C’è una siccità che brucia i campi e l’esistenza delle persone. C’è stato il terremoto più devastante nella storia del Paese. Non c’è lavoro né futuro per i giovani. Ecco perché quasi tutti cercano di fuggire all’estero. Costi quel che costi.
Ouled Kichou. È un piccolo villaggio agricolo nei dintorni di Beni Mellal, capoluogo dell’omonima regione del Marocco centrale, tra le più colpite dalla siccità che sta mettendo in ginocchio il Paese. Dal minareto di una moschea, udiamo un muezzin dalla voce sgraziata richiamare gli abitanti alla preghiera dell’alba (salat-al-fajr).
La gente del posto rimpiange il suo predecessore che si cimentava in virtuosismi canori – prima si diventava muezzin per fede, e non per lo stipendio, seppur modesto, che attualmente ricevono – e il tempo in cui l’acqua, che scendeva abbondante dalla diga di Ben Ouidan (realizzata dai francesi nel 1955), sull’antistante catena dell’Atlante, rendeva fertile la terra e nei campi c’era lavoro.
Una siccità mai vista e l’abbandono dei campi
A Ouled Kichou oggi manca anche l’acqua potabile e la quotidianità è fatta di donne e bambini che si alternano davanti alle poche cisterne allestite nel douar («villaggio» in darija, il dialetto marocchino). I campi sono quasi abbandonati e il sidr, albero del deserto citato nel Corano (chiamato «spina-christi» da ebrei e cristiani che l’associano alla corona di spine di Cristo), sembra tornare ad avere la meglio sugli ulivi centenari, in uno scenario apocalittico che un anziano descrive come il «giudizio universale».
I pochi che hanno risorse economiche provano a scavare un pozzo profondo almeno cento metri ma non è detto che si trovi la falda. Per questo si affidano ancora ai poteri divinatori del moul Al ouidet (letteralmente «il padrone delle bacchette di legno»), il rabdomante.
Qualcun altro presagisce il ritorno delle piaghe d’Egitto e sette anni di carestia.
In effetti i segni ci sarebbero tutti, visto anche il terremoto devastante, il più forte della storia del Paese, che nel settembre dello scorso anno ha colpito la provincia di Al Haouz e il suo capoluogo Marrakech, provocando almeno 2.900 morti (il bilancio non è ancora definitivo).
La zona dell’epicentro, svantaggiata dal punto di vista geografico ed economico, era nota per ospitare siti con una forte connotazione culturale e spirituale, come Tinmel, antica capitale della dinastia amazigh (berbera) degli Almohadi, e il mausoleo di Moulay Ibrahim, un santo locale.
A Tinmel, oltre al villaggio, è stata distrutta anche la moschea risalente all’XI secolo e appena ristrutturata, mentre il santuario, meta di pellegrinaggio e luogo di ricovero per persone con disturbi psichiatrici, è stato gravemente danneggiato.
Due testimoni di Ijoukak, uno dei villaggi lungo la strada R203, tornata solo da poco percorribile, raccontano: «Il terremoto è venuto a darci la caccia», paragonando il boato che ha preceduto la prima scossa al rumore sordo provocato dagli spari dei cacciatori.
Malgrado la perdita di familiari, compaesani e di tutti i propri beni, malgrado i contributi ricevuti siano modesti (le indennità statali ammontano a 14mila euro per chi ha perso la casa e a 4mila euro per chi ha subito danni, più 250 euro mensili per un anno elargiti, secondo alcuni testimoni, in modo casuale), questa gente di montagna, in tende adibite anche a scuole e moschee (solo alcuni villaggi hanno ricevuto container), resiste grazie a una fede incrollabile e alla solidarietà dei cittadini accorsi da ogni angolo del Paese.
C’è anche chi grida al miracolo. Uicha («piccola Aïcha») è uscita illesa dal crollo del mausoleo di Moulay Ibrahim; la bottega di Baha, lo speziale, è rimasta intatta. Si dice che a Tajghaout si sia salvato solo l’imam.
Inoltre, il sisma ha innescato un fenomeno geologico straordinario: con la frattura e lo spostamento delle rocce, le acque sotterranee hanno trovato nuovi spazi per fluire e salire in superficie e così in diversi luoghi, compreso l’epicentro, Ighil, dalle montagne anch’esse asciutte per l’assenza di pioggia e neve, sono sgorgate sorgenti d’acqua pura che gli abitanti hanno interpretato come una benedizione.
Calamità presenti e future
Il presente è grigio: scarsità d’acqua, post terremoto da gestire, aumento dei prezzi, sistema sanitario e scolastico a pezzi (da settembre è in corso uno sciopero dei maestri a contratto), disoccupazione, soprattutto giovanile (15-24 anni), ai massimi storici (38,25% nelle zone rurali e 49,7% in quelle urbane). E il futuro all’orizzonte è ancora più fosco: lunghi periodi di siccità e conseguente avanzata della desertificazione. Per questo non sorprende che la gente comune paragoni le calamità, naturali e non, che stanno colpendo il Paese a quelle bibliche. Ma è l’ultima delle piaghe d’Egitto, la morte dei primogeniti maschi, quella che più si presta a una lettura attualizzata se messa in relazione con l’esodo dei più giovani che, intraprendendo il viaggio migratorio lungo rotte sempre più pericolose, accettano implicitamente il rischio di morire.
D’altronde un detto popolare recita «il pane brucia» (kkubz hār in darija) e per guadagnarselo bisogna soffrire, mettendo anche a repentaglio la vita.
I giovani in fuga, una scelta obbligata
Nei villaggi non si parla di altro. Della pioggia che non arriva, delle preghiere nelle moschee per invocarla, e dei giovani che vanno via. Solo Ouled Kichou, villaggio con una popolazione stimata di duemila persone, negli ultimi sei mesi ne sono partiti più di sessanta, tutti tra i ventiquattro e i trent’anni. Un primo gruppo, composto da una quarantina di persone, è arrivato a destinazione (l’Italia). Il secondo, composto da ventiquattro, ha avuto meno fortuna: quattro hanno desistito lungo il viaggio, diciassette sono stati rimpatriati. Tre, avendo in mano dei passaporti falsi, sono bloccati in Turchia.
Scartata la rotta del Mediterraneo orientale (dopo l’intensificazione dei respingimenti in mare da parte della Grecia dal 2019) e quella del Mediterraneo occidentale verso la Spagna, vista l’ulteriore stretta del Marocco nel controllo delle frontiere a seguito della nuova pioggia di finanziamenti europei (500 milioni di euro, stanziati dopo la tragedia – era il 22 giugno 2022 – a Melilla in cui morirono 37 persone), sempre più marocchini tentano – assieme a iracheni, afghani, pachistani, bengalesi, siriani e palestinesi – la rotta balcanica.
Arrivati con l’aereo in Turchia (per i marocchini non c’è l’obbligo di visto), i migranti devono attraversare ben sette frontiere: turco-bulgara, serba, bosniaca, croata e slovena-italiana.
Raggiungere la prima, con la Bulgaria, è la parte più difficile e rischiosa. Quelli più fortunati sono accompagnati in auto a pochi km dal confine anche se poi è difficile superarlo per via della border police che non esita a impiegare armi da fuoco, cani e mazze da baseball e a denudare le persone.
Altri, come il gruppo dei 24 di Ouled Kichou, sono lasciati anche a decine di km di distanza. Devono dunque proseguire a piedi, nei boschi, guidati da un rehber («guida», in turco).
Il rehber – come il ra’ìs, il capitano o «scafista» che guida la barca sulla rotta mediterranea – è un connazionale, spesso coetaneo che, dopo vari tentativi, conosce i punti di controllo e di incontro per essere presi in consegna dal successivo gruppo di trafficanti. Se riuscirà a passare, non dovrà pagare nulla (secondo le testimonianze, il viaggio può costare sino a ottomila euro).
Mentre si attraversa il bosco si può, inoltre, cadere nelle imboscate di banditi curdi che estorcono denaro, anche sotto forma di riscatto.
L’odissea di chi fugge
Se si viene intercettati dalla polizia turca, si viene condotti in centri di detenzione amministrativa (sarebbero almeno 30, secondo asylumineurope.org), gestiti dalla Direzione generale per la gestione della migrazione, dove attendono – per un tempo indefinito – il rimpatrio.
I giovani rimpatriati che abbiamo intervistato a Ouled Kichou, sono stati portati nel centro di Kirklareli, al «Pehlivanköy Reception and Removal Centre».
Finanziato nel 2011 all’85% da fondi europei, per accogliere 750 richiedenti asilo, in seguito dell’accordo Turchia-Ue del 2016, esso è stato trasformato in centro per il rimpatrio che ospiterebbe circa 5mila persone. I testimoni lo descrivono come una vera e propria prigione: i cellulari vengono sequestrati, non si può uscire e non possono entrare organizzazioni umanitarie o legali.
«Nel centro – raccontano i giovani – si dorme almeno in otto per stanza. Non ci sono interpreti o mediatori per cui puoi ottenere informazioni sulla tua situazione solo tramite connazionali che stanno lì da tempo. Abbiamo visto anche persone con le gambe in cancrena per il freddo o lacerate dai morsi dei cani o doloranti per i lividi provocati dalle bastonate, non ricevere assistenza medica adeguata. Ci sono anche delle celle sottoterra e ci hanno detto che lì sono detenuti i terroristi».
Il sogno europeo resiste
Per coloro che sono stati rimpatriati, la legge marocchina prevede che non possano lasciare il Paese per cinque anni. I giovani di Ouled Kichou però non vogliono mollare.
Seppur nessuno si sogna di intraprendere una seconda volta il viaggio lungo la rotta balcanica, qualcuno come Y., che di tentativi via terra e via mare ne ha già fatti una decina, sta già pensando ad altre vie di fuga: «Magari la prossima volta prendo un biglietto per il Brasile. Poi nello scalo esco e scappo». Per qualcuno non sono che degli incoscienti, per altri degli eroi.
Per Mohammed, studente di diritto all’università di Marrakech, i giovani nascono già con l’idea di migrare e quindi non sviluppano un senso di appartenenza al Paese, mentre è ancora forte, malgrado i fallimenti o le fatiche delle generazioni precedenti che sono emigrate, l’idea che l’Europa sia un posto pieno di opportunità, e per raggiungerla sono pronti a tutto.
«È anche vero che qui un laureato guadagna non più di 400 euro al mese e che per studiare all’università, o diventare giudice, come sogno di fare io, devi corrompere qualcuno. Quindi, se il Paese non lo puoi cambiare, lo devi solo lasciare. Se le frontiere fossero aperte, qui non rimarrebbero che donne e vecchi».
Silvia Zaccaria
Casablanca: la forza della tradizione
Era sbarcata dalla Sicilia a Casablanca, migrante tra i migranti, quasi un secolo fa. La Madonna di Trapani, particolarmente venerata nella sua terra natale, aveva seguito l’avventura dei pescatori siciliani stanziati nella regione. «Per quanto lontano scorra un ruscello non dimentica la sua origine» si ripete in Africa.
Per questo, il 15 agosto, festa dell’Assunta, aveva dato appuntamento come da tradizione alla Chiesa italiana di Cristo Re, Boulevard Abdelmoumen (Casablanca). La serata prevedeva la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo emerito mons. Giovanni d’Ercole, una commovente fiaccolata e una condivisione conviviale italo-marocchina.
La statua della Vergine, grandezza naturale, molto delicata e bella, coronata d’oro, tiene tra le braccia un bambino dall’espressione curiosa, dolce e accattivante. I trapanesi, infatti, affascinati dalla sua bellezza vi diranno che non vedrete una Madonna più bella se non in paradiso… Era arrivata per prima nel piazzale ancora vuoto fuori dalla chiesa, sotto gli occhi di TV Trapani in diretta. E subito, come per incanto, i miracoli iniziavano a fiorire tutt’intorno… La piazza diveniva, tra gli alberi e le file di banchi, un’originale cattedrale a cielo aperto. La grande bandiera rossa stellata del Marocco e il tricolore italiano si abbracciavano sotto gli occhi di tutti, all’ingresso. Un coro di filippini, poi, appariva per animare la celebrazione e i canti in italiano. In verità, è sempre una gradita sorpresa ritrovare la propria lingua sulle labbra degli altri!
Con voce commossa, Mons. Giovanni ricorda la storia dell’emigrazione e della fede dei siciliani e di tutti coloro che partono – spesso pieni di speranza e di disperazione – per una vita migliore. Ma tutto questo – ed è veramente sentito questa sera – sotto lo sguardo incoraggiante e materno di Maria «madre universale di tutti» cristiani e musulmani. «La madre rassicura, accompagna, trasmette pace – sottolinea il vescovo – dona coraggio e serenità ad ogni esistenza e alle sue sfide». Poi, al termine di una lunga fiaccolata nel clima di Lourdes, una cascata infinita, interminabile, di «Ave Maria». Ognuno dei presenti mette la sua voce e la sua lingua, chi dal Rwanda, chi dal Libano, dal Congo, dalla Spagna, dalla Francia o da altrove… L’assemblea, in ascolto col fiato sospeso, ripete incessantemente con gioia interiore «Amen».
Poi, su invito del vescovo, alcuni lunghissimi istanti di silenzio, per far parlare solo il cuore. Così, si rimane immobili davanti alla statua della Vergine, illuminata nell’oscurità da un incantevole bouquet di candele. Istanti magici. Spesso, si sceglie il silenzio per dire le cose più importanti. Come scrive Kalil Gibran: «C’è qualcosa di più grande e più puro di quello che dice la bocca. Il silenzio illumina l’anima, sussurra ai cuori e li unisce. Il silenzio ci allontana da noi stessi, ci fa navigare nel firmamento dello spirito, ci avvicina al cielo».
Al termine della preghiera interviene in italiano il Console spagnolo, per dire con emozione come lui stesso ritrovi in questa festa della Vergine un sapore di Spagna. Così, si possono immaginare i sentimenti di coloro che ci seguono in diretta da lontano, soprattutto dalla Sicilia, in una serata di preghiera fatta in tutte le lingue del mondo!
Un grazie, infine, è rivolto a quanti sono venuti dai vari quartieri di Casablanca, agli organizzatori, in particolare ai due appassionati di questa grande tradizione, Francesco e Gilbert, un italiano quest’ultimo diventato il responsabile di tutte le vetture del Re Mohammed VI! Questa sera la chiesa italiana di Casablanca, chiusa da tempo, si è aperta al mondo: è il miracolo più grande di Maria venuta da Trapani.
Lentamente, dopo una fraterna condivisione di fede e di gioia, ognuno, nel buio della notte, fa ritorno alla sua casa. Ma con sé porta le sfide e le speranze di tutta l’umanità. Anche questo è essere italiani oggi a Casablanca.
Renato Zilio Missionario in Marocco, autore di «Dio attende alla frontiera», EMI
Nonostante i progressi e la presenza di un islam relativamente moderato, il Marocco rimane un paese con gravi problemi sociali e strutturali. Tra cui un’agricoltura molto arretrata, un elevato tasso di disoccupazione giovanile e una dinamica politica limitata. Tutte le decisioni essenziali rimangono nelle mani di una sola persona, re Mohammed VI.
Agadir. Appena esco dalla fusoliera dell’aereo della Royal Air Maroc, mi sorprendo nel sentirmi investito da una fresca brezza. «Il Grande Atlante ci protegge dalla calura proveniente dal deserto», mi spiega Kadhem, uno dei tanti venditori di souvenir che affollano il lungomare cittadino: «Appena ti dirigi nell’entroterra le temperature aumentano improvvisamente e allora sì, assaporerai la vera estate marocchina».
Mi godo la frescura serale all’ombra della collina su cui è scritto in arabo Allah, e-Watan, el-Malik (Dio, nazione, re), una triade che mi accompagnerà durante tutto il viaggio.
Posta sulla costa sudoccidentale del Marocco, Agadir non è una bella città: i turisti vi giungono per la sua spiaggia e gli alberghi di lusso, ma oltre a questo offre ben poco. Rappresenta comunque un buon inizio per assaporare lo spirito del Paese.
Nuovi quartieri continuano a espandere la città verso l’interno e i cantieri sorgono come funghi. L’amministrazione locale cerca di offrire nuove occasioni di intrattenimento, ma spesso questa volontà si scontra con una burocrazia bigotta e sclerotica. Me ne accorgo andando a visitare quella che viene spacciata come la medina (termine che indica la parte antica di una città araba, con vicoli e mura, ndr), ma che in realtà non è altro che una sorta di centro commerciale composto da una serie di negozi e ristorantini, costruito nel 1992 imitando regole architettoniche e costruzioni antiche.
Fare fotografie, mi dicono, è vietato e, nonostante abbia un’autorizzazione del ministero della Cultura, vengo informato che occorre un ulteriore consenso da parte dell’ufficio del governatore locale.
Molto più bella e tradizionale è invece Taghazout, un villaggio a una ventina di chilometri a nord di Agadir, le cui case bianche si abbarbicano su una collina che fronteggia una bella spiaggetta.
Il ministero del Turismo ha già adocchiato la zona che oggi, dopo essere stata frequentata da giovani in fuga da Agadir, è meta ambita di surfisti. Nei progetti delle autorità ci sono complessi alberghieri per 300mila turisti all’anno e, lungo la strada che congiunge Taghazout con Agadir, cartelloni pubblicitari di imprese di costruzioni invitano ad accaparrarsi lotti e case che sorgeranno su aree già fornite di corrente elettrica e impianti idraulici (in Marocco, prima delle case si predispongono i servizi). «La bellezza di Taghazout e della sua spiaggia forse verrà preservata, ma l’atmosfera rilassante e un po’ hippy che si respira scomparirà», lamenta Hassane, che fa parte di un gruppo ambientalista locale che si batte contro la costruzione selvaggia sulla costa. Ma Hassane è isolato: la maggior parte dei commercianti e degli albergatori della cittadina accoglie a braccia aperte lo sviluppo turistico. Taghazout è un po’ l’esempio di come stia cambiando il Marocco: in ogni città, da qui a Ouarzazate, da Marrakech a Tangeri, immense superfici di terreno aspettano di essere trasformate in nuovi quartieri residenziali.
