Messico. Di tutti, ma non dei Maya


Un percorso di oltre 1.500 chilometri, cinque stati attraversati, costi giganteschi: sono i dati salienti del «Tren Maya», un’opera che sta avendo impatti enormi sulla penisola dello Yucatán, cuore della civiltà maya. Proprio le comunità indigene e gli ambientalisti si sono (inutilmente) opposti al progetto, fortemente voluto dal presidente messicano Manuel Obrador (Amlo).

Secondo il presidente Amlo (Andrés Manuel López Obrador), il Tren Maya sarà un volano di crescita economica. A fine opera, saranno 1.525 chilometri di rotaie che collegheranno Palenque a Cancún, attraverso cinque stati messicani (Chiapas, Quintana Roo, Yucatán, Campeche e Tabasco).

La ferrovia servirà al trasporto di merci (legname, minerali, materiali da costruzione) e al turismo, riducendo da qualche settimana a pochi giorni gli spostamenti tra le piramidi maya e le spiagge sull’oceano.

Il costo del progetto, presentato nel Piano di sviluppo nazionale 2019-2024 come ricetta anti povertà, è di 20 miliardi di pesos (circa un miliardo e mezzo di euro) per un totale di 42 treni e 34 stazioni, con accesso a sette aeroporti e ventisei aree archeologiche.

Obiettivo dichiarato del governo Amlo è portare lavoro e reddito, migliorando le comunicazioni interne in un paese dove quasi non esistono ferrovie e la popolazione si sposta su autobus lenti e poco capienti.

L’opera si sta realizzando in tempi record: circa l’80 per cento dei lavori sono già conclusi e, mentre scriviamo, ci sono già stati viaggi su alcune tratte del percorso. L’intervento sta riscuotendo un vasto consenso popolare, soprattutto tra le classi medio basse.

Il prezzo da pagare, però, potrebbe essere molto alto, come denunciano scienziati, ambientalisti, rappresentanti delle comunità indigene e Ong locali, suffragati anche da una recente sentenza del Tribunale internazionale per i diritti della natura (Vedi sotto: Comunità indigene inascoltate).

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Silenzio sugli svantaggi

«Il cosiddetto Tren Maya non è un treno e non è maya», ha spiegato Miguel Angel del Congresso nazionale indigeno (Congreso nacional indígena, Cni).

«Non si tratta di una semplice posa di binari, ma di un’opera mastodontica, inclusiva di più progetti che stanno trasformando il territorio sul piano logistico, energetico, agricolo».

La ferrovia si porta dietro resort, centri commerciali, lotti residenziali, alberghi. In corrispondenza di almeno diciotto stazioni sorgeranno polos de desarrollo (poli di sviluppo) destinati a ospitare ognuno 50mila persone, con allevamenti di maiali e polli per il circuito turistico e l’esportazione in Cina che – insieme a nuove colture di palma e soia – aumenteranno inquinamento e consumi idrici.

Inoltre, «il treno non è maya perché non è pensato per la popolazione ma per gli interessi del governo, delle potenze straniere come Cina, Canada e Usa, e delle imprese che sfruttano le risorse locali».

«Anche la criminalità organizzata avrà maggiori opportunità di investire i proventi illeciti nel settore turistico e immobiliare», ha osservato Miguel Angel.

È già in atto un fenomeno di gentrificazione (trasformazione di un’area da popolare a esclusiva, ndr) per cui, nelle zone di passaggio del treno, i prezzi stanno lievitando, rendendo proibitivi i costi dei beni essenziali e delle case.

«Per la gente comune ci sono solo svantaggi. Le stazioni, costruite vicino alle città e ai siti turistici, sono difficilmente raggiungibili da chi vive nei villaggi. Gli scavi e l’estrazione di pietre rovinano il territorio, i bambini devono andare a scuola in mezzo alla polvere e al rumore, con problemi per la salute. Nella zona di Palenque stanno colando cemento armato a pochi metri dalle piramidi, al solo fine di ampliare e rendere più sontuosi il museo, la biglietteria e le strutture ricettive».

I lavori del Tren Maya sono spesso accompagnati da sfratti ed espropri illegali. Gli ejidos (le terre comunitarie) – denuncia l’Ong messicana Prodesc – vengono fatti passare come proprietà private grazie al sostegno di notai compiacenti. Per lasciare spazio ai cantieri si sono demolite centinaia di abitazioni, e non sempre le famiglie hanno ricevuto indennizzi o sistemazioni alternative.

Anche i posti di lavoro e i vantaggi economici sarebbero uno specchietto per le allodole, «temporanei e destinati a concludersi insieme ai cantieri», ha sostenuto l’esponente del Cni.

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Neocolonialismo

Secondo le comunità in resistenza, il Tren Maya «è una delle grandi opere che proseguono nel solco del neocolonialismo estrattivista, danneggiando l’ambiente, la società e l’economia». Esso costituisce «un tutt’uno con un altro mega progetto voluto da Amlo, il Corridoio interoceanico, una linea ferroviaria che collegherà i porti dell’Atlantico con quelli del Pacifico. Ciò allo scopo di riconfigurare il territorio con la creazione di interi hub logistici (autostrade, ferrovie, aeroporti) e manifatturieri (gasdotti, oleodotti, raffinerie, miniere, parchi industriali).

«Il presidente del Messico, che si presenta come un innovatore vicino al popolo, sta facendo più danni dei precedenti governi conservatori. Riscuote consensi tra la gente perché fa cose utili nell’immediato, ma provoca danni irreparabili nel medio e lungo periodo», dicono al Cni.

Amlo è stato il primo presidente di sinistra dell’ultimo secolo, il più votato nella storia messicana recente con oltre il 53 per cento dei voti.

A diffidare di lui (che, nelle elezioni del giugno 2024, non potrà ricandidarsi, ndr), sono stati per primi gli zapatisti: nel 2012 il subcomandante Marcos lo definì «l’uovo del serpente», per indicare che sotto il guscio progressista covava un neoliberista.

Voto al referendum sul Tren Maya (15 dicembre 2019); le modalità della consultazione sono state criticate da più parti. Foto Lexie Harrison-Cripss – AFP.

Devastazione ambientale

Per fare posto alla ferrovia Palenque-Cancún si sta abbattendo il 70 per cento degli alberi che fanno parte della Selva Maya, la più grande nel continente americano dopo quella amazzonica. Quel che appare dall’alto è un’enorme cicatrice grigiastra, fatta di terra e cemento, che spacca in due il verde folto della copertura boschiva per centinaia di chilometri.

