilizzazione e pornografia del dolore, peraltro, si era già parlato con Mission, il «reality umanitario» che vedeva impegnati diversi personaggi televisivi – Al Bano, Paola Barale, Emanuele Filiberto di Savoia e altri – in viaggi su campo in diversi paesi africani e latinoamericani. In quell’occasione la reazione del mondo delle Ong fu altrettanto polemica e le argomentazioni a favore e contro molto simili (vedi MC 3/2014 p. 74).

La situazione normativa

Il dibattito si è riaperto lo scorso novembre con la proposta di Nino Santomartino, responsabile della comunicazione dell’Associazione delle ong italiane (Aoi), di avviare un tavolo di lavoro con organizzazioni no profit, realtà della comunicazione e dell’informazione, professionisti, consulenti e ricercatori. Obiettivo: arrivare a «un codice di condotta e a un organismo autonomo di autodisciplina». I riferimenti normativi non mancano, vedi il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale emanato dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria. L’articolo 46 del codice è tutto dedicato alla comunicazione sociale, che deve evitare di «sfruttare indebitamente la miseria umana nuocendo alla dignità della persona, né ricorrere a richiami scioccanti tali da ingenerare ingiustificatamente allarmismi, sentimenti di paura o di grave turbamento».

Vi sono poi diversi testi che possono orientare la riflessione, come le linee guida elaborate dalla soppressa Agenzia per il Terzo settore o la Carta di Trento per una migliore cooperazione, documento la cui redazione ha coinvolto molte realtà no profit italiane. Molto citato è il Codice di condotta adottato dalle Ong irlandesi: i principi cardine richiedono, fra le altre cose, di rappresentare non solo il contesto specifico ma anche quello più ampio, di evitare immagini e messaggi che possano creare uno stereotipo, discriminare persone, situazioni o luoghi o creare sensazionalismo, di non utilizzare immagini, messaggi, e casi di studio senza la piena comprensione, partecipazione e autorizzazione dei soggetti coinvolti, garantendo loro la possibilità di comunicare le loro storie o versione dei fatti e rispettare la loro volontà di essere o meno nominati o identificati.

Ma il problema sta nelle immagini?

In attesa delle evoluzioni normative che il tavolo di lavoro proporrà, vale comunque la pena di chiedersi se questa vicenda non sia il riflesso di un insuccesso che ha radici più lontane.

Save the Children ha fatto sapere che la campagna ha permesso alla ong di «acquisire più di 14.000 nuovi donatori regolari». Il punto, allora, non è solo «il cliché dello scheletrino africano», il punto è che quel cliché funziona. I donatori di Save the Children sono «colonialisti a fin di bene»? Forse. Impegnarsi a contribuire ogni mese non è più il non informarsi per pigrizia e il limitarsi a lavarsi la coscienza per Natale. Però, forse, potrebbero fare un salto di qualità in più, che non riescono ancora a fare perché nessuno ha fornito loro le informazioni che permetterebbero di tenere a bada le emozioni e di ragionare, come ricorda il sociologo Fabrizio Floris, sul fatto che «la fame ha cause legate alla iniqua distribuzione delle terre fertili, alla mancanza d’acqua, al cambiamento climatico, alle guerre, alle dittature che usano gli aiuti in cambio di consenso, alla scarsa produttività agricola e zootecnica: la pancia gonfia è l’effetto».

Chi doveva fornire queste informazioni se non le organizzazioni che lavorano sul campo e perché, dopo trent’anni di cooperazione, ancora questi temi faticano a uscire dal recinto degli addetti ai lavori?

Mettere un limite normativo all’uso d’immagini è un modo per evitare di diffondere un messaggio parziale e fuorviante. Trovare un modo efficace di diffondere un messaggio corretto, però, è un’altra storia. La mani aperte a proteggere i visi dagli obiettivi probabilmente servono anche a dire che è mancato questo.

Chiara Giovetti

 

5 domande a padre Gigi Anataloni

direttore di Missioni Consolata

 

Direttore, la compassione è un tema caro ai cristiani e mai come ora, con il Giubileo sulla misericordia in atto. Come si distingue fra compassione e pietismo?

Compassione è «patire con». Ha compassione non tanto chi versa una lacrima, mette una monetina o stacca un assegno e poi continua come prima, ma chi si sporca le mani, chi fa diventare l’emozione uno stimolo per cambiare il suo stile di vita oltre che per aiutare gli altri a migliorare la propria.

«Poografia del dolore» significa usare il dolore per vendere. Sei d’accordo con questa definizione, usata da chi critica l’uso d’immagini forti per le campagne di raccolta fondi?

L’espressione è provocatoria e fa riflettere. La condivido, certo, e mi chiedo perché proprio quel mondo che ha criticato tanto i missionari del passato accusandoli di patealismo, oggi senta il bisogno di comunicare così. Mi sa tanto di una mossa quasi disperata in risposta all’assuefazione e all’indifferenza, alla crisi economica che attanaglia tutto e tutti, ai tagli degli aiuti pubblici per la cooperazione, al moltiplicarsi di onlus (anche micro) che erodono l’efficacia del 5×1.000 e frammentano la base dei sostenitori, e all’aggravarsi dei problemi di tutti in questa situazione di «terza guerra mondiale» e di emergenza climatica. Il rischio, nell’uso di immagini simili, è quello di peggiorare sia l’assuefazione che l’indifferenza. Ma quando le proposte ragionate non funzionano, che fare?