Lo sviluppo da oggi al 2035
Il rinnovamento del parco immobiliare è uno dei punti del programma del Nuovo modello di sviluppo che intende riformare l’economia sulla base di una crescita atta a migliorare le condizioni di vita di una popolazione di 38 milioni di persone che, secondo le Nazioni unite, ha raggiunto un Indice di sviluppo umano (Hdi) di medio livello.
Le nuove abitazioni garantiranno non solo migliori condizioni di vita, ma anche un utilizzo più oculato dell’energia e delle fonti naturali, in particolare dell’acqua, elemento sempre più prezioso, soprattutto nei paesi dove l’incremento demografico si accompagna a una concentrazione urbana sempre più problematica.
Sanità, scuola e assistenza sociale sono i tre grandi temi oggi rincorsi da un paese che, entro il 2035, vorrebbe raggiungere l’ambizioso obiettivo di avere l’economia più avanzata del continente africano. Per questo punta al raddoppio del Pil in una dozzina d’anni con una crescita annua del 5-6% e al rafforzamento dell’istruzione scientifica al fine di orientare l’80% della forza lavoro verso il comparto della transizione energetica.
Nel febbraio 2020 è stata lanciata la campagna Generazione verde 2020-’30 che ha come linee guida la creazione di un ceto medio agricolo migliorando le condizioni economiche di circa tre milioni di contadini e delle loro famiglie. Al tempo stesso, si cerca di aumentare di un milione di ettari la quantità di terreno destinato a uso agricolo formando 150mila giovani nel settore.
Il piano ha già però subito delle battute d’arresto, sia per la pandemia, che ha contratto l’economia di un 6,3% nel 2020 (compensata da una crescita del 7,4% nel 2021), sia per la prolungata siccità che ha colpito i raccolti riducendoli del 17,3% rispetto all’anno precedente. A questi due aspetti si è aggiunta la guerra in Ucraina con il blocco delle importazioni di grano. Nel 2022, la Banca mondiale ha stimato solo all’1,2% la crescita del Pil marocchino e, secondo la Fao, la crisi ha messo in difficoltà il 28% della popolazione.
Per far fronte al crollo della produzione, Rabat ha stipulato accordi con Francia e Canada, da cui importerà grano e frumento, due dei cereali fondamentali di cui si compone la dieta non solo dei marocchini, ma di gran parte del Maghreb.
La bassa meccanizzazione agricola e l’arretratezza delle infrastrutture costringono il 39% dell’intera forza lavoro marocchina impiegata nei campi a produrre solo il 14% del Pil del Paese.
I giovani, appena possono, cercano di trasferirsi in città, dove in molti vanno a ingrossare le file dei disoccupati (il 22% dei giovani tra i 15 e i 24 anni non lavora), o cercano di emigrare verso l’Europa.
Per limitare questa emorragia di forza lavoro giovane, si stanno sviluppando nuove iniziative in cui le cooperative hanno un ruolo importante. Luc Fougère, direttore del Riad Angsana di Marrakech, ha creato alcune realtà tra le più vivaci della zona. «Invece di trasferire giovani marocchini nelle coltivazioni europee, abbiamo deciso di trasferire le coltivazioni in Marocco». E così nel suo albergo ristorante vengono serviti piatti che utilizzano ingredienti provenienti da realtà locali cofondate da Fougère stesso: miele, olio, frutta, verdura, anziché essere importati da migliaia di chilometri di distanza, ne percorrono solo pochi dalle campagne attorno alla città.
Un miliardario come primo ministro
Nell’incertezza economica, che risale a ben prima della pandemia, ma che il coronavirus ha contribuito ad aggravare e le recenti vicende internazionali a far esplodere, la prima a vacillare è stata la classe politica. Le elezioni del 2021, subito dopo le riaperture dal Covid, si sono trasformate in un terremoto che ha causato il tracollo dei partiti tradizionali: il Partito della giustizia e dello sviluppo (Pjd, Parti de la justice et du développement), che ha guidato tutti i governi del Paese dal 2011 sull’onda delle Primavere arabe, è stato spazzato via dall’elettorato perdendo 112 dei suoi 125 seggi al parlamento.
Conservatore, portatore di un’ideologia islamista moderata, il Pjd era riuscito a convogliare il profondo malcontento popolare emerso nelle proteste del 2010 anche grazie al leader d’allora, Abdelilah Benkirane, un politico che rappresentava sia le istanze di un’identità islamica all’interno della nazione, sia quelle progressiste. Le sue critiche nei confronti del re Mohammed VI, assieme all’incapacità di dare risposte alle richieste di riforme sociali che erano state i cavalli di battaglia con cui aveva sconfitto gli avversari, gli sono costate carriera e governo.
Netta è stata, invece, la vittoria del Raggruppamento nazionale degli indipendenti (Rni, Rassemblement national des indépendants), guidato dal miliardario Aziz Akhannouch. Dal 7 ottobre 2021, l’uomo è anche primo ministro in un governo di coalizione con il Movimento popolare e l’Istiqlal.
L’Rni, il cui originario orientamento socialdemocratico è stato soppiantato da un indirizzo più liberale e più vicino agli ambienti industriali, è stato fondato nel 1978 dall’allora primo ministro Ahmed Osman, cognato di re Hassan II, padre dell’attuale monarca. L’appoggio al partito da parte della Casa reale non è mai venuto a meno anche a causa della partecipazione di membri della famiglia negli affari di Akhannouch, dal 2016, anno in cui il miliardario ha preso le redini dell’Rni. Oggi Akhannouch è amministratore delegato (Ceo) del gruppo Akwa, il principale conglomerato marocchino impegnato in diversi settori, in particolare nel campo energetico (petrolifero e gas). Sue sono le stazioni di servizio Afriquia, la compagnia Maghreb Oxygène, la rete di distribuzione di gas e Gpl Afriquia Gaz e Le Vie Eco, il più diffuso settimanale marocchino.
Questa concentrazione di potere economico e mediatico non sembra causare turbamento nella maggioranza dell’elettorato. Secondo il rapporto 2021 di Reporter senza frontiere (Rsf), il Marocco sarebbe al 136° posto nella classifica della libertà di stampa su 180 paesi presi in esame. Nove dei 36 editori che detengono i media più influenti, appartengono alla famiglia reale, mentre gli altri sono proprietà di pochi uomini d’affari.
Le riforme di Mohammaed VI
È anche vero che il Marocco, più degli altri paesi del Maghreb, è riuscito a smorzare il malcontento popolare emerso dalle Primavere arabe con un miglioramento delle condizioni sociali e democratiche nella nazione.
Merito anche dell’attuale re Mohammed VI, secondogenito di Hassan II, salito al trono dopo la sua morte nel 1999. L’attuale re, formato nelle scuole europee, dove ha ottenuto una laurea e un PhD in diritto internazionale, ha saputo coniugare il classico bastone con la carota.
Nel primo quinquennio di regno, il monarca ha ammesso che, durante il potere del padre, fossero stati commessi abusi sui diritti umani, che l’ingerenza reale nella politica fosse troppo pronunciata e che le misure economiche costringessero una grossa fetta della popolazione a umilianti sacrifici.
Di fronte alle proteste che hanno sconvolto il Marocco nel 2011, invece di rispondere con il pugno di ferro, come è avvenuto in altri paesi, è apparso alla Tv promettendo «una riforma costituzionale» che «avrebbe allargato le libertà individuali e collettive e rafforzato i diritti umani».
Mohammed VI ha mantenuto gran parte delle sue promesse: ha formalmente equiparato donne e uomini garantendo gli stessi diritti civili e sociali, ha elevato il berbero a lingua ufficiale assieme all’arabo, ha limitato il potere politico del monarca che perde la carica di primo ministro il quale, a sua volta, è una persona scelta tra i deputati del partito vincitore delle elezioni e non più una figura nominata a piacere dal sovrano.
La figura del re desacralizzata, tuttavia rimane inviolabile e continua a non essere passibile di critica e questo limita enormemente il grado di mobilità e indipendenza politica del Paese. Non potendo opporsi al suo volere (il re rimane anche il capo delle forze armate e il massimo leader politico con potere pressoché assoluto), i partiti preferiscono adattare i loro programmi alla linea dettata da Mohammed VI piuttosto che rischiare la ghettizzazione o, peggio, lo scioglimento proponendo azioni radicali. Questo ha ultimamente creato malumori negli ambienti più laici e progressisti del Paese anche perché, nonostante le promesse di consolidamento dei diritti umani, in realtà questi sono sempre più erosi.
Il 13 febbraio 2023, anniversario della Primavera araba in Marocco, migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il carovita che sta falcidiando il potere d’acquisto di intere famiglie. Le proteste sono state organizzate dalla Cdt, la Confederazione democratica del lavoro, l’organizzazione sindacale più potente del Paese.
A queste proteste il governo ha cercato di rispondere siglando una serie di accordi che, oltre a confermare i sussidi alimentari per le fasce più deboli, hanno anche aumentato i salari minimi.
Essere donna in Marocco
Il fermento della società marocchina, favorito anche dalla vicinanza all’Europa e da un islam moderato che ha sempre rifiutato modelli integralisti, ha aiutato anche l’emancipazione femminile. Lungo la strada che conduce a Essaouira, incontro decine di cooperative gestite da donne che producono prodotti derivati dell’argan.
«Contribuendo alla finanza familiare, la donna acquista un ruolo più importante anche nella famiglia», mi dice una delle ragazze della cooperativa Marjana. Come altre sparse per il Marocco, queste cooperative stanno contribuendo a dare il giusto peso alle donne del Paese, anche se sono spesso soggette a critiche da parte degli ambienti femministi più radicali: «All’inizio, la loro nascita ha contribuito ad aiutare le donne a emanciparsi, ma oggi molte cooperative usano questa narrativa per sfruttare le lavoratrici. A fronte di prodotti venduti a prezzi esorbitanti ai turisti, le donne che vi lavorano hanno paghe inferiori anche della metà di quelle che verrebbero date agli uomini», mi dice Khnata, della organizzazione Union de l’action féminine.
La questione migratoria e gli accordi con la Spagna
La crisi economica, che si è aggiunta alla voglia dei giovani marocchini di migliorare il proprio status cercando lavoro all’estero, ha fatto confluire le contestazioni anche sulla questione migratoria, a sua volta collegata alle relazioni internazionali tra Rabat e Madrid.
Da parte sua il Marocco, in particolare dal 2000, ha cambiato profondamente la propria politica migratoria, anche perché da paese di migrazione si è trasformato principalmente in paese di transito per migliaia di cittadini dell’Africa subsahariana che cercano di entrare in Europa. Fino al 20 novembre 2003 i regolamenti che gestivano l’immigrazione in Marocco risalivano all’età coloniale. Non si parlava di stati o nazioni indipendenti, ma di colonie, protettorati, zone di influenza. La nuova legge regola le condizioni di accesso al Paese, sancisce punizioni severe non solo verso i trafficanti di esseri umani, ma anche verso le vittime, gli immigrati irregolari o chi tenta di valicare i posti di frontiera di Ceuta e Melilla senza i documenti in regola.
I diritti dei richiedenti non sono tenuti in considerazione. Le organizzazioni non governative che agiscono nell’ambito sociale e nel campo migratorio hanno più volte denunciato la repressione del governo nei confronti di quelle persone che, sfruttando la vicinanza geografica con la Spagna, tentano di entrare nelle enclave di Ceuta e Melilla. L’ultima è avvenuta il 24 giugno 2022, quando circa duemila africani hanno cercato di scavalcare il muro che separa Melilla. Cinquecento sono riusciti ad aprire un varco alla frontiera ed entrare nell’area, territorio spagnolo.
Il primo ministro iberico, il socialista Pedro Sánchez, ha ringraziato il governo marocchino in un’intervista al programma Hoy por hoy, di radio Cadena Sur, aggiungendo che gli incidenti non erano stati causati dalle forze marocchine e spagnole, ma da organizzazioni di trafficanti di esseri umani e da reti malavitose.
Quello tra Rabat e Madrid è uno degli accordi più importanti stipulati dal paese africano. Il patto fa del Marocco un paese filtro per l’emigrazione africana in cambio dell’accoglienza, da parte della Spagna, di decine di migliaia di lavoratori marocchini stagionali (impegnati per lo più nelle raccolte agricole). Madrid ha il diritto di rimpatriare i clandestini maggiorenni lasciando a Rabat la responsabilità di rimandare gli immigrati che non hanno passaporto marocchino nei loro paesi d’origine.
Gli accordi tra le due capitali sono ritenuti così importanti che subito dopo ogni elezione, il primo ministro spagnolo si reca a Rabat per presentarsi alle autorità del Paese.
Se i trattati sulla migrazione favoriscono chiaramente la Spagna (e l’Unione europea), il Marocco li usa come arma per imporre la sua politica a livello internazionale, in particolare sulla spinosa questione, non ancora risolta, del Sahara occidentale (ex spagnolo, ndr).
Nell’aprile 2021 Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario (organizzazione per l’autodeterminazione del Sahara occidentale, ndr), è stato ricoverato a Saragozza per essere curato dal Covid. Per ritorsione, nello stesso periodo, il Marocco ha accolto il politico indipendentista catalano Carles Puigdemont sospendendo al tempo stesso i controlli alla frontiera di Ceuta per 48 ore e consentendo il passaggio di 8mila migranti. Il governo spagnolo si è così trovato ad affrontare la peggiore crisi migratoria dal 2005, quando il tentativo di diversi migranti di forzare il blocco di Ceuta costò la vita a 18 di loro. A farne le spese sono state soprattutto le isole Canarie, una delle porte d’entrata in Europa, dove sono stati allestiti in fretta e furia nuovi campi di accoglienza. Qui sono state registrate violazioni dei diritti umani, con migranti trattenuti nei porti per diverse settimane.
I rapporti tra i due paesi si sono ristabiliti quando Pedro Sánchez ha licenziato la sua ministra degli Esteri Arancha Gonzalez Laya, che aveva garantito l’accesso in Spagna di Brahim Ghali.
Israele tra Algeria e Marocco
Molto complicati sono i rapporti con la vicina Algeria, paese che ospita cinque campi di indipendentisti del Sahara occidentale, territorio che il Marocco considera proprio (articolo a pagina 46). In tutto sono circa 174mila i rifugiati saharawi. Il conflitto è, per il momento, a bassa intensità, ma l’Algeria potrebbe sfruttare l’impasse rifornendo di armi il Polisario per indebolire Rabat, specialmente dopo il caso Pegasus che ha fatto perdere le staffe al governo di Algeri.
Pegasus è un software prodotto dall’israeliana Nso che sarebbe stato utilizzato dai servizi segreti marocchini per spiare, oltre a giornalisti, attivisti nel campo dei diritti umani e organizzazioni marocchine considerate troppo eversive, anche 6mila politici, uomini d’affari, giornalisti, militari, funzionari e diplomatici algerini.
L’Algeria, che con il Marocco ha già diversi contenziosi aperti, non ha digerito il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Rabat e Tel Aviv avvenuto il 10 dicembre 2020, lo stesso giorno in cui gli Usa hanno riconosciuto al Marocco il diritto di sovranità sul Sahara occidentale (strana coincidenza, visto che Rabat si ostina a dire che i due eventi non sono in alcun modo correlati).
La riapertura delle sedi diplomatiche nei rispettivi paesi ha inasprito i rapporti con l’Algeria che, il 24 agosto 2021, ha deciso di rompere le relazioni diplomatiche con Rabat.
Del resto, i rapporti tra i due paesi non sono mai stati idilliaci in quanto entrambi vogliono diventare la nazione guida del riscatto africano e del
Maghreb. Per perseguire questo obiettivo di leadership, nel 2017 il Marocco è rientrato nell’Unione africana (Ua) dopo esserne uscito nel 1984 perché essa aveva accettato come membro la Repubblica democratica araba Saharawi (autoproclamata dal Fronte Polisario per il Sahara occidentale, ndr).
Le due capitali si imputano a vicenda la responsabilità di alimentare l’estremismo sui propri territori. Le forze di polizia e di controterrorismo marocchine hanno 50mila agenti ausiliari che controllano il territorio impedendo la nascita e il proliferare di movimenti terroristici. Tra il 2002 e
il 2017, secondo fonti ufficiali marocchine, sarebbero stati sventati 352 attacchi e scoperte e smantellate 172 cellule terroristiche.
L’Algeria, da parte sua, accusa il Marocco di appoggiare il movimento estremista islamico Rachad e il Mak (Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia, regione algerina). A inasprire le divergenze tra Rabat e Algeri hanno contribuito diversi fattori, tra cui l’aperto appoggio dato da Omar Hilale, rappresentante permanente del Marocco presso le Nazioni unite, al «popolo cabilo [che] merita di godere il diritto all’autodeterminazione», ma soprattutto la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, definito da Algeri «entità sionista» che avrebbe compiuto «incessanti atti ostili» contro il Paese.
