Mal d’Africa


Ormai vescovo emerito, monsignor Virgilio Pante non molla il suo primo amore. Rimane a servizio di una terra e di una Chiesa con le quali ha condiviso negli anni tante lacrime e gioie.

Leggi qui la prima puntata: Virgilio Pante, vescovo emerito. Guardiano della pace  su Mc 07/2024

Il tempo passa anche per i vescovi e nel 2023, seguendo le regole canoniche, monsignor Virgilio deve presentare le dimissioni per raggiunti limiti di età. A succedergli è monsignor  Hieronymus Joya (cfr. MC novembre 2022), nato nel 1965 e ordinato sacerdote nel 1998, missionario della Consolata che ha svolto diversi incarichi in Kenya, dalla formazione alla pastorale. È stato anche vicesuperiore e poi superiore regionale della regione Kenya e Uganda.

Fin dalla scelta del motto, il nuovo vescovo si pone nella linea della continuità con il primo vescovo di Maralal: «Omnia vicit amor» (l’amore vince tutto). È la perfetta continuazione del «with the ministry of reconciliation» (con il ministero della riconciliazione) di monsignor Pante, in una regione dove la convivenza tra le varie etnie non è facile e spesso sfocia in scontri, aggravati non solo da ragioni di sopravvivenza in un ambiente difficile, ma soprattutto da influenze di forze esterne che hanno tutto da guadagnare dalla divisione.

Mons Pante con il vescovo novello mons Joya Hieronymus

Il nuovo vescovo

Il 22 ottobre 2023, nella Allamano Hall, vicino allo stesso prato dell’oratorio della missione di Maralal dove monsignor Pante era diventato vescovo, è avvenuta l’ordinazione episcopale e l’installazione del monsignor Joya. Il celebrante principale è stato il nunzio apostolico del Kenya e Sud Sudan, monsignor Hubertus Matheus Maria Van Megan, che è stato accompagnato nella celebrazione da monsignor Peter Kihara Kariuki, vescovo di Marsabit, e dallo stesso monsignor Virgilio Pante, entrambi missionari della Consolata. La celebrazione ha visto un grande partecipazione di gente venuta per vivere nella preghiera questo grande momento di grazia. Era presente una buona parte della conferenza episcopale del Kenya, tanti missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti provenienti da altre diocesi, religiose, i leaders di diverse confessioni religiose, alcuni rappresentanti del governo, e una marea di fedeli, provenienti da località vicine ma anche lontane.

Disoccupato?

Monsignor Pante si è trovato, quindi disoccupato? Tutt’altro. L’ultimo pensiero è proprio quello di rientrare in Italia e fare il pensionato.

«Egoisticamente parlando, voglio avere una vecchiaia contenta, e siccome ho lavorato tanti anni in Kenya e ho vissuto anche delle cose molto belle…», dice il vescovo emerito, per sottolineare che non ha intenzione di rientrare in Italia. E continua: «E poi il nuovo vescovo mi ha detto: “Non andare in Italia, stai qua, io ti trovo un posto, ti do da mangiare e da lavorare”. Ovviamente senza interferire (da parte mia). Adesso non sono più il vescovo titolare, ma visto che il nuovo vescovo mi accetta, mi dà il permesso, io rimango più che volentieri.

Vorrei finire i miei giorni là, perché ho davvero il mal d’Africa dopo oltre cinquant’anni che sono in quel Paese. Era il 1972 quando sono arrivato, avevo 26 anni. Ora ne ho 78, dove vuoi che vada?».

«Volevo sistemarmi in una stanzetta del Centro catechistico, tra la missione e il seminario, per non disturbare, ma monsignor Joya si è rifiutato. Mi ha detto che se andavo a vivere da solo gli avrei complicato la vita, avrebbe dovuto darmi qualcuno che cucinasse per me, mi tenesse in ordine la casa e badasse alla mia salute. “No, stai qui con me, che ci facciamo compagnia, mangiamo insieme, preghiamo insieme e facciamo vita comunitaria”. Quindi ora vivo con il vescovo e lo aiuto per quello che posso, anche perché la diocesi è vasta e insieme possiamo essere più vicini alla gente».

Ritiro per sacerdoti diocesani. Tra loro anche padre Egidio Pedenzini andato alla Casa del Padre nell’ottobre 2022

Fucile appeso al muro e moto sempre «in moto»

Un pensionato per modo di dire, allora. Ma che ne è delle sue antiche passioni, la caccia e la moto? Il fucile è ben tenuto nella sua custodia, e il vescovo emerito non ricorda più quando è stata l’ultima volta che l’ha usato. L’intenzione sarebbe di non rinnovare il porto d’armi, anche perché la vita e l’ambiente sono cambiati rispetto ai suoi primi anni in Kenya, quando l’uso del fucile per andare a caccia era necessario per sopravvivere. Dopo aver fondato il seminario diocesano nel 1979 per tre anni il fucile lo aveva aiutato a nutrire i giovani seminaristi. Inoltre, si era rivelato necessario quando qualche animale della foresta si avvicinava troppo alle capanne, diventando un pericolo per la gente oppure ne distruggeva i piccoli orti. Ora non è più così e le leggi venatorie sono cambiate, per cui il fucile arrugginisce nella sua custodia.

