Attentati, bombe, guerra e messaggi di guerra. In questi ultimi mesi la morte è entrata nelle case e nei discorsi della gente.
Riflettendo sulla «morte dolce», mi sono venute in mente alcune morti alle quali ho assistito personalmente ed altre su cui ho provato a ragionare.
È vero: la morte è morte e basta. Ma così, quasi per vezzo, ho provato a mettere ordine alla mia esperienza dando un aggettivo ad alcune di esse. L’ho fatto, come mia abitudine, parlando prevalentemente di cose concrete e senza pretendere di dare giudizi, che non competono a nessun medico. Noi medici, in fondo, siamo solo persone che accompagnano la vita di ciascuno sulla base della cultura della comunità, della tecnologia a disposizione, della porzione di finanziamenti messaci a disposizione dalla società e dall’intuito che a volte accompagna i migliori di noi.
La morte prima
Il mio primo morto lo ricorderò per sempre.
Viveva in un isolato all’altro lato della piazza del quartiere di Villa El Salvador (Perù) nel quale da poco mi ero trasferito provenendo direttamente, e fresco di studi universitari, da Roma dove ero cresciuto ed avevo studiato.
Saranno state le due o tre di notte e sentii bussare freneticamente alla porta. Mi alzai e, rendendomi conto dell’agitazione della persona che mi cercava, mi infilai un paio di pantaloni e, con la borsa da medico alle prime armi, le corsi dietro.
Era già morto (probabilmente un infarto). Tutti mi chiedevano di fare qualche cosa e, nella coscienza di ingannare me stesso e gli altri, iniziai un inutile tentativo di massaggio cardiaco. La gente, sicuramente più cosciente di me dell’inutilità di quanto stavo facendo, mi incitava a continuare gridando disperatamente il nome del morto, sperando forse in un miracolo. Aveva una cinquantina d’anni e morire a quest’età, lasciando moglie e figli, era percepito come un tradimento. Quella morte non doveva succedere. Ma la morte (probabilmente) è indifferente alla volontà dei vivi.
La morte falsa
Un’altra volta, sempre di notte, mi chiamarono (perché mai si muore più spesso di notte?) perché un giovane era moribondo. Corsi come sempre disarmato e mi trovai nel bel mezzo di una festa a base d’alcornol, con la musica assordante che continuava ad uscire da uno sgangherato ma efficiente stereo e con la gente che urlava, minacciandomi. Un giovane apparentemente in coma era disteso su di un letto, circondato da familiari ed amici.
Mi misi ad urlare più di loro, cacciai via tutti e, non ricordo come, riuscii a fargli vomitare i litri d’alcornol che aveva in corpo.
Venni trattato come il più grande medico, ma non ne fui orgoglioso.
La morte improvvisa
Mi lasciò molto perplesso trovare un bambino morto, quella volta che mi chiamarono (sempre di notte). Erano due gemellini; uno di loro si era addormentato senza risvegliarsi. Morte improvvisa?
Il bambino era ben curato, di poco più di un anno, grassottello, i lineamenti sereni. Sembrava addormentato.
La morte prima della nascita
Era buio, ma non ancora notte. Il bambino era nato morto in una baracca, forse assistito da una partera, che nulla aveva potuto fare. In realtà, il bimbo era già morto nell’utero.
Mi chiesero di non fare alcun certificato, perché non avevano i soldi per portarlo al cimitero ufficiale. Non lo feci e quel bimbo (che mai era nato) non morì mai.
La morte ingiusta 1 (una delle tante)
Arrivò correndo al mio ambulatorio una madre con un involtino fra le braccia. Tutti i pazienti in attesa urlarono che c’era un’emergenza e la donna appoggiò il fagotto sul lettino e, aprendolo, scoprì il corpicino di un bimbo denutrito ed ormai freddo.
Quella volta urlai contro la donna. Urlai che io ero in ambulatorio sempre e che lei non poteva portare il piccolo solo all’ultimo momento. Urlai che cosa voleva da me, che io ero un medico e che forse avremmo potuto salvarlo. Urlai (lo dico a mia discolpa) perché non era giusto e urlerei ancora adesso (ogni volta che ricordo quel fatto, mi viene un nodo in gola) perché, se la morte è ingiusta, non penso che si possa trovare pace.