Nel 2021 l’Algeria ha chiuso le valvole del gasdotto Maghreb-Europe e ha iniziato a far passare il gas verso la Spagna attraverso il gasdotto Medgaz, che collega direttamente l’Algeria alla nazione iberica, evitando di attraversare il territorio marocchino. Israele è anche presente, in collaborazione con la Russia, nell’accordo siglato il 12 ottobre 2022 per lo sviluppo del settore nucleare tramite la collaborazione in 14 aree di interesse. Oltre che impianti per la produzione di energia da fissione, saranno costruiti impianti di desalinizzazione, acceleratori di particelle, depositi di scorie nucleari e verranno effettuate ricerche minerarie per sfruttare l’uranio presente nel sottosuolo. Questi progetti andranno ad aggiungersi al reattore di ricerca di Maamora, oggi in funzione per la produzione di isotopi a scopo medico.
La rete (avvolgente) della Cina
In tutte queste iniziative di sviluppo, si sta inserendo prepotentemente la Cina, la quale ha sempre elogiato la stabilità politica del Marocco. Le Primavere arabe qui non hanno avuto gli effetti destabilizzanti che hanno avuto in altre nazioni e il rientro di Rabat nell’Unione africana, ha indotto Pechino ad approfondire i legami per poter sfruttare la diplomazia marocchina come grimaldello per entrare nel continente.
Sebbene il Marocco non abbia mai avuto stretti rapporti con il paese asiatico, nel gennaio 2022 è stato firmato un accordo – il primo nell’area nordafricana – riguardante il progetto Belt and Road (la moderna via della seta, ndr). L’alleanza economica prevede 80 progetti cinesi in campo scientifico, agricolo, scolastico e della finanza, tecnologia, sicurezza, industria, salute, ricerca e sviluppo e trasporti. La costruzione del ponte Re Mohammed VI che, con i suoi 952 metri sarà il ponte a campata unica più lungo d’Africa e la realizzazione di una ferrovia ad alta velocità che collegherà Marrakech con Agadir, la quale si affiancherà al treno ad alta velocità che dal 2018 collega Casablanca a Tangeri (350 km), sono alcuni dei programmi più ambiziosi della collaborazione sino-marocchina.
Nel campo degli scambi culturali è in programma anche l’apertura nel Paese di tre uffici dell’Istituto Confucio.
A differenza di altre nazioni africane dove la Cina è già presente, la moderna struttura industriale e logistica marocchina ha permesso a Pechino di concludere accordi per agganciarsi alle strutture già esistenti e integrarli senza prevedere la costruzione da zero di nuovi impianti e progetti. Questo permetterà al Marocco di mantenere una posizione di controllo sugli investimenti e di direzione degli stessi formando delle partnership privilegiate con i cinesi.
Gli spazi di intervento sono ampi: gli investimenti cinesi in Marocco ammontano oggi a 1,26 miliardi di dollari, mentre il commercio bilaterale nel 2020 è arrivato a registrare scambi per 4,76 miliardi.
Un’inezia, se si confrontano a quelli di paesi come la Francia e gli Emirati arabi uniti, che assieme raggiungono i tre quarti degli investimenti totali stranieri in Marocco, ma Rabat vede nella Cina un’opportunità per diversificare i propri legami con l’estero e sganciarsi dall’orbita europea, francese in particolare.
Eppure, è proprio questa caratteristica, la forte presenza francese nel tessuto economico marocchino, che ha trasformato il Paese in un mercato assai appetibile per le compagnie cinesi. Queste vedono nella mediazione marocchina un modo indiretto per entrare nel mercato europeo evitando eventuali contrasti e tensioni politiche con Parigi e Bruxelles mettendo al sicuro quelle aziende cinesi che hanno integrato la loro produzione con industrie francesi fuori dall’Unione europea.
Un esempio di questa cooperazione è la Nanjing Xiezhong, che ha concluso un accordo con la Renault per fornire l’impianto di aria condizionata agli automezzi prodotti nel suo stabilimento da 15 milioni di dollari di Kenitra, mentre, sempre nella città marocchina sull’Atlantico, la Citic Dicastal fornirà, ancora alla Renault, componenti di alluminio per le sue auto.
Tra i progetti più corposi vi sono quelli della casa automobilistica Byd (Built your dreams), che ha in programma la costruzione di uno stabilimento per macchine elettriche, mentre nel 2019 la China communications construction company ha firmato un contratto da 10 miliardi di dollari per edificare la Mohammed VI Tanger tech city, un hub tecnologico che ospiterà 200 aziende cinesi e sarà abitata 300mila persone al fine di sfruttare manodopera a basso costo abbinata alla vicinanza geografica con l’Europa.
L’alleanza tra Pechino e Rabat permetterà al Marocco di diventare la nuova economia trainante nordafricana, ma rischia anche di aumentare i contrasti con i paesi del Maghreb, in particolare dopo il ristabilimento dei rapporti diplomatici con Israele. L’attuale governo marocchino e quelli che gli succederanno dovranno, quindi, giocare una partita molto delicata per non esporsi al rischio di emarginazione da un consesso regionale e internazionale sempre più fluido.
Piergiorgio Pescali
Umma calcistica
Bandiere rosse sventolate da donne, uomini e bambini, tutti con un enorme sorriso stampato sul viso. Era dicembre quando gli emigrati marocchini di tutta Europa – in tutto sono oltre quattro milioni di persone – sono scesi nelle strade e nelle piazze per festeggiare la propria nazionale di calcio, prima squadra africana e araba a raggiungere una semifinale ai mondiali. Un evento a suo modo storico che ha riempito d’orgoglio un paese e un popolo spesso umiliati. Una festa durata però lo spazio di qualche giorno. Poi, la realtà è tornata a dettare l’agenda.
Negli stessi giorni delle finali dei mondiali del Qatar sono, infatti, esplosi gli scandali noti come «Qatar gate» e «Marocco gate»: mazzette date a vari rappresentanti del Parlamento europeo per influenzare le decisioni riguardanti i due paesi. Sui servizi di intelligence del Marocco è anche caduta l’accusa di aver utilizzato
Pegasus, il software di spionaggio sviluppato dall’azienda israeliana Nso Group, per spiare uomini politici (forse anche il presidente francese Macron), giornalisti, oppositori sgraditi.
Se confermata, si tratterebbe di una notizia nella notizia. Marocco e Israele, infatti, non avevano rapporti ufficiali fino ai cosiddetti «accordi di Abramo», sottoscritti (sotto la spinta di Washington) il 10 dicembre del 2020.
I numeri sono da plebiscito russo o cinese. Secondo le statistiche ufficiali, in Marocco, su una popolazione totale di 38 milioni, il 99 per cento è di fede islamica. Si tratta di un islam sunnita aderente alla scuola malikita (corrente che allarga le fonti del diritto islamico). Quello marocchino è un islam moderato. Ciò non significa che l’estremismo sia completamente assente dal paese. La storia racconta di un attentato a Casablanca nel 2003 (con 45 morti) e di uno a Marrakech nel 2011 (18 morti).
La popolazione cristiana è stimata in circa 40mila persone (30mila cattolici).
Papa Francesco ha visitato il paese maghrebino nel marzo 2019, accolto dal sovrano marocchino, re Muhammad VI, sul trono dal luglio 1999. Dal novembre 2020, i Missionari della Consolata operano a Oujda, città nell’estremo orientale del paese, a circa 15 chilometri dal confine con l’Algeria e circa 60 a sud del Mediterraneo.
I primi marocchini arrivarono in Italia negli anni Settanta, epoca che segna l’inizio dell’immigrazione dai paesi non europei. Oggi, quelli in regola sono circa 400mila, costituendo la prima comunità di stranieri extra Unione europea. Su quasi 3,3 milioni di stranieri non comunitari presenti in Italia, l’11,8% proviene dal Marocco. La metà di loro è residente in tre regioni del Nord: Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte (infografica a lato).
Nel rapporto La comunità marocchina in Italia (2021) del ministero del Lavoro, si legge: «Il radicamento della comunità marocchina nel tessuto sociale italiano è reso evidente anche dall’ampio coinvolgimento nei matrimoni misti, per i quali la comunità in esame risulta prima, tra le principali non comunitarie».
Eppure, nonostante i numeri, la storia e una fede islamica più tollerante, nei loro confronti non sono scomparsi sentimenti di razzismo, più o meno palesi. Ne Il razzismo spiegato a mia figlia Tahar Ben Jelloun, forse il più celebre tra gli scrittori marocchini, dà una definizione tanto sintetica quanto incontrovertibile: «Il razzismo è ciò che trasforma le differenze in disuguaglianze». Le differenze sono tante, ma arricchenti. «Spesso – ha scritto il professor Mohammed Hashas – è difficile per un marocchino definirsi perché ci tiene a mantenere quella molteplicità di ricchezze che lo contraddistingue, una liasion tra la cultura e l’identità amazigh (berbera, ndr), araba, africana, mediterranea e internazionale».
Paolo Moiola
Noor e i parchi solari
La ricerca di fonti energetiche a basso impatto ambientale è stata inserita nel Nuovo modello di sviluppo del Marocco tanto che, secondo i piani, entro il 2030 la metà dell’elettricità generata nel Paese proverrà da fonti rinnovabili. E qui entra in gioco il Sahara occidentale, ricco di sole e vento.
Gli impianti solari in costruzione nella regione sud sahariana forniranno il 30% dell’energia prevista dal piano marocchino.
A oggi esistono cinque parchi solari, di cui quattro appartenenti alla Nareva, la compagnia energetica proprietà al 100% della Sni (Société nationale d’investissement), una holding di proprietà della famiglia reale che opera nel campo finanziario, bancario, alimentare, delle telecomunicazioni e dell’energia rinnovabile.
Nel Sahara hanno investito anche compagnie straniere, tra cui la Siemens gamesa renewable energy, spin-off della Siemens tedesca che fornisce turbine agli impianti eolici marocchini nell’ex colonia spagnola.
La volontà di avviare con decisione la transizione energetica è testimoniata dal Noor («luce» in arabo), il più grande impianto solare termodinamico (Concentrated solar power, Csp) al mondo che ha richiesto un investimento di 9 miliardi di dollari parzialmente finanziati per 435 milioni dal Climate investment funds, 700 milioni dall’Afdb (African development bank) e 3 miliardi dalla Banca mondiale. Situato a Ghessat, nella provincia di Ouarzazate, copre un’area di 2.500 ettari che gode di una quantità di irraggiamento solare tra le più intense al mondo, 2.635 kwh/m2/anno.
Una volta completato, il Noor consentirà di ridurre le emissioni di carbonio di 770mila tonnellate all’anno (240mila tonnellate risparmiate dall’impianto Noor I Csp e 533mila tonnellate risparmiate dal Noor II e Noor III) e si svilupperà su quattro complessi solari con una capacità combinata di 2 Gw: il Noor I Csp, che ha batterie di stoccaggio a sali fusi con capacità di accumulo di tre ore; il Noor II Csp e Noor III Csp, con batterie di stoccaggio di sette ore e l’impianto fotovoltaico Noor IV. Il tutto verrà gestito dalla Nomac, sussidiaria della Acwa e della Masen (Moroccan agency for solar energy).
Pi.Pes.
Il conflitto per il Sahara occidentale
Sabbia negli occhi
Già protettorato spagnolo, dal 1976 Rabat considera la regione un proprio territorio. Al momento, l’indipendenza del popolo dei Saharawi, reclamata dal Fronte Polisario di Brahim Ghali, pare una chimera.
Nel Sahara occidentale, il Marocco ha messo a segno il suo principale successo internazionale, avendo inglobato la parte controllata dalle sue truppe (l’80 per cento dell’intero territorio) con il nome di Province meridionali per un totale di circa 190mila km2 su cui vive una popolazione di 500mila abitanti. Sempre più istituzioni internazionali mostrano cartine del Marocco con la regione meridionale già inclusa (tra queste il Comitato europeo delle regioni, l’ambasciata Usa in Marocco, il sito della Cia, The World Factbook).
Apparentemente arido e senza risorse, il Sahara occidentale è in realtà un forziere di fosfati, garantendo il 70% della produzione mondiale di questo minerale essenziale per l’industria agricola, mentre le acque antistanti le coste sahariane forniscono il 78% del pescato nazionale. Con una tale ricchezza, in tempi di crisi come quelli attuali in cui il controllo delle materie prime per l’agricoltura è strategico, la destabilizzazione della regione non è vista con favore dalla comunità internazionale.
Il Marocco e la Repubblica del Saharawi
Quello del Sahara occidentale è un problema che si trascina dal 7 novembre 1975, quando re Hassan II organizzò la Marcia verde durante la quale 350mila marocchini attraversarono il confine con la regione, protettorato spagnolo dal 1884 (il cosiddetto Sahara spagnolo), per rivendicare il diritto di Rabat sul territorio. Era una chiara violazione del verdetto emesso il 16 ottobre 1975 dalla Corte internazionale di giustizia, in cui si affermava che Marocco e Mauritania «non hanno alcun vincolo di sovranità territoriale sul territorio del Sahara occidentale» e che la popolazione saharawi era «in modo schiacciante» a favore dell’indipendenza. La Spagna, che stava attraversando un difficile periodo di transizione, pieno di incognite dopo la morte del dittatore Francisco Franco (20 novembre 1975), anziché contrastare la Marcia verde entrando in conflitto con Rabat, preferì abbandonare la colonia lasciando che Mauritania e Marocco se la spartissero. Il Fronte Polisario (Frente popular de liberación de Saguía el Hamra y río de Oro), appoggiato dall’Algeria, si oppose a questa soluzione, autodichiarando la fondazione della Repubblica democratica araba del Saharawi e continuando la lotta per l’indipendenza, già iniziata nel 1973 contro la Spagna.
Nel 1979 la Mauritania si ritirò dalla sua parte del Sahara occidentale, affermando che la questione doveva essere risolta come un problema di decolonizzazione. La guerra di liberazione del Fronte Polisario continuò contro il solo Marocco, obbligando migliaia di saharawi a migrare a Tindouf, in Algeria.
Nel 1980 il Marocco iniziò a costruire una linea di divisione fisica lunga 2.700 chilometri (il cosiddetto Berm, o muro di sabbia) che lasciò al popolo saharawi solo un terzo del territorio reclamato.
Furono proposti anche diversi tentativi di raggiungere un’intesa, ma tutti fallirono.
L’intervento delle Nazioni Unite
Nel 1991, Marocco e Polisario raggiunsero un accordo per il cessate il fuoco stabilendo una zona cuscinetto controllata dal contingente Onu del Minurso (United Nations mission for the referendum in Western Sahara) in attesa di un referendum che avrebbe deciso il futuro del territorio e della nazione saharawi. Il referendum non ebbe mai luogo e al suo posto Rabat presentò nel 2006 un piano che avrebbe garantito un governo autonomo saharawi sotto la sovranità marocchina. La proposta, che ebbe l’appoggio statunitense e l’apprezzamento delle Nazioni Unite, venne rifiutata dal Polisario.
La situazione del Sahara occidentale rimase nel limbo delle azioni internazionali sino all’agosto 2017, quando il presidente tedesco Horst Köhler venne nominato inviato speciale dell’Onu.
Fu sotto la conduzione di Köhler che Polisario, Marocco, Algeria e Mauritania iniziarono promettenti negoziati. Le iniziative del nuovo inviato speciale vennero accolte positivamente anche dagli Usa che, assieme alla Francia, proposero un documento che il Polisario interpretò come un appoggio al Piano di autonomia proposto dal Marocco nel 2006. In più, lo stesso documento accusava il Polisario di aver violato il cessate il fuoco nell’area di Guerguerat (estremo sud del Sahara occidentale) chiedendo di dislocare la funzione amministrativa della Repubblica democratica araba del Saharawi a Bir Lehlu, località nel nord est della regione.
I negoziati iniziarono a Ginevra nel dicembre 2018 con un primo successo del Marocco, che riuscì a portare al tavolo delle trattative, oltre al Polisario, anche Algeria e Mauritania, che invece avevano sempre preferito evitare di essere coinvolte nella questione.
Le improvvise dimissioni di Köhler, avvenute il 22 maggio 2019 per ragioni di salute, misero le trattative in stallo. La ricerca di un nuovo inviato speciale dell’Onu non trovò concordi i due principali attori: la proposta del Polisario di cercare tra le diplomazie scandinave il sostituto di Köhler trovava l’opposizione del Marocco, che considerava quei paesi troppo inclini ad appoggiare le rivendicazioni saharawi.
Da parte sua, lo stesso António Guterres, Segretario generale dell’Onu, faticò non poco a trovare candidati internazionali, visto che la causa del Sahara occidentale non è popolare, non porta consenso internazionale, è per lo più una causa sconosciuta ed economicamente non paga. Solo il 6 ottobre 2021, Guterres riuscì a nominare l’italiano Staffan de Mistura come inviato speciale per il Sahara occidentale.
Il vuoto di potere servì a Rabat per promuovere l’apertura di consolati stranieri nel Sahara occidentale. Sono 26 oggi gli Stati che hanno una rappresentanza a El Aaiun o a Dakhla, le due principali città della regione.
La fine del cessate il fuoco
Tra ottobre e novembre 2020, l’interruzione della strada asfaltata del Guerguerat causata da manifestanti nazionalisti saharawi con l’appoggio del Polisario ha indotto il Marocco a mobilitare le proprie truppe all’interno dell’area, una zona cuscinetto controllata dalle truppe del Minurso. L’azione, provocata anche dal disinteresse dell’Onu che non è intervenuta con l’auspicata decisione per riportare la tranquillità nella regione, ha indotto il Polisario a dichiarare terminato il cessate il fuoco che durava da tre decenni, riattivando i suoi contatti diplomatici all’estero e coordinando i militanti nei cinque campi profughi che sorgono in Algeria.