Quanto alla moto, quella proprio non la vuole mollare. Il vecchio amore è molto utile e pratico per andare nelle cappelle più vicine e a dire messa alle suore, fare un salto in banca o altre commissioni. Certo non si parla più dei lunghi viaggi della gioventù o dei primi anni da vescovo, quando partiva in moto con lo zaino in spalla da Maralal per andare a Nairobi (circa 350 km) per la riunione della Conferenza episcopale, oppure quella volta che ha cercato invano di salvarla dalle acque del fiume in piena vicino a South Horr per ritrovarla poi otto km più in basso, o quando ha dovuto spingerla a mano per una ventina di chilometri nei dintorni di Baragoi perché si era rotto il motore.

Una moto regalata dall’Italia (Centro missionario di Belluno) per il vescovo Pante.

Sfide aperte

Monsignor Virgilio Pante vede davanti a sé ancora molte sfide aperte.

La prima è quella della pace che sembra un sogno irraggiungibile, ma per la quale ogni sforzo va fatto. Si va dall’essere spina nel fianco dei politici perché davvero investano nel benessere della gente con strade, scuole, servizi efficienti, alla lotta alla corruzione, al creare comunità cristiane dove davvero ci sia incontro, rispetto, dialogo e accoglienza indipendentemente dal gruppo etnico di appartenenza.

La memoria dei martiri, padre Michele Stallone ucciso a Loyangallani nel 1965, padre Luigi Graiff a Parkati nel 1981 e padre Luigi Andeni nel 1998 ad Archer’s Post, dona una forza speciale in questo impegno.

C’è poi la sfida di far crescere una chiesa locale che sia capace di camminare con le sue gambe ed essere autenticamente evangelizzatrice. Quando i missionari sono arrivati hanno fatto conoscere l’amore di Dio con i fatti: imparando la lingua, costruendo  scuole, curando i malati, dando da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, il tutto con aiuti che venivano da fuori. Ora è tempo che i cristiani locali stessi diventino responsabili della loro Chiesa, anche economicamente, donando dalla loro povertà, per sostenere i loro preti, avere cura delle loro chiese, aiutare i più poveri.

Un’altra sfida è quella di spingere i giovani che hanno studiato, spesso proprio grazie alla missione, a investire le loro capacità nella propria terra, senza restare a Nairobi o emigrare negli Stati Uniti. Certo, il Paese sta ancora vivendo momenti duri e fatica a riprendersi dopo due anni di siccità seguiti da devastanti alluvioni, il tutto aggravato da una crisi di leadership politica. La povertà e il disagio aumentano, soprattutto per chi cerca di vivere con il proprio lavoro (spesso malpagato). Nello stesso tempo l’abitudine delle famiglie di esigere aiuto dai propri parenti salariati minacciando antiche maledizioni, scoraggia i giovani dal ritornare nella propria terra. Anche per affrontare queste difficoltà e cambiare la situazione, sarebbe bello che i giovani preparati tornassero a investire le capacità acquisite nelle proprie terre.

Festa della Pace. Messa sul antico altare di pietraincastrato tra due rami di un albero.La pietra è stata posta da padre Pietro Davoli negli anni ’70 e usata come altare. La pianta crescendo ha inglobato la pietra dell’altare.

Un messaggio ai lettori

«Ai lettori di MC – riprende monsignor Pante – direi: I  missionari che un tempo avete mandato in Africa stanno per morire, sono vecchi. Avete seminato con la vostra bontà, con la vostra preghiera, con il vostro aiuto in Africa, in Asia in tanti paesi. Quello che avete seminato rende frutto e ne riceverete anche voi i benefici perché queste Chiese sono un po’ il vostro vanto.

Il problema è che adesso, lo vedete voi stessi, dovete aiutare la missione qui in Italia, perché stiamo perdendo i valori di una volta. Ora è il tempo della missione dei laici che adesso devono svegliarsi. I preti non ci sono più e dovete voi essere missionari, riscoprire la vostra fede, andare a messa la domenica, educare i vostri figli, insegnare a pregare, non solo a divertirsi, altrimenti la nostra Chiesa antica muore, questa fede la perdiamo.

Grazie a Dio avete aiutato le Chiese dell’Africa, dell’America Latina e ora sono quelle che vi aiutano.

Come istituto, per esempio, noi vediamo già il vantaggio di avere avuto le missioni: oggi siamo per più di metà non italiani. Gli istituti che non hanno avuto missioni muoiono.

Fa tristezza vedere come nella mia Italia dove sono nato, dove ho vissuto la mia fanciullezza, adesso si bestemmia e si pensa soltanto a divertirsi.

Va bene, la vita è difficile, certo ci sono problemi, i salari sono bassi, però ci manca la fede che una volta era l’elemento di forza. Sono i laici che devono testimoniare questo, cominciando dalla famiglia. Se la famiglia è debole il problema si ingigantisce. I giovani hanno paura di sposarsi, di prendersi responsabilità, di soffrire. Bisogna buttarsi nella vita, non aver paura di soffrire.

Per cui, se da una parte io vado in Africa perché voglio morire laggiù, dall’altra mi sento un vigliacco. In Europa non mi sento capace, è troppo difficile».