Forse il mio urlo era rivolto contro questo nostro mondo, ma solo quella madre disperata (e forse incosciente) ed un piccolo gruppo di pazienti in attesa mi potevano sentire.
La morte ingiusta 2 (un’altra delle tante)
Era una bimba piccola e denutrita. La madre ce l’aveva portata e non eravamo riusciti a salvarla. Avevamo però lottato insieme a lei e insieme avevamo perso.
Ero andato a visitarla nella sua baracca e la bimba giaceva vestita di bianco, il volto si era rasserenato ed era quasi bella (i bambini denutriti sono sempre brutti).
Avevo notato che la madre non piangeva e le chiesi perché.
Mi rispose molto dignitosamente che la bimba non aveva ancora vissuto e che, quindi, non poteva lasciare il vuoto che lascia un anziano quando muore. Lo capii, sinceramente, anche perché sapevo che la madre aveva lottato per farla vivere.
La morte ingiusta 3 (ancora una)
Maria Elena (sì, proprio quella che morì di morte assassina per mano di Sendero Luminoso) un giorno arrivò correndo a casa mia. L’accompagnava un’altra donna e fra le braccia aveva un piccolo bambino.
«Sono arrivata troppo tardi – mi disse appena entrata -, ho sentito l’anima del piccolo sfuggirmi».
Il bambino era morto fra le sue braccia e, nel suo sguardo profondo, capii il suo immenso dolore e la sua grande sorpresa. Il bambino era figlio di una donna che aveva incontrato per strada e che stava cercando un medico.
La morte giusta
Mia nonna è morta a 97 anni. Sapeva che era giusto morire e quasi desiderava raggiungere mio nonno, ma…. era attaccata alla vita e non voleva farsi vincere dalla morte. Ha lottato fino all’ultimo, non perché non voleva morire, ma perché voleva vivere.
Questo è bello e giusto.
La morte desiderata
L’assistente sociale (e torniamo in Perù) mi aveva avvisato che in una casa nelle vicinanze dell’ambulatorio c’era un vecchietto e che da tempo i familiari dicevano che doveva morire.
Andai a casa sua e, entrato, mi abituai lentamente all’oscurità. C’era un letto e su questo era disteso un vecchio avvolto dalle coperte.
Gli parlai serenamente e gli chiesi che cosa aveva. «Sono vecchio – mi rispose – e mio figlio non aspetta altro che la mia morte; ma io non ho nessuna intenzione di morire».
«Che problema c’è?» chiesi. Mi mostrò allora la cassa da morto preparata al suo fianco, lamentandosi per questa stupida spesa che suo figlio aveva fatto con troppo anticipo.
Aiutai in quell’occasione l’assistente sociale a portare via la cassa e, lasciata la casa, non potei che aggiungere quest’altra esperienza (la fantasia dell’uomo è senza limiti) alla mia collezione di «cose umane».
La morte assassina
Maria Elena è stata uccisa da Sendero Luminoso.
Due colpi di pistola davanti ai propri figli e poi un candelotto di dinamite per fare a pezzi il suo corpo nel tentativo di fare a pezzi la sua memoria. Più tardi un altro candelotto per distruggere la sua tomba.
Maria Elena aveva trent’anni. Era una bellissima ragazza negra, una dirigente popolare sincera e preparata, una leader politica di sinistra e rivoluzionaria, cosciente e democratica, un’amica.
Maria Elena vive nei nostri cuori, Sendero Luminoso è morto.
La morte per chi rimane
Don Rubio era un dirigente popolare e viveva a lato della mia casa. Un cancro lentamente l’ha portato via. Alla sua morte la gente si è riunita intorno alla salma e, chiacchierando, ha ricordato passo passo la storia vissuta con lui.
Le avventure, le lotte, gli scioperi, gli scherzi, le risate. Insomma la vita.
Dopo una notte passata a vegliare la salma, a bere e a mangiare, i suoi resti sono stati portati a spalla da una casa all’altra e tutti si sono fermati per un ricordo ufficiale al centro della piazza, dove spesso aveva arringato la folla.