«Stanno disboscando ettari di foresta originaria, fonte di sostentamento per le comunità maya che vivono di un’agricoltura di piccolo impatto e che le attribuiscono carattere sacro. Così si distrugge una preziosa riserva della biosfera, un habitat di specie animali che necessitano di ampi spazi: giaguari, ocelot, tapiri, scimmie, coccodrilli, pappagalli».

Ma i danni ambientali non si fermano qui, come spiega il biologo Roberto Rojo. «La foresta pluviale è ricca di specie viventi, di siti archeologici non ancora del tutto scoperti e di formazioni geologiche uniche, i cenotes: grotte calcaree sotterranee o a cielo aperto, caratterizzate da stalattiti, stalagmiti e laghetti d’acqua dolce dal limpido colore verde o blu». Oltre alla loro bellezza che attrae turisti da tutto il mondo, queste oasi naturalistiche costituiscono una fonte di approvvigionamento idrico che rischia di scomparire. «Ormai solo il trenta per cento delle fonti è incontaminato, e la carenza d’acqua pulita danneggia i piccoli coltivatori favorendo l’abbandono o la cessione delle terre ai latifondisti». Nel 2018 Roberto Rojo ha fondato i Cenotes urbanos, gruppo di speleologi impegnato a mappare i cenotes non documentati di Playa del Carmen, dove si sta costruendo il tratto cinque (da Tulum a Playa del Carmen) del Tren Maya. Dal 2019 la loro è diventata una corsa contro il tempo per censire il maggior numero di grotte, nel tentativo di impedirne la distruzione.

«La rotta ferroviaria attraversa almeno un centinaio di cenotes. Qui il terreno calcareo si sbriciola, perciò i binari non poggiano direttamente a terra ma vengono sopraelevati a 17,5 metri d’altezza, su centinaia di pali del diametro di oltre un metro conficcati a 25 metri di profondità, è come costruire su gusci d’uovo», dice Elias Siebenborn, membro dei Cenotes urbanos. «Gli scavi distruggono alghe e batteri essenziali per la sopravvivenza dell’ecosistema e inquinano l’acqua. A volte, per procedere più in fretta, le ruspe tappano i cenotes con la terra. È un danno incalcolabile, irreversibile».

Donne indigene; le comunità non sono state coinvolte nel progetto ferroviario del Tren Maya. Foto Robin Canfield – Unsplash.

Senza autorizzazioni

Lo scorso marzo il Tribunale internazionale per i diritti della natura ha chiesto al governo di sospendere i lavori del Tren Maya che «provoca devastazioni a lungo termine e viola la stessa legge messicana».

La costruzione della ferrovia, si legge nella sentenza, è avvenuta «senza la Manifestación de impacto ambiental integral (relazione preliminare sugli impatti ecologici prevista dalla legge, nda), senza autorizzazioni per il cambio di destinazione d’uso dei terreni, e senza attenersi alle sospensioni giudiziali richieste in questi anni dagli Amparos» (tribunali costituzionali cui i cittadini possono adire direttamente, un po’ come i Tar italiani, nda).

«Il Tren Maya è un ecocidio e un etnocidio che viola i diritti ambientali, umani e culturali delle comunità indigene, in nome di una visione puramente commerciale e finanziaria», dice Raúl Vera López, uno dei giudici del Tribunale. Esponente della teologia della liberazione e strenuo difensore dei diritti umani, monsignor Vera López è tra le voci che, fin dai tempi del presidente conservatore Felipe Calderón (2006-2012), hanno denunciato i pericoli della militarizzazione del Messico, un tema «caldo» anche sotto il governo Amlo.

Il vescovo messicano Raúl Vera López, conosciuto per le sue battaglie per i diritti umani, si è schierato contro il Tren Maya. Foto Especial – desdelafe.mx.

«Oggi predomina una politica della paura che rafforza il clima di violenza, già molto forte nel Paese a causa del narcotraffico e dei paramilitari», spiega il vescovo Vera López. «Anche i lavori del Tribunale ne hanno risentito: noi giudici siamo stati seguiti da gente armata. Dopo aver subito minacce e intimidazioni, diverse persone hanno disertato le udienze o si sono limitate a mandare biglietti di denuncia anonimi. Nello Stato di Quintana Roo, a Señor, i militari sono andati di casa in casa a minacciare gli abitanti; a Tihosuco, durante un’udienza si sono presentati tipi sospetti che hanno fotografato i partecipanti e preso le targhe delle automobili».

Sono anche in aumento le sparizioni forzate e gli assassinii, in un paese tra i primi al mondo per numero di defensores e defensoras ambientales uccisi. Nel 2021, su 200 omicidi, oltre un quarto si sono verificati in Messico (dati Global Witness).

Il Tren Maya comporta «una militarizzazione massiccia e capillare, i lavori avanzano preceduti dalle camionette blindate dell’esercito», sostiene monsignor Vera López.

«Le forze armate hanno anche la gestione diretta di diversi cantieri, perché a loro è riconosciuta la facoltà di fare impresa, assumere personale edile e appaltare i lavori a ditte esterne», ha spiegato Miguel Angel del Cni.

La Guardia nazionale controlla le attività del Tren Maya, mentre la Marina gestisce il Corridoio interoceanico. «Parte dei proventi dei cantieri sono destinati a pagare le pensioni dei militari, che quindi hanno tutto l’interesse a reprimere il dissenso», ha detto Miguel Angel.

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Una resistenza lunga 500 anni

Per fronteggiare l’apparato militare e di potere che sostiene le grandi opere, le comunità indigene ricorrono a vie legali, manifestazioni di piazza e blocchi dei cantieri. Una lotta impari, Davide contro Golia. Dove trovano la forza per non arrendersi?

«Ciò che da sempre ci dà coraggio, ci mantiene uniti e solidali, e sostiene la resistenza dei nostri popoli, è la spiritualità», ha spiegato Raul Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano esperto di movimenti sociali latinoamericani, relatore all’incontro El Sur resiste, promosso dal Cni.

«Nella vita quotidiana, come nelle iniziative di contrapposizione, i rituali e la cosmovisione maya sono onnipresenti, ad esempio attraverso le cerimonie in onore della terra, dell’acqua, della foresta.

La spiritualità ci proietta in una dimensione non materiale ma profondamente umana, l’essere umano è un essere spirituale che può andare oltre le contraddizioni materiali», ha continuato Zibechi. «Ci sta piombando addosso un’enorme tempesta, contro cui non possiamo costruire barriere materiali; ma possiamo unirci, abbracciarci, affidarci alla Pachamama, la Madre Terra».