Gigi Anataloni
(2 – fine)


La prima parte: Virgilio Pante, vescovo emerito. Guardiano della pace  su Mc 07/2024

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ORDINAZIONI: 6/7/2013

 




Maralal. Servire con «gioia»


Una storia da uomo tranquillo, ma costantemente in ricerca. Il che lo mette di fronte a scelte importanti. Un passo dopo l’altro diventa missionario, poi, con la forza della mitezza, continua il suo servizio a vari livelli. E non smette mai di formarsi. Fino a quando papa Francesco lo chiama.

La diocesi di Maralal occupa una superficie di 20.800 chilometri quadrati, di territorio in prevalenza desertico. Vi sono alcune montagne, sulle quali le precipitazioni rendono il clima un po’ più umido e la zona più arborata. In questo lembo di terra nel centro Nord del Kenya vivono diversi popoli, in prevalenza allevatori nomadi: Samburu, Turkana, Pokot, Rendille, Gabbra, a cui si sono uniti, specialmente nei centri principali, Somali, Kikuyu, Luo e Akamba.

Una diocesi relativamente giovane, creata nel 2001 scindendo in due quella di Marsabit. Le uniche cittadine sono l’omonima Maralal, Wamba e Baragoi. Il primo vescovo è stato monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata, uomo molto attivo e presente sul territorio. Nel luglio scorso papa Francesco ha nominato padre Hieronymus Joya (pronuncia: gioia), 57 anni, come successore di monsignor Pante. Il 22 ottobre monsignor Joya è stato consacrato.

Pure lui missionario della Consolata, è originario della diocesi di Bongoma, nell’Ovest del Kenya, in particolare di un villaggio, Asinge, a pochi chilometri dalla frontiera con l’Uganda. Ha un parlare pacato e riflessivo il neo vescovo, che raggiungiamo telefonicamente. Si rivela subito molto disponibile.

«Vengo da una famiglia molto cattolica», ci dice, «i miei nonni ebbero difficoltà a essere battezzati, perché durante il periodo coloniale non c’erano missioni nella nostra zona, quindi dovettero andare nella vicina Uganda. Poi i coloni decisero che la gente non poteva più passare la frontiera liberamente. Così il mio villaggio fu unito alla parrocchia di Kakamega, a circa 100 km da casa. I miei genitori furono battezzati lì. In seguito, nel 1926, fu aperta una parrocchia a Nangina, a circa 50 km dal nostro villaggio. Si andava a piedi, e talvolta occorrevano quattro settimane per andare, restare per il catechismo e poi tornare».

Nel 1948 alcuni missionari aprirono la missione di Chakol, a sette km dal villaggio. Una parrocchia ancora attiva oggi.

Monsignor Joya ci racconta che fu lì a Chakol che partecipò al catechismo e poi divenne chierichetto quando frequentava la scuola primaria. Durante l’ultimo anno il parroco chiese a lui e agli altri bambini se fossero interessati a proseguire gli studi nel seminario minore.

«Nel dicembre 1981 feci domanda con altri quattro chierichetti. Passammo un colloquio, così nel 1982 iniziammo il seminario. Avevo passato il test anche in tre scuole pubbliche, ma scelsi il seminario: forse si può dire che è qui che comincia la mia vocazione».

Il neovescovo ci racconta un aneddoto famigliare: «Anche mio padre aveva fatto il seminario, ma non aveva potuto continuare, perché era l’unico maschio di cinque figli, quindi i suoi genitori preferirono che restasse a casa per occuparsi delle questioni di famiglia. Le figlie, nella tradizione, si sposano e lasciano la famiglia di origine. Così mio padre dovette lasciare il seminario. Poi si sposò e nascemmo noi, tre sorelle e cinque fratelli».

E, sospirando, aggiunge: «Penso che sia stata la volontà di Dio, che uno dei suoi figli diventasse prete. E sono stato scelto io».

Dopo la messa con le donne di Azione Cattolica s Maralal.

La chiamata

Poi ci racconta il suo primo incontro con i missionari della Consolata: «Nel 1985 eravamo in seminario, e, con i compagni, andavamo a leggere nella biblioteca. Padre Luigi Bruno della Consolata, portava la rivista The Call, e noi la leggevamo con interesse. Era il direttore vocazionale della Consolata. Noi eravamo curiosi. Gli scrivemmo una lettera per capire meglio chi fossero questi missionari della Consolata. Lui ci rispose, ma la sua lettera fu intercettata dal rettore del seminario che ci chiese perché avevamo scritto alla Consolata e se, quindi, avevamo rinunciato a diventare diocesani».

Alla fine del periodo di studi, la scelta di fronte al giovane Joya era tra continuare per due anni la scuola superiore e diplomarsi, oppure andare in seminario a studiare teologia. Ma i suoi genitori gli dissero che non avevano abbastanza risorse e che avrebbe dovuto trovare un lavoro per aiutare a pagare gli studi alle sorelle e ai fratelli più piccoli. Nel frattempo, padre Bruno lo aveva invitato al seminario di Kisumu per una settimana di conoscenza per aspiranti missionari. Hieronymus riuscì a parteciparvi, ma poi dovette scegliere il lavoro.

Alla St. Theresa Secondary School

La strada in salita

«Andai a Kisumu, da uno zio, e iniziai a lavorare in una stazione di benzina. In questo modo misi da parte dei soldi e mi pagai il college, dove studiai marketing e strategie di vendita. Continuai gli studi anche grazie a un insegnante che mi pagò la metà dei costi d’iscrizione. Una volta finito, nel 1987, trovai subito lavoro come contabile in un hotel».

