Disagio mentale, incontro con Grégoire Ahongbonon


Grégoire non è un prete né un medico, ma in 25 anni ha raccolto e curato 60.000 malati psichici abbandonati per strada o tenuti in catene. Ha creato centri di accoglienza e reinserimento in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Togo. La ricetta: farmaci a basso costo, vita comunitaria, ex pazienti come infermieri. E la forza incrollabile della fede.

A incontrarlo per strada, non gli presteremmo attenzione: quel che colpisce in Grégoire Ahongbonon è proprio l’aria semplice dell’uomo qualunque, gli abiti dimessi, l’espressione mansueta, il tono pacato. Viene alla mente il Libro dei Re (19,9-12), in cui si dice che il Signore non si manifesta in modi altisonanti, tramite vento impetuoso, terremoto o fuoco, ma come brezza leggera. Grégoire è così: di una normalità disarmante. Ma la sua storia è tutt’altro che ordinaria.

Ce l’ha raccontata lui stesso, durante una recente visita in Italia per la presentazione del libro di Rodolfo Casadei su di lui, «Grégoire. Quando la fede spezza le catene», edito dalla Emi.

© Arigossi Fabrizio

Il figliol prodigo

«Sono nato ad Avrankou, nel Sud del Benin, nel 1952. Mio padre ha voluto che fossi battezzato quasi subito, era un cattolico convinto, anche se poligamo», racconta Grégoire. «Non ho avuto l’opportunità di studiare, i miei erano analfabeti e a 14 anni mi hanno ritirato da scuola. A 18 anni sono andato in Costa d’Avorio in cerca di lavoro. Lì ho imparato a riparare gli pneumatici e ho aperto un’officina nella città di Bouaké». Per procurarsi i clienti, Grégoire non esita a spargere per strada chiodi a tre punte, presentandosi poi agli «sfortunati» automobilisti per proporre i suoi servizi a prezzi stracciati. Riesce così a mettere da parte una discreta somma. «A 23 anni possedevo un’auto tutta mia, e ho avviato un servizio taxi acquistando altri quattro veicoli». In Africa le licenze per i taxi sono economiche ma le coperture assicurative costano parecchio e, dopo una serie di incidenti alle sue vetture, Grégoire finisce sul lastrico e viene incarcerato per debiti. È il periodo più buio della sua vita. «Avevo mia moglie e (all’epoca) due figli che non ero in grado di mantenere. Gli amici mi abbandonavano uno dopo l’altro. Sono arrivato a pensare al suicidio». Ma mentre sta per ingoiare le pastiglie, una voce interna lo dissuade. «Ho compreso che la mia vita non mi apparteneva, che era un dono da non sprecare. In quel momento ho sperimentato la Grazia che opera anche quando si è nel peccato, lontani da Dio». La crisi esistenziale spinge Grégoire a riavvicinarsi alla chiesa, trovando una guida in padre Joseph Pasquier, parroco della cattedrale di Bouaké, che lo tratta come «un figliol prodigo» e a un certo punto gli propone – e gli paga – un viaggio in Terra Santa. «In quel momento ho chiesto tre grazie: imparare a mettere in pratica il Vangelo; che anche mia moglie Léontine potesse venire a Gerusalemme; che mia madre, animista, si convertisse al cattolicesimo». Preghiere che, nel corso degli anni, verranno esaudite.

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«Tornato da Gerusalemme, con Léontine e alcuni amici ho fondato un gruppo di preghiera e abbiamo iniziato ad andare in ospedale ad assistere i malati poveri e soli, portando loro da mangiare, lavandoli, sostenendo i costi per il ricovero e le medicine». Grégoire, che è riuscito a trovare lavoro in una tipografia, spende quasi tutto per questi servizi. È la moglie a provvedere ai bisogni della famiglia vendendo frutta e verdura. Intanto, il gruppo di preghiera di Bouaké si trasforma in associazione, dedicata al santo patrono dei malati: nasce così l’Association Saint Camille de Lellis, il cui statuto prevede l’impegno «contro ogni forma di esclusione sociale» e i cui volontari si dedicano ai carcerati, ai poveri, ai bambini di strada. Sembra che più di così non si possa fare. Ma un incontro cambia, ancora una volta, la vita di Grégoire spingendolo a una nuova «conversione».

