Africa dell’Ovest. Salvatori della patria?


La crisi sociale si fa sentire in Africa dell’Ovest. E il malcontento della popolazione verso chi governa aumenta. Così i militari tornano in auge, prendono il potere con la forza. E la gente, per ora, applaude. Sarà il declino della democrazia nell’area?

L’Africa Occidentale non fa molto notizia in questi tempi. Eppure, nei suoi 5,12 milioni di km2 (17 volte l’Italia) abitano circa 400 milioni di persone. Dell’area fanno parte i paesi del Sahel (Senegal, Gambia, Mali, Burkina Faso, Niger), zona climatica semi arida, cerniera tra il Sahara e la fascia più umida, e i paesi della costa (Guinea-Bissau, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria).

Tutti insieme fanno parte della Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (acronimo Cedeao in francese o Ecowas, inglese), che è un accordo economico regionale. Ha pure una parte di cooperazione sulla sicurezza, l’Ecomog (Economic community of West african states monitoring group). L’Ecomog prevede, tra l’altro, in casi specifici, l’invio di forze militari di interposizione nell’area.

Tra la metà del 2020 e il gennaio 2022 si sono verificati quattro colpi di stato in tre paesi della regione. Le giunte militari che hanno preso il potere e avviato transizioni in regime speciale, hanno tutte dichiarato di voler riportare i paesi a elezioni democratiche. Gli stati interessati sono: Mali, Guinea e, per ultimo, Burkina Faso. Tutti e tre sono stati sospesi dalla Cedeao e il primo è stato sottoposto a embargo e sanzioni.

Vista la concomitanza di questi eventi, ci sembra importante fare il punto sui fatti accaduti e sulle loro conseguenze, senza la pretesa di essere esaustivi. Gettiamo uno sguardo sull’area per fare emergere le tendenze comuni dei singoli colpi di stato, e gli elementi di originalità di ciascuno.

Mali

È il 18 agosto 2020 quando un gruppo di militari, comandati dal colonnello Assimi Goïta, mette bruscamente fine alla presidenza di Ibrahim Boubakar Keita, detto Ibk. Anche in Mali il gruppo di potere è stato fortemente contestato e accusato di corruzione, in particolare dopo le legislative di aprile (ne abbiamo parlato in MC novembre 2020). Le manifestazioni di piazza sono state represse dalle forze di sicurezza, che hanno lasciato sul campo morti e feriti. È stato in particolare il Movimento 5 giugno – Raggruppamento delle forze patriottiche (M5-Rfp), a guidare il dissenso: una convergenza di elementi della società civile e partiti di opposizione.

I militari hanno approfittato di questo slancio popolare per realizzare il colpo, battezzandosi Comitato nazionale di salute del popolo (Cnsp).

È bene ricordare che il Mali, dal 2012, vive una guerra interna contro i movimenti indipendentisti e jihadisti nati nel Nord del paese, anche a causa di influenze straniere dell’islam radicale, e propagatisi nel centro prendendo una rischiosa piega di tipo etnico. Conflitto che vede l’intervento esterno francese nel gennaio 2013, poi affiancato dalla presenza di un contingente di caschi blu dell’Onu (Minsuma), una delle missioni con maggiori perdite tra gli effettivi (cfr MC giugno 2017). Nel 2015 sono stati firmati degli accordi di pace tra il governo e una parte dei gruppi in conflitto.

La giunta, che prende il potere nell’agosto 2020, sotto pressioni della Cedeao e in negoziazione con M5-Rfp, insedia un presidente civile Bah N’Daw (ex militare ed ex ministro in pensione) e un primo ministro civile, Moctar Ouane, per il governo di transizione. Goïta, che rimane l’uomo forte, mantiene la carica di vicepresidente.

(Photo by Issouf SANOGO / AFP)

Golpe su golpe

Qualcosa si incrina quando, nel maggio 2021, il primo ministro pensa di cambiare i due responsabili dei dicasteri chiave di difesa e sicurezza. La giunta reagisce il 24 maggio, facendo arrestare presidente e primo ministro di transizione e imponendo altri due militari come ministri. Si parla di secondo colpo di stato, questa volta contro le istituzioni di transizione, quindi non democratiche. Di fatto è un ribadire, chi comanda effettivamente nel paese, già in stato di emergenza.

«Sembra che la Francia avesse fatto pressioni sul governo per cambiare questi due ministri e metterne due più favorevoli alla propria politica. I due licenziati avevano studiato in Russia e stavano interagendo per creare una relazione con quel paese. È stata un’operazione un po’ maldestra», ci dice un cooperante che da anni vive nel paese saheliano.

Già da un po’ di tempo Goïta stava percorrendo la pista russa, nell’ottica di avere militari (o miliziani) in grado di realizzare anche lavori «sporchi». La tendenza è quella di sostituire l’appoggio militare dell’ex colonizzatore francese, in un certo senso fallimentare, con quello russo.

Allo stesso tempo già dal 2019, la Francia, per ragioni anche interne, aveva optato per un disimpegno sul terreno (ritiro graduale della missione Barkhane con 5mila uomini e mezzi), promuovendo la creazione della Task force Takuba (estate 2020), una forza a base di militari della Unione europea (tra cui da marzo 2021 un contingente italiano di circa 200 uomini con elicotteri), con compiti di consulenza e assistenza.

Colonello Assimi Goita in conferenza stampa, Mali, 19 agosto 2020. (Photo by MALIK KONATE / AFP)

Via i colonialisti

Nel paese il sentimento antifrancese, che sempre cova sotto le ceneri, era cresciuto già nel periodo della presidenza Ibk, accusato di essere troppo sottoposto agli interessi transalpini. Il potere golpista ha poi iniziato un’operazione di propaganda, puntando sull’identità maliana, per spingere questa dinamica di intervento dei russi.

Secondo fonti di Radio France internationale (Rfi), nel gennaio di quest’anno, uomini del gruppo Wagner avrebbero già preso possesso della base militare di Tombuctu, lasciata dai militari francesi, anche se il governo maliano continua a negare. Wagner è una milizia di mercenari russi, vicina al Cremlino, della quale si è parlato per la prima volta a livello internazionale nel 2014, per il suo appoggio ai separatisti del Donbass, in Ucraina. Il gruppo Wagner, in Africa, è già presente in Repubblica Centrafricana (cfr Mc maggio 2021), Nord del Mozambico, Libia e, pare, in Sudan (torneremo prossimamente su Wagner con un approfondimento).

La tensione tra le autorità di Bamako e quelle di Parigi aumenta. Il 31 gennaio di quest’anno l’ambasciatore di Francia viene espulso dal paese. Stessa sorte era toccata al contingente danese della Takuba.

Il ritiro di Barkhane e della Takuba viene deciso. Parte dei militari vengono ricollocati in Niger, lungo la frontiera con il Mali, dopo l’accordo con il presidente nigerino Mohamed Bazoum, avvenuto a metà febbraio di quest’anno.

«Sono stati visti militari bianchi, con la divisa russa. Ufficialmente non ci sarebbero, ma qualcuno di loro, ferito, è già stato curato in ospedale. Non è chiaro il loro dislocamento. Quello che si sa per certo, è che da gennaio è ripresa un’offensiva importante contro i jihadisti, e ci sono state più vittime civili in quel mese che in tutto il 2021», dice la nostra fonte.

A metà marzo Human rights watch e Rfi riportano esecuzioni sommarie di civili a opera dei militari della Fama (Forze armate maliane). Anche Michelle Bachelet, alto commissario per i diritti umani dell’Onu, fa una dichiarazione di denuncia l’8 marzo.

La reazione del governo di transizione è durissima: le trasmissioni in Mali di Rfi e della televisione France24 (entrambe dello stato francese) vengono sospese. In un comunicato ufficiale del governo, Rfi viene paragonata alla famigerata Radio mille colline, che nel Rwanda del 1994 incitava al genocidio.

«In questo momento, in generale, la popolazione maliana sembra favorevole ai golpisti. Forse perché occorreva dare un taglio alla dipendenza dalla Francia.

Una parte della popolazione non condivide il golpe, ma solo perché getta discredito sul paese a livello internazionale. Ma se aumentano gli attacchi militari e quindi le vittime civili, bisogna vedere se questo consenso terrà», ci dice ancora il nostro interlocutore da Bamako.

Intanto la giunta, il 21 febbraio, fa approvare la Carta di transizione, che prevede una durata del regime fino al 2027.