Qualunque sia l’esito dello scontro, «questa è la nostra vittoria: aver continuato a esistere e resistere, essere ancora qui dopo la lunga notte di 500 anni (dall’arrivo di Cristoforo Colombo, nda). E forse, come popolo, r-esisteremo per altri 500 anni».

Stefania Garini

Mappa del percorso, delle tratte e delle stazioni principali del Tren Maya.


Le imprese straniere in Messico

«El tren alemán»

Negli ultimi anni un numero crescente di imprese, soprattutto statunitensi, ha trasferito le proprie produzioni in Messico, raggiungendo nel 2022 un volume di investimenti diretti pari a 35,3 miliardi di dollari, il 12% in più rispetto all’anno precedente (dati Banco de México).

Ad attirare capitali sono le politiche commerciali, come l’accordo di libero scambio Nafta 2 con Usa e Canada entrato in vigore nel 2020, ma anche le scarse tutele ambientali e la possibilità di impiegare manodopera a basso costo.

Tra le aziende europee interessate dalle grandi opere vi sono le spagnole Renfe (compagnia ferroviaria) e Ineco (ingegneria dei trasporti), la lussemburghese Arcelor Mittal (piastre in acciaio per la raffineria di Dos Bocas), la francese Alstom (costruzioni ferroviarie). Tra i soggetti impegnati in Messico nelle vecchie e nuove opere di estrattivismo energetico vi sono anche alcune aziende italiane, come Enel Green Power (parchi eolici di Oaxaca) ed Eni (raffineria di Tabasco).

La tedesca Deutsche Bahn è presente nella progettazione del Tren Maya (qualcuno, sarcasticamente, lo chiama Tren Aleman) attraverso la controllata DB Engineering & Consulting. Pur avendo firmato una Convenzione con l’impegno di garantire i diritti delle comunità, secondo il Congresso nazionale indigeno la Deutsche Bahn (tristemente nota per aver gestito i «treni della morte» sotto il nazismo) avrebbe ignorato il primo e basilare diritto: quello delle persone a essere informate e consultate. Per parte sua, la Deutsche Bahn sostiene che il progetto sta creando lavoro e che il treno è un mezzo di trasporto ecologico, che ben si sposa con l’emergenza climatica.

S.Ga.

Scorcio del sito archeologico maya di Palenque, nello stato del Chiapas. Foto Dassel – Pixabay.


Il Tribunale internazionale per i diritti della natura

Comunità indigene inascoltate

Il Tribunale internazionale per i diritti della natura, fondato nel 2014 dalla Global alliance of the rights of nature, ha lo scopo di far valere la soggettività giuridica della Natura – che non può difendersi da sé -, denunciando i crimini perpetrati contro di essa e dando voce ai popoli indigeni in merito alle violazioni subite dalla loro terra, dalle loro acque e dalla loro cultura. Pur essendo un tribunale d’opinione, le cui sentenze non hanno potere vincolante, i suoi pronunciamenti costituiscono importanti precedenti per le rivendicazioni legali di comunità e attivisti.

A deliberare sul Tren Maya, dopo aver raccolto le testimonianze di una ventina di comunità negli stati di Chiapas, Campeche, Quintana Roo e Yucatán, sono stati i giudici Francesco Martone, già presidente di Greenpeace Italia, Raúl Vera López, vescovo emerito di San Cristobal de Las Casas e di Saltillo, la sociologa argentina Maristella Svampa, l’avvocato ecuadoriano Yaku Pérez e il capo delegazione zapoteco dell’Indigenous environmental network, Alberto Saldamando.

La sentenza del Tribunale è stata notificata al presidente Amlo, alla Commissione nazionale per i diritti umani, ai relatori Onu per i diritti umani e per i diritti dei popoli indigeni, al rappresentante dell’Unesco in Messico, e tradotta in lingua maya per renderla accessibile alle comunità.

È da escludere però che Amlo faccia dietrofront, visto che nel 2021, in risposta ai mandati giudiziali degli Amparos che chiedevano la sospensione dei lavori, aveva dichiarato il Tren Maya opera di sicurezza nazionale. D’altra parte, la linea ferroviaria è ormai quasi completata.

S.Ga.

Una piramide di Chichén Itza, uno dei più noti siti archeologici maya nella penisola dello Yucatan. Foto Mario La Pergola – Unsplash.

 




Guatemala: Da vittime a protagoniste


Nel paese centroamericano la violenza contro le donne è normalità quotidiana. Ancora di più se indigene. Elena e Cristina, di origine maya ixil, hanno saputo trasformare la loro esperienza in un aiuto per altre vittime.

La cosa che colpisce di più quando si parla con Elena Guzaro è la dolcezza del suo sguardo, un misto di timidezza, fatica, ma anche determinazione. Di fianco a lei, Cristina Raymundo ha occhi vivaci e sinceri. Ti squadra in maniera diretta, senza abbassare la testa, visibilmente divertita.

Sono due modi diversi di osservare il mondo, ma entrambi rivelano la serenità e la consapevolezza di chi, non senza difficoltà, è riuscita a prendere in mano la propria vita e a decidere per se stessa. Sono gli sguardi di chi è stata capace di sottrarsi alle botte di un marito ubriaco, o di chi rifiuta di rimanere intrappolata in una relazione familiare di dipendenza economica o, ancora, di chi vuole studiare per migliorare le proprie opportunità future. Sono gli sguardi tipici di chi è riuscita ad affrancarsi dalla violenza di genere con il proprio corpo e le proprie parole. E dopo averlo fatto, è determinata ad aiutare altre donne a seguire i suoi passi.

Donne indigene portano croci con i nomi di vittime del conflitto armato guatemalteco durante una manifestazione per il 22° anniversario della pubblicazione (avvenuta nel 1999) del rapporto della «Commissione per la verità» (Città del Guatemala, 25 febbraio 2021). Foto Johan Ordonez – AFP.

Elena e Cristina

Elena Guzaro e Cristina Raymundo sono due donne indigene di origine maya ixil, vivono a Nebaj, a duemila metri d’altezza nella regione del Quiché, zona Nord Ovest del Guatemala. Sono ex vittime di violenza. Ex, perché oggi non lo sono più.  Nel presento sono, e lo saranno nel futuro, due defensoras dei diritti umani che, forti della loro esperienza dolorosa, aiutano le loro concittadine, così come le donne provenienti da tutta la regione maya ixil, a riconoscere la violenza e, in questo modo, a liberarsene.