La latitanza delle Nazioni Unite, sommata al peso sempre più importante assunto dal Marocco nell’economia mondiale, ha indotto gli Stati Uniti a riconoscere, il 10 dicembre 2020, la sovranità di Rabat sul Sahara occidentale suscitando le proteste di Russia e Algeria. La prima ha contestato la mossa di Trump come violazione del diritto internazionale, la seconda ha criticato Usa e Marocco di aver barattato il diritto di autodeterminazione dei saharawi con la normalizzazione diplomatica con Israele. Biden che, in un primo tempo, aveva criticato la mossa del suo predecessore ha fatto buon viso a cattivo gioco: il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, dopo aver incontrato il ministro degli Esteri marocchino, Nasser Bourita, ha ammesso che il piano di autonomia proposto dal Marocco «rappresenta un potenziale approccio per soddisfare le aspirazioni del popolo del Sahara occidentale».
Ad aggravare la precaria situazione venutasi a creare per il Polisario, sempre più abbandonato a sé stesso nel contesto internazionale, vi sono le accuse di nepotismo, corruzione e violenze sessuali provenienti dalla stessa organizzazione indipendentista. Il 12 ottobre 2022, dopo aver negato per anni ogni coinvolgimento nelle violazioni dei diritti umani accadute nei campi profughi, alla fine la leadership saharawi ha ammesso le proprie responsabilità portando la Saharawi association for the defence of human rights a chiedere alla Corte spagnola di aprire un’inchiesta approfondita sull’operato di Brahim Ghali, il settantenne presidente dell’autoproclamata Repubblica democratica araba del Saharawi.
Piergiorgio Pescali
Il peso dei fertilizzanti
La guerra ucraina ha aggiunto alla crisi del grano anche quella dei fertilizzanti, visto che la Russia ne è il maggiore esportatore e da essa l’Uione europea dipende per il 30% del suo fabbisogno.
Dopo Russia, Cina e Canada, il Marocco è il quarto esportatore di concimi al mondo. Il principale produttore nazionale è l’Office chérifien des phosphates (Ocp) che, con 21mila dipendenti in 12 filiali nei paesi africani, è la maggiore multinazionale marocchina. Nel 2020 ha registrato ricavi per sei miliardi di dollari e l’Unione europea è il suo terzo mercato mondiale. La Ocp ha previsto per il 2022 un aumento della sua produzione di fosfati del 10% (1,2 milioni di tonnellate).
Nel 1976 la compagnia ha acquisito la miniera di Phosboucraa nel Sahara occidentale, nelle cui viscere sarebbe contenuto il 2% delle riserve di fosfato del Marocco. Secondo la stessa Ocp, il 100% dei profitti sono reinvestiti nella regione attraverso la Fondazione Phosboucraa che ha avviato diversi programmi di sviluppo, tra cui la creazione di Technopole Forum El Oued, una città di 600 ettari a 18 km da Laayoune che, una volta ultimata, dovrebbe offrire un centro di ricerca e sviluppo per studiare l’ambiente sahariano, un centro di supporto per lo sviluppo economico del Sahara occidentale, un centro culturale, servizi sociali. Ma l’industria dei fosfati è anche estremamente energivora: per produrre la quantità di fertilizzanti oggi commercializzata dalla nazione africana, il Marocco deve spendere il 7% della sua produzione energetica totale e destinare l’1% delle sue riserve idriche.
Il fertilizzante più diffuso è il fosfato di ammonio (Dap) che è prodotto da acido fosforico e ammoniaca. L’ammoniaca si produce in una reazione tra azoto e idrogeno, due elementi la cui produzione è estremamente energivora e il cui prezzo dipende quindi (almeno per l’80%) dal costo del gas naturale. Già alla fine del 2021 l’aumento del costo dei gas ha fatto levitare i prezzi dell’ammoniaca da 110 dollari per tonnellata a mille.
Per diminuire le importazioni di ammoniaca necessarie per la produzione di fertilizzanti (Ocp importa tra 1,5 e 2 milioni di tonnellate di ammoniaca per anno), l’Office chérifien des phosphates nel 2018 ha concluso un accordo di cooperazione con il tedesco Fraunhofer institute per sviluppare un progetto per produrre idrogeno verde a Ben Guerir (Sahara occidentale) assieme all’Iresen (Moroccan institute for research in solar energy and new energies).
Nel frattempo, l’invasione russa dell’Ucraina ha peggiorato la crisi alimentare nel paese, dove la gravissima siccità sta facendo il resto. Già durante l’estate del 2021 il prezzo del grano tenero era aumentato a 270 dollari/ton rispetto al 2020 (più 22%) e a 389 dollari/ton all’inizio di marzo 2022.
Pi.Pes.
Hanno firmato il dossier:
Piergiorgio Pescali
Ricercatore e consulente in ambito nucleare, è giornalista e scrittore. Da molti anni è uno dei più assidui collaboratori della rivista Missioni Consolata.
a cura di Paolo Moiola giornalista redazione MC.
Oujda, Oltre frontiera
Da poco più di un anno la Consolata ha portato i suoi missionari in Marocco. In una città snodo fondamentale della rotta migratoria. È iniziata una missione complessa, che ha caratteristiche e potenzialità tali da attivare tanti ambiti missionari.
«L’idea nasce dal lavoro che i laici della Consolata (Lmc) di Malaga portano avanti da anni con i migranti», ci racconta Silvio Testa, laico italiano, da una vita trapiantato nella città costiera a Sud della Spagna. Silvio, pur essendo originario di Torino, ha una forte pronuncia spagnola, che rende la sua parlata ancora più calorosa. «Dal 2005 i Lmc, attraverso la loro associazione Uyamaa (che significa famiglia allargata in kiswahili, uyamaa.org,ndr), sono presenti nella Piattaforma di solidarietà con gli immigrati, una rete che si occupa da oltre 20 anni dei migranti nella provincia di Malaga». In quegli anni, i barconi, chiamati «pateras», con il loro carico di vite umane e di sogni, partiti dalle coste africane, arrivavano nei pressi della città e nel suo porto. «Il nostro sguardo – ricorda Silvio – è quindi andato fino all’altro lato del Mediterraneo. Quegli arrivi ci interpellavano: “Cosa possiamo fare?”. Insieme a padre Luis Jiménez Fernández, all’epoca superiore Imc in Spagna, è maturata l’idea di avviare un qualche intervento a Melilla, città di fronte a Malaga, ma sul continente africano».
Melilla, insieme a Ceuta, costituisce una piccola porzione di territorio spagnolo in Africa, fa parte della diocesi di Malaga. Entrambi i territori sono frontiere molto calde tra Africa e Unione europea, che spagnoli e marocchini presidiano, e dove sono presenti alte recinzioni, «muri» tra Sud e Nord. «Volevamo prestare attenzione a quello che stava succedendo da una parte e dall’altra delle frontiera», continua Silvio.
In questa dinamica, nel 2014, Uyamaa ha proposto alla Piattaforma di creare l’Osservatorio frontiera Sud (Osf), un’iniziativa orientata a seguire la situazione dei migranti in transito tra Marocco e Spagna. «Questo impegno ha portato noi Lmc a incontrare altri attori coinvolti nell’appoggio ai migranti sia a Ceuta e Melilla che nelle città del Nord del Marocco, nella diocesi di Tangeri». La comunità di missionari della Consolata di Malaga ha seguito da vicino questi sviluppi coinvolgendo la regione Spagna dell’Istituto.
Intanto l’Imc stava preparando la ristrutturazione che avrebbe portato alla creazione della Regione Europa (Reu), nella quale il tema dei migranti e rifugiati sarebbe diventato a tutti gli effetti la nuova frontiera missionaria.
Le visite
Tra il 2018 e il 2019 un’équipe mista Imc-Lmc, della quale faceva parte anche Silvio, ha compiuto tre viaggi in Marocco, due nella diocesi di Tangeri e uno nella diocesi di Rabat. Durante quei viaggi, l’équipe ha contattato diverse istituzioni ed enti coinvolti nel lavoro con i migranti.
«Durante il terzo viaggio (aprile 2019, ndr), il cardinale Cristóbal López, arcivescovo di Rabat, ci ha proposto di assumere la parrocchia di Oujda, vicino al confine con l’Algeria. Le condizioni erano buone, e sembrava la missione giusta». Silvio ricorda che, nei due viaggi precedenti, molti degli enti contattati, avevano citato Oujda come punto nevralgico di passaggio del flusso di migranti in arrivo dal Sahara, ma anche di quelli espulsi dalle autorità marocchine. «Così ci siamo andati, e quando ho visto la parrocchia e il lavoro, mi sono detto: secondo me è questo il posto giusto. Da quando è stata presa la decisione, le cose sono andate molto in fretta». Silvio era con padre Edwin Osaleh Duyani e padre José Luis Pereyra Quintián, superiore della Spagna.
A Oujda operava un sacerdote diocesano francese, che però doveva rientrare al suo paese. «Abbiamo visto il lavoro che si stava facendo, la frontiera chiusa ufficialmente per problemi diplomatici tra i due paesi, ma attraversata clandestinamente da migranti subsahariani, mentre altri, arrestati in altre zone del paese, venivano portati lì per essere espulsi in Algeria (anche se formalmente non sarebbe lecito)».
La scelta per l’arrivo dell’Imc in Marocco è caduta su padre Edwin, che avrebbe dovuto fare alcuni viaggi con permanenze limitate nel 2020, senza però riuscirci a causa della pandemia.
Il pioniere
«Sono arrivato a Oujda nel novembre del 2020 e ho iniziato a lavorare con il sacerdote francese che mi ha affiancato per diversi mesi», ricorda Edwin, che abbiamo raggiunto telefonicamente a Oujda.
«Da due anni ero in missione a Malaga, e pensavo di starci di più. Non credevo di venire qui subito, come pioniere. Ma alla fine ho capito, perché il lavoro è molto importante».
«Molti migranti vengono qui a chiedere aiuto dopo un viaggio sofferto nel deserto. Ho trovato una realtà nella quale si vive come in famiglia, si cerca di fare le cose insieme, affinché si ritrovi, almeno in minima parte, quell’atmosfera persa durante il viaggio. Questo approccio mi è subito piaciuto».
Edwin non nasconde le difficoltà iniziali, come le due lingue da imparare, francese e arabo (lui è keniano), o lo stupore iniziale dei migranti, nel vedere un prete africano occuparsi di loro, migranti africani: «Abituati a un europeo, all’inizio erano diffidenti, e non volevano che il sacerdote francese andasse via. Ma poco a poco si sono abituati». Edwin è stato poi affiancato da padre Francesco Giuliani e, alla fine di febbraio 2022, è arrivato finalmente anche il congolese padre Patrick Mandondo.
Il lavoro è molto, la struttura di accoglienza è aperta 24 ore su 24: «25 su 24», dice Edwin. Di solito è lui che apre la porta di notte. I locali della parrocchia sono grandi e sono aperti a chi ha bisogno di un riparo, un posto per lavarsi, dormire, mangiare, ma anche ricostruirsi mentalmente. «Stiamo accogliendo mediamente 50-60 persone, ma sovente sono di più. Nel 2021 sono stati 2311. Alcuni si fermano pochi giorni, altri settimane oppure anche mesi».
La salute, prima di tutto
Uno dei problemi maggiori sono le condizioni di salute nelle quali arrivano i migranti.
Ci racconta Silvio: «Tutti i giorni, a tutte le ore, arriva gente con i piedi sfracellati, le ossa rotte, la testa aperta. Devi essere lì ad accogliere queste persone e dare loro delle cure.
Una missione così, è difficile trovare gente che la voglia assumere. È un lavoro massacrante. Il fattore umano è fondamentale. Inoltre l’impegno è molto esigente perché devi avere tante relazioni: con la sanità pubblica, la polizia, le autorità. Fai da mediatore. Non è un classico lavoro da prete».
Ma Edwin è contento e ci spiega come è composta l’équipe di lavoro. «Il progetto va avanti anche grazie alla chiesa protestante evangelica. Siamo due coordinatori, io e un evangelico. C’è un’ottima collaborazione ecumenica. Prestiamo anche i locali della chiesa a questi fratelli cristiani per il loro culto, perché non ne hanno.
Poi ci sono due medici, arrivati come studenti, uno cattolico e uno protestante. Sono molto importanti a causa dei frequenti problemi di salute di chi bussa alla nostra porta. Loro poi, hanno contatti negli ospedali, e si adoperano per far prendere in carico i migranti.
Della équipe fanno inoltre parte due suore spagnole di due differenti congregazioni. Sono incaricate delle donne e delle attività di formazione».
Poi Edwin ci racconta una storia di speranza: «Tra i responsabili dell’accoglienza c’è un ragazzo del Camerun, arrivato come migrante sei anni fa. Dormiva qui fuori. In quel periodo hanno iniziato ad accogliere nei locali della parrocchia, e il prete gli ha chiesto di aiutarlo. Così si è integrato e ora si adopera per gli altri migranti. Ci aiuta moltissimo, perché lui sa riconoscere le varie situazioni. Un ospite ti dice che è appena arrivato dall’Algeria, invece magari arriva da Casablanca o Rabat, oppure vive nel quartiere. Lui capisce tutto, io sto imparando da lui. A volte i migranti, quando arrivano, sono intercettati da una mafia locale. Dicono loro che li aiutano, invece li chiudono in appartamenti, poi li torturano e fanno chiamare loro le famiglie perché mandino soldi per liberarli. Arrivano da noi con brutte ferite. Lui si interessa, e cerca di capire chi è stato».
Dover scegliere
Edwin ci dice che i migranti arrivano numerosi, «non andiamo noi a cercarli, purtroppo dobbiamo selezionare. In alcuni casi diamo un po’ da mangiare e poi devono andare via».
Chi è di turno all’accoglienza deve capire la situazione di chi arriva. Si registrano i dati, le condizioni di salute, le informazioni sul viaggio. Chi è più vulnerabile, stanco o ferito viene subito accolto.
Come detto, molti sono da curare, per cui vengono accompagnati in ospedale. Ma spesso le cure sono molto costose. «In quel caso si deve valutare, perché se curiamo un migrante, togliamo dei soldi all’acquisto di cibo, ma talvolta è necessario. Allora speriamo nella Provvidenza».
E poi ci sono i minori non accompagnati: «A volte è difficile capire: dicono di essere minori e non lo sono, o viceversa, a seconda di cosa vogliono ottenere. Altri danno nomi falsi alla polizia, poi noi li recuperiamo e i dati che abbiamo noi non coincidono.
Aiutiamo i minori a capire meglio il mondo. Arrivano qui persi, non sanno cosa fare, dove vogliono andare. Hanno un sogno, che però è sbagliato. Pensano che in Europa trovi tutto appena arrivi. Noi gli diciamo la verità. Rimangono qualche settimana, qualche mese. Quelli che non sanno leggere e scrivere, li aiutiamo con dei corsi. Cerchiamo anche di contattare le loro famiglie. Sono in tanti, tra i 14 e i 16 anni».
I missionari danno anche la possibilità agli ospiti di frequentare corsi di formazione professionale, a chi fosse interessato (elettricità, meccanica, cucina, ecc.). Inoltre, collaborano con le ambasciate dei vari paesi quando ci sono problemi di
documenti.
«Quando arrivano qui, ci sono per loro tre possibilità: andare in Europa, ma pochissimi riescono; rimanere in Marocco, ma anche ottenere i documenti per lavorare qui è complicato. La terza possibilità è quella di ritornare al proprio paese. Ci sono quelli che vogliono fare lo stesso viaggio a ritroso, ma è complesso. Con diversi di loro iniziamo il processo di rimpatrio con l’Oim (Organizzazione mondiale per le migrazioni, ndr), che può prendere settimane o mesi. In questo tempo i migranti rimangono qui, e facciamo loro dei corsi di formazione».
Edwin ci racconta la storia di uno dei tanti. «È con noi un ragazzo di 15 anni della Sierra Leone, arrivato 5 mesi fa. Il suo sogno era di andare in Europa. Ha un fratello maggiore in Spagna. Ho cercato di dissuaderlo, ma lui ha insistito, e così ho fatto una ricerca per trovare il numero del fratello. Siamo riusciti a telefonargli. Lui gli ha sconsigliato di proseguire, dicendogli di tornare a casa: “Qui le cose non sono come pensi”. Il ragazzo ha iniziato a piangere, dicendo: “Non mi vuole bene”. Io gli ho detto: “Guarda, sono stato in Europa e sta dicendo la verità”. Poi c’era anche una divisione nella famiglia, perché la madre voleva che continuasse. Alla fine, hanno accettato, e ora abbiamo iniziato le pratiche per il rimpatrio con l’Oim».
Le donne che arrivano sono invece rare: «Non si possono fermare da noi, non siamo attrezzati, ma le suore se ne occupano e trovano loro una sistemazione. Poi le seguono e propongono dei corsi di formazione».
Una missione… europea
Questa missione è stata ideata e voluta dal gruppo di padri e laici di Malaga e dipende dalla Regione Europa, anche se si trova in Africa. Edwin, inoltre, è consigliere regionale (ovvero uno dei cinque membri del consiglio che guida i Missionari della Consolata del continente). Gli chiediamo in che modo si sente parte dell’Europa: «Penso sia stato lo Spirito che mi ha spinto a questa decisione. Io creo il legame con la regione, questa missione ne fa parte. Siamo ad gentes, lavoriamo e parliamo con non cristiani. Viviamo la consolazione e parliamo di Gesù, non tanto con le parole, ma con le nostre azioni, con la nostra vita».