Mali. (Photo by Michele Cattani / AFP)

Repubblica di Guinea

Alpha Condé, oppositore storico, vince finalmente le elezioni nel 2010 e diventa presidente della Repubblica. Si ripete cinque anni più tardi, confermandosi per un secondo mandato. La Costituzione non ne prevede di ulteriori, ma lui indice un referendum costituzionale nel maggio 2020, che la modifica per potersi ricandidare. I partiti di opposizione, e in generale, la società civile, non sono contenti di questa forzatura (peraltro comune a diversi capi di stato africani), e il malcontento sfocia in manifestazioni di piazza che vengono violentemente represse. Condé si fa così eleggere per un terzo mandato, nell’ottobre 2020.

I problemi crescono con l’aumento dei prezzi dei beni essenziali. La goccia è l’aumento del carburante, il 3 agosto del 2021, da 9mila a 11mila franchi guineani al litro. La gente scende in piazza.

«La popolazione soffriva perché i prezzi stavano aumentando, ma allo stesso tempo i ministri e politici al governo si costruivano dei “castelli” (delle grandi case, ndr) in modo molto evidente», ci racconta Djéneba, una sociologa guineana che lavora per una Ong internazionale.

Il 5 settembre 2021 un gruppo di militari, guidati dal tenente colonnello Mamadi Doumbouya, arresta il presidente Condé e prende il potere. La giunta si fa chiamare Comitato nazionale per la riconciliazione e lo sviluppo (Cnrd, sigla in francese). Il primo ottobre Doumbouya si autoproclama presidente. La gestione è opaca e a tutt’oggi non è chiaro chi siano esattamente i componenti del Cnrd.

«La gente diceva: “I ladri sono partiti”. La giunta al potere ha subito abbassato il prezzo del carburante, portandolo a 10mila franchi. La popolazione comprende solo la questione dei prezzi dei beni di prima necessità. Il presidente ha poi incontrato i grandi operatori economici per cercare di tenere a freno l’aumento dei prezzi. Ma è complicato, perché dipendono anche dall’estero», continua la nostra interlocutrice, raggiunta telefonicamente. Così a inizio marzo i prezzi riprendono a salire, mentre la giunta cerca di calmierare almeno quelli dei prodotti nazionali.

Viene nominato un governo di transizione, un parlamento di transizione, e redatta una Carta di transizione, che dovrebbe regolamentare questi organi, le relazioni tra gli stessi e la durata.

Quest’ultima in particolare, dettaglio molto delicato, dovrebbe essere determinata da una concertazione tra il Cnrd e le «forze vive della nazione». Una coalizione di 58 partiti politici denuncia, invece, una «visione unilaterale del Cnrd», e il tentativo di tenere la politica lontana dalla transizione.

Guinea, Colonello Mamady Doumbouya. (Photo by Cellou BINANI / AFP)

Una speranza

La gente comune, invece, ha ancora una certa speranza: «Sì, perché vediamo trasparenza e la maturità con le quali stanno gestendo il paese».

Anche i responsabili religiosi appoggiano la transizione. L’arcivescovo di Conakry, Vincent Koulibaly, durante la messa dello scorso Natale, ha detto: «Per servire il nostro paese, occorre amare la verità. Se noi amiamo la Guinea, niente ci impedirà di attaccare su tutti i fronti i mali che frenano il suo sviluppo. È in questo senso che gli sforzi del Cnrd e del suo governo sono orientati in questo momento. Meritano di essere sostenuti da tutti i guineani, non solo nei discorsi, ma anche nelle azioni» (africaguinee.com).

Intanto il Cnrd organizza gli incontri delle Assises nationales, per dare corpo al cosiddetto «dialogo nazionale». A oggi si attende di sapere ufficialmente quanto durerà la transizione, mentre voci parlano di 36 mesi.

Burkina Faso

Il «paese degli uomini integri» aveva vissuto un’insurrezione popolare terminata con la cacciata del presidente Blaise Compaoré, al potere da 27 anni, nell’ottobre 2014. Si era poi rivoltato contro un tentativo di colpo di stato del suo fidato generale Gilbert Dienderé un anno dopo, il 15 settembre.

Ma dopo le elezioni e l’arrivo al potere di Roch Marc Christian Kaboré (cfr MC dicembre 2018 e gennaio 2019) il Burkina Faso aveva visto un peggioramento della situazione di sicurezza interna con l’arrivo sul suo territorio di gruppi islamisti radicali e la nascita di altri gruppi autoctoni, che oggi controllano porzioni del territorio. Così quando il 24 gennaio di quest’anno, un commando militare depone il presidente, al suo secondo mandato iniziato a gennaio 2021, e prende il potere, la popolazione non insorge, anzi scende in strada a gridare il suo sostegno.

Vengono rapidamente convocate delle assise nazionali, delle quali fanno parte diversi settori della società burkinabè (partiti, sindacati, società civile, giovani), inclusi i rappresentanti degli sfollati interni, per approvare gli organi di transizione e la durata.

Presto fatto, il presidente di transizione è il capo della giunta (Movimento patriottico per la salvaguardia e la restaurazione), il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba. Viene poi designato un primo ministro di transizione, Albert Ouderaogo, che formerà il suo governo il 6 marzo, e un’assemblea legislativa di transizione di 75 membri. La transizione è prevista di una durata di 36 mesi. Gli obiettivi principali dell’esecutivo sono la lotta al terrorismo per riportare la sicurezza nel paese, e il rinforzo della governance tramite la lotta alla corruzione.

Il tenente collonello Paul-Henri Sandaogo Damiba, Presidente del Burkina Faso. (Photo by OLYMPIA DE MAISMONT / AFP)

Il sociologo ex ministro

Chiediamo il parere sulla situazione ad Antoine Raogo Sawadogo, sociologo, già ministro dell’Amministrazione territoriale e sicurezza, padre del decentramento amministrativo in Burkina, e fondatore del Laboratoire Citoyenneté (laboratorio di cittadinanza attiva), che raggiungiamo telefonicamente.

«Viviamo oggi una grave crisi della sicurezza, che sottende diverse altre crisi. La crisi alimentare, perché i contadini cacciati dai loro territori a causa degli attacchi jihadisti, non hanno potuto coltivare. Inoltre la stagione delle piogge è stata scarsa, per cui abbiamo un grosso deficit alimentare. Una crisi della casa, in quanto gli sfollati, che sono oggi circa 1,5 milioni (su una popolazione di 21 milioni, nda), sono andati a ingrossare le città, che non erano preparate ad assorbirli. Una crisi sanitaria, perché le stesse città non hanno servizi di base sufficienti per tutte queste persone, per cui osserviamo una recrudescenza delle malattie veicolate dall’acqua o causate dalla malnutrizione. Poi c’è la crisi scolastica perché abbiamo circa 4mila scuole chiuse o distrutte a causa degli attacchi terroristici, e i bambini sono lasciati all’abbandono.

Tutto questo fa sì che la situazione in Burkina sia deleteria. E purtroppo la crisi della sicurezza continua o, addirittura, è peggiorata, dopo il colpo di stato che avrebbe dovuto fermarla».

E continua, con voce grave: «Il golpe non è che la conclusione di una serie di malfunzionamenti, quelli riguardanti la sicurezza, ma anche la governance del paese. La popolazione aveva l’impressione che nessun organo dello stato fosse in piedi per servirla, ma piuttosto, che quelli che erano responsabili di dirigere il paese fossero lì per servire se stessi».

L’ex ministro cita il caso delle miniere d’oro, metallo del quale il paese è diventato grande produttore nell’ultimo decennio. Sembra infatti che la metà dell’oro estratto sparisca a causa dell’opacità delle aziende di estrazione. «Se lo stato non spiega ai cittadini cosa succede, l’opinione pubblica vive di voci. C’era un grande problema di dialogo tra i cittadini e coloro che devono rappresentarli. Inoltre, l’Assemblea nazionale (il parlamento) non svolgeva il suo ruolo di controllo sui governanti tramite le interpellanze sulle questioni fondamentali».

E conferma: «Quindi il colpo di stato è venuto a dare un punto finale, a fermare tutto questo, e ha dato speranza alla popolazione».

Ma oggi la delusione e la disperazione sono già palpabili, perché la situazione, invece di migliorare, è ancora peggiorata.

Chiediamo a Raogo cosa pensa la gente di una transizione – annunciata da parte dei golpisti – di 36 mesi. «Penso che la durata della transizione non sia una preoccupazione della popolazione. La preoccupazione sono le crisi che abbiamo elencato. Alla gente oggi non importa di essere governati da un regime democratico o da un regime di emergenza, non è questo il problema. D’altronde non sono stati serviti bene durante il lungo periodo democratico. La democrazia all’occidentale è un problema di secondo ordine, adesso la questione è la sopravvivenza».