Da anni, Elena e Cristina sono parte integrante dell’Associacion red de mujeres ixiles (Asoremi), un’organizzazione di donne che si batte proprio per richiedere giustizia in nome delle vittime di abusi fisici e sessuali, di discriminazione e di minacce psicologiche. Nel corso del tempo, la Defensoría de la mujer I’x (dove in lingua maya ixil «I’x» vuol dire «donna»), la sede di Asoremi, è diventata un punto di riferimento per bambine, giovani e donne di tutte le età che, in caso di violenza, preferiscono rivolgersi a loro invece di dirigersi da sole alla polizia, che in molti casi non prende in esame le loro denunce.

1960-1996: La guerra civile

Elena Guzaro è la presidentessa di Asoremi e sa bene cosa significa essere incastrata in un contesto di violenza. Lei stessa ha vissuto l’esperienza sulla sua pelle. È nata nel 1980, nel pieno del conflitto armato interno che ha causato oltre 200mila vittime e 45mila desaparecidos, tra il 1960 e il 1996, anno in cui sono stati firmati gli accordi di pace. La guerra civile, giocata nel contesto della Guerra fredda, ha visto contrapporsi l’esercito, sostenuto e armato dagli Stati Uniti, a una guerrilla partecipata da contadini, studenti, sindacalisti e alcune organizzazioni di sinistra, tra cui il Movimiento revolucionario 13 de noviembre.

Tra il 1981 e il 1983, il conflitto conobbe una svolta drammatica con una fase genocida, guidata dall’allora dittatore Efraín Ríos Montt, nei confronti della popolazione maya ixil. Il piano elaborato per lo sterminio del popolo indigeno portò all’esecuzione di migliaia di persone, tra adulti e minori. Oltre alle morti e alle sparizioni forzate, si aggiunge alle atrocità di quel periodo anche lo stupro, arma di guerra ripetutamente utilizzata nei confronti delle donne maya ixil.

A oggi, il genocidio è rimasto impunito, pur essendo evidenti le responsabilità dell’ex dittatore. Il report realizzato dalla «Commissione per il chiarimento storico», voluta dalle Nazioni Unite, ha infatti evidenziato che il 93% delle violenze avvenute durante l’intero conflitto armato è stato perpetrato dall’esercito.

Donne indigene in cammino. Foto Simona Carnino.

La violenza Inizia in famiglia

Allora Elena Guzaro era una bambina di pochi anni ed è riuscita a sopravvivere alla prima violenza della sua vita, a cui, nel tempo, se ne sono sommate altre. «Mio padre è morto nel 1982, durante la guerra, e fin da bambina ho dovuto lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, nella zona della costa Sud – racconta Elena -. Ho avuto il mio primo figlio a 18 anni. Mio marito non mi aiutava, anzi, mi picchiava quando partecipavo alle attività di Asoremi, perché voleva che rimanessi a casa. Era violento, ma io pensavo che fosse normale perché anche mia madre mi diceva che se lui mi picchiava era per colpa mia, perché uscivo per andare a lavorare alla Red con le altre donne. Ora non sto più con lui. Ci siamo lasciati cinque anni fa, ma è stato difficile prendere questa decisione nonostante le botte, perché da quel momento lui ha smesso di sostenere economicamente la famiglia. Io ho sei figli ed è dura mantenerli da sola».

Un problema radicato

La violenza contro le donne in Guatemala, così come nel Nord dell’America Centrale, Messico e in numerosi paesi dell’America Latina, è un problema radicato.  Come in quasi tutto il mondo, la violenza si presenta sotto molteplici forme, a partire da quella fisica, sessuale, psicologica, economica, fino ad arrivare agli abusi dello stato, di cui, per esempio, è stata vittima Elena Guzaro quando, durante il conflitto armato, ha dovuto abbandonare la sua casa per sfuggire al genocidio perpetrato dall’esercito guatemalteco ai danni della sua comunità.

In America Latina è alta l’incidenza del femminicidio, che nel 2020 ha generato oltre 4mila vittime, uccise principalmente per mano di un familiare prossimo, in particolare del compagno o dell’ex.

Secondo gli ultimi dati disponibili dell’«Osservatorio sull’uguaglianza di genere» delle Nazioni Unite, con un tasso di 4,7 donne uccise su 100mila abitanti è l’Honduras ad aggiudicarsi il primato di paese più mortale per le donne, seguito da Repubblica Dominicana e da El Salvador.

In Guatemala, i femminicidi sono attualmente in rapida ascesa dopo una lieve riduzione nel 2020. Secondo il recente report sulla «Violenza omicida», prodotto dal «Gruppo di supporto mutuo» (Gam) del Guatemala, solamente nel mese di gennaio 2022 sono state uccise 52 donne, con una media di quasi due al giorno, a cui si aggiungono ulteriori cinque denunce quotidiane di scomparsa. Il tasso di impunità dei femminicidi sfiora il 98% secondo i dati della «Commissione internazionale contro l’impunità» (Cicig).

In America Latina persiste anche un’elevata violenza patrimoniale, che si verifica quando il padre di famiglia decide di abbandonare il nucleo familiare rifiutandosi di passare gli alimenti ai figli, forzando, di fatto, la donna a sobbarcarsi da sola i costi della famiglia, spesso molto numerosa. Questo tipo di violenza ha un impatto molto forte in particolare sulle donne che, soprattutto in America Centrale, vivono già in una condizione di povertà, a volte anche estrema.

Un evento organizzato dalla «Red» a Nebaj, comune del dipartimento del Quiché. Foto Simona Carnino.

Anche le bambine

Le donne indigene sono maggiormente esposte a discriminazione e violenza «intersezionale» (legata cioè non soltanto al genere, ma anche ad altri aspetti) su base etnica, economica e sociale. Questo significa che una donna maya ixil rischia di essere vittima di violenza non solo perché donna, ma anche per il fatto di appartenere a uno dei 22 popoli maya che, in Guatemala, sono spesso discriminati ed esclusi da investimenti statali in ambito educativo, sanitario ed economico.

Durante il lockdown del 2020, nell’area maya ixil è aumentata in maniera esponenziale la violenza fisica e sessuale ai danni anche di bambine e giovani donne che sono dovute rimanere a casa, costantemente a fianco del proprio aguzzino.