Lo spot di Save The Children, come a suo tempo il reality Mission, sono solo gli episodi più recenti di un fallimento comunicativo che sembra avere radici più lontane. Che cosa si doveva fare diversamente – anche nel mondo missionario – per comunicare il Sud del mondo senza pietismi e stereotipi?

Più che di fallimento comunicativo direi che si tratta di un cambiamento profondo nel modo di comunicare. Un tempo, e vado indietro anche cent’anni, erano solo le poche riviste missionarie, come MC, che pubblicavano immagini forti. Anzi, posso dire che le edulcoravano perfino per renderle più accettabili al nostro pubblico (per esempio, mettevano i vestiti a chi normalmente non li aveva). Il risultato era comunque garantito, sia nel cercare di presentare con rispetto che nel suscitare sentimenti di partecipazione. Oggi, invece, le immagini forti arrivano a tutti: tante, troppe, insistenti. Il disastro diventa spettacolo e si confonde con la fiction. Di conseguenza, ecco il problema: come far capire che non si tratta di una fiction e come catturare l’attenzione abbastanza a lungo da far sì che l’emozione diventi azione, sia pur breve, puntuale e mirata? Ecco le immagini che toccano prima il cuore, nella speranza che arrivino anche alla ragione. Un nome, una storia, un’immagine penetrano più di un ragionamento. Solo una minoranza – e sono quelli che già si impegnano nella solidarietà a vari livelli – hanno voglia di andare oltre le prime emozioni per approfondire e cambiare il proprio modo di vivere.

Credo che il mondo missionario cerchi da anni di offrire una comunicazione onesta sul Sud del mondo. Il risultato? Forse un frutto sono le centinaia (o migliaia) di Ong (e le persone che in esse si impegnano non solo a dare qualcosa ma anche a camminare con…) che fanno una cooperazione diversa e responsabile. Perché altrimenti ci sarebbe da essere scoraggiati: le riviste missionarie sono drasticamente ridimensionate, i missionari sono una specie in via estinzione, al volontario subentra il volonturista, le disuguaglianze sociali sono aumentate ovunque – primo mondo compreso, c’è la «pornografia del dolore»…

Immagini «pugno nello stomaco», gadget, accessori alla moda in regalo ai donatori: le Ong si sono adeguate a un approccio più tipico del profit. E il profit, dal canto suo, si sta avvicinando, almeno superficialmente, alla cooperazione allo sviluppo (vedi iniziative delle aziende, specialmente quelle più grandi, volte a farle apparire impegnate nel sociale). Come giudichi questa «contaminazione»?

Mi confonde che Ong e onlus, ma anche noti santuari e Istituti di carità, si affidino ad agenzie specializzate nell’e-commerce e fundraising, soprattutto in periodi ad alto impatto emotivo come il Natale. O dovrei consolarmi con «il fine giustifica i mezzi»? Mi domando però cosa possa significare in questo contesto la frase di Gesù «semplici come colombe e scaltri come serpenti». E non ho risposte certe. Conosco la difficoltà oggettiva di chi ha urgenza di fondi e non riesce a convincere i donatori nel modo corretto e nel rispetto dei beneficiati. Allora, anche per i più motivati e responsabili, c’è il rischio di cedere alla tentazione del «lassativo» del diavolo, come diceva un vecchio missionario: «Il denaro è sterco del diavolo, ma se trovassi il lassativo giusto gli farei avere una bella diarrea». Però – e credo fortemente in questo – penso che a lungo temine sia meglio rischiare l’impopolarità della correttezza che cercare il risultato immediato. Anche una sola persona in più che aiuti per le giuste ragioni è più importante di cento che sganciano soldi per togliersi il disturbo o per sentirsi a posto.

Sulla base di quali criteri e principi MC sceglie le immagini che pubblica?

Bellezza, rilevanza, verità. L’immagine deve essere «bella» e presentare bene e con rispetto la persona che vi è rappresentata. Idealmente l’immagine dovrebbe essere quasi un’opera d’arte. Poi deve essere «rilevante» rispetto alla storia raccontata ed essere «veritiera» (rispecchiare quanto più possibile la verità della situazione e dei fatti, senza manipolarla). In quale ordine usare questi tre criteri? Dipende. Certo la bellezza passa a volte in secondo piano, perché molti dei nostri corrispondenti non sono fotografi professionisti e fanno foto esteticamente «povere», nonostante abbiano molta verità da comunicare.

La verità, però, non è sempre piacevole. E se è discutibilissimo che un’Ong debba sfruttare l’immagine dei vari piccoli «John» del mondo, è ancor più discutibile, anzi è vergognoso, che esistano ancora dei bambini che vivano nelle condizioni di quel piccolo. E questo bisogna avere il coraggio di dirlo, con forza.

Chi.Gio.