Io sono tutte le donne


In queste pagine sono riportati alcuni dei racconti che hanno vinto il XIII Concorso Lingua Madre del 2018. Dello stesso Concorso, MC ha già pubblicato diversi testi nell’agosto 2016. Ringraziamo Daniela Finocchi, ideatrice del concorso, per averci offerto questi scritti. Siamo felici di pubblicarli proprio in questi giorni in cui le donne, a cominciare da quelle iraniane, sono protagoniste e promotrici di grandi cambiamenti.

Il Concorso letterario nazionale Lingua Madre

È un progetto permanente di Regione Piemonte e Salone internazionale del libro di Torino, ideato da Daniela Finocchi, nato nel 2005 per dare voce a chi spesso non ce l’ha. Diretto alle donne migranti (o di origine straniera) e alle italiane che vogliano raccontare l’incontro con l’altra, promuove la relazione. Si può partecipare con un racconto o/e una fotografia, da sole, in coppia o in gruppo e ci si può far aiutare da un’altra donna se non si ha dimestichezza con l’italiano scritto.

Ma non si esaurisce con il Premio letterario e fotografico (per chi volesse partecipare, è in corso la XVIII edizione che si concluderà il
15 dicembre). Durante l’anno, infatti, vengono realizzati incontri e iniziative proprie o sviluppate in collaborazione con altri soggetti pubblici e privati, che coinvolgono direttamente le autrici e le rendono protagoniste. E ancora un podcast, la sezione audioracconti, una borsa di studio annuale destinata a una giovane, speciali online, produzioni video e spettacoli teatrali tratti dai racconti.

A questo si aggiunge l’attività di ricerca su letteratura e migrazione femminile svolta da docenti – straniere e italiane – che fanno parte del gruppo di studio. Un lavoro poi divulgato con volumi di approfondimento, seminari, convegni.

Le 17 antologie con i racconti selezionati delle autrici – da cui sono tratti i racconti qui pubblicati – rappresentano un vero patrimonio della letteratura della migrazione, il 4 novembre verrà presentato il libro Lingua Madre Duemilaventidue – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27), presso il Circolo dei lettori di Torino.

Il bando e tutte le novità si possono trovare sul sito www.concorsolinguamadre.it

Daniela Finocchi

Sommario

 


Storie vere di donne migranti

Valeria Rubino

Nasce e cresce a Verona. Studia giornalismo e dopo una breve esperienza lavorativa a Londra, nel 2015 – al culmine dell’emergenza sbarchi dei richiedenti asilo giunti tramite la Libia – torna nella sua città. Da allora lavora per una Cooperativa sociale all’interno del progetto «Immigrazione», occupandosi dell’accoglienza dei cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale sul territorio di Verona e provincia.

Il suo racconto, «K.19», ha vinto il premio «Sezione speciale donne italiane» della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Per la capacità di raccontare senza sconti le violenze subite dalle donne migranti dall’Africa all’Europa. Per lo sguardo di lucida empatia con cui ogni storia è narrata nella sua unicità, mettendo tuttavia in evidenza la comune deumanizzazione che la violenza contro le donne in quanto donne produce in chi la subisce. Per l’azione politica svolta dalla denuncia di crimini contro l’umanità che chi racconta svolge con prosa attenta, senza concedere nulla al pietismo e alla commozione. Malattie, leggi, gravidanze, guerre, stupri diventano voci di tante piccole carte d’identità a cui si aggiunge quella dell’autrice che si riconosce in tutte e soprattutto nell’affermazione della dignità femminile presente in ogni storia».

K.19

K.

K. è nigeriana ed ha 19 anni. È cresciuta senza madre, della quale non sa nulla, con il padre. Il padre che, fin da bambina, la chiudeva a chiave in casa usciva per andare al lavoro, poi tornava la sera pretendendo che la figlia avesse preparato la cena e sistemato la casa. Beveva e si approfittava sessualmente di lei. Un giorno K. è riuscita a fuggire. Non avendo nessuno, ha vagabondato per le strade per mesi. Poi qualcuno le ha offerto la salvezza: un viaggio pagato per l’Europa e un lavoro al suo arrivo. Così K., attraversando Nigeria e Niger è arrivata in Libia. Poi i barconi. Poi la costa. È Italia.