«Durante la pandemia abbiamo ricevuto molte segnalazioni di violenza – racconta Cristina Raymundo -. In quel periodo abbiamo provato a dare assistenza telefonica, ma il servizio non ha funzionato, perché le donne non potevano parlare apertamente di fronte ai loro mariti o alla famiglia violenta. In quel periodo è aumentata la violenza sessuale e il numero di incesti. Abbiamo aiutato alcune donne a scappare di casa, pagando loro un taxi, e le abbiamo ospitate presso la Defensoría, tanto che alcuni bambini sono nati lì. In quel periodo abbiamo provato a insegnare alle giovani madri a prendersi cura dei neonati e di loro stesse».

Una vista della chiesa e del centro di Nebaj, nel Quiché. Foto SImona Carnino.

La Rete delle donne

La Red de mujeres ixiles ha un unico e fondamentale obiettivo: lottare contro qualsiasi forma di violenza sulle donne, attraverso un sostegno concreto, che può essere l’assistenza psicologica, legale, educativa e anche un supporto economico.

La storia della Red, una rete che unisce circa 360 donne impegnate in nove associazioni di base nel comune di Nebaj (Quiché), è iniziata nel 1999 grazie a un capitale di microcredito erogato dal «Fondo di investimento sociale» dello stato guatemalteco, che ha permesso di finanziare le piccole attività economiche delle socie, come, ad esempio, sartorie, allevamenti di polli e coltivazioni della terra. Nel 2005, le nove associazioni hanno fondato ufficialmente la Red de mujeres ixiles.

Elena Guzaro ha iniziato la sua esperienza in una delle organizzazioni di base proprio nel 1999. «Avevo 19 anni. Volevo provare ad accedere al microcredito e imparare anche a leggere e scrivere. Ancora oggi organizziamo corsi di alfabetizzazione per dare alle donne la possibilità di studiare. Io avrei sempre voluto farlo, però da piccola ho dovuto lavorare, per cui ho iniziato tardi, ma ora ho il titolo di maestra. Lavorare alla Red è stato un modo per imparare da donne più grandi di me a riconoscere la violenza e, allo stesso tempo, le ho aiutate a superare gli abusi che vivevano nelle loro case, simili a quelli che subivo io».

Tutte le socie di Asoremi hanno vissuto qualche forma di violenza e in maggioranza vivono in condizione di povertà. Secondo gli ultimi dati della «Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi», il Guatemala si situa al quinto posto nell’area per disuguaglianza nella distribuzione del reddito, particolarmente evidente nei salari delle donne indigene che, lavorando spesso come tessitrici informali, guadagnano circa 50 dollari al mese a fronte di un salario minimo nazionale di 350 dollari mensili.

Panoramica su un barrio vulnerabile a Città del Guatemala, capitale del paese centroamericano. Foto Simona Carnino.

Persecuzioni e minacce

La volontà di aiutare le donne a diventare indipendenti mentalmente ed economicamente da partner violenti è alla base del lavoro della Red de mujeres ixiles. E proprio per questo, molte delle socie sono state vittime di persecuzioni e minacce da parte di uomini o, in alcuni casi, di persone anonime.

Nel 2018, una socia è stata uccisa mentre camminava per tornare a casa e molte compañeras della Red sono state derubate e attaccate verbalmente e fisicamente.

Ma le violenze e la paura non le annichilisce. Anzi, le donne della Red continuano a portare avanti il loro lavoro. Ogni anno danno assistenza psicologica e legale a circa 500 donne e promuovono pubblicamente, attraverso eventi pubblici e la radio, la necessità di ridurre la violenza sulle donne e le bambine per creare una società meno conflittuale e più giusta per tutti.

Un lavoro per il quale le socie di Asoremi hanno ottenuto molti riconoscimenti, tra cui il «Premio per i diritti umani» lanciato dall’associazione di Bolzano Operation Daywork Onlus (operationdaywork.org) che Elena e Cristina hanno ritirato durante un recente viaggio in Italia, nel marzo di quest’anno. Il legame di Asoremi con l’Italia è rafforzato anche dalla collaborazione con la Ong torinese Cisv
(cisvto.org), che dal 2009 affianca Asoremi nell’accompagnamento delle vittime di violenza e nella risoluzione dei conflitti nell’area maya ixil.

Curare le ferite

Nel libro Tus pasos y mis pasos, prodotto da Asoremi, le socie dicono di se stesse: «Abbiamo sperimentato violenza domestica, economica, fisica, politica (durante il conflitto armato interno), abusi psicologici e furti. La maggior parte di noi si è formata per poter gestire le proprie attività commerciali e i propri soldi […]. Abbiamo capito l’importanza di essere parte di un’organizzazione e di sanare le nostre ferite».

Le socie della Red de mujeres ixiles sono convinte che una donna sopravvissuta alla violenza possa guarire dal dolore e recuperarsi, se aiutata a farlo.

Cristina Raymundo si occupa proprio di «sanación», un percorso di risanamento delle ferite subite, e da anni aiuta le donne a riprendere in mano la propria vita, a riconoscere e, di conseguenza, evitare per quanto possibile la violenza di genere.

«Sono entrata nella Red nel 2013 e da allora ho sostenuto molte donne nel loro percorso di guarigione – spiega Cristina -. La prima cosa che faccio è ascoltarle, quando arrivano dopo essere state malmenate o abusate psicologicamente. Poi facciamo alcuni esercizi di respirazione e provo a spiegare loro che non devono sentirsi in colpa se si sentono senza forze o spaventate. È normale dopo una violenza. Spesso disegniamo per connetterci mentalmente con la persona che le ha danneggiate, nel tentativo di perdonarla e superare il dolore. Alla fine, le accompagno da altre donne della Red dove possono ascoltare storie simili ed essere ispirate a trovare soluzioni».

Donne indigene alla messa della Domenica delle Palme (10 aprile 2022) a San Pedro Sacatepequez, a 25 chilometri dalla capitale guatemalteca. Foto Johan Ordonez – AFP.

Il contesto familiare e sociale

Il processo di guarigione è un percorso collettivo di mutuo aiuto, che permette alle sopravvissute alla violenza di sentirsi accolte e capite, senza giudizi.

Molte donne, indipendentemente dal paese di provenienza, o dal ceto sociale e dal livello educativo, fanno fatica a riconoscere di essere state vittime di violenza. Di fatto, la continua colpevolizzazione che la società attuale fa della vittima alimenta quello storico cortocircuito che impedisce a molte donne, ancora oggi, di ammettere, e quindi di denunciare, gli abusi subiti in prima persona.