«Questa è l’opera di Dio»

È l’autunno del 1991. Come ogni mattina, Grégoire inizia la giornata andando a messa. Uscito di chiesa vede un uomo seminudo, sporco, che fruga tra le immondizie in cerca di cibo: è un «matto» come ne ha visti decine di volte, ma questa mattina Ahongbonon ha un’illuminazione: «Tutti i giorni cercavo Dio nell’eucarestia, ed eccolo davanti a me, in quel malato. È avvenuto un miracolo: mi è stata restituita la vista. Prima quegli esseri mi facevano paura. Ma se nel malato psichiatrico vedi il volto di Gesù, non hai più paura». Da questo momento ogni sera Grégoire gira la città per portare a queste persone acqua, cibo cucinato da Léontine, vestiti puliti. I «matti», per lo più maltrattati o ignorati, accettano la sua presenza. In breve diventano quasi una ventina quelli incontrati ogni notte. Ma Grégoire non si dà pace: «Finito il giro, io e gli altri volontari tornavamo tranquilli a casa, mentre loro restavano in strada abbandonati a se stessi, in balia di qualunque pericolo». Perciò chiede e ottiene da uno psichiatra francese di accoglierli nell’ospedale di Bouaké; in cambio l’Association Saint Camille si deve accollare i costi di cibo e farmaci. Il numero di ricoverati aumenta in maniera esponenziale: preti, missionari, cittadini si mobilitano per far arrivare aiuti, ma anche per segnalare altri malati di strada da raccogliere e portare all’ospedale. Lo spazio manca, c’è sovraffollamento.

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Nel ‘93 il ministro della Sanità ivoriano viene a conoscenza del lavoro della Saint Camille e decide di assegnarle 2.400 m² di terreno all’interno del recinto ospedaliero per creare un nuovo centro di accoglienza. L’associazione però non ha i soldi per costruirlo: gli amici e i volontari, sia laici che religiosi, invitano Grégoire a desistere. Non bastano i soldi per le medicine, come pensare a un nuovo edificio? Ma lui non sente ragioni: «Dobbiamo fidarci della Provvidenza, questa è l’opera di Dio, non la nostra. Penserà lui a tutto».

Il 14 luglio del 1994 nasce il primo centro d’accoglienza per malati psichici della Saint Camille (il 14 luglio è San Camillo, ndr).

Crocifissi viventi

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Nello stesso anno, alla vigilia della domenica delle Palme, accade un fatto inaspettato: sul far della sera Grégoire riceve la telefonata di una donna che gli chiede di andare a soccorrere il fratello, malato di mente, da tempo tenuto imprigionato dalla famiglia. «Ero sbigottito, era la prima volta che sentivo parlare di malati incatenati», ricorda Grégoire. «Mi sono subito messo in viaggio, ma arrivato al villaggio mi sono scontrato con i genitori del ragazzo che non volevano farmi entrare in casa. Dicevano: “Ormai è marcio, non si può fare nulla”. Io insistevo per vederlo, i toni sono saliti, ho minacciato di chiamare la polizia e alla fine il capo villaggio mi ha fatto entrare.

Avevo visto decine di malati psichici in condizioni gravi, ma mai mi sarei aspettato una scena simile. Kouakou era incatenato a terra nella postura di Gesù in croce, gambe e braccia legate da un filo di ferro. Il ferro era penetrato nelle carni e formava con esse una massa indistinta, era in stato di putrefazione». Il mattino dopo Grégoire torna al villaggio insieme a un’infermiera, con un paio di cesoie per liberare il ragazzo. «Quando l’abbiamo portato in ospedale, Kouakou non finiva di ringraziare e ripeteva: “Non capisco perché la mia famiglia mi ha fatto questo, io non sono cattivo”». Pochi giorni dopo, a soli 21 anni, Kouakou muore di setticemia. «Non abbiamo potuto salvarlo, ma è morto con dignità, come un essere umano».

Spiriti maligni, catene immonde

© Arigossi Fabrizio

Da quel momento Grégoire inizia a girare nei villaggi armato di cesoie, seghe e martelli. In 25 anni libererà un migliaio di malati psichici incatenati o con gli arti bloccati da ceppi di legno. «Il caso limite è stato quello di Janine, una donna tenuta 36 anni con il braccio incastrato in un tronco, vicino a un immondezzaio. Abbiamo potuto ridarle la libertà e curarla, ma è rimasta storta, non è più riuscita a raddrizzarsi». Come può un familiare ridurre così i propri cari? «Non bisogna giudicare», dice Grégoire, «le famiglie agiscono così per ignoranza e paura: non sanno cosa fare, temono che il malato faccia del male a qualcuno, che sia posseduto dagli spiriti maligni e possa contaminare gli altri. Ma se vi offrite di liberarlo e portarlo in un centro di cura, sono riconoscenti».