Il giovane Hieronymus non aveva problemi a trovare lavoro. Ne cambiò parecchi passando dall’ufficio vendite di una assicurazione alla gestione di un progetto che portava l’acqua potabile nella sua zona.

Intanto padre Bruno continuava a scrivergli e nel 1989 lo invitò a visitarlo a Langata, nella periferia di Nairobi, dove gli aspiranti missionari della Consolata studiano. «Andai a visitare padre Bruno, che mi disse che se l’ostacolo era finanziario, non avrebbe chiesto nulla alla famiglia. Lui avrebbe potuto aiutarmi per fare la formazione con la Consolata».

Visita a Baragoi, incontro alal grotta della Madonna.

Il bivio

«Quando tornai a casa, si era creata un’opportunità: la Henkel oil company, cercava un responsabile delle vendite per tutta la regione Ovest del Kenya. Feci il colloquio e lo passai.

A quel punto il bivio era chiaro: andare alla Henkel o entrare dai missionari della Consolata? Andai un po’ in crisi. Ne parlai con mio padre e lui disse: «Sei tu che devi scegliere, ma parla anche con tua madre». Anche lei mi disse che la decisione era solo mia. Così io decisi di andare al corso di orientamento della Consolata, che si teneva nel marzo 1990. Dopo l’orientamento fui invitato al seminario della Consolata per iniziare ad agosto».

Così l’esperto di vendite e marketing affrontò gli studi di filosofia e poi il noviziato tra il ‘93 e il ‘94. Fece la sua professione religiosa ad agosto di quell’anno e completò gli studi di teologia nel 1998. Nel frattempo era diventato diacono e venne ordinato sacerdote il 5 settembre 1998 nella sua parrocchia a Chakol. La sua prima missione fu a Loyangalani, cittadina sul Lago Turkana nel grande Nord, allora nella diocesi di Marsabit.

L’Italia a piedi

Monsignor Joya ricorda con fierezza la prima esperienza in Italia: «Nel 2000 andai in Italia per la celebrazione del Giubileo. Un gruppo di Lamon (Belluno), paese di monsignor Pante, aveva chiesto un sacerdote per essere accompagnato in un pellegrinaggio a piedi da Lamon a Roma. Percorremmo 650 chilometri in tre settimane». Fu durante quel soggiorno in Italia che poi andò a Torino, a visitare i luoghi storici del beato Allamano e il santuario della Consolata. Al ritorno in Kenya, divenne parroco a Loyangalani e fu chiamato da monsignor Ambrogio Ravasi a fare parte del consiglio presbiterale della diocesi di Marsabit.

In seguito, dal 2003, fu superiore del seminario filosofico della Consolata a Nairobi. A fine 2007 lo troviamo responsabile del centro pastorale di Maralal, che lasciò nel 2009 perché eletto vice superiore regionale (lavorando con padre Franco Cellana, superiore) e, dal 2011 al 2016, divenne superiore regionale dei missionari della Consoalta di Kenya e Uganda. Ritornato poi come formatore al seminario filosofico di Langata, ricevette l’incarico dal consiglio generale di valutare e preparare la nuova apertura in Madagascar, avvenuta nel 2018.

Riprese pure gli studi, portando a termine un dottorato di ricerca in pastorale. «La mia missione è stata nel Nord del Kenya, con i nomadi, e a Nairobi, per gli studi. Speravo, dopo il dottorato, di poter andare via da Nairobi e dal Kenya, ma… il santo padre mi ha riportato dai nomadi», dice il monsignore, chiudendo con una risata.

Una diocesi desertica

Oggi la diocesi di Maralal conta 15 parrocchie, alcune con un’estensione molto vasta. Ad esempio, a Wamba ci sono 28 cappelle sul territorio parrocchiale. Ci sono 25 preti diocesani e dieci missionari, di cui quattro della Consolata. Sono presenti anche diverse congregazioni di suore.

Monsignor Joya conosce bene il territorio e ci descrive le sfide principali con le quali dovrà misurarsi.

«Una delle sfide principali è il clima. La zona è desertica, con mancanza cronica di acqua per uomini e animali, a eccezione delle zone di montagna. C’è una stagione delle piogge, ma nella zona arida non piove quasi mai. Una situazione che crea conflitti tra comunità, in particolare tra gruppi di allevatori, che sono la maggioranza. C’è una vera lotta per l’acqua: a volte quella che viene usata è presa da torrenti, e non è pulita. Anche scavare pozzi è impegnativo, perché spesso si trovano falde di acqua salata e allora bisogna scavare a grandi profondità.

Un altro problema sono le strade. La sola strada asfaltata è attualmente quella che porta a Maralal città. Le altre sono pessime, talvolta impossibili da percorrere. A questo si aggiunge la difficoltà di comunicazione. In alcune zone si riesce a telefonare con i cellulari, ma nella maggior parte del territorio non c’è copertura.

E poi la mancanza di elettricità: a parte i centri principali, come Maralal e Wamba, dove arriva la rete nazionale, molte missioni devono usare sistemi solari o generatori.

I conflitti tribali si sommano a quelli per l’acqua e per i pascoli. Sono frequenti i furti di animali tra i gruppi. Questo causa molti problemi tra le comunità, lotte e uccisioni (come quella riferita a p. 5 di questo numero, ndr)».

A Suguta Marmar.