«Io arrivo da un contesto patriarcale, dove anche mia madre era vittima di violenza, ma non l’ha mai voluto accettare e riconoscere – continua Cristina -. Per cui ho iniziato io a educare le mie sorelle a essere libere, così come le donne della Red hanno fatto con me. Il supporto e la fiducia che trasmettiamo alle donne è ciò che le ispira a fare la stessa cosa con le altre. Quando una sopravvissuta alla violenza usa la propria esperienza per aiutare una sorella o un’amica a riconoscere e difendersi dalla violenza, smette di essere una vittima e diventa una defensora dei diritti umani, come tutte noi».

Simona Carnino

Il libro pubblicato nel 2022 su Don Piero Nota, sacerdote della diocesi di Torino, che ha dedicato la sua vita al Guatemala.




I Maya, il mistero di una civiltà perduta


Visitare lo stato messicano dello Yucatán è come tuffarsi in un mare misterioso. Il mistero, naturalmente, è quello della civiltà Maya che si sviluppò lì e nelle regioni contigue dell’America centrale (in Chiapas, Guatemala, Belize, Honduras, El Salvador) raggiungendo la sua età classica tra il 250 e il 900 dell’era cristiana. Ciò che sorprende sono le loro impressionanti realizzazioni, ma anche l’improvvisa scomparsa della loro civiltà.

Edgardo Coello, la guida che mi accompagna con grande preparazione e passione nel mio breve tour nelle terre dei Maya, afferma che le massime realizzazioni di questo popolo furono la scrittura, la matematica, il calendario e l’architettura monumentale, che lo pongono al livello delle massime civiltà della storia, come gli Egizi e i Romani. E ha ragione. Quando ci si trova di fronte alle loro piramidi, ai palazzi amministrativi, agli sferisteri o campi di pelota (il gioco rituale con una palla più importante della religione maya), alle stele e alle sculture, non si può non provare lo stesso senso di meraviglia che si prova di fronte alla grandiosa maestà delle piramidi egizie o dei massimi monumenti delle grandi civiltà di ogni continente.
E ciò che più sorprende è che tali costruzioni furono realizzate in un continente isolato dal resto del mondo dove non si conoscevano ancora la lavorazione dei metalli e l’uso della ruota. Costruzioni così grandiose indicano una forte organizzazione sociale, guidata da una gerarchia militare/sacerdotale, ma sostenuta dalla fatica di migliaia di lavoratori. Segnalano anche la maturazione di competenze architettoniche e tecniche molto evolute, tali da consentire a quegli edifici di essere assolutamente stabili ancora oggi a distanza di più di mille anni.

Le ipotesi fantasiose

L’avvento di una civiltà così straordinaria in condizioni così improbabili suscita la fantasia di molti appassionati. Alcuni arrivano a sostenere che i Maya fossero extraterrestri giunti sulla Terra per lasciare con la loro impronta un messaggio di armonia e rispetto della natura, e poi partiti improvvisamente, forse per la previsione di un periodo nefasto. Altri riprendono il mito platonico di Atlantide, isola o continente dove viveva un popolo estremamente evoluto. Il diluvio universale sommerse Atlantide e il suo civilissimo popolo si disperse in diverse aree, tra le quali non ci furono più rapporti fino all’era moderna. Questo spiegherebbe la somiglianza sorprendente tra le piramidi maya e quelle egizie, somiglianza altrimenti incomprensibile, a parere di questi interpreti, se i due popoli non derivassero da una lontana origine comune.

Piramide a gradoni di Sakkara o Saqqara in Egitto

Le piramidi

In effetti le affinità tra le piramidi maya e quelle egizie sono numerose, dalla forma (la somiglianza in questo caso è maggiore con le primissime piramidi, come quella a gradoni del faraone Zoser a Sakkara, e con gli ziggurat della Mesopotamia), alla loro funzione sepolcrale, alla presenza di simbologie astronomiche, astrologiche ed esoteriche, all’uso della pietra. In entrambi i casi si tratta di opere che stupiscono per la grande competenza costruttiva e la complessità realizzativa messe in atto da popoli che non disponevano dei potenti mezzi tecnici moderni. Nelle città maya erano molto importanti, oltre alle piramidi, altri edifici ornati con sculture e stele che, nati probabilmente come centri cerimoniali, avevano conservato un’importante funzione religiosa anche quando erano ormai abitazioni e sedi del potere politico e militare. L’evoluzione delle città comportò anche cambiamenti culturali e simbolici: le iscrizioni sui monumenti, per esempio, che in origine erano prevalentemente mitologiche o astrologiche, nel tempo si trasformarono in narrazioni di storie riguardanti le dinastie regnanti. Una grande differenza tra Centroamerica ed Egitto sta, comunque, nella cronologia: le piramidi maya furono costruite millenni dopo quelle egizie. Viste le molte somiglianze, ci si è domandato se ci sia una relazione tra le due civiltà, ma questo per ora è un quesito senza risposta.

Ziggurat di Ur

La storia

La ricostruzione degli storici è naturalmente molto diversa dalle interpretazioni fantasiose che abbiamo visto, anche se è in continua evoluzione, data la scarsità di informazioni a loro disposizione. Molti monumenti maya sono tuttora nascosti dalle foreste e il lavoro che gli archeologi devono ancora fare è enorme. La scrittura non è stata integralmente decifrata. Per non parlare degli innumerevoli documenti che sono andati distrutti a causa di secoli di guerre intestine tra le città maya e i popoli del Messico centro-settentrionale e poi per mano della colonizzazione spagnola. Nei primi decenni del XVI secolo, Diego de Landa, vescovo e inquisitore dello Yucatán, ebbe un ruolo ambiguo e contraddittorio. Da un lato distrusse codici importantissimi e proibì usanze tradizionali per sradicare quella che lui definiva l’eresia, dall’altro cercò di comprendere la cultura maya e di decifrarne la scrittura. Nacque così quello studio della civiltà maya che è tuttora in corso.

Quello che si sa è che i Maya si stanziarono in America centrale nel secondo millennio prima di Cristo e maturarono la propria cultura in un lungo periodo, detto formativo o preclassico, in cui, grazie anche al contatto con altre culture come quelle mesoamericane degli olmechi e degli zapotechi, svilupparono i principali elementi della loro civiltà. Questa raggiunse l’apogeo nel cosiddetto periodo classico, tra il 250 e il 900 d.C., quando l’organizzazione sociale si diede la forma politica di città stato rette da monarchie assolute ereditarie, spesso in guerra tra loro, ma a volte alleate. Si affermarono soprattutto le città di Tikal, in Guatemala, e di Calakmul, nel Petén, che si posero a capo di alleanze (tra loro ostili) alle quali aderirono le altre città come Palenque, Copán e Yaxchilán. Furono i secoli delle massime realizzazioni della civiltà maya.