Ben più scandalosi per Grégoire sono i trattamenti dei malati nei «campi di preghiera». Gestiti da sedicenti guaritori e profeti – animisti, cristiani o islamici – che vantano doti taumaturgiche e ne fanno strumento di ricchezza e prestigio. Questi campi possono ospitare centinaia di malati tenuti legati all’aperto, esposti alle intemperie, lasciati tra gli escrementi, privati per alcuni periodi di cibo e acqua e picchiati per far uscire dal corpo gli spiriti immondi. Non è raro che qualche malato perda la vita. «Una volta, arrivati in un campo, abbiamo visto una ragazza digiuna da giorni che, spinta dalla fame, ha afferrato un pollo mentre le passava vicino e l’ha divorato vivo. Dopo un paio di giorni è morta». Ahongbonon si scontra spesso con i responsabili dei campi di preghiera, «Cristo è venuto per togliere le catene, non per metterle». La sua battaglia culturale,  negli anni, dà i suoi frutti: «Teniamo incontri periodici con le famiglie, per spiegare che quella psichica è una malattia come le altre, da curare con le medicine e con l’amore, non opera di stregoneria». Oggi sono sempre più numerose le famiglie che affidano i malati all’Association Saint Camille, ma Grégoire lamenta la latitanza delle autorità politiche e religiose nel contrastare le attività dei campi di preghiera.

Da malati a terapeuti

Grégoire e la sua associazione creano decine di centri in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Togo. Oggi sono 26.000 i malati assistiti, attraverso un triplice sistema: fornitura di psicofarmaci a basso costo; accoglienza di tipo comunitario fondata sull’amore e la condivisione; équipe curante costituita in prevalenza da ex pazienti. Sul primo punto, i prezzi applicati nei centri dell’associazione possono arrivare anche a un sesto o un settimo di quelli standard, in virtù della scelta di usare solo farmaci generici di prima generazione (svincolati da brevetto), acquistati inoltre in grandi quantità per spuntare prezzi convenienti.

La vita nei centri si svolge su base comunitaria, malati e operatori condividono la quotidianità. Ogni centro può ospitare fino a 200 persone; in ognuno c’è una cappella che serve anche da alloggio e dormitorio per alcuni malati perché, dice Grégoire, «Dio è felice di stare vicino ai suoi poveri».

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Una volta al giorno, per chi lo desidera, c’è un momento di preghiera collettiva, «ma la partecipazione è libera; nei nostri centri accogliamo persone di qualsiasi fede religiosa, senza distinzioni».

Un ulteriore elemento terapeutico è costituito dagli ex malati – ormai guariti o stabilizzati grazie ai farmaci – che si prendono cura degli altri, dopo essersi formati come operatori o infermieri. Questi ex pazienti sono assunti e retribuiti regolarmente; come avviene in molte parti dell’Africa, data la carenza di medici, il loro compito è visitare, fare diagnosi, prescrivere farmaci.

Alcuni di loro hanno assunto ruoli direttivi, come Pascaline, un’ex paziente oggi direttrice del centro di Calavi (Benin). «Questo è un incoraggiamento per i malati che arrivano e si trovano davanti qualcuno che era nelle loro stesse condizioni e adesso è rifiorito».

Ci sono anche alcuni operatori che non sono mai stati malati, i quali condividono l’obbligo di abitare nel centro, e psichiatri occidentali che effettuano visite periodiche per monitorare le terapie. Oltre ai centri d’accoglienza il sistema prevede anche centri di reinserimento, dove i pazienti imparano un mestiere, e centri relais, cioè ambulatori/farmacie dove i malati dimessi e tornati al villaggio hanno a portata di mano i farmaci necessari, per prevenire eventuali ricadute.

Basaglia africano

L’opera di Ahongbonon si colloca nel filone indicato da San Daniele Comboni, «salvare l’Africa con l’Africa». Per una curiosa coincidenza storica, Grégoire ha iniziato a liberare i malati psichici in Costa d’Avorio negli stessi anni in cui in Italia diventava attuativa la Legge Basaglia, che liberava i «matti» dai manicomi. Ad accomunare le due esperienze la centralità della persona malata, la relazione affettiva, il rifiuto della contenzione, la terapia del lavoro, il reinserimento nella famiglia e nella società. Come scrive lo psichiatra Eugenio Borgna nella prefazione al libro di Casadei, si tratta in entrambi i casi di «una psichiatria aperta alla comprensione della follia e alla solidarietà», capace di riconoscere nei malati mentali «la presenza di un’umanità ferita dal dolore, bisognosa di ascolto e accoglienza».

