Taita Agustín
Lo scorso novembre è mancato a Manizales, in Colombia, un missionario amante dei monti, della natura, della gente e soprattutto del Creatore e Signore di tutto. Un ricordo personale da un confratello che è vissuto tanto con lui.
Bogotá, gennaio 1992. Non erano passate ancora ventiquattr’ore dall’arrivo a Bogotá, che già i miei genitori si sentivano un po’ persi e disorientati. L’inevitabile «jet lag» li faceva appisolare anche se erano le undici del mattino, ma soprattutto c’era un altro continente sotto i loro piedi e, in più, mia mamma faceva fatica a respirare.
«È un tipico sintomo del mal di montagna, normale ai 2.500 metri di altezza di Bogotá», aveva sentenziato un missionario veterano del luogo. Il problema era stato rapidamente risolto con una tazza di tè di coca che mia mamma aveva bevuto senza nascondere una certa preoccupazione.
All’ora di pranzo al tavolo con loro si era seduto padre Agostino Baima. «Non si può venire in America e in Colombia senza conoscere Bogotá. Qui vedrete sintetizzate tutte le contraddizioni che incontrerete nelle prossime settimane quando andrete con vostro figlio in Amazzonia. Qui abbiamo persone provenienti da ogni zona del paese e vi renderete conto di come vivono nella città. Questo pomeriggio vi lascerò riposare un po’ e poi alle 15 partiamo. Vi porto io a fare un giro». Il piano era fatto, non c’era possibilità di discuterlo.
All’ora prevista ci siamo imbarcati tutti sulla sua Daihatsu, non particolarmente grande né comoda, e lui, prima ha preso la rotta verso il Sud, con le sue baraccopoli, la sua povertà, il suo disordine, fino a raggiungere i quartieri nel margine sudorientale della città abbarbicati a un’altezza superiore ai 3.000 metri, là dove la folle e disordinata urbanizzazione era in quel momento in piena effervescenza. E poi, con tutta la velocità che si poteva spremere dal povero veicolo, ci siamo diretti verso Nord per godere dei quartieri signorili, delle «gated communities» e dei primi centri commerciali che stavano sorgendo in quegli anni. Tutta una metropoli visitata a volo di uccello, o meglio, di Daihatsu.
Quando la sera ho potuto sedermi tranquillamente con mia mamma e ascoltare le prime impressioni del viaggio missionario che stava appena cominciando, le sue parole sono state: «Quant’è grande questa città, quant’è grande la sua povertà, quant’è ostentata la sua ricchezza, quanto sono grandi i centri commerciali; che incredibile anche la mia stanchezza, ma a tutto questo bisogna aggiungere: quant’è grande il padre Agostino».
E sì, la missione è grande, grazie Taita Agustín1.
Bogotá ottobre 1999
I missionari che stavano partendo per l’Argentina per partecipare al Cam (Congresso missionario americano) erano indaffarati per mettere assieme le loro ultime cose. Il congresso era già arrivato alla sesta edizione e, a causa dei risultati significativi, non si sarebbe più chiamato Comla (Congresso missionario latinoamericano) ma Cam, appunto. Era ora di aprire uno spazio alle chiese del Nord del continente che avevano poco a che fare con le chiese variopinte del Sud. I primi due congressi si erano tenuti in Messico, ma il terzo era stato a Bogotá, e Agostino, forse anche giustamente, si sentiva un po’ come il padre di quell’evento, ormai abbastanza lontano nel tempo ma non nel cuore. «Non possono lasciare a casa i dipinti di Chucho Tobar, dove sono?».
«Ma, padre Agustín, quelli erano stati preparati per il Comla 3 di Bogotá del 1987, dodici anni fa».
«Non importa. Tu non sai quanto abbiamo lavorato per preparare quel Comla. Non eravamo in molti: la missione a quel tempo era ancora marginale, una questione per pochi fuori di testa. Anche se questo è il continente più cattolico del mondo, i cristiani qui pensano ancora di non avere alcuna responsabilità nella missione universale. La nostra animazione missionaria deve sradicare questa convinzione errata. Mai, in nessun Comla, si sono visti dipinti così significativi e missionari. Quello di Bogotá era il “nostro” Comla. Quanto sudore, quanta fatica, quante notti in bianco, quante lotte per convincere tutti di quanto fosse importante per questa ricca chiesa colombiana, con una tradizione missionaria così radicata, farsi carico dell’organizzazione di quell’evento».
Milena, la segretaria del Centro di animazione missionaria, era arrivata trafelata con i preziosi dipinti che aveva alla fine scovato. Quando sono stati aperti davanti a lui, i suoi occhi brillavano e li accarezzava con quelle sue mani forti e scavate da tanto lavoro e impegno.