Stele davanti a un tempio di Calakmul

La matematica, il calendario, l’astronomia

Matematica, astronomia e calcolo del tempo erano strettamente intrecciati.

Matematica

I Maya elaborarono un efficace sistema di calcolo su base vigesimale (cioè su base 20), funzionale quanto il nostro sistema decimale e forse più adatto a fare operazioni su numeri elevati. Mentre le cifre dei nostri numeri, infatti, rappresentano, da destra a sinistra, le unità, le decine, le centinaia, le migliaia, ecc., i glifi dei numeri maya erano, dal basso verso l’alto, le unità (rappresentate graficamente con dei punti, mentre le cinquine erano raffigurate con delle barrette), le ventine, i multipli di 360, di 7.200, di 144.000 e così via.

In un sistema vigesimale ci si sarebbe aspettati una serie 20-400-8.000-160.000. Il fatto che la terza cifra indichi invece i multipli di 360 deriva dal legame tra la matematica e il calendario. Venti era il numero dei giorni del mese maya e l’anno era considerato composto di 18 mesi per un totale di 360 giorni: quindi il mese si fondava sulla matematica in sé (20 giorni, secondo il sistema vigesimale) e la matematica sul calendario (la terza cifra si fonda sui 360 giorni dell’anno). I Maya – e forse ancor prima di loro gli Olmechi e gli Zapotechi – furono i primi a utilizzare lo zero, già prima dell’era cristiana, mentre gli Indiani lo scoprirono nel V secolo d.C. e gli Arabi lo ereditarono dagli Indù nell’VIII.

Astronomia

I Maya applicarono il proprio efficiente sistema di calcolo all’astronomia, dove raggiunsero risultati notevoli che stupiscono per la semplicità dei mezzi utilizzati, i quali si riducevano all’osservazione a occhio nudo e al calcolo matematico. Oltre alla precisione quasi assoluta nella determinazione dell’anno solare in 365,242 giorni, essi erano in grado di prevedere con altrettanta precisione le eclissi solari, di calcolare le rivoluzioni di Venere (pianeta al quale prestarono grande attenzione) e i cicli della luna e avevano profonda conoscenza delle stelle. Gli osservatori astronomici erano tra gli edifici più importanti delle principali città, come Palenque e Chichén Itzá.

El Caracol, osservatorio astronomico di Chichén Itzá

Calendario

Il calendario maya era molto complesso e si collegava con la matematica, con la religione e con l’astronomia. È chiaramente di origine matematica la divisione, che abbiamo già visto, del mese in 20 giorni e astronomica quella dell’anno in 18 mesi per raggiungere i 360 giorni. Ma i Maya sapevano benissimo che l’anno solare è composto di 365 giorni e una frazione, per cui ai 18 mesi aggiungevano 5 giorni, che consideravano infausti. Accanto a questo calendario civile, essi ne seguivano uno rituale, che prevedeva un anno di 260 giorni, cioè di 13 mesi di 20 giorni. E dato che il primo giorno dei due calendari coincideva una volta ogni 52 anni (cioè 18.980 giorni, laddove 18.980 è il minimo comune multiplo di 260 e 365), questo periodo era considerato un ciclo storico di estrema importanza.

I Maya avevano una concezione ciclica del tempo, ispirata dalle loro conoscenze astronomiche. Come i giorni sono cicli di dì e notte e gli anni solari cicli di stagioni, così, a livello più grande, la vita universale si divide in cicli cosmici. Essi temevano che alla fine di un ciclo potesse avvenire la fine di un mondo, sempre seguita però dalla nascita di uno nuovo. Secondo i Maya la quinta era cosmica doveva finire per il 21 dicembre 2012, giorno nel quale sarebbe iniziata la sesta era (cfr. MC 1-2/2013 p.51).

Poiché ogni era cosmica era stimata in circa 25.000 anni, è evidente che i Maya avevano un’idea dell’antichità del mondo molto più estesa rispetto al pensiero europeo dello stesso periodo storico.

Era considerato importante anche il periodo di 20 anni, detto katun. Sia la vita del singolo uomo, sia le vicende politiche erano scandite in katun, che si credevano governati dalle divinità che decidevano la fortuna favorevole o sfavorevole di ogni giornata e di ogni periodo. Il computo degli anni della storia si teneva a partire da un anno zero che coincideva con il 3.114 a.C., per motivi che sono ancora ignoti.

Un chacmool di Chichén Itzà

La religione

La religione dei Maya era un politeismo estremamente complesso, con una divinità suprema, Itzamná, circondata da un pantheon di numerosissimi dei associati ai punti cardinali, ai colori, ai numeri, ai periodi del tempo (ogni giorno ha un dio benefico o malvagio che lo governa), ai corpi celesti (Sole, Luna, Venere), agli elementi naturali (pioggia, mais, alberi, animali come il giaguaro e il colibrì). Erano particolarmente importanti il culto del dio del mais, su cui si fondavano l’agricoltura e l’80% dell’alimentazione, e della pioggia (Chac), poiché la siccità era la principale causa di carestia. Compito dell’importantissima casta sacerdotale era interpretare, servendosi anche della matematica e dell’astronomia, la complicatissima ragnatela di influenze positive e negative delle varie divinità per stabilire i giorni fausti o nefasti per ogni azione umana, dalla guerra al matrimonio, alla semina, all’incoronazione di un re.

sacro cenote di Chichén Itzà

I sacerdoti organizzavano e conducevano le cerimonie, precedute da lunghi periodi di purificazione mediante digiuno e astinenza sessuale. L’aspetto più importante dei riti religiosi, che prevedevano anche danze, banchetti e feste pubbliche, erano le offerte e i sacrifici agli dei, per ottenerne la benevolenza. Venivano offerti oggetti di valore e sacrificati animali e, per nutrire e saziare soprattutto gli dei della guerra, esseri umani. In cima alle piramidi destinate ai sacrifici umani era collocata una scultura di pietra, il chacmool, sul quale alle vittime veniva estratto il cuore ancora pulsante e offerto agli dei. I sacrifici umani erano un’antichissima tradizione mesoamericana, ma aumentarono quando i Maya furono conquistati e dominati dalle popolazioni del Nord, i Toltechi, che introdussero il culto del serpente piumato, Quetzalcoatl, che in lingua maya fu chiamato Kukulkan.