Territorio ad gentes

Nel territorio diocesano, che conta circa 350mila abitanti, i cattolici superano i 100mila, seguiti dai protestanti evangelici. I musulmani sono pochi, circa duemila. La maggioranza della popolazione segue le religioni tradizionali, anche quando sono battezzati. «Per questo motivo, ci spiega mons. Joya, possiamo dire che si tratta ancora di una zona di prima evangelizzazione, ad gentes».

Una delle sfide del vescovo è quella di creare altre parrocchie per servire la gente e ridurre la difficoltà dei preti nel coprire grandi distanze: «Non abbiamo risorse per supportare le parrocchie – ci dice -. E anche le altre istituzioni per l’educazione, la salute, hanno bisogno di fondi.

La diocesi ha due scuole secondarie per ragazze, che funzionano bene, due per ragazzi, il seminario minore, due scuole primarie. La maggioranza delle altre scuole primarie e secondarie sono state iniziate dai nostri missionari, ma sono passate al governo, e molte hanno dei problemi: mancanza di insegnanti, edifici deteriorati, materiali didattici insufficienti. Inoltre, molti insegnanti non vogliono andare a lavorare in aree rurali così sperdute».

La Chiesa ha anche una buona presenza nel settore sanitario: «In ogni parrocchia c’è un dispensario o un centro di salute, e c’è un grande ospedale della diocesi a Wamba, che attualmente ha diversi problemi perché mancano soldi per farlo funzionare, per pagare il personale, comprare le medicine. È il più grande di tutta diocesi. Il secondo, gestito dallo stato, è a Maralal, anch’esso non funziona molto bene per mancanza di risorse».

I progetti del vescovo

Con il vescovo Virgilio Pante a Barsaloi presso la statua della Consolata samburu

Il nuovo vescovo ha entusiasmo e tanti progetti per la diocesi: «Voglio continuare nel solco del cammino aperto dal vescovo Pante. Lui ha lavorato affinché le strutture della diocesi funzionassero bene e fossero organizzate.

Poi vorrei migliorare le strutture di gestione e amministrazione delle istituzioni della diocesi, e fare un piano su come rivitalizzare quelle che non funzionano, che possano iniziare a fornire servizi di qualità, e amministrarli correttamente.

Un altro programma è sviluppare collegamenti con i finanziatori, alcuni dei quali erano presenti sul territorio, ma poi, a causa di alcune difficoltà, hanno interrotto il supporto. Ad esempio, c’erano medici specialisti che venivano ad aiutare nell’ospedale di Wamba, ma ora non vengono più. Vorrei ricontattare le organizzazioni non profit, nazionali e internazionali che avevano programmi nella diocesi, per convincerle a tornare.

È mia intenzione chiamare congregazioni di donne e uomini, per venire a fornire servizi alle persone nelle zone più difficili».

Grazie forse alla sua formazione, il vescovo è molto sensibile alla sostenibilità economica: «Vorrei utilizzare alcune specificità delle istituzioni per produrre reddito che possa servire a tutta la diocesi». Senza dimenticare la formazione per gli agenti di evangelizzazione: i catechisti, i laici, i preti, i membri del consiglio pastorale diocesano, ma anche delle associazioni cattoliche, perché «ce ne sono molte, di donne, di giovani, in favore dei bambini in difficoltà».

Monsignor Joya sottolinea anche l’importanza del programma di animazione vocazionale, per stimolare nuove vocazioni missionarie.

Marco Bello

Nella missione di Lodokejek.




Anche le capre sono parte del gregge


In Kenya dal 1972. Diventa vescovo della nascente diocesi di Maralal nel 2001. Nella chiesa abbandonata di Kawap, segnata dal conflitto tra Samburu e Turkana, comprende quale stile dare al suo mandato: dialogo e riconciliazione. Tra battute di spirito e aneddoti, la chiacchierata con monsignor Pante sulla sua vita missionaria prende quasi il gusto di racconti biblici.

È il 26 novembre 2015. Papa Francesco celebra la messa nel campus dell’Università di Nairobi, Kenya. Sul capo porta una mitria di pelle di capra fatta dalle mani di una donna samburu. Gli è stata donata in aprile, a Roma, dal vescovo della diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, zona abitata da comunità di pastori. Quel vescovo è monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata, la donna samburu è Lydia Letipila, di Baragoi.
Incontriamo mons. Pante nella redazione di MC. È impossibile non accorgersi del suo arrivo: la sua voce risuona allegra mentre narra storie e aneddoti con un marcato accento trentino. Gli chiediamo di poterle raccogliere per trasmetterle ai nostri lettori, e lui inizia proprio dalla mitria.

Racconta che quando l’ha data al pontefice, Francesco l’ha annusata e ha detto: «Questa non è pecora, ma capra!», e che lui gli ha risposto: «È vero, ma anche le capre sono parte del gregge».

In Kenya, a novembre, mons. Virgilio ha occasione di parlare due volte con il Papa. Racconta: «All’arrivo all’aeroporto, “Ti avevo regalato una mitria, dov’è?”. “Domani la vedrai durante la Messa”. “Bravo, sei promosso”», e aggiunge: «Tutti mi guardavano. Non si parla così a un Papa. Alla partenza, all’aeroporto gli ho detto ancora: “Guardati la salute e riposati anche. E poi la mitria usala, non solo in Kenya”. “Tranquillo”, mi ha risposto», e conclude: «Sono stato un po’ sfacciato? No, mi sentivo come davanti a un papà buono. All’inizio della messa, io ero vicino all’altare, Francesco mi ha fatto l’occhiolino e il vescovo accanto a me se n’è accorto, invidioso!».