E sì, la missione è fatta di sudore e passione. Grazie, Taita Agustín.
Licto, anni ’90
La produzione di foto e video per documentare la vita dei popoli che incontrava è un’attività difficile da datare, poiché faceva parte della vita quotidiana di padre Agostino negli anni che ha passato nelle parrocchie di Punín e Licto in Ecuador. Era un metodo semplice e, a suo modo, tecnologico, per dare importanza alle comunità indigene. Senza mai separarsi dalla sua macchina fotografica, che lo accompagnava da anni, Agostino si stava modernizzando ed entrava nel mondo dei video amatoriali. Le attività tradizionali importanti per la vita delle comunità indigene venivano diligentemente filmate, ma quella era la parte più semplice di tutto il progetto. Poi le registrazioni dovevano anche essere mostrate «affinché – diceva – la gente potesse vedersi, come in un film, e scoprire che che anch’essa è importante e che la sua vita merita gli onori della cronaca e della storia».
Creare le condizioni per proiettare i film era la parte più laboriosa, e in questo Agostino aveva investito tutto il suo sforzo e la sua creatività, sempre al passo con l’evoluzione della tecnologia. Quando sono arrivato a Licto per la prima volta, nel vano posteriore della Toyota che lui guidava, entrava su misura un televisore con uno schermo molto grande che non era né sottile né leggero come quelli di oggi. Per resistere agli inevitabili scossoni delle strade non asfaltate, il televisore era conservato in una speciale cassa di legno su misura che lui stesso aveva confezionato e che pesava forse anche di più del televisore che conteneva. Erano necessarie almeno due persone muscolose per trasportarlo grazie a delle apposite maniglie poste alla base della cassa: dopo aver abbassato i sedili posteriori, con precauzione si infilava tutto lì. A questo punto non era nemmeno necessario scaricarlo: si apriva il portellone, si sganciava un lato della cassa, si attaccava un videoregistratore e, grazie a una abbondante serie di prolunghe che permettevano di far arrivare l’energia elettrica dai posti più impensati, lo spettacolo della vita comunitaria era servito. La felicità dei bambini e degli adulti che si riconoscevano nei film di Taita Agustín compensava tutta la fatica.
Dopo la televisione sono arrivati i videoproiettori, pesanti e grandi i primi, più leggeri i successivi, fino ai primi anni del secondo millennio quando la malattia ha allontanato definitivamente padre Baima dall’Ecuador. Tuttavia, quei film, e quel patrimonio di registrazioni, sono stati portati da Agostino a Manizales, e la sua preoccupazione ora era quella di tradurre il tutto dal Vhs ai formati digitali necessari per i computer di oggi. Diceva: «Questo materiale è prezioso e non può andare perso, racchiude una testimonianza della vita della gente che lavora e si impegna».
E sì, la missione la fanno le persone quando osano diventare protagonisti. Grazie, Taita Agustín.
I mille e un orto di tutta una vita
«Sono un contadino, lo sono sempre stato; sono nato in una famiglia povera e numerosa e non lo rinnegherò mai perché è lì che ho imparato a coltivare la terra e a lavorare».
Non ho conosciuto tutti gli orti di padre Agustín, ma ne ricordo almeno tre: all’inizio degli anni ‘90 quello dietro la casa provinciale di Bogotá; alla fine degli anni ‘90 quello di Licto che era di gran lunga il più grande di tutti; dopo il 2015 quello della scuola di Manizales. Questo è stato l’ultimo, e lo ha dovuto abbandonare dalla mattina alla sera, a causa della malattia che gli ha impedito di guidare la vecchia Chevrolet Corsa, la sua ultima macchina che coccolava. A bordo della sua autovettura si presentava nei più improbabili luoghi di Manizales, che negli ultimi anni era ridiventata la sua città, come lo era stata nei primi anni della sua parabola missionaria, quando baldanzoso andava su e giù lungo i crinali del Nevado Ruiz vantandosi delle sue origini alpine.
A Bogotá la sua energia era sufficiente non solo per l’orto ma anche per mantenere tutto il parco pubblico del quartiere di Modelia, che non è piccolo, rasato come il green di un campo da golf. «Lo faccio perché tutti imparino che il pubblico è responsabilità di tutti e altrettanto importante, se non addirittura di più, di ciò che è nostro». A Licto il campo era grandissimo e tutto coltivato a mais: «Non è possibile che tutti i nostri vicini piantino ogni centimetro quadrato di terra perché di quello vivono, e noi trascuriamo e teniamo improduttiva la terra che Dio ci ha dato. Certamente non viviamo di questo, ma dobbiamo lavorare perché siamo come loro, non di una classe diversa, anche se ci chiamano taitamito (papà mio).