La morte sulla coscienza
Ero stanco quella sera. Bussò un signore e mi disse di un bambino che stava male. Gli diedi alcuni suggerimenti e mi feci dare l’indirizzo per visitarlo la mattina successiva.
La mattina trovai la famiglia che vegliava il bimbo morto.
Perché, perché, perché… non mi ero mosso quella sera come avevo fatto tante volte? Quante volte mi sono ripetuto la domanda! Non ho mai trovato una risposta che potesse assopire la mia coscienza.
La morte cercata
La libertà che ha l’uomo è immensa. La decisione più estrema è il suicidio. Ricordo che in gioventù avevo assistito ad una messa nella quale un curato di campagna aveva negato il cimitero cattolico ad un suicida.
Per il nostro ordinamento il suicidio non è più un reato da tanti anni. Rimane reato, e mi pare giustissimo, l’istigamento al suicidio.
La nostra libertà è immensa e nessuno può essere giudicato per l’uso della propria libertà, quando ciò non limiti o condizioni la libertà degli altri.
La morte violenta
Morire per strada è esperienza che ha toccato i sentimenti di molti di noi.
È la prima causa di morte fra i venti ed i trent’anni. È una morte che grida vendetta perché spesso causata da nostra leggerezza.
In Perù è ancora più frequente; un paese povero è anche un paese nel quale le auto hanno le gomme lisce, i freni possono non funzionare, i semafori sono scarsi, gli autobus sovraffollati e vedere morti per strada coperti di fogli di giornale è esperienza quotidiana.
Non mi piace questa morte.
La morte in ospedale
Nel territorio dell’ospedale che contribuisco a dirigere, muoiono circa 1.500 persone all’anno (quelle che nascono sono meno).
Di queste, più del 60% muoiono in ospedale, altre nelle case di riposo e un piccolo numero anche in casa (forse il 20, massimo il 30%; tra l’altro, se si è ammalati terminali, è anche molto costoso morire in casa).
Noi non siamo più capaci di convivere con la morte.
La morte dolce
L’eutanasia è un problema di noi ricchi, non dei paesi poveri.
È facile morire in Perù, come è facile nascere. Più difficile è vivere e, se si muore anziani e/o malati, lo si fa in silenzio e senza tante discussioni. Le terapie del dolore sono un lusso e morire negli ospedali è uno spreco.
No, non sono d’accordo con l’eutanasia, pur conoscendo la sofferenza. Non mi sento però di giudicare chi decide autonomamente di fare propria l’estrema libertà di cui disponiamo. Però diverso è farne una professione.
Noi medici lavoriamo per la vita e solo per questa dobbiamo spendere le nostre forze senza accanirci contro la morte che ci aspetta sempre e che è parte della vita stessa.
La morte mia
Un ragazzo con tubercolosi, che ero riuscito a ricoverare, è stato dimesso perché oramai doveva morire. È morto solo nella sua baracca. Vomitando sangue.
Non conosco la morte in guerra. Me ne hanno parlato i miei nonni e spero di non raccontarla mai a mio figlio.
Quando morirò, se i miei amici vorranno sedersi intorno a quello che resta di me e ricordarsi della vita vissuta insieme e se lo faranno ridendo e bevendo un buon bicchiere di vino, saranno i benvenuti. Se poi invece, per la fretta della nostra vita, non avranno il tempo di farlo, non ne serberò rancore.
E ancora io dico pubblicamente: se servissero, prendete i miei organi, le cornee ed i tessuti che possano aiutare a dare vita a qualche altra persona. La vita continua anche dopo la morte.
Guido Sattin
L’antrace e le guerre dimenticate
I morti dei vincitori e quelli dei perdenti
L’emergenza carbonchio (comunque limitata a pochi casi) è stata affrontata con grande clamore, mentre per Aids, malaria, tubercolosi, febbre gialla, dengue, colera…
Sul treno che da Venezia mi porta a San Donà di Piave (dove ha sede uno degli ospedali nei quali lavoro) si è formato un interessante gruppo di pendolari che, nella mezz’ora di viaggio, si scambiano liberamente le impressioni sul mondo. Siamo medici, psicologi, ingegneri, bancari, funzionari pubblici e privati ed un portiere di notte di un albergo di Venezia, che smonta dal lavoro quando noi andiamo verso il nostro.