Da Belluno a Maralal

Nato nel 1946 a Lamon, Belluno, padre Virgilio Pante arriva in Kenya nel 1972. Inizialmente nella diocesi di Nyeri, dove studia la lingua kikuyu. Poi, nel ‘73, nella diocesi di Marsabit, al Nord, dove c’è bisogno di un sacerdote.

Dopo 29 anni, nell’ottobre del 2001, diventerà vescovo della nascente diocesi di Maralal, staccata da quella di Marsabit.

La popolazione, ancora oggi, è composta da pastori seminomadi: «Samburu, Turkana, qualche Pokot», ci dice. «Nei centri più grossi, sugli altopiani dove si può fare un po’ di agricoltura, la gente è stanziale. Mentre nelle zone più basse si muove nella savana seguendo le piogge».

La diocesi si estende su un territorio di 21mila km2 (come il Veneto e la Valle d’Aosta messi insieme). Conta 260-280mila abitanti, di cui 60-70mila cattolici. «Il resto sono protestanti, pochi musulmani. Quasi l’80% sono Samburu, quasi il 20% Turkana, il resto Pokot, Kikuyu, Meru, Luo e qualche commerciante somalo».

Uno stile semplice e profondo

Parla molto, mons. Virgilio, ma senza parole di troppo o troppo di circostanza. Il tono è gioviale, spesso ironico. Quando entra nel nostro ufficio per l’intervista, fa finta di essere lui a domandare a noi se possiamo dedicargli un po’ di tempo, e ci chiede il permesso.

Indossa una polo nera sulla quale spicca un crocefisso color acciaio appeso a una semplice catenella.

Il missionario della Consolata non ha difficoltà a parlare di sé e della missione che il Signore gli ha affidato 40 anni fa, e lo fa con la stessa semplicità comunicata dal suo aspetto: facendo trasparire la profondità della sua esperienza attraverso immagini quotidiane che riguardano pastori, mercati, studenti, polvere. Una realtà precisa, una realtà salvata.

Ha barba e capelli bianchi che fanno da cornice a un volto dai tratti marcati e dalla pelle scurita dal sole. Le rughe dei suoi 72 anni agli angoli degli occhi sono un fascio di linee che fanno convergere il nostro sguardo sul suo: azzurro e intenso.

L’arrivo in Kenya

Appena arrivato in Kenya, nel 1972, padre Virgilio compra una moto. «Di seconda mano», ci tiene a sottolineare, e, dopo sei mesi a Nyeri, parte per il Nord, per un mese di vacanza nella diocesi di Marsabit, tra Samburu, Turkana, Borana. «Ho visto le giraffe, i guerrieri, gli elefanti. Quando sono tornato indietro, innamorato del Nord, il superiore, padre Pietro Baudena, viene a Nyeri a trovarmi e dice: “Tu l’hai fatta grossa, da solo con la moto, nel deserto… Ti devo dare un castigo: adesso torna lassù e stacci”». Mons. Pante, sorride: «Bel castigo, eh? Nel Marsabit c’era padre Giuseppe Inverardi. Era stato spostato al santuario della Consolata a Nairobi, e il vescovo di Marsabit, mons. Cavallera, voleva un sostituto. Padre Baudena ha continuato: “Abbiamo sentito parlare di un certo Pante, che è andato su da solo, in moto, eccetera, che è tornato intero… e allora sono venuto a chiederti la tua disponibilità”». Padre Virgilio arriva nella diocesi di Marsabit nel marzo del ‘73: «Sono andato al Nord per una monellata!», conclude sornione.

Marsabit-Londra e ritorno

Il modo di mons. Pante di raccontare la sua biografia ha qualcosa di biblico, somigliante a un racconto dei patriarchi. I dati di tempo e di luogo sono circostanziati, riguardano la sua persona, ma quello che viene fuori è un grande affresco pieno di simboli, in una visione di salvezza.

È l’affresco di una porzione di mondo e di pochi decenni di missione punteggiato di nomi di confratelli conosciuti e amati.

Nel 1979 padre Virgilio apre il seminario diocesano per i preti locali. Vuole realizzare il progetto al quale si è sentito chiamato: contribuire alla crescita di una chiesa autoctona che prenda, un po’ per volta, a camminare sulle proprie gambe rendendo «superflui» i missionari arrivati da fuori. «Ho iniziato con due seminaristi. Oggi, nella diocesi di Maralal, abbiamo circa una ventina di sacerdoti africani su 32 in totale». Padre Virgilio, però, non rimane sempre nel suo Kenya. «Nel 1987, dopo che era stato ordinato il primo prete samburu, mi hanno detto di andare a cercare vocazioni in Irlanda e Inghilterra».

Questa volta il mandato gli sembra un castigo vero, non come quello del ‘73. «Quando sei là in Africa, hai tanta soddisfazione, poi ti mandano a cercare vocazioni. È come annaffiare l’asfalto: cosa cresce? Sono stato tre anni a Dublino e quattro a Londra. Lì ho avuto tempo per aggiornarmi, leggere, girare nelle scuole e predicare nelle chiese. Sono andato all’università per un master di antropologia. Nel ‘94 viene padre Piero Trabucco, allora superiore generale: “Pante, quante vocazioni hai trovato?”. “Padre, per essere sincero, zero. Anzi, le dirò che sto perdendo la mia”».