Ovviamente ci sono settori che non sono contenti: «I partiti politici non sono d’accordo, ma cosa hanno ancora da dire? Non hanno portato il benessere della popolazione. Così come certe associazioni, penso a Le Balai citoyens, che hanno cavalcato l’insurrezione del 2014, e i cui membri hanno poi preso soldi dall’estero. Alcuni sono entrati in politica ma sono allo stesso livello degli altri. Tutti loro sono inascoltabili oggi».

La Cedeao, dopo aver sospeso Mali e Guinea a causa dei rispettivi colpi di stato, ha sospeso a fine gennaio anche il Burkina Faso: «La Cedeao non ha più credito agli occhi di nessuno. Da quando siamo in crisi non ha spedito un solo sacco di viveri, né medicine. Solo parole. Nessuno ha più orecchie per ascoltarli».

Dimostranti in Ouagadougou in Burkina Faso. (Photo by Olympia DE MAISMONT / AFP)

Democrazia a rischio?

«La dinamica in generale dei colpi di stato nell’area è inquietante. Iniziano a esserci situazioni stabili di regimi non democratici», ci ha detto il cooperante italiano a Bamako.

Abbiamo chiesto a Enrico Casale, giornalista esperto di Africa e collaboratore di MC, cosa hanno in comune questi eventi. «Da un lato vediamo una grande fragilità delle istituzioni di questi paesi, che faticano a intraprendere la strada per la democrazia. Dall’altro ci sono delle minacce esterne, come l’integralismo islamico che porta a tensioni fortissime dal punto di vista militare (specie per Mali e Burkina), e poi la malavita. Questa ha un peso dalla Guinea fino al Nord Africa per traffici di droga, sigarette, migranti. Va notato che entrambi questi fenomeni si alimentano con il malcontento stesso.

Quest’area sta poi vivendo un forte cambiamento climatico che causa tensioni tra pastori e agricoltori».

E quindi: «Tutto ciò porta a instabilità, in paesi con istituzioni fragili la reazione sono spesso colpi di stato che forniscono soluzioni solo temporanee perché non risolvono nulla o molto poco».

E continua: «Poi c’è un altro elemento, che è l’insofferenza nei confronti della Francia, ex paese colonialista. Questi paesi ne stanno prendendo le distanze, e si buttano tra le braccia di altri attori, come Russia e Cina. E la Francia stessa si sta ritirando».

Abbiamo visto come, nei tre casi esaminati, la popolazione abbia acclamato i colpi di stato.

«Questo perché la fragilità istituzionale si è tradotta in mancanza di sicurezza e incapacità di dare soluzioni ai problemi epocali di questi paesi. Di fronte a una democrazia fragile, la gente preferisce un governo forte. Ma questo è molto rischioso per la tenuta democratica di tutta l’area. Anche a causa delle nuove alleanze, perché Cina e Russia, che hanno i loro interessi, non hanno nessuna attenzione per la democrazia in questi paesi. Quindi queste giunte militari rischiano di durare a lungo».

Casale allarga il discorso al continente: «Più in generale, in Africa, fino a tutti gli anni 2000 eravamo abituati a uno schema semplice, in cui si manteneva una struttura di influenza postcoloniale. Adesso ci sono tanti nuovi protagonisti, quelli citati, ma anche India, Turchia, Vietnam e la struttura delle influenze si è notevolmente complicata».

Marco Bello


Processo Sankara

Il 6 aprile scorso, nell’ambito del processo per l’assassinio di Thomas Sankara e 12 suoi collaboratori (15 ottobre 1987), sono stati condannati all’ergastolo l’ex presidente Blaise Compaoré, il suo addetto alla sicurezza Hyacinthe Kafando (entrambi in contumacia) e il generale Gilbert Diendéré.

Conakry, Guinea, 18 settembre 2021. (Photo by JOHN WESSELS / AFP)

 




Storia di Elena Givone, la fotografa dei sogni

foto di Elena Givone |


Un’idea geniale per far sognare i bambini che vivono in realtà difficili. Un’idea che porta Elena ai quattro angoli del pianeta a conoscere storie e desideri di bimbi e ragazzi. Un esempio di fotografia «umana» e umanitaria al tempo stesso.

È il 2011 quando Elena decide di andare in Sri Lanka ospite di una residenza per artisti: il suo progetto è quello di insegnare la fotografia ai bimbi di One world foundation, un’associazione senza fini di lucro che garantisce ai ragazzi delle zone rurali più povere di poter studiare. Si tratta di bambini e adolescenti che non possono permettersi nulla, spesso un solo pasto al giorno e, in ogni caso, non certo grandi sogni. Elena pensa alla fotografia come forma di emancipazione e possibilità di lavoro. Si tratta di una sfida, un’utopia, forse, che Elena, come dimostrerà più avanti, realizzerà.

Scuola di fotografia

Elena istituisce la prima scuola di fotografia in Sri Lanka. Il diploma che i ragazzi conseguono consente loro di accedere a finanziamenti per proseguire gli studi, iscriversi all’università e costruirsi un futuro.

Arrivata per stare qualche mese, la fotografa si ferma per quattro anni. Oltre a insegnare fotografia, infatti, inizia a elaborare un’idea. Vivendo a stretto contatto con i ragazzi e i bambini, comprende che la cosa più difficile per loro è qualcosa di scontato da altre parti del mondo, quasi banale: sognare, immaginare. Realizza così il progetto «Dream from my magic lamp».

Si tratta di una serie di ritratti dei bimbi, dei ragazzi e degli operatori che vivono, studiano e lavorano all’interno di One world foundation. Ognuno di loro viene fotografato sul medesimo sfondo azzurro con una lampada in mano. Un colore che richiama il volo, la fantasia, la libertà. Tutti debbono chiudere gli occhi e immaginare quale sia il proprio sogno. Il progetto è un successo: la fantasia non ha limiti, non conosce fame, né povertà, né disperazione. Ne nasce un libro e un lavoro che varca i confini dello Sri Lanka e arriva in Myanmar, dove Elena decide di portare avanti il proprio lavoro che sempre più si incanala nella direzione umanitaria: c’è un’idea di restituzione dell’infanzia, della bellezza, della leggerezza che anima questa giovane donna e che la spinge a cercare e infine a trovare la bellezza anche nei luoghi più dolorosi. In Myanmar Elena non utilizza più una lampada, ma una coppia ci civette scolpite nel legno, un oggetto simbolico per questa parte del mondo. In questi luoghi conosce l’estrema povertà e la solitudine: sono molti gli orfanotrofi popolati di bimbi che i genitori non possono permettersi di mantenere.

Dal Myanmar Elena parte per l’Ucraina. Qui collabora con La matrioska Onlus.

Il suo progetto sul tema del sogno cresce ancora e raggiunge i bimbi vittime dell’incidente nucleare di Chernobyl.

L’oggetto del sogno è proprio una matrioska: un simbolo di protezione, di maternità. Ogni matrioska infatti ne contiene un’altra fino a quella più piccola, che è il seme, il simbolo del bambino.

Per questi bambini, infatti, che una mamma non l’hanno mai avuta, poter raccontare il proprio bisogno di tenerezza e protezione assume un valore di liberazione.

Rifugiati

Il sogno di Elena non si ferma e anzi, è solo all’inizio. Dopo Sri Lanka, Myanmar e Ucraina, è la volta dei bambini siriani di Aleppo, che si trovano in un campo profughi in Grecia a Ritsona, una penisola a circa 70 km da Atene. Qui il progetto si arricchisce ancora: viene realizzato un libro «Rafi the refugee rabbit», una storia illustrata con protagonista un coniglietto che racconta il suo viaggio pericoloso e disperato, insieme alla propria famiglia, alla ricerca di una nuova casa.

È un libro che racconta il trauma della guerra e della fuga con immagini delicate, ma allo stesso tempo reali, e che cercano di mostrare anche ai bimbi nati in una parte del mondo non afflitta da guerre e povertà, cosa significa dover fuggire, perdere tutto e poi provare a ricominciare.

Sarà dunque un coniglio il simbolo di questo nuovo sogno: ogni bimbo stringe fra le mani un coniglietto in plastica trasparente che s’illumina, a rappresentare la fiamma della speranza. Con questo oggetto fra le mani, i bimbi chiudono gli occhi e raccontano i propri desideri.

Desideri semplici come avere una casa, mangiare un gelato, o un sacco pieno di caramelle.

Elena crea un laboratorio dei sogni: i bambini disegnano, raccontano la propria storia e ricevono in dono la fotografia che li ritrae proprio nel momento della loro massima felicità, mentre desiderano e ricominciano a sperare.

Uno dei sogni più belli che Elena ricorda è quello di Akhmed, un bimbo di Aleppo.