Oggetti e vittime sacrificali erano gettati anche nei sacri cenote, pozzi sacri, in genere all’interno di grotte, per ottenere il favore di Chac, il dio delle piogge, fondamentale per evitare le sofferenze della siccità. I Maya operavano anche gli autosacrifici, cioè donavano il proprio sangue agli dei, gli uomini pungendosi i genitali, le donne la lingua.

La scrittura

Non sarebbe stato possibile raggiungere risultati così profondi in matematica e astronomia se i Maya non avessero disposto di un sistema efficiente di segni per registrare, comunicare, trasmettere e sviluppare osservazioni, calcoli, teorie e interpretazioni. Essi furono la civiltà americana che elaborò il linguaggio scritto più complesso. Oltre ai segni per indicare i numeri, produssero un complicato sistema di grafemi per esprimere la loro lingua, tuttora compreso solo in parte dagli studiosi.

Nelle epigrafi sulle stele, gli architravi, le pareti e i gradini dei monumenti raccontarono prevalentemente le gesta, la vita e la storia dei regnanti delle città stato, sempre accuratamente datate, mentre nei codici (scritti in genere su fogli ricavati da pelle di cervo o da cortecce dell’albero del fico) trasmisero soprattutto le proprie dottrine religiose, astronomiche e scientifiche. Per tanto tempo gli studiosi hanno discusso se si trattasse di una scrittura fonetica (i cui caratteri, cioè, rappresentassero i suoni della lingua) o ideografica (se rappresentassero, invece, direttamente gli oggetti e i concetti). Le ricerche della seconda metà del XX secolo hanno dimostrato che si trattava di un sistema misto, in cui alcuni caratteri sono fonetici sillabici, altri ideografici.

La scomparsa

Un altro grande mistero è quello della scomparsa della civiltà Maya. Come sono stupefacenti le loro realizzazioni con i pochi mezzi tecnici di cui potevano disporre, così è sorprendente la rapidità con cui la loro civiltà scomparve. Edgardo, la mia ottima guida, sottolinea che a scomparire non fu la popolazione, che esiste ancora oggi e conta milioni di individui, ma la civiltà che si era manifestata nelle città stato e nei loro maestosi monumenti. Alla fine dell’età classica, dopo il 900, gran parte delle città furono abbandonate, al punto che la foresta le inghiottì. Ancora oggi molti monumenti e, chissà, interi centri sono sepolti o nascosti e ci vorranno tempo e finanziamenti per recuperarli. Nel cosiddetto periodo postclassico la civiltà maya sopravvisse nelle regioni settentrionali, dove, però, subirono l’invasione e il dominio dei popoli del Messico centrosettentrionale, come i Toltechi di Tula. Ci fu una fusione che produsse quella che viene chiamata la civiltà maya-tolteca, in cui ai caratteri tradizionali della cultura maya si aggiunsero una mentalità più fortemente militaristica e l’introduzione di nuovi culti.

Inizialmente ebbe un periodo di splendore ed egemonia locale la città di Chichén Itzá, dove furono costruiti monumenti di tale interesse (come la piramide detta El Castillo) da far entrare il sito nel novero delle sette meraviglie del mondo. Alla sua crisi, intorno al 1220, emerse l’ultima importante città maya, Mayapán, che esercitò il proprio dominio regionale fino al 1440. Quando nella regione arrivarono gli spagnoli (lo Yucatán fu conquistato da Francisco de Montejo nel 1541), la grande civiltà maya era pressoché scomparsa. Gli spagnoli s’impegnarono in un’opera di sradicamento di quel che era rimasto della cultura e della religione locali, distruggendo monumenti, documenti e usanze e imponendo i propri modelli culturali e la religione cattolica. Il re di Spagna affidò ai conquistatori, con l’istituzione dell’encomienda (affidamento), lo sfruttamento del territorio e degli abitanti, con l’impegno a convertire la popolazione indigena al cattolicesimo. Le antiche città maya furono sostituite da città di modello europeo, come Mérida, nuova capitale dello Yucatán.

Quali furono le cause del declino di una civiltà tanto forte? Alcuni studiosi ipotizzano cause come l’eccessivo incremento demografico, lo sfruttamento esasperato del suolo, la deforestazione, la siccità, epidemie, disastri naturali come terremoti e uragani. Altri – ed Edgardo è d’accordo con loro – ritengono più decisive le guerre tra le diverse città stato, forse rivolte interne della popolazione contadina contro la casta dominante guerriera/sacerdotale (è l’ipotesi di Eric Thompson) e, in una società già indebolita, le invasioni dei Toltechi e successivamente degli spagnoli, che diedero il colpo finale a un mondo già in crisi per ragioni interne.

I Maya oggi

Quando chiedo a Edgardo, che è orgoglioso della percentuale di sangue maya ricevuto dalla madre, che cos’è rimasto dell’antica civiltà nei milioni di Maya che ancora oggi vivono nel Messico meridionale e in altri paesi dell’America centrale, mi risponde: la lingua, il cibo (fondato sulla netta prevalenza del mais), molte tradizioni, lo sciamanesimo e abitudini, come dormire sulle amache, assolutamente adatte al clima tropicale. I Maya sono ancora un popolo fondamentalmente contadino, anche se oggi nello Yucatán si sta affermando il turismo.

Mercato “Maya” oggi

Eric Thompson, archeologo che visse diversi decenni a contatto con i Maya odierni, riassunse il loro carattere in tre parole chiave: religiosità, moderazione, obbedienza. L’antica religione maya sacralizzava ogni aspetto della natura e della vita individuale e sociale degli esseri umani. Oggi i Maya hanno assorbito la religione cristiana, ma l’hanno fusa, soprattutto nelle campagne, con le antiche credenze. Spesso i santi cristiani sono associati ad antiche divinità e le cerimonie religiose conservano aspetti dei vecchi culti. I Maya sono un popolo che ama il lavoro ed è portato a dominare le proprie passioni. Il digiuno e l’astinenza sono sempre state per loro le vie della purificazione. Solo l’alcol, da sempre presente nella loro cultura e nei rituali religiosi come mezzo per raggiungere esperienze estatiche e allucinatorie, può talvolta alterare animi altrimenti moderati e misurati. I Maya hanno tuttora un forte senso della tradizione e il culto della propria famiglia.

Anche al turista che li ha frequentati per pochi giorni appaiono come un popolo sereno, pacifico, accogliente, sorridente e molto laborioso. Come scrisse Thompson, il loro motto potrebbe essere: «Vivi e lascia vivere».

Sergio Parmentola

Sergio Parmentola insieme alla sua guida, Edgardo Coello