La missione ha un legame stretto con la comunità di Malaga. Ora che è più difficile viaggiare, a causa della pandemia, viene organizzato un incontro online ogni due settimane. Vi partecipano i missionari di Oujda e alcuni membri dell’équipe, insieme ai laici e ai padri di Malaga. Ogni incontro riguarda un aspetto specifico del lavoro: sanità, prima accoglienza, formazione, ecc.
Secondo Silvio, questa missione può offrire molti spunti: «A parte le attività in sé, essa si può convertire in un fuoco eccezionale di animazione missionaria. Abbiamo previsto di andare d’estate con un gruppo di giovani. I classici campi di lavoro, per fare qualcosa. Si programma e si preparano incontri con i migranti, che sono anche loro giovani. Si respira veramente il lavoro e la spiritualità missionaria. È una missione di frontiera, in senso fisico e tematico.
Ha un potenziale in altri ambiti che bisogna sfruttare, come quello del dialogo interreligioso e dei diritti umani. Ci sono agganci con il mondo esterno.
Il potenziale di Oujda è che riporta la regione Europa all’essenza della spiritualità missionaria, e questa è un punto per ricominciare molte cose».
Monsignor Cristóbal López Romero, arcivescovo di Rabat (una delle due diocesi del Marocco con Tangeri), è stato nominato cardinale il 5 ottobre 2019 da papa Francesco. Salesiano, spagnolo della regione di Almería, è di una simpatia straripante. Ha scritto questo testo per MC per presentare la missione di Oujda, alla quale tiene molto.
Oujda è la città più orientale del Marocco, la porta dell’Algeria. È pure la porta di entrata in Marocco per migliaia di persone migranti, provenienti da diversi paesi africani, ma tutti con una destinazione comune: l’Europa.
La chiesa di Oujda è la più antica di quelle attualmente presenti nella diocesi di Rabat: fu costruita nei primi anni del protettorato francese (durato dal 1912 al 1956).
In quell’epoca, la comunità cristiana era composta da europei che si stabilivano in Marocco per le opportunità di lavoro che c’erano.
Oggi la piccola comunità cristiana è fatta di studenti universitari subsahariani e di alcune persone di passaggio durante l’avventura migratoria.
Fin dall’inizio di questo fenomeno, la parrocchia si è aperta all’accoglienza di queste persone che arrivano a Oujda sfinite, ferite, in situazione di vulnerabilità, dopo aver attraversato il deserto e la frontiera algerina, in mezzo a difficoltà e pericoli.
Quattro verbi, quattro azioni
La parrocchia di Oujda cerca di mettere in pratica le quattro azioni che papa Francesco propone in relazione a questi fratelli: accogliere, proteggere, promuovere e inserire.
Accogliere e proteggere. Tutte le persone che arrivano sono accolte e ascoltate. Se hanno fame, possono mangiare. Se sono stanche possono riposare. Se sono malate, le si cura. Se sono prese nella rete mafiosa, si fa il possibile per liberarle.
Questo porta, ogni anno, ad accogliere diverse migliaia di persone nei locali della parrocchia, che sono arrivati a ospitare fino a 150 persone contemporaneamente. La permanenza va da alcune ore a diversi mesi, fino a un anno.
Promuovere e inserire. Per i giovani che scoprono la necessità di formarsi prima di fare il salto verso l’Europa oppure di tornare al proprio paese, esiste la possibilità di fare corsi brevi di formazione professionale.
Però la cosa più importante è che a tutti si offre un ambiente di serenità e sicurezza, e un accompagnamento personale che li porta a recuperare la propria dignità, il proprio equilibrio emotivo, e li aiuta a ripensare un progetto di vita, permettendo loro di andare avanti più coscienti e con un più alto grado di libertà. Possiamo dire che queste persone passano a Oujda attraverso un processo di recupero della dignità.
L’inserimento è difficile, perché son pochi che scelgono di fermarsi in Marocco. Però la formazione ricevuta li aiuterà a inserirsi in Europa oppure a reinserirsi nel proprio paese di origine, se decidono di tornare (e sono molti che scelgono questa opzione).
Una missione ecclesiale importante
Quello che la comunità cristiana di Oujda fa in favore delle persone in migrazione è il miglior servizio che la chiesa sta prestando loro in tutta la diocesi. Esso consiste innanzitutto nell’offrire un ambiente famigliare, nel quale le persone si sentano accolte, valorizzate e amate, come requisito per potere aumentare la propria autostima e recuperare la dignità.
È un servizio ecumenico perché lo facciamo in comunione di azione con i cristiani protestanti presenti nella Chiesa evangelica del Marocco.
È un servizio inter congregazionale, perché integra i Missionari della Consolata, e due congregazioni di religiose, le suore del Sagrado Corazon e quelle di Jesus-Maria.
È un servizio interreligioso, perché in esso si coniuga il lavoro di cristiani e musulmani, e si indirizza a qualsiasi persona in necessità, indipendentemente dalla sua religione. E i musulmani sono la maggioranza.
È un servizio integrale perché accompagna la persona, specialmente i giovani e minori non accompagnati, in tutti i suoi bisogni e finché non diventa autonoma e in grado di proseguire da sola.
Ho affidato la responsabilità della direzione del centro di accoglienza e della parrocchia di Oujda ai Missionari della Consolata, per dare una continuità istituzionale, ma soprattutto perché il carisma della Consolazione è di pertinenza e necessità estrema per le persone in migrazione.
Inoltre, una comunità ha le caratteristiche giuste per creare il clima di famiglia.
Segni e testimoni
Essere vescovo, essere cristiano in Marocco, presuppone e implica convertirsi in segno e testimone dell’amore che Dio ha per l’umanità. Quello che facciamo ha un valore relativo, l’importante è quello che siamo e che viviamo, la testimonianza che diamo.
San Giovanni Paolo II, in una brevissima visita a Casablanca, disse: «Le opere che fate qui, continueranno o non continueranno, però quello che certamente rimarrà è l’amore con il quale fate ciò che fate».
L’amore non passa mai, in verità, ed è la vocazione comune di tutti i cristiani, ovunque sia e qualunque cosa facciano.
La nostra sfida principale in questo ambiente nel quale viviamo, di maggioranza assoluta musulmana, è essere segno e testimoni della tenerezza e della misericordia di Dio; essere parola vivente e convertirci nel quinto Vangelo, l’unico che i musulmani potranno leggere: essere apostoli della bontà, affinché, come diceva (il beato, presto santo, ndr) Charles de Foucauld, chi ci conosce possa pensare o dire: «Se il discepolo è così, come sarà il maestro».
cardinale Cristóbal López Romero arcivescovo di Rabat (liberamente tradotto dallo spagnolo)
Nota
Il cristianesimo (cattolici e protestanti) in Marocco è una minoranza, valutato in circa 1% della popolazione, meno di 40mila. I fedeli sono per lo più stranieri.
Nuova presenza dei Missionari della Consolata in Marocco
Dall’inizio di novembre i Missionari della Consolata hanno cominciato a rendere concreto un progetto da lungo sognato: un presenza in Marocco a servizio dei rifugiati sub sahariani.
Da alcuni anni i missionari della Consolata in Spagna stanno cercando un maggiore coinvolgimento nel lavoro degli immigrati. Soprattutto a Malaga, con la cura pastorale nella chiesa di Cristo Re e con il coinvolgimento sociale nella “Piattaforma di solidarietà con gli immigrati” e in altre forme, hanno iniziato ad aprirsi alla collaborazione con altre forze. Si è tenuto conto della situazione strategica delle città di confine, Ceuta, Melilla, Nador e Tangeri come indicato dalla Conferenza 2018 della Delegazione di Spagna e dal Consiglio Continentale dell’epoca.
La proposta del Vescovo: Oujda
Dopo tre visite da parte di gruppi di missionari della Consolata (missionari e laici insieme), a cui ho partecipato anche io, abbiamo ricevuto la proposta concreta del cardinale Crisbal Lopez, vescovo di Rabat, di assumerci la responsabilità di lavorare con gli immigrati a Oujda (Uchda, in spagnolo), una città marocchina nell’estremo orientale del paese, a circa 15 km dal confine con l’Algeria e a circa 60 km a sud del Mediterraneo. Oujda è la capitale della regione orientale vasta circa 1.000 km2, uno dei 12 grandi territori amministrativi marocchini. Si tratta di un punto di passaggio di tante persone provenienti da diversi paesi dell’Africa subsahariana, che qui arrivano con l’intenzione di raggiungere l’Europa dopo aver attraversato il deserto ed essere passati attraverso tante tribolazioni. Qui la lingua ufficiale è l’arabo, ma si parla anche il francese insieme al dariya, una variante dell’arabo.
Secondo il vescovo Christopher, da “Chiesa samaritana” che siamo, la parrocchia ha sentito il dovere di accogliere coloro che hanno bussato alla sua porta chiedendo aiuto. E per più di due anni, il parroco Antoine Exelmans, sacerdote francese “fidei donum” e attuale vicario generale della diocesi, ha organizzato questa attività che cerca, seguendo le linee guida di Papa Francesco, di “accogliere, proteggere, promuovere e integrare” gli immigrati.
In questa parrocchia di St. Louis, una chiesa del ventesimo secolo, viene offerto un servizio di accoglienza di emergenza tutto l’anno per i migranti in situazioni vulnerabili. Circa 1000 persone passano da qui ogni anno, ma nel 2020 sono già passate più di 2000 persone. Sono praticamente tutti subsahariani: più dell’80% proviene dalla Guinea Conakry, e altri provenienti da Camerun, Sudan, Madagascar, ecc. Molti di quelli accolti qui sono minorenni.
Il Consiglio della regione d’Europa dei Missionari della Consolata mi ha chiesto di coordinare il processo e la possibile presenza a Oujda. Dopo diversi mesi di corrispondenza con il Vescovo di Rabat, il 3 novembre sono arrivato a Rabat, e dopo alcuni giorni di introduzione alla realtà del Marocco e della chiesa qui con l’aiuto dello stesso vescovo, il 12 novembre ho iniziato questa esperienza a Oujda, a 530 km da Rabat, sede dell’arcidiocesi.
Principi di orientamento per la nostra presenza a Oujda
Fraternità
Anche se ero già stato qui in visita l’anno scorso, mi sono reso conto che l’arrivare fin qui è una bella esperienza impegnativa di vita di fede e di fraternità, che richiede di “conoscere la realtà dall’interno, anche con coraggiose opzioni di presenza…”
È una presenza di fraternità che si vive anche nella sua bellezza di realtà ecumenica ecumenico e fortemente interreligiosa con una convivenza pacifica in Marocco, un paese con più del 98% della popolazione che pratica l’Islam. Il re del Marocco Mohamed VI ha sottolineato a Papa Francesco nella sua visita apostolica in Marocco nel marzo dello scorso anno che “le religioni abramiche esistono per essere aperte e conoscersi, in una coraggiosa competizione per fare del bene l’una con l’altra”.
Legami con Malaga
Dopo la presentazione di cui sopra, è chiaro il rapporto che esiste tra la nostra presenza qui con l’Europa, e in particolare con la Spagna, o più in particolare ancora, con la nostra comunità a Malaga. A causa del nostro coinvolgimento in questo fenomeno a Malaga e del processo che culmina nella nostra installazione qui, considero questa presenza come un “allegato” alla comunità di Malaga, missionari e laici insieme.
Itineranza
È la caratteristica inarrestabile del fenomeno dell’immigrazione. Pertanto, nessuno sa quanto durerà la nostra presenza qui. Questa presenza comporta anche un certo “itineranza mentale”, cioè la flessibilità. Si tratta di una missione dinamica, corrispondente alla natura del fenomeno stesso, suscettibile di cambiamenti dovuti a fattori socio-politici, ecc. Inoltre, è essenziale tessere reti collaborative. Con la nostra comunità di Malaga, e con tutta la nostra regione Europa e BMI e l’intera congregazione. Naturalmente, è importante anche l’appoggio e la collaborazione con altri organismi ecclesiali ed extra-ecclesiali.
Evangelizzazione e pastorale
Sappiamo che “la Buona Notizia è l’essenza e il contenuto di tutto ciò che siamo e facciamo come missionari” (PMC n. 86.1). Per parafrasare il vescovo emerito di Rabat, monsignor Vincent Landel, si può dire che “i cristiani sono l’unico Vangelo che leggono molti musulmani”. La Conferenza Episcopale della Regione del Nord Africa (CERNA) nella sua lettera pastorale del 2014 riconosce la presenza della Chiesa in queste terre come “servi della speranza” e quindi ci invita all'”apostolato dell’incontro”, come Maria, in questi “incontri dell’umanità”.
La presenza pastorale qui comprende anche l’accompagnamento alla comunità cristiana di circa 50 parrocchiani, la maggior parte dei quali studenti subsahariani, così come funzionari diplomatici, turisti, ecc. Allo stesso modo, per questo compito, aspetto con ansia l’arrivo di almeno altri due confratelli della Consolata.
Nel suo messaggio per la Giornata Mondiale dei Poveri 2020, Papa Francesco ci invita a “tendere la mano ai poveri” ricordandoci che “tenere gli occhi sui poveri è difficile, ma molto necessario per dare alla nostra vita personale e sociale la giusta direzione”. Speriamo di avere la cooperazione di tutti, che la saggezza del Signore ci accompagni, e contiamo sempre sull’intercessione della Madonna del Marocco.
All’inizio degli anni 2000 si apre la rotta della cocaina dal Sud America all’Africa dell’Ovest per l’Europa. Da Oriente, invece, arrivano gli oppiacei e le metanfetamine. Il traffico è gestito da organizzazioni dei 4 continenti molto interconnesse. Ma l’Africa da zona di transito è diventata terra di produzione e consumo. E mancano i fondi per i trattamenti e la riabilitazione.
Crocevia di traffici, ma anche mercato di consumo. Il rapporto dell’Africa con la droga si fa sempre più forte e per le grandi organizzazioni internazionali di trafficanti, il continente sta diventando una terra ricca nella quale gestire e potenziare un business miliardario.
Il quadro complessivo non è dei più rassicuranti. «La produzione e il traffico illeciti di cannabis – spiegano i responsabili di Unodc (United Nations office on drugs and crime, l’agenzia Onu che si occupa del rapporto tra stupefacenti e crimine) – è la sfida più grande che le forze dell’ordine e le organizzazioni internazionali si trovano ad affrontare in Africa in questi anni. La foglia di cannabis è prodotta in tutto il continente mentre la produzione di resina è limitata ad alcune zone del Nord Africa (in particolare Marocco, Algeria ed Egitto, vedi box). Sebbene la cannabis rimanga la droga più prodotta e consumata nel continente, l’abuso di cocaina, oppioidi, anfetamine e nuove sostanze psicoattive si sta diffondendo rapidamente. E anche l’eroina sta prendendo piede». Tendenzialmente, l’eroina arriva per terra e per mare dall’Asia centrale (Afghanistan, Pakistan e Iran) o dal Sud Est asiatico (Birmania, Cambogia, Laos, Vietnam, Thailandia). La marijuana arriva dall’Asia centrale, ma esistono anche una produzione europea (Balcani, in particolare Albania, Macedonia, Kosovo), una nordafricana (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto sul percorso del Nilo) e una nell’Africa orientale (Eritrea, Etiopia, Somalia, Tanzania). La rotta della marijuana è più mediterranea e si mescola ai traffici di esseri umani e di armi. La cocaina invece è una produzione tipicamente latinoamericana.
Cocaina sudamericana
Dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, le rotte dell’Oceano Atlantico settentrionale non sono state più sicure per i trafficanti. Troppi i controlli di polizia sui velivoli e sulle navi mercantili.
I narcotrafficanti sudamericani hanno così iniziato a guardare con sempre maggiore interesse alle rotte dell’Atlantico meridionale. Nei primi anni Duemila, l’Africa e, in particolare l’Africa occidentale, era ancora un terreno vergine per il traffico di cocaina. Esistevano però rotte collaudate per il traffico di sigarette ed esseri umani. Piste che dalla costa occidentale risalivano il Sahel, attraversavano il Sahara per giungere fino alla costa mediterranea e, da lì, all’Europa meridionale (Italia e Spagna). I narcotrafficanti sudamericani hanno così iniziato a sfruttare le lunghe coste africane per sbarcare i loro carichi di polvere bianca. Facilitati da istituzioni statali fragili e da funzionari facilmente corrompibili hanno creato le loro basi in alcuni paesi.
Il caso più eclatante è quello della Guinea-Bissau. Nell’aprile 2008, la polizia locale ha sequestrato 635 chilogrammi di cocaina, in un periodo in cui la Guinea-Bissau aveva solo 60 agenti addetti alla lotta al narcotraffico. Ovviamente il flusso di droga era grandemente superiore e i narcotrafficanti godevano della complicità di alcuni alti gradi delle forze armate. Nel traffico si dice fossero coinvolti anche esponenti dei movimenti jihadisti saheliani (al Qaeda per il Maghreb islamico, Aqmi, in particolare) che, attraverso la droga, cercavano fonti di finanziamento.