Stringendo fra le mani il coniglietto, il bimbo racconta di desiderare un elicottero così da poter salvare tutti i bimbi che hanno bisogno.

Se è pur vero che ci sono i traumi della guerra da elaborare e che il dolore, in posti come il campo profughi di Ritsona, sembra coprire ogni altro sentimento, è altrettanto vero che la bellezza sa farsi strada ovunque.

Questo è l’insegnamento più grande infine: la tenerezza resiste, nonostante tutto.

Il percorso

Bisogna però riavvolgere il nastro e tornare indietro, a quando Elena inizia a pensare un percorso nel mondo della fotografia.

Uno dei suoi primi ricordi legati a quello che diventerà dapprima passione e poi lavoro è una scena ben precisa che risale all’infanzia: il padre con una macchina fotografica in mano, a esplorare il mondo per poi riportarlo a Elena impresso su pellicola.

Elena racconta di aver «rubato» la macchina fotografica al padre per provare come fosse possibile far uscire da quella scatola magica tante immagini meravigliose. Il primo rullino è un disastro: foto mosse, sgranate, sfocate. Il padre decide così di insegnarle i rudimenti.

Mano a mano che cresce però, Elena si rende conto che di donne fotografe non ce ne sono poi così tante e così decide di essere «La fotografa». La spinta è prima di tutto quella di voler raccontare il mondo e, se possibile, fare qualcosa per darne una visione ampia, diversa e, sì, anche femminile.

Nonostante le reticenze dei genitori, che non vedono la fotografia come un lavoro, Elena non abbandona il proprio sogno, continua a studiare e sperimentare, ma intanto si iscrive all’Università, facoltà di  scienze internazionali e diplomatiche.

Qui incontra un uomo che diventerà il suo maestro e mentore: Luigi Gariglio. Assiste a una lezione di sociologia della comunicazione e comprende, senza più dubbio alcuno, di voler raccontare il mondo tramite l’immagine. Diventa l’assistente personale del professore, e vince una borsa di studio in fotografia allo Ied (Istituto europeo di design) di Torino.

Porta avanti entrambi i percorsi e decide, dopo il diploma allo Ied, di recarsi ad Amsterdam, in Olanda per studiare presso la prestigiosa Gerrit Rietveld Academie.

Il progetto di tesi che la porterà a destinare definitivamente la sua professione alla fotografia umanitaria con tema centrale l’infanzia, è un lavoro sulle mine antiuomo a Sarajevo.

È il primo progetto fotografico di Elena: con la sua fotografia racconta i bimbi nati fra il 1992 e il 1994. Non hanno quasi vissuto la guerra ma ne portano nella mente i segni devastanti. Le conseguenze meno evidenti forse, ma non meno lesive di un’infanzia che non si può definire tale.

Questi bambini e adolescenti, non hanno spazi dove giocare, e spesso i genitori sono mutilati e invalidi a causa del processo di sminamento avviato dal governo serbo che elargisce denaro in cambio di persone che si rechino a sminare i campi.

Il progetto «Pazi Mine» vince il premio Fnac e fa incontrare Elena con un’artista olandese: Hetty Van Der Linden. Hetty porta avanti da anni un laboratorio con bambini, dal nome Paint a Future. Attraverso la pittura, questa artista chiede ai bambini e agli adolescenti di dipingere il proprio futuro.

Elena comprende la forte valenza terapeutica dell’arte e decide di fare lo stesso con il proprio lavoro.

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Brasile

Elena continua il suo viaggio. Grazie al bando Movin’ Up finanziato dal Gai (Giovani artisti italiani) raggiunge Florianopolis, capitale di Santa Catarina (Brasile).

Qui conosce la povertà delle favelas ma anche il valore reale dell’arte: grazie al lavoro di Hetty e alla sua onlus «Paint a Future», infatti, sono stati raccolti fondi e sono state costruite delle case nelle quali gli abitanti delle favelas possono provare a costruire una vita migliore.

È a Florianopolis che Elena incontra per la prima volta, a tu per tu, dolore, violenza, povertà e disperazione.

Dapprima non sa come dare una mano e inizia a fare volontariato, ma presto capisce che portare cibo e abiti non basta, e che può aiutare con la sua arte corpo e mente. Decide che vuole provare a dare ai bambini che incontra la possibilità di volare via.

Elena si procura un tappeto e inventa una storia: un mago, che aveva girato il mondo con il proprio tappeto volante su cui aveva fatto salire tanti bimbi, poteva aiutare a visitare mondi meravigliosi perché i sogni sono infiniti e gratuiti.

Elena si muove nelle favelas con il suo tappeto magico e il desiderio di regalare uno scampolo di bellezza a questi ragazzi che vivono ai confini della società.

Posiziona il tappeto per terra, racconta loro la storia del mago e chiede dove vorrebbero andare. Nel mondo del racconto, Elena scatta una fotografia.

Il progetto «Flyng Away» si sposta più a Nord, nelle carceri minorili di Salvador, Bahia, dove ogni settimana vengono incarcerati circa 40 bambini e adolescenti tra i 9 e i 18 anni.

AppleMark

In carcere

In carcere avviene uno di quegli incontri che Elena non dimenticherà più: è quello con Emmesson, un adolescente recluso per furto. «Quel tappeto non vola, non ha la benzina», è la prima frase di Emmesson, a cui segue la risposta di Elena: «La benzina è la tua mente, se tu vuoi, puoi».

Dapprima restio a lavorare con la fotografa, diventa uno dei suoi più fidati assistenti, e la aiuta a muoversi nel mondo della prigione minorile e a raccogliere i sogni e le speranze di altri ragazzi come lui.

Una volta uscito dal carcere, Emmesson continuerà a scrivere alla fotografa dicendo che l’incontro con lei gli ha cambiato la vita e gli ha fatto capire quanto conti la bellezza, e quanto anche per lui è possibile immaginare una vita migliore.

Ma sono tanti gli incontri meravigliosi e le testimonianze durante il lavoro nelle carceri: bambini che fermano la fotografa durante il suo lavoro per dirle «ieri ho volato di nuovo, non ho bisogno del tappeto per volare: ho chiuso gli occhi e sono andato a trovare la mia famiglia».

Mali

Un altro lavoro importante è quello realizzato con la Onlus Alì 2000 in Mali, un progetto nato per raccontare i problemi legati alla siccità.

Esistono luoghi nei quali il bene primario, l’acqua, manca e con essa manca anche tutto ciò che all’acqua è connesso. Se è pur vero che molti progetti umanitari mirano a costruire pozzi, quasi nessuno pensa a come da quei pozzi l’acqua verrà raccolta. I bimbi non chiedono alla fotografa cibo o abiti, ma un contenitore, una bottiglia. Ecco l’idea: fotografare ogni bimbo con il proprio recipiente improvvisato. Chi una zucca svuotata, chi un bidone, chi un secchio malandato, chi una vecchia e usurata bottiglia in plastica recuperata chissà dove. Qualcuno, più fortunato, una borraccia.

I primi mille giorni

Dopo aver girato il mondo è il momento di tornare a Torino.

Nel 2016 Elena inizia, con la Onlus Legal@rte, un progetto che continua tutt’ora, «Profumo di Vita #neldirittodelbambino», per accendere i riflettori su un argomento che pochi conoscono: la violenza assistita da minori.

Come è riconosciuto che musica, lettura, tranquillità fanno bene al bimbo nei primi mille giorni di vita, è altresì riconosciuto che assistere a scene di violenza in un periodo così delicato può condizionare la crescita. Per affrontare il tema, l’artista torinese ha scelto la fotografia Newborn: gli scatti sono realizzati all’interno dei reparti maternità di ospedali italiani, nei primissimi giorni di vita del bambino, cogliendo al meglio il momento magico e irripetibile del sonno profondo del neonato nella sua fragilità, protetto dall’abbraccio dei genitori.

Il progetto ha successo e, nel 2021, non potendo più lavorare all’interno degli ospedali a causa del Covid, si sposta in una cornice d’eccellenza: la Reggia di Venaria. Qui la fotografa ritrae neo e future mamme comunicando così la bellezza possibile abitandola.

Una parte delle immagini del progetto sono protagoniste di un calendario giunto alla quinta edizione, destinato a diffondere capillarmente la conoscenza del fenomeno della violenza assistita attraverso un importante contributo didascalico.

Valentina Tamborra

 




Mali: «Per terminare il lavoro»

Testo di Marco Bello |


Il paese è sprofondato in una crisi socio politica acuta. La società civile e l’opposizione hanno formato un fronte unico contro il regime di Keita. Ecco che i militari ne approfittano e fanno saltare il banco. E il popolo sembra apprezzare. Ma si apre la difficile stagione della transizione.