L’orto della scuola di Manizales l’ha coltivato fino alla metà del 2019 e l’ha fatto con la stessa determinazione e precisione dei precedenti, anche se gli anni erano passati e la zappa cominciava a pesare. Con la complicità di tutti, a cominciare dalla mia che ero l’amministratore del collegio, i dipendenti incaricati della cura delle aree verdi dedicavano anche un po’ di tempo a raddrizzare le aiole e a rimuovere la terra dell’orto di Agostino.
Veramente, l’orto, che nel suo caso ha attraversato tutte le età della vita, era quasi il sacramento di un servizio comunitario che viveva come qualcosa di indiscutibile, necessario e irrinunciabile. Un servizio per il quale non si è mai considerato troppo vecchio o troppo stanco.
E sì, la missione è servizio per tutte le età. Per tutto questo, grazie, Taita Agustín.
L’ultima barella
Manizales, novembre 2021. Ho molte altre immagini come queste che ricordano momenti che abbiamo vissuto insieme, ma ora voglio ricordare l’ultima, forse la più dolorosa. E lo scrivo come se ti scrivessi una lettera, Agostino.
Ti stavano portando in ospedale legato a una barella e padre Rino Delaidotti mi ha chiamato per vedere se, parlando con me che non vedevi da mesi, potevi distogliere la mente dalle procedure un po’ brusche a cui ti stavano sottoponendo. A dire il vero non sapevo nemmeno cosa dirti. Mi sarebbe piaciuto rivederti e poi avevo promesso a tua sorella che quando fossi tornato in Colombia ti avrei portato quel salame che ti aveva promesso. Ma te ne sei andato prima che arrivasse il salame. Sono in debito con te, dovremo mangiarcelo nel Regno. Eppure, pensandoci bene, a quella barella era legata la missione quasi come alla croce era legata la vita. Così come la vita non fu sconfitta dalla croce, vedendo te, credo che nemmeno una barella abbia potuto sconfiggere la missione in te. Non so come sarà la tua vita d’ora in avanti, ma so che sarà certamente missione.
E sì, la missione è per sempre, quindi Kaya kama2, Taita Agustín.
Gianantonio Sozzi
- Taita: papà (espressione infantile tipica in molti paesi dell’America Latina).
- Kaya kama: in quechua, lett. «fino al mattino», «a domani» e anche «buona notte».
Agostino Baima nasce il 26 dicembre 1939 nella frazione di San Firmino a Ciriè, provincia di Torino, ultimo di quattro figli. Nel 1950, dopo l’incontro con un missionario proveniente dal Kenya, chiede di entrare nel seminario dei Missionari della Consolata ed è accolto a Benevagienna (Cn). Frequenta poi il liceo a Varallo Sesia (Vc), e nel 1959 entra in noviziato alla Certosa di Pesio (Cn) dove emette la professione temporanea il 2 ottobre 1960.
Compie gli studi filosofico teologici a Torino e si impegna per la missione con la professione perpetua il 2 ottobre 1963.
Il periodo 1964-1970 è un tempo di grave malattia e lento recupero; per questo passa alcuni anni nella quiete della Certosa di Pesio come aiuto all’economo.
Il 7 febbraio 1971 i novizi in festa partecipano al suo mandato missionario, e parte per la Colombia, dove conclude gli studi teologici. L’8 aprile 1973 è ordinato diacono a Bogotà dal card. Munoz Duque e il 18 novembre 1973, sempre a Bogotà, mons. Pablo Correa León lo ordina sacerdote. Passa il 1974-1975 come viceparroco nella parrocchia dove c’è il seminario teologico, di cui è il vicedirettore. Dal 1975 al 1980 si dedica all’animazione missionaria a Manizales. Trasferito a Bogotà, dal 1980 al 1985 svolge il servizio di direttore di animazione missionaria vocazionale in tutta la Colombia, e accetta l’incarico di presidente della commissione missionaria della Conferenza dei religiosi.
Dal 1984, per tre anni svolge anche il compito di consigliere regionale IMC e dal 1985 al 1987 è superiore del seminario filosofico. Poi dal 1988 al 1992 serve come direttore del Centro di animazione missionaria a Modelia, Bogotà.
Nel 1992 viene inviato in Ecuador, dove fino al 1995 è viceparroco a Punín e poi è trasferito a Licto dove rimane fino al 2003. Tra il 1996 e il 1999 è di nuovo consigliere regionale.
Nel 2003 vive un nuovo periodo di malattia e convalescenza tra Colombia e Italia. Rimessosi, nel 2004 viene mandato al santuario della Madonna di Fatima a Manizales, dove rimane fino all’ultima chiamata, il 24 novembre 2021. È sepolto a Manizales.
Slideshow di alcune (pochissime) foto di padre Agostino Baima