Nonostante il rafforzamento delle autorità preposte al controllo del traffico di stupefacenti, secondo Unodc, in Guinea-Bissau «l’intero bilancio del settore sicurezza e giustizia del 2018 è inferiore alla metà del valore medio di una tonnellata di cocaina venduta in Europa». «Nonostante un calo della quantità di cocaina sequestrata negli ultimi anni, il flusso di droghe che attraversa la Guinea-Bissau rimane significativo, con i trafficanti che spostano le rotte e utilizzano metodi meno tracciabili per contrabbandare la polvere bianca – osserva Antero Lopes, direttore del dipartimento legge e sicurezza presso la missione delle Nazioni Unite a Bissau -. La Guinea-Bissau è vittima del narcotraffico a causa della vulnerabilità delle sue istituzioni. Qui, il crimine organizzato corrode anche la stabilità e la democrazia». L’Onu stima che «non meno di 30 tonnellate» di cocaina passino ogni anno attraverso la Guinea-Bissau. I carichi vengono paracadutati nelle isole al largo del paese e da lì trasportati da pescherecci, verso il Nord, mentre il resto viene trasportato sulla costa da pescatori locali e poi portato da militari corrotti al di là dei confini.
La via del Marocco
A partire dal 2015, è proprio il Marocco a essere diventato uno dei principali hub per il commercio di cocaina. Nel 2017, le autorità di Rabat ne hanno sequestrato 2,5 tonnellate in una sola operazione. Sempre nel 2017 sono stati scoperti 116 kg di cocaina nel porto di Tangeri. La droga proveniva dal Brasile ed era destinata in larga parte all’Europa e in misura minore alla stessa Africa.
Ma se Guinea-Bissau e Marocco sono i punti di riferimento più importanti per i trafficanti, non sono gli unici. Grandi sequestri di cocaina sono stati effettuati, per esempio, in Tunisia. Nel 2016 la polizia è riuscita a intercettare quasi una tonnellata di polvere bianca nel porto di Tunisi diretta verso l’Italia. Altri sequestri importanti sono stati eseguiti in Ghana, Madagascar, Mali, Mozambico e Nigeria.
Passaggio ad Est
Sulla costa orientale è Gibuti il principale snodo. Nel 2017 è stata sequestrata mezza tonnellata di cocaina nel porto gibutino, il sequestro più importante dal 2004. «Negli ultimi anni – osserva Giuseppe Dentice, ricercatore dell’Università Cattolica di Milano e dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), autore, tra gli altri, di studi sui traffici illegali -, Gibuti è stata ritenuta il ventre molle del traffico di droga in Africa orientale. Dai docks del suo porto passa la droga proveniente dall’Asia in modo incontrollato. Nelle ultime indagini di polizia e in alcune inchieste giornalistiche si evidenzia il ruolo del porto di Gibuti nel traffico di armi e di droga. Anche Kenya e Tanzania sono, negli anni, diventati punti di approdo della droga e le rotte che partono da lì si uniscono a quelle di Gibuti e vanno verso Nord».
Spesso i trafficanti, secondo quanto riporta Unodc, corrompono gli agenti di polizia o i funzionari pagandoli in parte in contanti e in parte in droga. Questi ultimi, rivendono gli stupefacenti creando e alimentando un mercato che, fino a pochi anni fa, era sostanzialmente inesistente.
Non solo eroina
Se l’Africa occidentale è invasa dalla cocaina, quella orientale è la patria degli oppiacei (eroina in primis). Nei porti di Tanzania, Kenya, Gibuti arrivano carichi sempre maggiori di stupefacenti dall’Asia centrale e, in particolare, da Afghanistan e Pakistan. La droga viene trasportata sulle stesse rotte che seguono i migranti verso l’Europa, ma si diffonde anche in altre nazioni. Nel 2017 sono stati sequestrati carichi fino a 800 kg in Algeria, Egitto, Libia e Marocco, ma anche in Ghana, Madagascar, Mozambico, Sudafrica.
A combattere il traffico sono le varie polizie locali (come quella tanzaniana che ha sequestrato 27 kg di eroina nei primi sei mesi del 2017), ma anche le forze armate occidentali che mantengono una forte presenza nell’Oceano Indiano in funzione antipirateria. Le navi militari spesso intercettano i trafficanti e operano sequestri ingenti. Nel maggio 2017, la Royal Navy della Gran Bretagna ha sequestrato 266 kg di eroina che erano nascosti nel fondo del freezer di un peschereccio.
All’eroina si aggiungono anche altre sostanze. Tra esse, la metanfetamina, un derivato sintetico dell’anfetamina che, rispetto a essa, raggiunge più rapidamente il cervello con un effetto stimolante più intenso e con un maggiore potenziale di dipendenza. Prodotta in Oceania e in Asia, arriva nell’Africa occidentale e in quella centrale. Tra il 2016 e il 2017, la National Drug Law Enforcement Agency nigeriana ha sequestrato ingenti quantitativi di droga, in particolare 40 kg di metanfetamine. Sequestri sono stati compiuti anche da Kenya e Sudafrica rispettivamente 9 e 440 kg.
Oltre alla metanfetamina, vengono trafficate sostanze quali il tramadol, un oppioide sintetico, e il metaqualone, un farmaco con azione sedativa-ipnotica, simile agli effetti di un barbiturico. Sono farmaci e non rientrano nelle tabelle degli stupefacenti veri e propri, ma sono considerati pericolosi se non vengono assunti sotto il controllo medico.
Il tramadol è contrabbandato soprattutto nella regione del Sahel. Nel 2016 ne sono stati sequestrati in Niger 8 milioni di tavolette, in Nigeria 3,1 tonnellate. Negli ultimi anni la Libia è diventato un punto di transito di tramadol verso l’Egitto. Il metaqualone invece arriva dall’Indonesia e sbarca sulle coste mozambicane e sudafricane. Alla fine del 2016, la polizia sudafricana ne ha sequestrate 8 milioni di tonnellate.
Il mercato africano
Negli anni, l’Africa si è trasformata da regione di passaggio in mercato della droga. «Il fenomeno dell’abuso di sostanze stupefacenti nel continente – spiegano gli esperti di Unodc – non è facilmente quantificabile. Le autorità non effettuano un monitoraggio continuo e quindi le statistiche disponibili sono parziali o datate». Secondo le ricerche di Unodc, la sostanza più utilizzata è la cannabis. Le stime dell’agenzia dicono che il 7,5% della popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni ne fa uso (circa il doppio della media mondiale). L’Africa centrale e quella occidentale sono le regioni in cui l’utilizzo è più massiccio attestandosi intorno al 12,4% della popolazione.
Anche l’eroina sta prendendo sempre più piede. Le autorità sanitarie di Costa d’Avorio, Kenya, Mozambico, Nigeria, Tanzania, Sudafrica e Zambia hanno segnalato un incremento dei tossicodipendenti che fanno uso di questa e di altre sostanze derivate dall’oppio.
Sempre secondo Unodc, nel continente quasi due milioni di persone si iniettano o fumano eroina.
Solo un terzo dei paesi in Africa ha però un budget per il trattamento dell’abuso di sostanze. Strutture di trattamento e riabilitazione, nonché trattamenti di base e servizi sanitari correlati alla droga, sono ancora scarsi. La maggior parte del trattamento fornito è la disintossicazione, a volte solo attraverso il supporto psicosociale. In passato veniva fornita assistenza in ospedali psichiatrici sovraffollati e senza farmaci specifici. Anche se in molti paesi qualcosa si sta muovendo. Negli ultimi due anni, Burundi, Capo Verde, Eritrea, Etiopia, Kenya, Liberia, Madagascar, Mauritius, Mozambico, Nigeria, Senegal, Seychelles e Tanzania hanno investito maggiori risorse. In Kenya, per esempio, è stato introdotto un protocollo per far fronte all’abuso. Il governo di Nairobi vuole sradicare un fenomeno che colpisce i giovanissimi (il 50% dei tossicodipendenti ha tra i 10 e i 19 anni) ed è veicolo di trasmissione dell’Aids-Hiv. In Egitto e nelle Seychelles si stanno sperimentando terapie sostitutive degli oppioidi. In Senegal, nel 2017, 178 pazienti sono stati ammessi a una terapia a base di metadone. Anche in Tunisia sono stati aperti centri ad hoc mentre in Kenya, Mauritius e Tanzania hanno varato progetti per fornire aghi e siringhe sterili ai tossicodipendenti per evitare la trasmissione di malattie infettive.
Mafie e jihadisti
Il traffico di stupefacenti è gestito da più attori. «La base – continua Dentice – è formata da piccoli criminali, poveri disperati che fanno da manovalanza della malavita per procurarsi da vivere. Questa manovalanza è gestita da grandi organizzazioni criminali africane, europee e latinoamericane che collaborano nei vari settori. Il traffico di cocaina, per esempio, è gestito dalle organizzazioni sudamericane. L’eroina che proviene dall’Asia invece è in mano alle mafie asiatiche. Quando cocaina ed eroina arrivano in Europa, la protagonista assoluta è la Ndrangheta calabrese che ne gestisce il commercio fino al dettaglio. La Ndrangheta ha fortissimi legami sia con i cartelli latinoamericani sia con quelli asiatici. La Sacra corona unita, invece, gestisce tutto il traffico di marijuana ed eroina sul lato adriatico della nostra penisola. Cosa Nostra ha perso un po’ di peso nel traffico di droga, ma rimane attiva e ha collegamenti con il Nord Africa per la marijuana. La Camorra si inserisce in più mercati soprattutto nel settore della cocaina».
Anche in Africa si stanno rafforzando le organizzazioni criminali, in particolare la mafia nigeriana che oggi è la più forte e la più strutturata. Su questo cartello non si hanno grandi informazioni e sono in corso ancora investigazioni da parte delle polizie internazionali. Operazioni sotto copertura stanno cercando di definirne la struttura. Esistono poi una serie di cartelli minori in Ghana e Burkina Faso.
La zona di confine tra Burkina Faso e Niger è una zona transfrontaliera strutturata in cui operano a stretto contatto organizzazioni terroristiche e criminali.
In alcuni casi, la malavita ha collegamenti con organizzazioni politico-militari. «In Afghanistan – continua Dentice – c’è una vasta produzione di oppio che viene poi trasformato in eroina. Gran parte di questo ciclo produttivo è gestito dai talebani che poi vendono gli stupefacenti alle organizzazioni criminali che ne gestiscono il traffico. Anche in Africa occidentale ci sono complicità con governi deboli e corrotti».
In questo contesto, si inseriscono anche le milizie jihadiste. Le organizzazioni terroristiche entrano nel traffico di stupefacenti in una doppia funzione: come produttori e come gestori del traffico sui territori da esse controllati. Il caso più emblematico è quello di Mokhtar Belmokhtar, jihadista che nasce come trafficante di sigarette e droga (cocaina e marijuana), gestendo il transito dall’Africa occidentale verso l’Africa mediterranea. Quando aderisce al jihadismo militante, non abbandona la sua vecchia professione dalla quale trae importanti risorse per azioni militari terroristiche nell’Africa occidentale. Ciò fa il gioco delle organizzazioni criminali locali che sfruttano (pagando una «tassa») i collegamenti con i movimenti jihadisti per poter percorrere impunemente le vie dei traffici ed essere sicuri di avere, lungo queste rotte, l’assistenza logistica dei fondamentalisti islamici. «Qualcuno – conclude Dentice – potrebbe chiedersi: ma ciò non entra in contrasto con la fede islamica? Teoricamente sì, ma il jihadismo ha bisogno di fondi e il traffico di droga è un’ottima fonte di entrate».
Enrico Casale
Marocco: il paradiso dei fumatori
Coltivazioni «stupefacenti»
Il Marocco produce un terzo della marijuna e dell’hashish mondiale. La coltivazione è illegale, ma tollerata. E fa vivere oltre 90mila famiglie. Si è sviluppato anche un turismo legato all’«erba» da fumare.
Per il Marocco la droga è un business, illegale ma tollerato. Dalle montagne del Rif, la regione nordorientale al confine con l’Algeria, arriva circa un terzo della produzione mondiale di marijuana e hashish. Gli stupefacenti vengono poi smerciati in Europa e nel Nord America. Ma la coltivazione di cannabis alimenta anche un movimento turistico di europei e nordamericani che visitano il paese proprio perché sanno che possono trovare «erba» buona da fumare.
La produzione affonda le radici nella storia. Da secoli, le popolazioni berbere che vivono nella regione producono il kif, una droga leggera a base di hashish, pezzi di foglie e fiori di cannabis. Una coltivazione incoraggiata dai colonizzatori spagnoli, che così cercavano di mantenere la pace in una regione piuttosto turbolenta e poco incline a farsi sottomettere. Il boom esplode negli anni Settanta. In Europa, si diffonde l’uso della cannabis e nel Rif le piantagioni si estendono per ettari. Non solo, ma proprio quelle montagne diventano una delle mete privilegiate degli hippie di tutto il mondo.
Oggi, il Rif continua a essere il centro dell’industria della droga leggera marocchina. Sebbene la legge nazionale ne vieti la vendita e il consumo, fioriscono vaste piantagioni che garantiscono un reddito a più di 90mila famiglie. A ciò si associa il fenomeno del «turismo dello spinello». «Le persone sono attratte dalle montagne, dalle escursioni, dal clima – ha spiegato all’Agenzia France Presse un ristoratore -. I primi furono gli hippie che negli anni Sessanta venivano qui per cercare una vita diversa. In seguito, le autorità hanno stretto le maglie e lentamente il flusso di turisti è svanito».
Recentemente, però, i turisti sono tornati in massa. La marijuana e l’hashish sono diventati un’attrazione. Sono frequenti i festival a base di ganja (come è anche chiamato «il fumo»). Sono illegali, ma nella regione nessun agente si prende la briga di vietare le manifestazioni e di sequestrare «la roba».
«Qui – ha spiegato un coltivatore -, il clima è molto speciale e non cresce nulla eccetto il kif. Per questo è diventato per noi una fonte di reddito». I piccoli commercianti e le guide prive di licenza si rivolgono ai turisti per offrire loro hashish o un tour delle fattorie vicine per incontrare i «kifficulteurs», i produttori locali di cannabis. Le pensioni di Chefchaouen offrono un servizio simile per circa 15 euro, anche se fanno attenzione a non menzionarle nei loro opuscoli. «Qui, fumi dove vuoi – conclude un agricoltore -, eccetto davanti alla stazione di polizia».
En.Cas.
L’Africa Orientale e il khat
La droga dei poveri
La chiamano «la droga dei poveri». Il nome vero è khat (o qat). Coltivato da secoli in Africa orientale (soprattutto in Etiopia e Somalia, ma anche in Yemen), il khat è un arbusto le cui foglie fresche, se masticate, producono un effetto paragonabile a quello dell’anfetamina. Il consumo porta a un aumento della pressione sanguigna, euforia, maggiore attenzione, parlantina, soppressione dell’appetito e del bisogno di dormire.
Fino al 1980 a livello internazionale non era considerato una droga, poi l’Organizzazione mondiale della sanità l’ha inserito nella lista delle sostanze stupefacenti e da allora è equiparato alle più famose eroina, cocaina e marijuana.
Da sempre in Yemen, Somalia e in alcune regioni di Etiopia, Eritrea, Gibuti e Kenya, gli uomini masticano le foglioline a partire dalle prime ore del pomeriggio. Gli uomini yemeniti e a volte anche le donne, ma separatamente e in privato, passano anche quattro ore tutti i pomeriggi senza far molto altro che masticare le foglie. Masticare il khat è un’importante attività di socializzazione, ma al tempo stesso costituisce un grave problema economico e sociale, oltre a comportare danni irreparabili alla salute. C’è chi spende oltre il 30% del proprio reddito per l’acquisto di questa pianta.
Fino a qualche anno fa, la produzione e il consumo sono rimaste limitate all’Africa e alla Penisola araba. Poi, con l’aumento dei flussi migratori, il khat ha iniziato a diffondersi anche in Europa, perché alcuni paesi europei ne tollerano l’uso. In Olanda, per esempio, nei famosi coffee shop lo si consuma senza troppi ostacoli. Ma anche in altri paesi dove pure è vietato, il khat è consumato soprattutto nelle comunità dell’Africa orientale.
Il traffico ha così preso piede. Nel 2017, la polizia spagnola ha sequestrato due carichi di khat provenienti da Kenya ed Etiopia. Anche le forze dell’ordine italiane hanno aumentato i controlli. Negli anni la Guardia di Finanza ha sequestrato, in vari aeroporti, diverse spedizioni di foglioline, con il boom nel 2015: una tonnellata e mezzo requisita e quantità poco inferiori negli anni successivi. Segno che «la droga dei poveri» si sta gradualmente diffondendo anche da noi.
Marocco. Argento e ambiente
Assetati d’argento
Negli ultimi tre decenni si sono intensificate le «resistenze» delle popolazioni locali che difendono i loro territori. Un caso emblematico è quello della più grande miniera del continente africano gestita, tramite una catena di società finanziarie, dalla famiglia del Re Mohammed VI. L’estrazione dell’argento avviene senza badare all’impatto ambientale e sociale. È necessario cambiare modello di sviluppo realizzando una sostenibilità che sia effettiva.
Nel 2004, la sociologa e femminista marocchina Fatima Mernissi (Fès, 1940 – Rabat, 2015), docente all’Università Mohammed V di Rabat, scriveva che, se si vuole vedere dove davvero le cose cambiano nel suo paese, ci si deve allontanare dai centri urbani di Casablanca o Rabat ed esplorare le montagne dell’Alto Atlante o i deserti di Zagora e Figuig. È lì che si possono trovare storie affascinanti di comunità che generano cambiamento tramite la loro resistenza nel Marocco contemporaneo.
Alcuni collaboratori dell’Ejatlas hanno tenuto bene a mente questo consiglio quando, lo scorso novembre, sono andati in Marocco per assistere alla Cop22, l’ultima grande conferenza internazionale sul cambio climatico, che aveva lo scopo di trovare le modalità per attuare gli accordi siglati durante la Cop21 di Parigi dell’anno prima (si veda MC maggio 2016, ndr).