È la mattina del 18 agosto, a Bamako. Si odono spari provenienti da Kati, poco fuori città, sede della più grande caserma del paese. Un gruppo di militari si impossessa della radio televisione e altri arrestano il presidente Ibrahim Boubakar Keita. Questi sarà costretto ad annunciare le sue dimissioni in diretta Tv.

Keita è stato eletto nel 2013 dopo la transizione seguita a un altro colpo di stato militare, quello ai danni di Amadou Toumani Touré, nel 2012, guidato dal tenente colonnello Amadou Sanogo (cfr. MC giugno 2017). Ha poi instaurato un «sistema» di governo che si è perpetrato con la rielezione del 2018, avvenuta in modo risicato e seguita da contestazioni per brogli.

Ma quest’ultimo golpe, ennesimo nella storia del paese, prende forma in un contesto particolare. È preceduto da mesi di manifestazioni di piazza e dalla nascita di un vero e proprio movimento anti governativo. Si tratta del M5-Rfp (movimento 5 giugno – raggruppamento delle forze patriottiche) e contesta la corruzione e la gestione del potere del gruppo di Ibk (come è chiamato il presidente dalla gente, dalle iniziali del nome).

«È un fronte molto ampio, dove troviamo tutta la classe politica di opposizione ma anche molte organizzazioni della società civile. È sicuramente uno dei movimenti più organizzati che ha avuto il Mali negli ultimi tempi. Il gruppo al potere ha cercato in tutti i modi di dividerlo, con diverse strategie e tentativi di corruzione, ma loro sono rimasti uniti». Chi parla è il quadro maliano di una Ong, profondo conoscitore delle dinamiche nel suo paese. «Una delle particolarità di questo movimento è che ha come mentore l’imam moderato Mahmoud Dicko».

Dicko è un intellettuale, capo religioso, equilibrato, e molto noto e rispettato, anche perché è stato presidente dell’Alto consiglio islamico del Mali per diversi anni. Conosce inoltre la vita politica del paese e i suoi attori. Non ha un ruolo ufficiale nel movimento, in quanto non fa neppure parte del Comitato strategico, ma di fatto ne è leader e riferimento morale. «Anche per questo motivo, tutti i tentativi del regime di sgonfiare il movimento e dividere l’organizzazione sono andati a vuoto».

La corruzione è grande

Ma cerchiamo di capire perché una contestazione così forte. Ancora il nostro uomo: «Il regime di Ibk era arrivato a una fase nella quale non rispondeva più alle attese dei maliani. La corruzione era molto cresciuta, e la situazione della sicurezza peggiorava ogni giorno (a causa degli attacchi jihadisti, ndr)». E continua: «Ibk di fatto non gestiva più il paese, era piuttosto la sua famiglia, ovvero la moglie e i figli, che controllava le leve del potere. Si è scoperto che addirittura imitavano la firma del presidente, che è malato, per documenti sensibili del paese».

La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le ultime elezioni legislative, tra marzo e aprile 2020, nelle quali il regime ha praticamente imposto alcuni deputati: «Non abbiamo partecipato a un’elezione ma piuttosto alla nomina di deputati. Diversi candidati parlamentari, eletti anche in zone sensibili, sono stati confermati dal ministero dell’Amministrazione territoriale, ma al passaggio alla Corte costituzionale per la validazione finale, sono state trovate delle scuse, per dire che c’erano state delle frodi, e sono stati eliminati. Così la Corte costituzionale ha messo da parte deputati eletti e ha fatto salire deputati favorevoli al regime».

(Photo by MICHELE CATTANI / AFP)

I militari ne approfittano

In questo clima si inseriscono i militari, per «terminare il lavoro iniziato dalla piazza», dicono. «Dopo tutte queste manifestazioni, che sono durate dei mesi, il regime era a terra. Il Mali non aveva governo, ma neppure l’Assemblea nazionale (il parlamento, ndr) perché era contestata. Tutto questo ha fatto sì che il potere si sia molto indebolito. Molti responsabili hanno cominciato a ritirarsi dai posti chiave. Il mattino del 18 agosto un gruppo di giovani ufficiali si sono radunati nel Comitato nazionale di salute del popolo (Cnsp), hanno preso il potere, e hanno cominciato a negoziare con M5 per mettere in piedi delle nuove istituzioni».

L’esercito approfitta della situazione e forza il cambiamento, come è già avvenuto varie volte nella storia del paese saheliano, che lo scorso 22 settembre ha festeggiato i primi sessanta anni d’indipendenza. Le istituzioni internazionali condannano l’accaduto: la Francia (ex potenza coloniale con ancora molti interessi nel paese, e un contingente di 5mila uomini per la lotta al terrorismo), l’Unione europea, ma soprattutto gli organismi sovranazionali africani, Unione africana e Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao). Quest’ultima impone sanzioni economiche e la chiusura delle frontiere, condizioni che in un paese senza sbocchi sul mare equivale a un lento soffocamento.

I militari vorrebbero instaurare una transizione di tre anni, per arrivare poi a nuove elezioni, ma gli organismi internazionali impongono che sia di 18 mesi e, soprattutto, che sia a guida civile e non militare.

La giunta militare – così viene chiamato il Cnsp -, il cui capo è il colonnello Assimi Goïta, deve però negoziare con l’altra forza presente nel paese, il M5-Frp, che, come detto, ha un largo seguito popolare, e vuole dunque partecipare alla transizione. Questa sarà retta da una «Carta di transizione» che ha ancora molti punti contestati dai vari settori del paese e attori internazionali.

I militari creano un Collegio per la designazione degli organi di transizione. Ne fanno formalmente parte, oltre al Cnsp, i sindacati principali, alcuni rappresentanti della società civile, il M5-Frp e la Cma (Coordinamento dei movimenti dell’Azawad, la parte dei gruppi armati che, nel 2015, ha firmato la pace di Algeri con il governo). «La giunta ha invitato anche la chiesa cattolica a partecipare, ma la conferenza episcopale, di concerto con i protestanti, con i quali collabora molto, ha deciso che non era il suo ruolo parteciparvi», ci spiega l’abbé Timothée Diallo, già responsabile dei media cattolici e oggi parroco di Sainte Monique. «La Chiesa cattolica, con i Protestanti e l’Alto consiglio islamico, hanno partecipato alle Concertazioni nazionali, durante i mesi agitati che hanno preceduto il golpe. Gli obiettivi erano la riconciliazione e l’uscita dalla crisi». Da notare che, dopo il golpe, gli uomini della giunta hanno fatto due visite all’arcivescovo di Bamako, «alla prima ho partecipato anche io – ci confida l’abbé Diallo -, e sono venuti per presentarsi e parlare dei motivi del loro atto».

(Photo by MALIK KONATE / AFP)

Un presidente di transizione

A un giorno dalla scadenza data dalla Cedeao, il 21 settembre, la giunta nomina presidente di transizione Bah N’Daw, e vicepresidente lo stesso Assimi Goïta. L’M5 contesta le modalità della nomina, che di fatto non avviene tramite il Collegio. Secondo il nostro quadro: «Il Cnsp non voleva coinvolgere altri nella scelta di presidente e vicepresidente di transizione. Ha fatto un protocollo che ha condiviso, ma in fondo sapeva già chi designare. Su questi due punti, non voleva discutere con M5 o altri».

Bah N’Daw, 70 anni, è un ufficiale in pensione, che è stato poi ministro della Difesa con Ibk, ma si è dimesso per critiche alla gestione. Ha pure collaborato con Moussa Traoré (il presidente-dittatore, 1968-91, recentemente scomparso il 15 settembre), anche in quel caso si era dimesso. «Nessun politico, nessun partito contesta la sua figura, solo il M5 protesta per non essere stato coinvolto nella scelta – ci dice il giornalista Moussa Balla Coulibaly, contattato telefonicamente -. Il vicepresidente Goïta, anche lui è abbastanza conosciuto, per il suo impegno come militare nella lotta al terrorismo».

Cruciale e delicata sarà la definizione dei poteri tra presidente e vicepresidente nella carta di transizione. Su questo anche la Cedeao è molto attenta.

Il quadro della Ong ci confida: «Penso che il gioco di questi militari sia molto opaco, non riusciamo a leggere qual è il loro intento, spesso danno impressione di volere tenere il potere, altre volte, sotto pressione della Cedeao, accettano di condividerlo. Ma con questa nomina è chiaro che non sono venuti per cedere facilmente il potere alla classe politica.