K. arriva alla città cui è stata destinata, in qualità di richiedente asilo.
Una casa, dei pasti caldi, assistenza burocratica e sanitaria, scuola, scoperte.
E un uomo che inizia a chiamarla, per «quel lavoro» che le era stato promesso.
Prostituzione.
Io non sono una prostituta.

Devi restituire ventimila euro.
Per cosa.
Per il viaggio che ti è stato pagato.
Io non sono una prostituta.
Se non accetti faremo del male a tuo padre.
Non mi importa, è un uomo cattivo.
Faremo del male a tua madre.

Ho perso mia madre quando ero bambina, non l’ho mai conosciuta.
L’abbiamo ritrovata, se non vuoi che le venga fatto del male fai quello che ti viene chiesto. Puoi parlarle al telefono, se non ci credi.
A questo punto K. ha parlato con una donna per telefono. Piangeva. La pregava di ascoltarli, di fare quello che le stavano chiedendo, perché avevano minacciato di ucciderla.

K. è una bambina. I traumi che ha subito non le hanno permesso di crescere. Con l’ingenuità di chi ha dieci anni e la consapevolezza di chi ha vissuto la violenza si rivolge all’operatrice della struttura di accoglienza, e le chiede cosa fare.
Nulla. Quella non è tua madre. Vogliono fartelo credere per ricattarti. K., qui c’è qualcuno che può aiutarti.
Rete anti-tratta.

E.

E. è nigeriana e ha 21 anni. È rimasta nel centro di accoglienza dieci giorni, poi è scomparsa. Due mesi dopo ha contattato telefonicamente il centro.
Prostituta. Incinta di una violenza. Aiutami.

La rete anti tratta, contattata con il numero verde, l’ha trovata dove aveva detto di essere. Era fuggita da chi la stava costringendo a vendersi per restituire quello stesso debito che affligge tutte, o quasi tutte, le ragazze nigeriane che arrivano in Europa.

E. è stata inserita in una struttura protetta. I suoi sfruttatori non hanno più saputo nulla di lei, né nessun altro. Chi viene protetto semplicemente scompare.

D.

D. è burkinabè e ha 23 anni. Quando è arrivata in Italia era analfabeta. Ha lasciato in Burkina Faso le violenze della sua famiglia. E la tristezza.

In un anno ha imparato a leggere, scrivere, e l’italiano.
sorride sempre. Aiuta chiunque a fare qualsiasi cosa.
D. è forza e meraviglia.
Ha trovato con le sue sole forze un lavoro, e con il suo contratto in mano ha lasciato il programma di accoglienza, per occuparsi a tempo pieno di una signora anziana, che le vuole bene.

L.

L. è nigeriana e al suo arrivo in Italia ha dichiarato di avere 21 anni. Ma L. aveva il viso di una quindicenne.
Quando è arrivata era incinta. Non se n’era accorto nessuno, in Sicilia. Una ragazzina magrissima, chiusa in un giaccone troppo grande per lei.
Arriva al centro di accoglienza una sera di dicembre.

L., come stai? Di quanti mesi sei? Ti hanno controllata? Il tuo bambino si muove?
L. sorride e risponde bene. Sette. Sì. Sì.

Due ore dopo inizia a stare male. Ambulanza. Ospedale.
Altre due ore dopo L. partorisce un bambino. È maschio. Ed è morto da due o tre giorni.
Funerale.

L. torna al centro, e si aggira come un fantasma.
Dopo qualche tempo, raccoglie le sue quattro cose e senza dire nulla sparisce. Il numero di telefono già dal giorno dopo risulta staccato. L’ennesima carta sim buttata per non farsi più trovare.

S.

S. è nigeriana e ha 3 anni. Quando è arrivata, con i suoi genitori, ne aveva due ed era una bambina inavvicinabile. Respingeva qualunque tipo di contatto iniziando a graffiare, spingere, schiaffeggiare e urlare con tutta la forza della sua voce stridula. La madre sorrideva tristemente dei modi della figlia.