Accaparramento e resistenza
Lasciando le grandi città sistemate per l’evento, le campagne e le zone semiurbane e costiere rivelano una realtà materiale segnata da grandi accaparramenti di terre, inquinamento da attività minerarie, violazione di diritti sociali ed espropriazioni. Spesso nel nome dello «sviluppo sostenibile», per far spazio a progetti infrastrutturali di produzione di energie rinnovabili.
In questi luoghi, grandi cartelli pubblicitari di colossi della costruzione e di grandi marche fanno pensare a fondi d’investimento che, in sordina ma dettando una legge spietata, stanno penetrando nel mercato marocchino con il beneplacito della monarchia. Allo stesso tempo però questi sono anche i luoghi in cui si incontrano storie di resistenza e ricostruzione di comunità.
L’argento del re
Nella provincia del Tinghir, nella regione amministrativa Drâa-tafilalte, Imider è una municipalità che si trova in un’oasi nel mezzo di terre desertiche. Essa raggruppa sette piccoli villaggi a 300 km da Marrakesh, per un totale di circa 4mila abitanti. Oggi è il sito della più grande miniera del continente africano, e la settima più grande produttrice di argento al mondo, presso il Monte Alebban.
La miniera è gestita dalla SociétéMetallurgique d’Imider (Smi), parte del gruppo Managem (managemgroup.com) che conta attività in diverse zone del Marocco, in Guinea, Niger, Sudan, Gabon, Congo RD. La Managem è controllata per l’81% dalla società finanziaria Société nationale d’investissement (Sni), la quale a sua volta è controllata dalla Siger, la holding della famiglia del re Mohammed VI.
La Smi estrae il prezioso metallo dal 1978. Fin da allora, le comunità che vivono nei dintorni della miniera si sono organizzate per fare pressioni sulle autorità perché preoccupate per i potenziali impatti ambientali, in particolare sulle falde acquifere.
Con il tempo, le loro perplessità si sono dimostrate fondate.
Danni ambientali e repressione
Lo scontro è stato particolarmente aspro nel 1986, durante la perforazione di un pozzo da parte dell’impresa. I leader della protesta in quell’occasione sono stati incarcerati e le richieste delle comunità ignorate. L’anno 1996 è stato segnato dalla privatizzazione dell’impresa e dalla violenta repressione di un sit-in che era durato 45 giorni lungo la strada nazionale bloccando la via d’accesso alla miniera.
Nel 2004 l’impresa ha scavato un nuovo pozzo, stavolta senza i permessi necessari, portando presto le riserve idriche a seccarsi e provocando così un grave pericolo per la popolazione locale Amazigh (berbera). Piccoli agricoltori e pastori, gli abitanti locali hanno dovuto affrontare una severa marginalizzazione economica e un livello preoccupante di contaminazione delle terre da pascolo e della poca acqua disponibile.
Secondo un report del Congresso di Amazigh (ong che mira a rappresentare le associazioni berbere di tutto il mondo), la miniera consumava 1.555 metri cubi d’acqua al giorno, dodici volte il consumo degli abitanti della zona. Il rapporto denunciava anche lo scarico illegale di liquidi tossici della miniera sulle terre da pascolo (inquinanti come mercurio, zinco, cianuro), nuove malattie tumorali e una diminuzione drastica della produzione agricola.
Un altro rapporto, pubblicato da Inovar, un gruppo di idrogeologi indipendenti di Temara, città costiera del Marocco, vicina a Rabat, parlava dell’impatto gravissimo subito dal sistema khettara di Imider, la rete di canali sotterranei che tradizionalmente distribuiva le risorse idriche ai campi coltivati fin dal 14° secolo.
Movement on the Road ’96
Nell’agosto del 2011, lo stesso anno delle proteste della cosiddetta Primavera araba, le comunità hanno deciso di trasferirsi in cima al monte e prendere il controllo della fonte d’acqua, tagliando il trasferimento alla miniera. È nato così quello che ancora oggi può essere considerato il più lungo accampamento permanente della storia moderna del Marocco. Gli abitanti hanno dato alla loro mobilitazione il nome di «Movimento sulla strada ‘96» (si può visitare la pagina Facebook del movimento cercando Amussu.96Imider), in ricordo dei 45 giorni di sit-in e della violenza subita quindici anni prima. Il movimento ha inaugurato un’assemblea generale secondo un tradizionale modello di governance conosciuto come Agraw, nel quale le decisioni vengono prese per consenso. Esso ha incorporato principi di democrazia radicale in cui le decisioni vengono prese in modo decentralizzato e con equità di genere. Alcuni suoi membri sono riusciti a entrare in contatto con media internazionali e a lanciare messaggi di solidarietà ad altre comunità resistenti nel mondo, tra cui quella dei Sioux della riserva Standing Rock in South Dakota, negli Usa, che protestano per un progetto di oleodotto che vorrebbe passare nel loro territorio.
Proteste socioambientali in aumento
Il caso di Imider dimostra come comunità in resistenza esistano da molti anni, e forse sono state importanti motori di propulsione per le contestazioni del 2011.
E non è un caso isolato. Si registra infatti un aumento delle proteste socioambientali in Marocco in questi ultimi due decenni: dalla recente mobilitazione di Bni Oukil, un comune nella regione di Tadla-Azilal situata nel centro del paese, contro l’estrazione di materiali da costruzione, alla resistenza della tribù Guicheloudaya contro progetti infrastrutturali a Rabat che hanno portato alla confisca delle loro terre, al Movimento delle Donne Soulaliyate che rivendicano pari diritti nella compensazione elargita per l’acquisizione forzata di terre.
Molte altre sono le piccole realtà, lontane dai centri urbani rimessi a lustro per l’arrivo dei delegati internazionali della Cop22, che finiscono purtroppo fuori dal radar dell’attenzione pubblica, rendendo difficile studiare e capire il fenomeno.
Molti di questi conflitti sono durati molto tempo, come gli scioperi contro la compagnia statale (Office chérifien des phosphates) che monopolizza la produzione di fosfati a Khouribga, città a 120 Km a Sud Est di Casablanca che conta quasi 200mila abitanti, il blocco del porto a Sidi Ifni, cittadina di 20mila abitanti sull’Oceano Atlantico e, appunto, l’accampamento sul Monte Alebban contro la miniera d’argento.
Povertà e problemi ambientali non sono inevitabili
L’aumento della protesta non si puó capire se non si mette sotto la lente d’ingrandimento il rapporto iniquo tra centri urbani e campagne nell’economia neoliberista del Marocco.
Il governo ha spinto negli ultimi tre decenni sull’industrializzazione delle aree costiere, su progetti speculativi infrastrutturali nelle grandi città, grandi complessi turistici, estrazione intensiva di risorse naturali, mentre i centri più piccoli soffrono per la mancanza di servizi basilari e opportunità di lavoro dignitoso, e, anzi, subiscono le conseguenze negative dell’inquinamento e della violenza repressiva.
Ciò che sta al centro delle contestazioni in Marocco oggi, dunque, è il fatto che povertà, marginalizzazione, problemi ambientali siano la precisa conseguenza dell’odierno capitalismo globale, delle politiche di classe e delle relazioni di potere nel paese.
Allo stesso tempo, Imider mostra come la società civile marocchina si è articolata fin dagli anni ’90 in tanti collettivi e organizzazioni per i diritti umani e la giustizia sociale che oggi pongono in questione il modello economico e di «sviluppo». Essi uniscono rivendicazioni che riguardano diritti umani, indigeni, ambientali, di genere, e li vincolano alla necessità di cambiamento del sistema produttivo capitalista e autoritario.
Non basta dire «sostenibilità»
In uno dei materiali di divulgazione diffusi durante la Cop22 da una di queste organizzazioni, si trova scritto che «parlare di sviluppo sostenibile non è più sufficiente. È una parola distorta e abusata da parte delle grandi imprese transnazionali e anche dalle fabbriche più piccole. È usata come un alibi. Oggi è necessario chiarire i limiti di ciò che viene chiamata sostenibilità. Non può essere imposta secondo criteri estranei al contesto culturale, sociale e ambientale. Oggi è necessario lavorare in una direzione congiunta e mantenere una comunicazione costante tra le risorse del territorio e i bisogni della sua gente».
Daniela Del Bene Coeditrice di Ejatlas
Altri tre casi emblematici
1. L’impatto ambientale dell’energia solare
Ouarzazate è il sito del più nuovo e grande progetto di energia solare del mondo (500 ettari). Tuttavia, il livello di accaparramento di terre, l’elevato costo di produzione, e i grandi interessi economici che lo sostengono non ci possono far rimanere indifferenti e acritici sul processo di transizione verso le rinnovabili. Chi decide, a quale scala e costo, per quali fini produrre energia?
2. Le donne Soulaliyate
Il Movimento delle Donne Soulaliyate è diventato popolare in Marocco nel 2007, quando in un contesto di massiva privatizzazione della terra, gruppi tribali di donne cominciarono a rivendicare i loro diritti al pari degli uomini. Seppur minore al principio, il movimento ora ha raggiunto scala nazionale e continua a sfidare le leggi di proprietà della terra che favoriscono gli uomini e le regole della societá patriarcale nell’accesso alla terra.
3. Land grabbing a Rabat
La comunità dei Guicheloudaya vede la propria terra minacciata dall’espansione della frontiera urbana di Rabat. Il processo di privatizzazione ha avuto un’accelerazione dal 2004 e le tribù hanno subito la confisca di terreni e case. Le proteste hanno incontrato una dura repressione da parte della polizia che ha portato all’autornimmolazione di un abitante nel 2015. A oggi non sono stati indicati chiari piani di compensazione e reinsediamento.
Marocco la spoglia essenzialità
Anche la stabilità delle antiche cittadine fortificate è fatta di elementi precari come la terra mista a paglia. Mentre la precarietà delle tende berbere offre un sentimento di sicurezza, di contatto con le cose essenziali. E al termine di un breve viaggio si possono avere «incontri» inaspettati: da Charles de Foucauld al «gladiatore».
Partiamo di nuovo e abbandoniamo la strada principale per risalire il fiume, fino alle Gole del Todra: impressionanti muraglie che superano i trecento metri e si innalzano come pilastri di una porta monumentale. Poi, tornati indietro, riprendiamo la strada. Attraversiamo palmeti e villaggi in cui sorgono numerose kasbah. Con questo nome i berberi indicano le fortezze in cui risiedevano un tempo i signori locali con le loro corti e i loro armati. Ce ne sono moltissime, testimonianza della società feudale e tribale di un tempo. A Tinejdad (nella regione di Meknès-Tafilalet, ndr) lasciamo di nuovo la via principale, inoltrandoci nel deserto che, dopo Touroug, diventa sabbioso. Lungo una pista che solo l’autista riesce a scorgere in questa immensa e uniforme distesa, raggiungiamo Merzouga, dove si trova l’albergo. Lì ci attendono i dromedari, a dorso dei quali, dopo circa un’ora tra dune di sabbia altissime su cui saliamo e discendiamo mettendo a dura prova la schiena e i nostri addominali poco allenati per mantenerci in sella, arriviamo in un campo berbero. È circondato da dune alte decine e decine di metri. Nel silenzio interrotto solo dal vento della sera e da qualche verso dei dromedari, ci sistemiamo nelle tende. Sono tende di nomadi, prive delle comodità per turisti che abbiamo trovato in altri viaggi. Poi, sotto un cielo così terso che si possono vedere brillare le stelle nonostante la luna, ceniamo seduti attorno al fuoco. Si riconoscono benissimo Marte, grande e rosso, e la Croce del Sud. Ma lo spettacolo più affascinante è quello del mattino. Ci svegliano presto. Scalata la duna orientale, ci sediamo assistendo all’alba. Dal deserto sorge una luce bianchissima che si fa rapidamente sempre più luminosa ed estesa, finché un sole bianco e splendente si mostra come un’apparizione. Tra le (poche) albe e i moltissimi tramonti cui abbiamo assistito, questa è la più emozionante, per l’esperienza dell’intensa, pura gioia della vita che rinasce, di una natura essenziale, buona e bellissima.
Una bussola tuareg
Quando torniamo, di nuovo sui dromedari, all’albergo di Merzouga, troviamo il giovane Abdullah pronto a condurci nel fantastico giro del deserto da cui è iniziato questo racconto (cfr MC giugno, ndr). Al termine, ci fermiamo in albergo. Abbiamo mezza giornata di riposo. Il giorno dopo riprendiamo il viaggio con Hassan, il fratello di Abdullah, che ci porta a Erfoud e, più in là, a Rissani. Qui sono coinvolto in un’altra notevole contrattazione. Hassan, infatti, ci porta nel negozio di Mohammed, che vende un po’ di tutto ma in particolare giornielli in argento. La trattativa è lunga e paziente, con lui che scrive il prezzo richiesto su un foglio e io che vi aggiungo sotto la mia offerta. Secondo la consuetudine, domande e offerte debbono essere tre, dopo di che si dovrebbe raggiungere l’accordo. Ma non è così. Continuiamo a trattare senza più scrivere le cifre, finché raggiungiamo un prezzo che va bene a tutti e due. Non è una grande cifra. «Tu contratti come un berbero», mi dice Mohammed alla fine mentre, rilassati e sorridenti, sorbiamo l’ottimo tè che ci ha fatto preparare. Forse la cosa, che si è protratta molto, ha affaticato anche lui. Non nascondo di essere compiaciuto, anche se si tratta solo di un cortese complimento. Ci lasciamo andare pure questa volta a discorsi più intimi. Mohammed racconta dei suoi viaggi, con le carovane berbere e tuareg che si muovono tra il Sud del Marocco, l’Algeria, la Libia, fino alla Mauritania e al Mali, in cerca di bracciali, collane, tappeti, e ogni altro bene che possa poi rivendere nel suo bazar. Mi mostra un oggetto d’argento dalla vaga forma a croce, che mi incuriosisce. È una «bussola» tuareg. Si infila il pollice in un’apertura centrale e la si accosta agli occhi. Puntandolo sulla Croce del Sud si possono individuare i punti cardinali e, quindi, orientarsi nel deserto. Con un gesto d’amicizia che mi colpisce, me ne fa dono. Poi mi mostra delle bellissime monete romane. Mi spiega da dove provengono, ma non capisco il nome della località, forse pronunciato in arabo o forse in berbero. Provo a chiedergli, per scherzo, quanto vuole per una di esse, che mi pare di Augusto. Subito, di fronte al paventato riaprirsi di una nuova estenuante trattativa, ci mettiamo a ridere e lasciamo perdere.
«Chiavi in mano»
Salutiamo Mohammed e riprendiamo il nostro viaggio inoltrandoci nella città di Rissani. È giorno di mercato e molta gente vi è confluita dalla campagna. Il mezzo di trasporto, a parte qualche motorino, è l’asino. Così, all’ingresso della città, c’è un grande parcheggio in cui vengono lasciati mentre il padrone va a fare i suoi acquisti. È uno spettacolo vedere quei miti animali allineati in gran numero, legati per un piede a una lunga corda a sua volta fissata con dei picchetti al terreno perché non se ne vadano, mentre mangiano guardandosi ogni tanto intorno. Di fronte al parcheggio, in un altro grande spiazzo, vi sono altri asini, perfettamente bardati. Chiedo se anche quelli sono lì parcheggiati. «Sono in vendita», mi spiega Hassan. «Già tutti bardati?», domando sorridendo. «Come dite voi?», mi risponde la guida, «si comprano “chiavi in mano”».
La valle del Draa
Dopo aver visitato anche noi il mercato, torniamo all’auto. Ci aspetta un lungo trasferimento fino a Zagora (nella regione di Souss-Massa-Draâ, ndr). I colori del paesaggio cambiano. Lo avevamo già notato nei giorni scorsi, ma qui il deserto si trasforma in modo stupefacente: dal rosso vivo, uguale a quello dei nostri campi da tennis, al nero, al verde delle pietre che lo costellano e delle rocce dei monti sullo sfondo. L’aria è tersa e il cielo, anche quando si annuvola, facendo cadere un po’ di pioggia sottile, rimane luminoso. Incrociamo dromedari e pecore che brucano i radi cespugli, e qualche pastore che cammina solitario in lontananza. In alcuni punti si alzano rocce levigate dai venti che ricordano quelle dell’Arizona. Infine entriamo nella valle del Draa, il fiume più lungo e importante del Marocco, formato dalla confluenza del Dadès, che abbiamo incontrato nei giorni precedenti, e dell’Imini. È verdissima e ricca di palmeti. Gli abitanti possiedono appezzamenti, che coltivano per la propria sussistenza. Raccolgono i datteri, producono ortaggi e frutta. Ma le proprietà sono piccole e non bastano a soddisfare le esigenze di famiglie numerose. Da anni, quindi, almeno un membro della famiglia emigra, nelle città del Nord e in Europa. Con le rimesse che manda a casa, si riesce a tirare avanti. Questa agricoltura di sussistenza crea però un serio problema. Per irrigare i propri appezzamenti, i contadini hanno installato pompe che prendono l’acqua dal fiume. Sono talmente tante che ormai l’acqua comincia a scarseggiare. Il governo ha posto limiti severi al consumo, ma non è facile farli rispettare, anche perché, al momento, non paiono esserci alternative.