C’è però un consenso sulla persona che è stata scelta come presidente. La sua onestà e conoscenza delle regole di governance in Mali sono un dato di fatto. Ma resta comunque un militare, anche se in pensione». Un militare travestito da civile, si potrebbe dire, che però non ha trovato ostacoli nella Cedeao, la quale apprezza anche il primo ministro (nominato dal presidente il 28 settembre) Moctar Ouane, un politico con carriera internazionale. I negoziati Cnsp – M5, portano alla creazione del governo il 5 ottobre. I militari ottengono quattro ministeri chiave (Difesa, Sicurezza, Amministrazione territoriale e Riconciliazione). Non ci sono grossi nomi della politica e M5 ottiene tre ministeri (Comunicazione, Impiego e Rifondazione). Agli ex gruppi ribelli ne vanno tre, mentre in tutto le donne sono quattro.

«Personalmente ho molta speranza che la transizione vada a buon fine – ci racconta l’abbé Diallo – questo perché il presidente scelto è un uomo integro, sincero, ho molta fiducia in lui. È un uomo che ha sempre rifiutato la corruzione, per cui è la persona giusta per lottare contro questa piaga che è uno dei principali problemi del governo appena rovesciato».

BAMAKO, MALI – Stringer / Anadolu Agency

Embargo e crisi economica

Le sanzioni, imposte dalla Cedeao, già dopo il primo mese, creano problemi economici: «Sentiamo già, a livello delle entrate del fisco e delle dogane, un deficit a causa dell’embargo. Ma anche nel carrello della spesa delle famiglie, si vedono tanti prodotti che sono aumentati improvvisamente di prezzo, in particolare quelli che arrivano dall’estero. La giunta sta cercando di non trovarsi tra il martello della Cedeao e l’incudine della popolazione, spingendo per ottenere l’annullamento o almeno l’allentamento delle sanzioni, affinché il clima sociale maliano non si degradi ulteriormente con l’acuirsi della crisi economica». Nei giorni della nomina del presidente, si stava realizzando nel paese la visita del mediatore della Cedeao, Goodluck Jonathan, già presidente della Nigeria. Jonathan è rimasto anche durante l’investitura, avvenuta con una breve cerimonia, del presidente di transizione Bah N’Daw. E questo è stato letto come un segnale positivo.

Il 6 ottobre, vista anche la pubblicazione della Carta di transizione che impedisce al vice presidente di prendere il posto del presidente, la Cedeao annuncia la fine dell’embargo.

Altre forze vive della nazione vogliono dire la loro sulla transizione. È il caso della Cma.

«All’inizio, la Cma ha visto con favore l’arrivo della giunta, perché questi gruppi sono frustrati dalla mancata applicazione degli accordi di Algeri del 2015 (cfr. MC giugno 2017), totalmente disattesi e boicottati dal regime di Ibk. Questi non aveva né voglia né i mezzi per applicare gli accordi. La Cma resta tuttavia molto prudente per vedere se la giunta si smarcherà da questo sistema e quale sarà l’avvenire degli accordi del 2015», ci dice il quadro dell’Ong.

In effetti la Cma sta negoziando affinché l’applicazione degli accordi sia inserita nella Carta di transizione. «Sì, perché si sentono discorsi sulla modifica degli accordi di Algeri, che, secondo alcuni, non sarebbero realizzabili. Ma la Cma vuole che gli accordi siano applicati così, come sono stati firmati. Attualmente, non essendoci stata applicazione, la situazione si degrada sul terreno ogni giorno e nessuno vuole prendersi le sue responsabilità».

Ma la gente comune, cosa ne pensa di questo nuovo, brusco, cambiamento di regime? Continua l’intellettuale: «Abbiamo delle speranze, perché pensiamo che non possiamo vivere peggio di quanto abbiamo già vissuto con Ibk e il suo governo. Quindi pensiamo che stiamo rialzandoci, anche se magari ci vorrà del tempo. Occorre fare tornare una certa fiducia, tra governanti e governati, affinché i maliani si parlino tra loro, e si costruisca la nazione, perché le prospettive erano davvero catastrofiche».

Secondo un’analisi del giornalista Balla sui social media «circa l’80% delle persone attive posta testi e video in cui si chiede che la si faccia finita con la corruzione, si sostiene la giunta e il regime di transizione che deve ancora venire, per un’uscita dalla crisi e un vero cambiamento».

Transition Mali President Bah Ndaw  (Photo by MICHELE CATTANI / AFP)

Gli jihadisti non si fermano

Il Mali dal 2013 è teatro di una guerra tra gruppi radicali islamisti (cfr. MC giugno 17) e Forze armate maliane (Fama), appoggiate dal contingente francese dell’operazione Brarkhane (circa 5mila uomini), dalla Missione delle Nazioni unite (Minusma, circa 10mila la missione che ha inflitto più perdite ai caschi blu nella storia), da contingenti europei, tra cui tedeschi e italiani (nella task force Takuba, creata nel luglio di quest’anno) e dalla forza G5-Sahel.

Il capo della giunta Assimi Goïta, nel discorso del sessantesimo dell’indipendenza, ha fatto appello all’«unione sacra» dei maliani nella lotta al terrorismo, chiedendo alla popolazione di sostenere le Fama, ma anche i partner stranieri. Si erano infatti verificate manifestazioni di contestazione antifrancese e anti straniera nei giorni precedenti.

Chiediamo ai nostri interlocutori cosa può succedere con il cambio di regime.

«Non penso che il cambiamento avrà un impatto su questi gruppi, perché le loro rivendicazioni sono chiare e non cambiano in funzione del regime: vogliono l’instaurazione della legge islamica. Quello che speriamo oggi è che, con l’arrivo della giunta al potere, l’esercito maliano sia meglio organizzato e abbia più mezzi, per combattere i gruppi terroristi. Perché avevamo l’impressione che i nostri militari non avessero abbastanza mezzi e i responsabili non avessero le mani libere per fare tutto il possibile nella lotta anti terrorista», ci dice il quadro.

Ancora, secondo Balla: «Da quando è caduto Ibk, abbiamo visto una maggiore copertura aerea dei nostri militari sul terreno, che ha portato a una maggior efficacia dell’esercito nella lotta al terrorismo».

Bisogna dire che il Mali resta un paese di fatto tagliato in due. Il grande Nord, due terzi del territorio, poco abitato perché diventa Sahara, è quasi un paese a parte. Il nostro interlocutore viaggia spesso a Gao: «Nel Nord il cambiamento di regime lo sentiamo alla televisione e alla radio, ma non ha nessun impatto sulla vita. Sarà anche perché l’apporto dello stato non è sentito dalla popolazione, che sia positivo o negativo. Così anche se il regime cambia, non lo sentiremo molto a Gao, perché lo stato è qualcosa di molto lontano e non ne beneficiamo direttamente».

Marco Bello

Musulmani in preghiera a Bamako (Photo by MICHELE CATTANI / AFP)




Mali elezioni: verso il secondo turno ma accuse di brogli


In Mali lo scorso 29 luglio si è svolto il primo turno delle elezioni presidenziali. In attesa dei risultati definitivi, che saranno pubblicati dal Corte Costituzionale, si profila un ballottaggio senza sorprese tra il presidente in carica, Ibrahim Boubakar Keita e l’oppositore Soumaila Cissé, che si dovrà tenere domenica 12 agosto.

Ma l’opposizione non ci sta, e accusa il governo di «Colpo di stato elettorale». Diciotto candidati dell’opposizione si sono infatti uniti per chiedere il riconteggio dei voti. Le accuse sono di frodi elettorali, compra vendita di voti, e impossibilità di recarsi alle urne in alcune regioni del paese (ad esempio a Timbuctu). Diversi candidati hanno presentato ricorso alla Corte Costituzionale.

L’opposizione chiede pure le dimissioni del ministro dell’Amministrazione territoriale e del decentramento, incaricato dell’organizzazione delle elezioni. Lo stesso Soumaila Cissé, arrivato secondo, qualifica lo scrutinio di «dittatura della frode». Ma per il governo «queste accuse di frodi non sono giustificate», e il presidente del Mali, Keita, si felicita per il processo elettorale in corso. (MB)


Leggi l’articolo di Marco Bello in MC 8-9/2018 su Mali, LVIA, una Ong contro la guerra, per un analisi approdondita della situazione del paese.

Nord Mali, regione di Gao. Foto Archivio LVIA




Mali, LVIA, una Ong contro la guerra

Testo di Marco Bello, foto di Archivio dell’Ong LVIA |


Nel paese, in conflitto dal 2012, è crisi umanitaria. Centinaia di migliaia di sfollati, mancanza di acqua, cibo e assistenza medica. Gli attacchi sono quotidiani e le violazioni dei diritti una costante. Spuntano anche le fosse comuni di civili. In mezzo a tutto questo una Ong piemontese, la Lvia, propone la sua via per la pace. Abbiamo incontrato il suo rappresentante.