Oggi Grégoire, che in questi anni ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali (dal Premio per la lotta contro l’esclusione sociale dell’Oms – Organizzazione mondiale della sanità, alla proclamazione di «africano dell’anno» nel 2015) continua a guardare avanti: il suo obiettivo ora è aprire un centro per tossicodipendenze a Dassa, in Benin, «perché molti malati psichici fanno uso di droghe e questo peggiora le loro condizioni». A 66 anni, Grégoire non ha ancora trovato un successore che possa prendere le redini dell’associazione da lui fondata. In verità, nemmeno lo cerca, affidando tutto alla Provvidenza. Ma qualcuno che cammina sui suoi passi c’è: Nicole, la più piccola dei suoi sei figli, di 28 anni, si è laureata in medicina e oggi sta frequentando il secondo anno di psichiatria.

Stefania Garini

© Arigossi Fabrizio

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Il matto della


Come curare la malattia mentale?

«Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però
non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Con che terrore, quindi, mi sono trovato davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile!». Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, in Perù.

Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Poi, per quegli strani scherzi del destino, nella mia vita di medico mi trovai ad affrontare proprio quegli aspetti della medicina che più mi erano apparsi ostici durante il lungo periodo degli studi universitari.
Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, quando per la prima volta mi trovai davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile.

Nella «Posta medica municipal» numero 1, la prima del sistema ambulatoriale di Villa El Salvador, lavoravo come di consueto con Julio, il «mio» infermiere che ne sapeva sempre una più di me.
Un giorno, dopo aver visitato i soliti bambini con bronchiti e mal di gola e aver ricettato come sempre Ampicillina e «agua de eucalipto» (però di quello canforato), Julio fece entrare nello studio un grasso signore con il viso sporco, ma soddisfatto, e le mani macchiate di sangue.
«Buenos dias señor – gli dissi – que le pasa?».
«Niente» mi rispose.
«Come mai allora – gli ribattei con la mia stringente logica universitaria – ha le mani sporche di sangue?».
«È la Gillette, dottore. Mia cognata non voleva farmi uscire».
Solo a questo punto mi accorsi che la camicia, sotto la giacca unta, era coperta da una spaventosa macchia di sangue.
«Ma che ha fatto, señor?» e rapidamente gli sfilai la giacca.
«Julio corri!» gridai spaventato.
«Si calmi, doctorcito, non è niente – mi ribattè l’uomo ferito -. Mia cognata non voleva farmi uscire e allora con la Gillette… È un taglio perfetto, sono un esperto».
Julio arrivò con la calma che gli ho sempre invidiato e mi aiutò a togliergli la camicia.
«Carajo (forte esclamazione gergale, ndr) – esclamai -, non ho mai visto un taglio così».
Lo distendemmo sul lettino e ci guardammo con gli occhi spalancati. Mandai Julio a prendere il metro e insieme misurammo quel taglio, pressoché perfetto, che in tutti i suoi 35 centimetri di lunghezza metteva in mostra il sottocutaneo e un notevole strato di grasso.
«E adesso – dissi – che facciamo?».
«Cuciamo!» mi rispose con tono tranquillissimo il nostro matto.
«Cuciamo lo dico io!» gli ribattei un poco ferito nell’orgoglio, ma anche ricordando che l’orlo dei pantaloni (che avevo tentato di fare un paio di giorni prima) mi era venuto talmente storto che la signora Mila me li aveva fatti sfilare per rifare la cucitura.
Nel frattempo, Julio si era munito di garze, disinfettante e pinze e aveva cominciato a pulire la ferita. La boccetta di Xilocaina era pronta per anestetizzare la parte e cominciare a cucire.
Il matto continuava intanto ad osservarci con sempre maggiore ammirazione ed interesse (se i pazienti fossero stati tutti così, forse anch’io sarei diventato un grande medico).
«Che cos’è quella boccetta» mi chiese.
«Xilocaina, è un anestetico locale» gli risposi.
«Eh no dottore – mi rispose fermandomi la mano -. Non voglio niente del genere».
«È per non farle sentire dolore» gli spiegai.
«Ma per me è un piacere. Ho molta esperienza».
Effettivamente, pulendo la ferita e la pelle intorno, cominciarono a comparire i segni di anteriori imprese dello stesso tipo.
«D’accordo! Julio, passami ago e filo. Cominciamo!».
«Dottore, che splendida mano, che passi da gigante ha fatto la chirurgia ai giorni nostri, che strumenti perfetti!».
Con Julio ci guardammo e ci immaginammo in una modea sala operatoria alle prese con un difficile intervento, circondati da monitors, con un nugolo di studenti che ci osservavano. Invece, ci trovavamo sotto il neon di un ambulatorio di periferia a cucire la pancia di una persona, feritasi con una lametta Gillette a causa di una cognata insofferente. Un matto che ci spronava e si ergeva a unico testimone dell’impresa di un medico alle prime armi e di un grande infermiere ai suoi inizi.
Nonostante le mani tremanti e il filo che finiva, arrivammo in fondo, pieni del nostro orgoglio e con i complimenti del matto. Gli bendammo la pancia e lo mandammo a casa con tante raccomandazioni.