Gino è uno del gruppo. È un veterinario con un’esperienza di tanti anni alle spalle. È stato proprio lui a raccontarci del carbonchio, degli animali che ricorda aver visto con questa antica malattia, di alcuni pascoli vietati nella zona di Belluno a causa della sua presenza.
In treno discutevamo con stupore ed incredulità sulle notizie relative al primo caso di terrorismo «biologico» nella storia dell’umanità e cercavamo di ricostruire nella memoria le nostre conoscenze sul carbonchio senza, in verità, ricordarci molto.
Nei nostri ricordi, il carbonchio era una malattia degli erbivori, che solo raramente veniva trasmessa all’uomo e che fondamentalmente colpiva addetti ai lavori (pastori, allevatori, addetti alla macellazione) con una forma cutanea benigna e sensibile alla terapia. Ricordavamo anche una forma intestinale, per consumo di carni infette, e sinceramente nessuno di noi conosceva la forma polmonare.
In Perù, nell’anno 2000, ci sono stati 43 casi di carbonchio cutaneo e intestinale, mentre nei paesi dove vi è un controllo costante ed effettivo della produzione degli alimenti, la malattia umana è pressoché scomparsa.
È quindi una malattia animale, detta anche antrace, dovuta ad un batterio che sopravvive nell’ambiente sotto forma di spora. Nulla di preoccupante, quindi? Tutto sotto controllo? Sì, tutto sotto controllo. Apparentemente. La fantasia distruttiva dell’uomo ha però individuato in questo bacillo e nella sua spora uno strumento di guerra.
Il ragionamento è semplice. Le spore in natura si trovano, in concentrazione molto bassa, in alcuni terreni. È bastato moltiplicarle, renderle in qualche modo più leggere, concentrarle ed ecco che una malattia animale si può trasformare per l’uomo in una temibile infezione polmonare. Dato poi che la fantasia non ha limiti, inserire queste spore leggere in buste della posta ed inviarle a casa delle vittime prescelte, è un gioco quasi da ragazzi.
Se poi le vittime sono le segretarie che aprono le buste ed i postini che distribuiscono la posta, questi sono solo risultati collaterali di una follia che non ha pari e le cui origini nessuno di noi ancora conosce.
No, non mi terrorizza tutto questo, semplicemente mi lascia allibito. Che nei confronti di questo attacco batteriologico si dovesse rispondere con la massima energia, non vi è alcun dubbio. Ma qualche domanda… permettetemi… mi sovviene.
L’antrace, la peste, il vaiolo, il virus Ebola… quante saranno le armi batteriologiche pronte ad ammazzare in maniera casuale e indiscriminata?
Ma, oltre ai responsabili diretti delle azioni (assassini come coloro che hanno fatto crollare le Torri gemelle), quali sono le responsabilità di chi ha studiato e prodotto per anni queste armi in laboratori, più o meno segreti, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Chi ha venduto le tecnologie a paesi terzi? Chi si è rifiutato di firmare la convenzione sulla messa al bando delle armi batteriologiche?
E poi ancora una domanda: perché gli Stati Uniti (colpiti da questo attacco) hanno ottenuto di acquistare gli antibiotici (il «Cipro») a prezzo scontato, dietro la minaccia di togliere il brevetto alla società produttrice (la Bayer), mentre non si riesce ad ottenere la stessa cosa per altre epidemie? (*)
La guerra quotidiana all’Aids, alla malaria, alla tubercolosi… le milioni di vittime di queste tre malattie (per non parlare delle altre più dimenticate, come le diarree infantili, la febbre gialla, il dengue, il colera e chissà quante altre) forse avranno ottenuto meno finanziamenti della produzione dell’antrace nei laboratori di chi ora ne è vittima.
Si sa, i morti dei vincitori pesano sempre più di quelli dei perdenti; quelli poi di chi nasce perdente, non trovano neanche chi osi contarli.
La guerra al terrorismo va fatta, anche duramente. Quella alla povertà è una guerra dimenticata.
(*) Nella riunione dello scorso novembre, a Doha, l’Organizzazione mondiale del commercio ha dovuto fare qualche concessione in materia di brevetti farmaceutici. Ne parleremo prossimamente.
Guido Sattin