Parigi, 26 maggio 2018. Mamoudou Gassama, è un immigrato clandestino di 22 anni. Nel diciottesimo arrondissement salva un bimbo appeso a un balcone, arrampicandosi a mani nude, con l’agilità di un gatto, fino al quarto piano di un palazzo. Ricevuto all’Eliseo dal presidente francese Emmanuel Macron, gli viene immediatamente concessa la nazionalità francese e gli è proposto un lavoro come vigile del fuoco.

San Calogero (Vibo Valentia, Calabria), 2 giugno. Tre immigrati vengono presi a fucilate da un italiano. Stavano cercando vecchie lamiere in una fabbrica abbandonata per costruire baracche. Sacko Soumayla, 29 anni, regolare e sindacalista, cade a terra morto. Il giorno prima al Quirinale ha giurato il governo Lega – Movimento 5 stelle, detto «del cambiamento».

Mamoudou e Sacko, entrambi migranti, entrambi maliani. Due storie simili, due destini diversi.

Anche Ousmane ag Hamatou, 37 anni, è del Mali. Lui lavora a Bamako, la capitale, per una Ong italiana, l’Lvia di Cuneo, della quale è il responsabile nel paese africano. Ousmane non ha nessuna intenzione di migrare. È in Italia, su invito della sua Ong, per formazione e una serie di incontri, poi tornerà in patria dalla sua famiglia e al suo lavoro.

Lo incontriamo, per farci spiegare cosa sta succedendo in Mali, e per provare a capire perché, ragazzi come Mamadou e Sacko sono scappati dal paese e molti altri continuano a farlo.

Perché si scappa dal Mali

Ma facciamo un passo indietro. Il Mali, paese cerniera tra l’Africa subsahariana e il Sahara, nel 2012 precipita in una crisi profonda, dopo un ventennio di relativa stabilità (cfr. MC giugno 2017). Il Nord del paese, l’Azawad, ha visto, negli anni precedenti, l’infiltrazione di gruppi estremisti islamici (jihadisti) dall’estero, in particolare dall’Algeria, che si sono inizialmente alleati con le milizie locali indipendentiste di etnia tuareg. Insieme conquistano il territorio del Nord, occupando le città e imponendo la loro legge. I soldati regolari fuggono a Sud. Ma l’alleanza si rompe e i jihadisti hanno la meglio sui Tuareg. A gennaio 2013 puntano addirittura sulla capitale Bamako. È per questo che intervengono prontamente i militari francesi, in protezione dell’ex colonia (e dei propri interessi). L’operazione francese Sérval respinge i miliziani e riconquista le città del Nord. Islamisti e indipendentisti si rifugiano nello sconfinato territorio desertico. Quando l’operazione Barkhane sostituisce Sérval, intervengono i caschi blu, con la Minusma: missione composta da soldati africani dei paesi vicini, ma anche da un grosso contingente tedesco. Gli eserciti stranieri affiancano quello maliano, le Forze armate del Mali (Fama), che sono allo sbando.

«La situazione oggi è complessa e molto volatile – commenta Ousmane -, perché dopo la firma degli accordi di pace tra il governo e i gruppi armati nel giugno 2015 (solo alcuni dei gruppi, quelli indipendentisti tuareg non radicalizzati, ndr), c’è stata una mancanza di volontà, in primo luogo dello stato, di mettere in pratica le condizioni sancite dagli accordi stessi (L’accordo prevede, tra l’altro, la smobilitazione dei combattenti; la creazione di pattuglie miste governo – ex ribelli; l’installazione di autorità ad interim nelle città del Nord con la partecipazione degli ex ribelli, e la Conferenza d’intesa nazionale, per una definizione politica dell’Azawad).E c’è anche una certa reticenza da parte dei gruppi armati per quanto riguarda il processo di disarmo, perché le armi sono l’unica garanzia che hanno per poter fare un’eventuale negoziazione». La non applicazione degli accordi crea una situazione di vuoto istituzionale, che ha ripercussioni importanti. «Lo stato non è presente in certe zone e i gruppi armati “firmatari” non si incaricano della sicurezza territoriale. Questo fa sì che sul terreno ci sia un’avanzata delle forze islamiste, che approfittano della situazione di abbandono del territorio. Assistiamo inoltre, per lo stesso motivo, a una disgregazione dei gruppi armati in tanti gruppuscoli più piccoli, con tendenza a diventare formazioni a carattere comunitario, ovvero a base etnica. Ogni comunità si organizza e si dissocia dai gruppi principali che sono i firmatari degli accordi. Esse temono, infatti, che se un giorno ci saranno i dividendi degli accordi, non tutte le comunità rimaste nei grossi gruppi saranno soddisfatte».

Ousmane (© Marco Bello)

Molti attori sul terreno

Oltre alla Minusma e all’esercito maliano – tornato nel Nord, dove controlla oggi le città, grazie all’intervento militare francese nel 2013 – la realtà degli attori sul terreno è complessa e variabile. Racconta Ousmane: «C’è il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma), il quale costituisce l’insieme dei grossi movimenti armati indipendentisti che hanno proclamato l’indipendenza dell’Azawad, poi ci sono diversi gruppi islamisti radicali, alcuni gestiti da maliani, altri da stranieri (in particolare algerini, ndr). Oltre a questi ci sono tante piccole milizie locali, comunitarie, che son state create e contribuiscono a rendere il clima pesante. Sono anche presenti bande di malviventi che operano e ostacolano il lavoro delle Ong, rubando le loro auto e compiendo assalti. Un insieme di attori armati che rende la situazione piuttosto complessa».

La popolazione è la principale vittima di questa situazione di insicurezza e instabilità, nella quale gli assalti si susseguono quotidianamente. Continua Ousmane: «La popolazione del Nord Mali cerca di capire cosa stia succedendo, perché ci sono stati troppi cambiamenti in questi ultimi tempi. Siamo partiti nel 2012 con uno stato maliano centrale relativamente forte, per arrivare a una situazione in cui il Nord è caduto nelle mani di diversi gruppi armati, uno stato autoproclamato dell’Azawad, per poi passare a uno stato islamista, perché gli jihadisti hanno cacciato gli indipendentisti. Siamo quindi ritornati a uno stato maliano diverso da quello del 2012, appoggiato da forze straniere e delle Nazioni Unite».

Oltre alla sicurezza sono i servizi a mancare: «La violenza è a tutti i livelli, anche nei piccoli villaggi, in zone dove lo stato non esiste più e i servizi sociali di base, come l’acqua, l’educazione, la salute, non sono garantiti. Per questo motivo c’è un grande numero di sfollati, sia verso paesi confinanti sia all’interno del Mali in direzione del centro e Sud del paese». I dati delle Nazioni Unite di aprile 2018 parlano di circa 60.000 persone sfollate all’interno e 137.000 rifugiate in Burkina Faso, Niger e Mauritania.

Anche nel centro del Mali la situazione è divenuta complessa. «Le condizioni nella zona centrale non sono diverse, è la stessa crisi del Nord che avanza nel centro, con gli stessi attori. Dato che non si trova soluzione alla base, la crisi si estende anche verso il Sud e ora tocca paesi limitrofi come il Sahel burkinabè (il Nord del Burkina Faso, ndr), che è stato contagiato dalla crisi, e la frontiera con il Niger (Nord Est, ndr). È tutta un’area geografica che vede la crisi estendersi».

In particolare il centro del paese è diventato teatro di scontri tra diverse etnie (cfr. MC giugno ‘17). «La Lvia interviene a Mopti, insieme all’Ong Cisv e con finanziamenti di emergenza del ministero per gli Affari esteri italiano, appoggiando i centri di salute. La particolarità di questa zona sono gli scontri intercomunitari tra la popolazione Peulh, allevatori, che si organizza in milizie, e quella Dogon, agricoltori, che inizia a prendere le armi».

Costretti all’emergenza

Lvia lavora in Mali da 30 anni, ed essendo una Ong che si occupa di sviluppo, ha sempre lavorato su programmi di lunga durata. Ousmane ci spiega cosa è cambiato con la crisi: «Non siamo una Ong di emergenza, ovvero non andiamo di proposito in quei paesi dove c’è la guerra per intervenire, ma in Mali siamo in un contesto che conosciamo bene, abbiamo molti contatti, siamo riconosciuti dalle comunità, dagli enti locali e anche dal governo. Abbiamo fatto tesoro di questo riconoscimento e della nostra conoscenza del terreno per realizzare progetti di emergenza umanitaria. Sono programmi su temi che abbiamo sviluppato anche in contesto non di crisi, come le infrastrutture idrauliche (pozzi artesiani, ndr), per dare acqua potabile alla gente. Per noi il fatto importante che cambia, è che oggi, con la crisi, ci sono bisogni primari da soddisfare, in modo anche urgente. Ad esempio, nell’ambito della nutrizione, perché gli indicatori di malnutrizione nel Nord del paese sono piuttosto alti. Sosteniamo alcuni centri di salute, quelli ancora funzionanti, per accogliere i bambini denutriti e seguirli. Facciamo anche molta sensibilizzazione e accompagnamento delle comunità, nell’ambito della valorizzazione dei prodotti agricoli locali e la loro integrazione nell’alimentazione di base».