Tre o quattro giorni dopo, mentre stavo visitando un’intera famiglia con «rasca-rasca» (letteralmente «gratta-gratta», è il termine popolare per definire la scabbia, ndr), Julio mi chiamò: «Dottore, venga è tornato il matto».
«Arrivo subito. Controllagli la ferita intanto».
«Corra dottore, presto!» sentii la voce insolitamente trafelata del fido infermiere.
Corsi nella stanza e vidi la faccia allucinata di Julio e quella tranquilla e soddisfatta del matto.
«Carajo – esclamai -, si è infettata?».
«No dottore, sa …, ho trovato una Gillette e allora ho pensato a voi… E poi mia cognata…».
«Cosa ha fatto? Un’altra volta!».
Ci guardammo in faccia con Julio che mi lesse nel pensiero dicendo: «Chiamo subito l’ambulanza, dottore. Abbiamo finito il filo».
Lo mandammo a Larco Herrera, il manicomio di Lima.

Solo anni dopo, seduto nella grande sala del «castello» del «Residuo psichiatrico» (che razza di nome, eh?) di Montecchio Precalcino (Vicenza), mi resi pienamente conto della tragedia del matto della Gillette e di sua cognata.
La primavera è prepotente nelle verdi campagne venete sulle quali sorge questa collinetta popolata di alberi e matti. Anche qui capitai per caso, accettando una sfida che mi avevano proposto: demolire il «Residuo psichiatrico» (ma chi mai avrà inventato una definizione così grossolana e tremendamente vera e frustrante?), nel quale vivevano ancora 2.500 ospiti e un centinaio fra infermieri, suore e impiegati.
La paura e l’orrore della malattia mentale non mi hanno mai abbandonato e, se affrontare un paziente psichiatrico mi stressava, affrontare un intero manicomio mi terrorizzava.
Forse fu la signora Spiller, con i suoi deliri di persecuzione che lasciavano improvvisamente posto a grandi e composti gesti d’affetto, che mi aiutò a cercare più in profondità. Forse fu la rabbia di ascoltare rimpianti di un passato in cui, a Montecchio, un medico si occupava di 700 ospiti e dove, anche da morti, i matti non uscivano dai recinti del manicomio. O forse furono la grande speranza e serenità di Riccardo, psichiatra dall’eterno toscano in bocca, a coinvolgermi e farmi intravvedere la possibilità di un cambiamento.

A distanza di anni, una cosa debbo scrivere per liberarmi da un peso troppo grande per la mia coscienza di uomo, più che di medico. La medicina, la psichiatria e la società civile che hanno inventato, moltiplicato e poi tollerato i manicomi hanno fallito e in questo loro fallimento hanno trascinato migliaia e migliaia di persone.
E se, a quasi 25 anni dall’abolizione ufficiale dei manicomi (legge n.180 del 13 maggio 1978, conosciuta come legge Basaglia, ndr), a Montecchio Precalcino ci sono ancora persone, la società civile ha rimosso il problema e la modea psichiatria ha fallito ancora.
Cucire la pancia al matto della Gillette bisognava certamente farlo, ma cosa bisognava fare per convincerlo a non tagliarsela più? Non ho ancora trovato una risposta.
Ma il mio vero cruccio non è tanto questo, quanto piuttosto di averlo mandato in un manicomio. Ovvero nel luogo che racchiude tutti i fallimenti dei nostri maldestri tentativi di affrontare la malattia mentale.