La kasbah Oulad Othmane
Prima di arrivare all’albergo visitiamo la kasbah Oulad Othmane, una delle più antiche e caratteristiche tra le oltre 200 che costellano la valle del Draa. Costruita nel Settecento da un potente pascià, è abitata ora dai suoi discendenti, ridotti quasi in povertà. È affascinante nella sua spoglia essenzialità. Non ci sono decorazioni, né marmi, né altri materiali che siamo abituati a vedere nelle dimore signorili. È completamente nuda, tutta di terra e paglia. Solo un quadro, di ingenua fattura, mostra lo splendore di un tempo: il pascià, attorniato dalla sua corte, mentre riceve sudditi e vassalli, in una sala che oggi appare povera e buia. Eppure questo palazzo è importante dal punto di vista storico e architettonico: non è stato rimaneggiato, e si conserva quindi perfettamente integro nella sua struttura.
Attraversiamo Zagora, che è una città modea, costruita nel modo di tutte le città del Sud del Marocco, con case di qualche piano, del consueto colore ocra, attraversata da una grande via centrale e immersa nel verde della valle del Draa. L’albergo, come tutti gli altri, è molto accogliente. È ricavato da una grande abitazione tradizionale e ha un giardino lussureggiante e verdissimo.
Charles de Foucauld…
L’indomani è l’ultima tappa del viaggio. Dopo alcune ore ci coglie una nuova sorpresa. In un posto di ristoro lungo la strada, dove ci siamo fermati per bere qualcosa, scopriamo, appeso alla parete, un quadretto in cui è incoiciato uno scritto. Ricorda che qui è passato Charles de Foucauld quando, tra il 1883 e il 1884, ha percorso il Marocco, allora interdetto ai cristiani, facendosi passare per un rabbino ebreo. Aveva lasciato la precedente vita militare dissipata ed era alla ricerca di se stesso: quella che lo avrebbe portato, qualche anno dopo, alla scelta religiosa. Da qui ha attraversato il Jebel Sarho, di cui si intravedono le propaggini, visitando villaggi e zone mai esplorati da un europeo. Volendo, mi dice Hassan, si può ripetere il suo viaggio e, in alcuni giorni, raggiungere la valle del Dadès e la città di Boumalne. Egli è disposto ad accompagnarci. È una proposta molto attraente: le zone sono intatte, non ancora raggiunte dal turismo. In futuro, chissà…
… e «Il gladiatore»
Quando arriviamo a Ouarzazate completiamo il giro che, come un grande anello, ci ha fatto conoscere una parte delle terre berbere. La città è sede di studi cinematografici importanti, dove sono stati girati molti film ambientati nell’antico Egitto e anche il «Lawrence d’Arabia» di David Lean.
Riprendiamo a salire lungo i tortuosi tornanti del Grande Atlante e ci accorgiamo che ha piovuto abbondantemente nei giorni scorsi. I prati e le montagne sono di un verde smeraldo che non avevamo visto passando di qui all’andata. Deviamo dalla strada principale per raggiungere lo Ksar ait-ben Haddu: borgo fortificato sulle pendici di un monte, in cima al quale sorge una torre di avvistamento e difesa. È un luogo ben noto agli operatori turistici, molto bello ma ampiamente rimaneggiato. La parte più bassa, infatti, è stata costruita recentemente, rispettando per fortuna l’architettura tradizionale in mattoni e paglia, per girarvi dei film, tra cui scene del «Gladiatore». È ben visibile l’arena in cui Russell Crowe mostra, in un momento dell’improbabile storia hollywoodiana, le sue capacità combattenti.
La scalata alla torre si rivela un’impresa: è l’una, c’è un sole davvero africano, e non abbiamo ancora mangiato niente. Ci aiuta, per fortuna, il vento fresco e delizioso offerto dagli 800 metri d’altezza del luogo. Una volta in cima, comunque, la vista è spettacolare. Si individuano ancora bene, a qualche chilometro di distanza, le sorgenti dove gli abitanti della città si recavano con gli asini per rifoirsi d’acqua. Oggi c’è l’acquedotto che ha eliminato questa dura incombenza.
Percorriamo il tratto di strada che ci separa da Marrakech tra i paesaggi montani già visti all’andata. In città ritroviamo il nostro delizioso e fresco riad (abitazione urbana tradizionale, ndr). È una bella serata e ceniamo sul terrazzo da cui si gode un grande panorama. Una cicogna, che si avvicina e, quando ci ha quasi raggiunto, compie un’ampia virata, allontanandosi, è l’ultimo spettacolo di questo viaggio.
Paolo Bertezzolo
Marocco: oltre l’Atlante
Da Marrakech alle montagne lussureggianti di vegetazione, alla valle delle rose, alle dune del deserto. Attraversando la catena montuosa del Grande Atlante. Un racconto di viaggio e di incontri, con una piccola lezione di tolleranza religiosa.
Hamed vive solo, su una duna del deserto dopo Touroug (villaggio berbero nella zona di Merzouga, regione di Meknès-Tafilalet, ndr), alle falde del Jebel Gougnant. I monti, intorno, del colore della sabbia, sono ricchi di fossili. Lui raccoglie le rocce e le spezza, liberando i preziosi reperti che dimostrano come queste zone un tempo fossero immerse nel mare. Oltre a lui, molti altri si dedicano alla stessa attività. Il commercio dei fossili è una delle risorse più importanti del luogo. Hamed, tuttavia, non li vende alle ditte che li portano nei redditizi mercati delle città. Attende i turisti che passano di qua e contratta con loro. Ha quindici anni. Di giorno lavora, la sera si ritira nella sua tenda che, bassa sulla sabbia, si intravede più in là, quasi al limite della duna. Anche noi, dopo aver trattato un po’, compriamo qualcosa.
Solidarietà berbera
Riprendiamo quindi il viaggio, a bordo del fuoristrada di Hassan, sul quale stiamo visitando questi luoghi, all’inizio del Sahara. Alla guida, tuttavia, oggi non c’è Hassan. Per impegni di famiglia, ha momentaneamente affidato noi e il suo prezioso mezzo al fratello più giovane, Abdullah.
Ci siamo accorti che, prima di lasciare Hamed, il ragazzo venditore di fossili, Abdullah ha confabulato un po’ con lui e si è preso una banconota. Gli chiediamo cosa si siano detti. «Hamed ha bisogno di pane – ci risponde Abdullah -, è rimasto senza. Mi ha chiesto di portargliene diverse pagnotte, e mi ha dato i soldi per pagarle. Ma sono molti di più di quelli che servono». «Quindi toerai da lui, più tardi», gli rispondiamo. Ma la guida ci fa osservare, ridendo, che è impegnata con noi e non può farlo. Senza che gli chiediamo altre spiegazioni aggiunge che ha promesso di portare l’ordine e il denaro ad alcuni suoi amici che compreranno il pane e lo porteranno ad Hamed con i soldi avanzati. «Dunque conosci bene Hamed», gli chiediamo. «No, non l’avevo mai visto prima». Nel deserto, spiega, tra i berberi, ci si comporta così. Chiunque, quando ha bisogno di qualcosa, sa di poter contare sull’aiuto degli altri. Non c’è neppure l’ombra del sospetto che uno possa approfittae, mancando di parola o abbandonando l’altro nel bisogno. «Io oggi lo aiuto perché lui ha bisogno di me, e so che, anche se non ci conoscevamo prima, quando ci incontreremo di nuovo, pure tra dieci anni, e fossi io ad avere bisogno di lui, Hamed si ricorderà di me e mi aiuterà».
«Io amo la vita»
Abdullah è un ragazzone espansivo e gioviale. Ogni volta che incrociamo un altro fuori strada che porta i turisti lungo queste piste, si scatena: strombazza, si sbraccia, lancia giorniose grida di saluto, rivolte agli autisti, che sono tutti suoi amici. Quando ne incontra qualcuno che lo è più degli altri, si ferma, incurante di noi. Lo stesso fa l’altro e i due si corrono incontro, si abbracciano, ridono e parlano rumorosamente tra loro. Del resto, non si vedono ogni giorno e i turisti possono ben pazientare.
Abdullah si lancia in spericolate manovre sul dorso delle dune. Sale, scende, compie giravolte degne di un campione. E ride tutto contento. «Io amo la vita», ci grida. Così anche noi ci lasciamo influenzare. Gli chiediamo i nomi dei radi alberi e delle splendide piante fiorite che incrociamo. Sulle prime gli diamo retta, ma poi capiamo che se li sta inventando: a ogni risposta, aggiunge squillanti risate.
Acqua nel deserto
In questo deserto sabbioso incontriamo tende davanti alle quali nonne magre, col volto asciutto e rugoso su cui sono ancora visibili i segni di una fiera bellezza, sorvegliano bimbi dagli occhi nerissimi e luminosi. Attendono le mamme, che si sono recate in un’oasi piuttosto lontana a lavare i panni.
Ogni tanto sono visibili le tracce di altri nomadi. Hanno lasciato qua e là, sotto piccole tettornie molto rustiche, dei vestiti, del cibo per gli animali, della legna accanto a bassi foi di mattoni essiccati al sole, sicuri che quando toeranno, troveranno tutto in ordine, conservato per la sosta. Non lontano da questi segni antichi si scorgono le condutture di un moderno acquedotto. Il Marocco sta cercando di portare l’acqua anche nel deserto. Con incentivi allettanti incoraggia i giovani a coltivare i terreni resi fertili. Nelle tappe precedenti del nostro viaggio abbiamo infatti visto ampie macchie verdi, in cui crescono cereali, viti, olivi, interrompere le zone aride.
«Il vero Marocco»
La giornata in giro con Abdullah è la quinta dal nostro arrivo in Marocco. Il viaggio è iniziato a Marrakech, dove siamo stati accolti da Hassan, l’esatto contrario dell’estroverso fratello. È serio, preciso, di poche parole. Da molti anni ha la responsabilità della famiglia, perché è il primogenito, e il padre, un beduino arabo, è morto che lui era ancora piccolo. Per mantenere la madre, che è berbera, e due fratelli, ha organizzato una propria agenzia di guide, che accompagnano i turisti desiderosi di conoscere il Marocco al di là della catena montuosa del Grande Atlante, abitato dai berberi: «Il vero Marocco», continua a ripeterci.
Questa è davvero una terra affascinante, dove si può conoscere un popolo antichissimo. I berberi sono considerati «autoctoni». Si sono adattati agli arabi, dopo che questi avevano conquistato le loro terre attorno al 683 d.C., e ne hanno assunto la religione, ma non la lingua e la scrittura, che ancora oggi difendono con orgoglio. Da alcuni anni hanno vinto la loro battaglia perché il berbero fosse riconosciuto come lingua ufficiale dello stato, accanto all’arabo, e insegnato nelle scuole. Di queste ne vedi in ogni centro urbano. Sono quasi sempre di recente costruzione, prova di un investimento notevole del governo che, negli ultimi anni, ha puntato sulla cultura e sui giovani per conquistarsi un futuro. L’istruzione in Marocco è obbligatoria per tutti. Le scuole sono aperte a maschi e femmine e le classi sono miste. Ma quando escono, al termine delle lezioni, i giovani si dividono secondo la tradizione, sui due marciapiedi opposti della strada.
Nella Medina di Marrakech
A Marrakech abbiamo alloggiato nella Medina (il quartiere antico, ndr), in un riad, abitazioni tradizionali urbane che un tempo ospitavano grandi famiglie. Parecchi riad, come il nostro, sono stati trasformati in piccoli alberghi molto suggestivi, curati, con un’ottima cucina. La Medina di Marrakech è bellissima, come tutti i centri storici delle grandi città marocchine. Vi spicca la moschea Koutoubia, il cui minareto segna la massima altezza cui possono giungere gli edifici modei.
La città è sorta nell’XI secolo in un’oasi in mezzo al deserto. Sullo sfondo spicca la catena montuosa del Grande Atlante e, intorno, il verde lussureggiante dei palmeti. La parte modea ha un aspetto molto ordinato, con grandi viali divisi da aiuole fiorite e contornati da case tutte della medesima altezza e dello stesso colore marrone: colore della terra, come abbiamo imparato nei giorni successivi. Tutte le costruzioni della regione berbera, realizzate con mattoni di terra cotti al sole.
Marrakech è la città residenziale e dei grandi alberghi dove si trovano le abitazioni dei molti europei che qui fanno affari o semplicemente vogliono godere di un ottimo clima. Yves Saint-Laurent (famoso stilista francese morto nel 2008, ndr) era uno di loro. Abitava in un palazzo che porta ancora il suo nome, il cui giardino, il Majorelle Garden, aperto al pubblico, è uno splendido «orto botanico» ricco d’acque, con piante rare provenienti da tutto il mondo.
La Medina, invece, racchiusa da possenti mura color ocra, si sviluppa attorno alla piazza Jamaa el Fna, centro vitale della città. Qualcuno, poco benevolmente, l’ha definita una scenografia cinematografica. In realtà, a parte i venditori di acqua, gli incantatori di serpenti, i giocolieri – improbabili figure tradizionali a beneficio dei turisti -, non c’è nulla di artificioso in questa spettacolare, enorme piazza contornata di caratteristici palazzi e animata da un’attività frenetica.
Lavoratrici di argan
Il giorno dopo, con Hassan, abbiamo attraversato il Grande Atlante. Il paesaggio ricordava quello delle nostre montagne: foreste di pini e lecci, prati fioriti, mucche e greggi al pascolo, centri abitati addossati alla costa. Non pareva di essere in Africa. Dopo il passo di Tizi-n-Tichka, che raggiunge i 2260 metri, abbiamo attraversato diversi paesi dove abbiamo incontrato cornoperative di donne che si dedicano alla lavorazione artigianale dell’argan. Vi si potevano trovare tutti i prodotti ricavati da questi semi, da quelli alimentari ai cosmetici ai medicamenti. La pianta di Argania spinosa è molto diffusa nel Sud del Marocco, in un’area che nel 1998 l’Unesco ha dichiarato «riserva della biosfera».
Acqua di rose
Al termine dei lunghi tornanti, abbiamo raggiunto la pianura. Era già deserto, pietroso e rosso, punteggiato di cespugli verdi e contornato, in lontananza, da alture. I centri abitati si confondono col paesaggio di cui ripetono i colori, ai quali si aggiunge il verde degli alberi, soprattutto acacie e ulivi, che vi crescono intorno. Superata Ouarzazate, a Sud Est di Marrakech, ci siamo diretti a Skoura lungo la valle del Dades che, dopo Kelaat Mgouna, immette nella sorprendente «valle delle rose». L’acqua del fiume permette di coltivare questo fiore che non eravamo preparati a incontrare in pieno deserto. Lo annunciavano ghirlande di petali, intrecciate a forma di cuore e appese agli alberi lungo la strada. Il paesaggio si faceva bellissimo, verde per la presenza delle migliaia di piante di rosa in mezzo alle quali crescono le più consone palme e le solite acacie. La rosa è la materia prima dell’economia locale. Si potevano visitare le piccole aziende artigianali che la lavorano, per produrre l’«acqua di rose»: bevanda, cosmetico e profumo.
Il nome di Dio
Abbiamo ripreso il viaggio e, verso sera, saliti sull’altopiano desertico che domina la città di Boumalne, siamo arrivati all’albergo in cui peottare. Mentre si faceva buio, dalla terrazza oata di rose rosse, la vista spaziava sulle case ocra della città, immerse nel crepuscolo dorato e, più in là, sulla vallata verde cupo circondata da montagne sassose. Era magnifica.
Il mattino ci siamo avviati a Tinerhir, che sorge in una grande oasi attraversata dal fiume Todra. Qui abbiamo conosciuto Rashid. Volevamo tentare l’acquisto di qualche prodotto artigianale. Così Hassan ci ha portati nel suo negozio. Ci ha accolti sorridente sulla porta d’ingresso, vestito dell’abito tradizionale berbero: una tunica blu, con una grande fascia bianca che scendeva dal turbante, anch’esso bianco, e si avvolgeva attorno al collo scendendo poi sulle spalle. Abbiamo ingaggiato con lui un’estenuante trattativa per un piccolo tappeto tuareg. Ci piaceva, oltre che per i colori, perché costruito con tre tecniche diverse di tessitura. La prova era dura e pareva non risolversi finché Rashid, stranamente, ha cambiato discorso, chiedendoci da dove venisse il berretto che tenevamo in testa. Ci siamo convinti che avesse abbandonato l’idea di concludere l’affare, visto che non cedevamo sul prezzo. Invece, sorprendendoci, ci ha detto che gli piaceva molto il berretto e che ci avrebbe venduto il tappeto accettando la nostra offerta se vi avessimo aggiunto anche quello. Si è messo a ridere. Abbiamo accettato la proposta e siamo diventati amici. Ci siamo poi abbandonati a discorsi impegnativi. Rashid, oltre che un uomo allegro e gioviale, si è rivelato molto colto. Abbiamo parlato di fedi e di religione, e ci ha dato una piccola e preziosa lezione. A un certo punto, infatti, alzando la mano destra, unendo l’indice e il pollice e tenendo diritte le altre tre dita, ci ha detto: «Vedi, in questo modo la mano indica il nome di Allah in arabo. Ma se la giro verso il basso, senza mutare la posizione delle dita, il nome di Dio diventa scritto in ebraico. Non c’è troppa distanza tra noi». Siamo rimasti affascinati e contenti. Rashid ha ripetuto un’idea che in Marocco, e nella regione dei berberi, si trova ben radicata: la tolleranza tra le religioni. Nella medina di Marrakech c’è ancora il quartiere ebraico, come anche in altre grandi città del paese. Si trovano pure chiese cristiane, soprattutto al Nord e nei centri della costa. Hassan non perdeva occasione, durante il viaggio, di dirci che lo stato riconosce libertà di culto a tutti, che è «laico» e tollerante, che non c’è, tra la sua gente, il «fondamentalismo religioso», come ci esprimiamo noi europei.