E così, nel 1994, padre Virgilio torna in Kenya, ma non nel suo Nord: «Padre Canzian, superiore del Kenya, mi dice: “Andrai sul lago Vittoria, a Kisumu, tra i Luo”. Sono stato a Chiga, per due anni. Poi sono stato vice superiore del Kenya, a Nairobi, per cinque anni. Infine, nel 2001, il nunzio apostolico, Giovanni Tonucci, mi chiama: “Sarai il primo vescovo della nuova diocesi di Maralal. Ora non dirmi che non sei all’altezza, che non sei capace, che non sei preparato. Perché nessuno lo è. S’impara. E non dirmi che hai bisogno di una settimana per fare discernimento. No, no. Devi rispondermi adesso. Sappi che se dici di no rattristi il Santo Padre”, Giovanni Paolo II. Allora ho risposto: “E beh, allora va bene!”».

Ministero della riconciliazione

La neonata diocesi di Maralal che lo aspetta ha 12 «missioni», in gran parte con sacerdoti europei. Padre Virgilio, prima della consacrazione, deve scegliere un motto e uno stemma. Allora parte con la moto in cerca d’ispirazione e visita ogni angolo di quel territorio. «E sono rimasto colpito da Kawap, vicino Baragoi. Ho visto la chiesa abbandonata, la scuola distrutta. Lì andavo a celebrare la messa una volta. E ho chiesto cosa fosse successo. “Le battaglie tribali tra i Samburu e i Turkana, per via del bestiame. Il villaggio è stato distrutto e abbandonato”. Mi veniva da piangere e ho detto un Padre Nostro a voce alta: bisognava pregare di nuovo in quella chiesa».

È lì che il missionario capisce quale sarà il tema e lo stile del suo mandato: la riconciliazione. «Se la Chiesa costruisce solo chiese, scuole, istituzioni, e dopo ci sono le guerre che distruggono tutto, sono milioni buttati all’aria. Bisogna puntare sulle persone più che sulle strutture, e fare la pace. Allora ho scelto come motto una frase di san Paolo, seconda lettera ai Corinti: “Dio ci ha affidato il ministero della riconciliazione”. E come stemma? Ho preso Isaia 11: “Quando arriverà il salvatore, porterà la pace, le persone useranno la spada non per uccidere ma per arare il campo, gli animali vivranno insieme, anche il leone, il lupo, l’agnello. Il bambino giocherà con la vipera e non verrà morsicato”. Un leone sdraiato insieme a un agnello. Ecco lo stemma. E dietro di loro il monte Kenya, il monte di Dio».

chiesa di Kawap, interno (2018)

Dialogo, scuola, commercio

Padre Virgilio viene ordinato vescovo il 6 ottobre del 2001 a Maralal. Esattamente tre mesi dopo, nel parco nazionale Samburu, una leonessa adotta un cucciolo di gazzella e stanno assieme per due settimane. «Perciò la gente diceva: “Vedi un po’ cosa è successo. Padre Pante è uno stregone. Quello che ha detto si è avverato”. E mi hanno promesso: “Vescovo, vedrai che d’ora in poi faremo così anche noi. Samburu, Turkana, Pokot staremo insieme, non ci faremo più la guerra”».

Dall’inizio del suo episcopato mons. Pante punta quindi sulla riconciliazione. La Chiesa di Maralal inizia a offrire tre strumenti: occasioni di incontro e dialogo tra tribù, la scuola, il mercato.

Innanzitutto organizza incontri di preghiera e di discussione tra gli anziani dei vari gruppi.

«Le diverse tribù vivono mescolate durante il giorno, ma poi la sera ciascuno va nel suo villaggio. La lingua è diversa. I Samburu sono circoncisi, sia maschi che femmine, mentre i Turkana no. Vivono da tempo insieme, ma poi ci sono scontri, soprattutto per il bestiame. I giovani, per dimostrare che sono forti, una volta uccidevano i leoni, adesso invece rubano, ad esempio le vacche, e uccidono le persone: si mettono un braccialetto per ogni nemico ucciso come segno di valore».

Oltre agli incontri, la Chiesa offre la scuola, «perché l’ignoranza fa molto per la guerra, e l’analfabetismo nella nostra zona è al 75%. Noi puntiamo sulla scuola convitto. Li chiamo “dormitori della pace”. Bambini dei Pokot che dormono, mangiano, giocano insieme ai bambini dei Samburu».

Il terzo strumento per la riconciliazione è il commercio: «Abbiamo incoraggiato i mercati intertribali. I Pokot hanno pecore e capre buone e sane. I Samburu fagioli, patate, tabacco, coperte, zucchero, sale. E scambiano. Una regola è che al mercato nessuno può portare il fucile. Purtroppo tutti hanno il fucile. Al mercato però non si portano le armi. Il mercato crea relazione. Ho visto un cambiamento enorme negli ultimi anni. Quindici anni fa era inconcepibile un mercato così: se tu, Samburu di Porò, vedevi un Pokot, gli sparavi, come si spara a una gazzella. Si sparava a vista. Oggi invece un Pokot può entrare a Porò, fare il mercato, andare al dispensario per le medicine. All’inizio tutti mi prendevano in giro: “Ma lasciali stare i Pokot che sono come i babbuini, selvatici. Lasciali perdere, sono solo capaci di fare la guerra”. E io dicevo loro: “Volete vincere il nemico? Ci sono due strade: o lo combatti con le armi – ma, scusa, sono più forti di noi i Pokot -, oppure te lo fai amico. Se tu fai amico il tuo nemico, l’hai vinto, no?”».