di Guido Sattin (*)
La «Fondazione Ivo de Caeri»

IL LABORATORIO DI PEMBA

Nei paesi in via di sviluppo, malattie respiratorie, malaria, diarree, parassitosi di varia origine sono tra le principali cause di malattia e di morte nei bambini al di sotto dei 5 anni.
Risultati di recenti ricerche hanno messo in evidenza che l’aggiunta di piccole quantità di ferro e di zinco alla dieta quotidiana di questi bambini è in grado di migliorae la crescita e lo sviluppo fisico e mentale.
La «Johns Hopkins School of Public Health», una delle più importanti scuole inteazionali di salute pubblica, in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha scelto per l’Africa l’isola di Pemba, in Tanzania, e il laboratorio di sanità pubblica «Ivo de Caeri», per valutare i primi risultati di questa sperimentazione sulla popolazione infantile.
Il progetto durerà due anni e si svolgerà contemporaneamente anche in India e in Nepal. Dal punto di vista finanziario, esso è sostenuto da diverse organizzazioni: «United States Agency for Inteational Development», «United Nations Foundation», «Bill and Melinda Gates Foundation».
Il laboratorio di Pemba, ultimato nel maggio del 2000, sorge su un’area di oltre 700 metri quadrati e comprende laboratori di parassitologia, microbiologia e virologia, un’aula per formazione, educazione sanitaria e conferenze, una biblioteca, uffici e servizi generali. È stato ufficialmente inaugurato il 12 giugno (giorno della nascita del prof. Ivo de Caeri) alla presenza delle autorità sanitarie locali, di membri dell’Oms e dell’ambasciatore italiano in Tanzania. Il personale occupato sarà tutto locale.
Il sostegno economico dei donatori e l’opera volontaria di tutte le persone che lavorano per la «Fondazione de Caeri» hanno permesso la realizzazione di questo importante laboratorio di sanità pubblica, in un’area geografica dove non esistono strutture sanitarie. Ancora oggi parte della popolazione (non solo infantile, ma anche adulta e produttiva) soccombe a causa di malattie che, in altri paesi del mondo, sono ormai dimenticate.
Per la Fondazione Ivo de Caeri la collaborazione con la «Johns Hopkins» (che coinvolge, oltre al personale del laboratorio, strutture governative, sanitarie e popolazione dell’isola) è motivo di grande soddisfazione e di stimolo a intensificare la propria opera e l’impegno futuro in Africa.
Silvana Maggioni


La campagna di «Medici senza frontiere» (MSF)

L’ACCESSO AI FARMACI ESSENZIALI

Il cornordinatore della campagna MSF per l’accesso ai farmaci essenziali, dottor Pecoul, così si è sfogato: «Sono stanco di constatare come il profitto abbia sempre la meglio sul diritto alla salute. Sono stanco della logica secondo cui chi non può pagare, muore».
L’accesso a farmaci essenziali ed efficaci è negato ai poveri per una delle seguenti ragioni:
– il prezzo proibitivo dei nuovi farmaci sotto brevetto;
– la ricerca e lo sviluppo trascurano le malattie dei poveri, mentre farmaci attualmente in uso sono ormai inefficaci per la diffusione di microrganismi resistenti;
– la produzione di farmaci, pur efficaci, è insufficiente o abbandonata, perché i pazienti non garantiscono un profitto.
La disponibilità di medicine non è l’unica garanzia per una condizione di buona salute. Ma è essenziale. Le attuali politiche farmaceutiche, in termini di mercato e di ricerca, sono regolate in modo da escludere la maggior parte dell’umanità. Consideriamo questo squilibrio un’inaccettabile violazione del diritto fondamentale alla salute.
Per questo motivo MSF, insieme ad altre associazioni non governative italiane (Lila, Farmacisti senza frontiere, AiBi, Cuamm, Mani tese, Fondazione internazionale Lelio Basso, Aifo), rivolge un appello a tutti i cittadini per sollecitare una forte presa di posizione del nostro governo e dell’Unione europea, affinché l’accesso ai farmaci salvavita sia sempre e comunque garantito.

Per ulteriori informazioni:
«Medici senza frontiere» – via Voltuo, 58 – 00185 Roma
tel. 06.4486921
fax 06.44869220
E-mail: msf@msf.it

Guido Sattin