Non sparate sulle Ong

In un contesto di crisi, oltre alle normali difficoltà c’è anche un altro problema per le Ong, quello della sicurezza dei propri operatori. «È una grande sfida, perché occorre abituarsi a lavorare in un contesto di sicurezza imprevedibile, dove anche se le nostre organizzazioni non sono prese particolarmente di mira, operiamo in un clima nel quale tutto può succedere. Abbiamo avuto incidenti come furti di auto o assalti a mano armata. È un contesto non controllabile, per cui occorre adattare la nostra missione, i nostri interventi, ogni giorno, informandoci in modo continuo e seguendo alla lettera le raccomandazioni di sicurezza».

Politica: evoluzione?

Il Mali sta vivendo anche un periodo di transizione politica, perché il 29 luglio si terranno le elezioni presidenziali (leggerete queste righe ad elezioni avvenute; pubblicheremo un resoconto delle stesse su www.rivistamissioniconsolata.it), che però non dovrebbero portare particolari sorprese. Oltre al presidente uscente Ibrahim Boubacar Keita (detto Ibk), eletto nel 2013, favorito, sono una ventina gli altri candidati. A inizio giugno una manifestazione di una coalizione di opposizione è stata repressa sul nascere mediante l’uso di gas lacrimogeni. I manifestanti chiedevano più trasparenza e più equità sui media nazionali per la copertura della campagna elettorale.

Chiediamo a Ousmane cosa ne pensa. «Visto il clima d’insicurezza che regna nel paese, con continui attacchi, penso che il contesto non sia propizio alla tenuta di elezioni libere, trasparenti e soprattutto credibili. C’è piuttosto un’urgenza nel mettere in sicurezza il paese e migliorare le condizioni di vita della popolazione più che organizzare delle elezioni.

L’impressione è quella che chi è al potere, ma anche chi vive nel Sud del Mali, dove c’è un piccolo spazio in sicurezza e normalità, non sia molto cosciente di cosa succede nel resto del paese. Il Nord non è mai stato una priorità per le autorità centrali e lo è ancora meno adesso. Colpisce anche il fatto che si organizzino elezioni quando molta gente è fuori dal paese o dalla sua zona di residenza abituale. Non è logico organizzare delle elezioni quando la popolazione non può votare». Occorre considerare che il paese, la cui superficie è di oltre 1,2 milioni di km2 (quasi quattro volte l’Italia) ha una vasta fetta di deserto del Sahara, l’Azawad appunto, che occupa una superficie di 822.000 km2. La capitale dello stato, Bamako, si trova invece nell’estremo Sud del paese.

«Bisogna riconoscere che il presidente attuale ha assunto la carica in un momento piuttosto particolare. È arrivato nel 2013 quando il paese attraversava una crisi molto grave, difficile da gestire. Gli si può però contestare che certi impegni presi nell’ambito dell’accordo di pace non sono stati applicati. Questo è un punto importante sul quale il governo ha fallito». Il Mali è una repubblica presidenziale, per cui il presidente della Repubblica è anche il capo dell’esecutivo. Un cambio del presidente prevede anche un nuovo governo.

«L’opinione pubblica a Bamako è molto divisa su Ibk. C’è chi pensa che questo governo, in un secondo mandato non possa fare meglio di quanto ha già fatto, altri che pensano occorra un vero cambiamento. Io personalmente, tra i candidati, non vedo nulla di nuovo, sono le stesse figure che hanno contribuito, negli anni, a portare questo paese a terra. Resta la stessa generazione di politici maliani che, ormai da decenni, non riesce a far uscire il paese da questa situazione».

Il pantano degli scontri etnici

La novità degli ultimi due anni sono gli scontri a base etnica nelle due regioni centrali di Mopti e Ségou, che nulla hanno a che vedere con l’Azawad e i Tuareg, ma dove si sono inaspriti conflitti atavici tra gli allevatori peulh e gli agricoltori dogon, con la compiacenza dei Bambara del Sud. Sovente i cacciatori bozo di etnia bambara fanno il lavoro sporco coperti dai militari.

È del giugno scorso la scoperta di almeno tre fosse comuni di civili uccisi, sembra giustiziati, anche per rappresaglie, dall’esercito maliano. Il 19 giugno, in seguito a un’operazione militare, erano scomparse 18 persone dalla località di Gassel (dipartimento di Douentza, regione di Mopti), tutte di etnia peulh. Il 20 è stata scoperta una fossa con almeno 7 corpi. Pochi giorni prima, il 15 giugno a Nantaka e Kobaka, nel comune di Sokoura, i corpi di 25 persone erano stati scoperti in tre fosse comuni. Anche loro, con tutta probabilità, peulh. Le responsabilità sarebbero dell’esercito regolare, fatto questa volta confermato da un comunicato del ministero della Difesa.

Scontri nei quali si sono insinuati gli islamisti radicalizzati, come Amadou Koufa, fondatore del Fronte di liberazione di Macina, legato al capo tuareg radicale Iyad ag Ghali (lui di Kidal, nel Nord). Fronte che ha avuto come filiazione il primo gruppo di combattenti jihadisti del Burkina Faso, Ansarul Islam (cfr. MC giugno ‘17), nato nella confinante provincia del Sahel burkinabè.

Crisi senza soluzione?

In una situazione così ingarbugliata è difficile vedere una via d’uscita. Chiediamo a Ousmane, uomo del Nord, che vive in capitale e che ha una visione d’insieme, di dirci quale sarebbe, secondo lui, una pista per la soluzione. «Secondo me è difficile prevedere. L’insicurezza ha gravi ripercussioni sulla situazione umanitaria e su quella politica. Tutto è molto complesso.

La prima cosa da fare è applicare l’accordo di pace di Algeri, per cominciare a trovare una soluzione politica alla ribellione tuareg nel Nord del Mali. In questo modo si farebbe un grande passo in avanti e ci si potrebbe occupare degli altri problemi, che sono nell’insieme una conseguenza di questa  guerra.

Il presidente che arriverà dovrà prendere di petto l’applicazione di questi accordi, per farci andare avanti nella via della prosperità e della pace».

Ma i jihadisti, in particolare quelli stranieri, non hanno partecipato agli accordi. Con loro non si può negoziare? «I jihadisti non hanno nulla da negoziare. Lo hanno detto quando hanno conquistato il Nord, che non erano venuti per negoziare uno stato o una soluzione politica, erano venuti per instaurare uno stato islamico in Mali. Per cui occorre che il governo maliano trovi una soluzione politica alla situazione dei Tuareg nel Nord del Mali e a questo punto, tutti noi maliani, ci possiamo mettere insieme per combattere gli islamisti. Io penso che non resisterebbero a un Mali unito, ma nelle condizioni attuali sono loro che approfittano e creano ogni giorno il caos sulla nostra terra».

Ci sono islamisti stranieri ma anche maliani che si sono radicalizzati. In particolare il capo più importante del momento è il tuareg Iyad ag Ghali. Già leader delle grandi ribellioni tuareg dal 1991 in avanti, si è poi islamizzato, ha fondato il gruppo Ansar Dine, tra i fondatori di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), e nel 2017 ha riunito in un fronte comune diverse formazioni nel Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim).

«Io penso che rispetto agli islamisti maliani si possa trovare una soluzione. Secondo me, la maggior parte di loro si sono radicalizzati perché hanno visto questo passaggio come un modo per continuare la lotta politica per l’indipendenza del Nord. Se invece sentissero che c’è una reale volontà per una soluzione politica con i gruppi armati tuareg o di altre comunità del Nord, sarebbe possibile negoziare con loro. Per gli altri islamisti che non sono maliani, l’unica soluzione è combatterli. Con o senza l’appoggio delle forze straniere. Non abbiamo necessariamente bisogno di eserciti stranieri, ma è invece obbligatorio ritrovare quello che ci unisce come maliani, come nazione, e a quel punto possiamo vincere la guerra contro gli islamisti, contro il sottosviluppo, e ben altre sfide».

Marco Bello