Contro la politica dell’odio

«Ultimamente tra Samburu e Pokot c’è una buona relazione. Tra Samburu e Turkana, a Baragoi, invece c’è ancora un po’ di attrito», mons. Pante si prende il volto tra le mani in un gesto a metà tra la tristezza e la certezza della pace possibile. «Lì c’è di mezzo anche la politica. Per esempio ultimamente sono state rubate un migliaio di vacche. Che fine fanno? Le portano giù, nella valle di Suguta, e poi qualcuno va a prenderle con i camion per venderle a Nairobi. Non è più rubare due o tre capre per mangiare o comprarsi la moglie. C’è di mezzo anche la politica. Comunque», aggiunge per dare forza alla speranza che vuole comunicare, «la gente capisce che la guerra non porta niente di buono». E a questo proposito mons. Pante fa l’esempio di due ex parlamentari della sua diocesi, apertamente razzisti e sostenitori dei conflitti tribali, che alle ultime elezioni sono stati battuti da due donne favorevoli al dialogo e alla pace. «Uno era un giovane deputato di Maralal, conosciuto perché incitava i Samburu a combattere contro i Turkana, l’altro distribuiva addirittura le armi. Ma la gente è stufa di guerra».

Una Chiesa in transizione

Monsignor Pante ci parla anche del cambiamento che sta avvenendo nella Chiesa: la chiesa locale cresce, non solo nel numero, ma soprattutto nella responsabilità. Per illustrarci quanto dice, ci parla dell’ospedale di Wamba: «Abbiamo iniziato dando tutto gratis. Adesso però non ci sono più bianchi e nemmeno le offerte dall’Europa. La gente si aspetta ancora di essere aiutata al 100 per cento, però adesso bisogna dirle: “Non ci sono più i bianchi e i soldi che arrivano dall’estero. Dovete aiutare voi. Se venite all’ospedale dovete pagare qualcosa, no?, altrimenti le medicine chi le compra, chi paga le infermiere?”. C’è questa crisi, non solo per l’ospedale di Wamba. In generale cerchiamo di dire: “La Chiesa siete voi, i missionari hanno fatto il loro lavoro, sono vecchi decrepiti, non ce ne sono più, la chiesa è vostra”. Il clero c’è, vocazioni ce ne sono. Però, per la parte economica, la gente oggi deve contribuire. Io tra tre o quattro anni lascerò perché arriverò ai 75. Il prossimo vescovo probabilmente sarà africano. Che non debba dire: “Ecco, il mio predecessore vi dava tutto gratis, adesso io sono in difficoltà, i missionari vi hanno educato male”. No. Non vogliamo questo. I preti africani hanno un altro approccio. Quando la gente vede un prete con la pelle nera, dice: “Beh, questo è come noi, dobbiamo aiutarlo. Non ha la benzina per andare a dire la messa, diamogli la benzina. Cosa mangia?”, allora vedi che all’offertorio portano farina, fagioli, galline. È bello. Questo con noi non succedeva. Si aspettavano che fossimo noi ad aiutare loro. Adesso la cosa cambia. C’è un cambiamento positivo. La Chiesa inizia a sostenersi da sola».

Il carisma della Consolata

La prossima estate mons. Pante ordinerà un nuovo sacerdote locale. Più avanti, «se Dio vuole», altri tre. Anche la provenienza del clero locale è segno del cammino di riconciliazione nella diocesi di Maralal. Sono preti samburu, turkana, pokot, kikuyu. Ci sono giovani locali che diventano anche missionari. Il vice superiore generale dei missionari della Consolata, ad esempio, è un Samburu, padre James Lengarin.

Parlando dei suoi confratelli missionari, mons. Pante conclude con una riflessione sulla Consolata: «Il carisma della Consolata, la consolazione, è portare Gesù prima di tutto. Portare un Gesù che guariva le folle, che dava da mangiare. Noi lavoriamo ancora così. La Consolata è la fondatrice della diocesi di Marsabit da cui poi Maralal è stata staccata. Però adesso il nostro tempo finisce. Abbiamo solo quattro centri che presto saranno consegnati al clero diocesano. E noi andremo in un altro posto. Andremo ad aprire altre missioni, cominciando da zero altrove. Il nostro carisma è cominciare da zero, non stare lì sempre. È incominciare e poi andare, muoversi».

Per finire mons. Pante torna al 1972, come per chiudere un cerchio: «Agli esercizi spirituali del 1972 a Nyeri eravamo 80 sacerdoti: tutti bianchi. Adesso, vai a fare gli esercizi spirituali: sono tutti africani, eccetto cinque o sei vecchietti europei. Ecco come è cambiata la missione in quarant’anni. Ecco, i missionari della Consolata africani sono il nostro futuro. I primi saranno gli ultimi, gli ultimi primi».

Luca Lorusso

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