A un anno dal suo arrivo S. corre in braccio alle persone che ha imparato a riconoscere. Gioca, ride, è allegra e impara in fretta. Ha adottato a fratello un bambino di 10 mesi che ha vissuto con lei, e se ne è presa cura.

F.

F. e B. sono eritree e hanno 20 e 23 anni. Al loro arrivo F. era incinta di otto mesi e B. aveva partorito M. pochi giorni prima, in Libia. Si era imbarcata con questo bambino di sei giorni e la ferita del parto non curata, che si era infettata male.
Durante la loro permanenza nel centro F. ha avuto A., una bambina sana e bellissima.

F. è stata curata e il suo bambino ha lentamente preso peso.
Poco tempo dopo, secondo la deroga della legge «Dublino III» che prevede il ricollocamento di richiedenti protezione internazionale in uno degli stati che hanno aderito a tale legge, sono state rilocate e hanno raggiunto i loro parenti, in Europa.

P.

P. è nigeriana e ha 23 anni. Al suo arrivo era debole. Ha scoperto in un ospedale siciliano di essere positiva a Hiv ed Epatite B, probabilmente contratte a causa delle varie, troppe, violenze subite nel suo tentativo di arrivare in Europa.

P. oggi è in cura, e sta bene. È eccentrica e ha un carattere potente. È sorprendentemente positiva e trascina chiunque le si avvicini in una risata.

Si rabbuia quando va alle visite. Quando chi la segue le fa domande sulla sua situazione. Ma ha individuato di chi fidarsi, e queste poche persone godono del privilegio di poter entrare dentro la sua personalità trascinante.

In Italia questo tipo di infezioni, per quanto al momento incurabili, possono essere trattate. Le cure garantite permettono a chi ne beneficia di avere una vita assolutamente normale e di poter decidere di avere bambini senza infettare il o la partner.

P., con le cure e queste informazioni, è rinata. E investe le persone di benessere.

F.

F. è per metà ghanese e per metà nigeriana, e ha 2 anni. Quando è arrivata non li aveva ancora compiuti, e con lei c’era il papà. Storia strana. Le statistiche dimostrano che la stragrande maggioranza di minori che arrivano con un genitore solo sono con la madre.

S., il papà, fatica a prendersi cura della bambina.
Mia moglie è rimasta in Libia. È incinta. C’è stata un’incursione nella nostra casa, hanno iniziato a sparare. A casa c’eravamo solo io e mia figlia, mia moglie era uscita. Ho preso la bambina e sono scappato. Non so come fare. Ho bisogno di aiuto.
La moglie non si trovava.

Sei mesi dopo S. dice che C., sua moglie, è sbarcata in Sicilia.
Partono le pratiche per il ricongiungimento.
F. arriva, devastata dall’esperienza e dalla gravidanza di ormai otto mesi.

L’incontro con F. è emozione strana, perché la bambina sulle prime non la riconosce. È scettica, e si rifugia tra le braccia del padre.
Nei giorni successivi C. riconquista la fiducia di F., piano piano. E un mese dopo nasce S., minuto, ma sano.

M.

M. è nigeriana e ha 24 anni.
Non sto bene, non ho forze, dice.
Pronto soccorso. È malaria. E una gravidanza recente. La malaria non si può curare definitivamente in una persona in gravidanza, perché le cure danneggiano il feto.

M. sapeva. Temeva.
Mi hanno stuprata. In Libia. Non posso tenere il bambino.

Il passo successivo è l’accompagnamento per l’interruzione della gravidanza.
Poi la malaria è stata curata.

M. al suo arrivo era schiacciata dalla vita. Con lentezza si è ripresa.
In Nigeria ero infermiera, dice. Potrei esserlo anche qui.

M. ha iniziato a studiare. Ha ricostruito la sua vita passo a passo.
E avanza, fiera.

J.

J. è gambiana e ha 17 anni. È arrivata con colui che si era dichiarato suo fratello, e che non la lasciava sola un attimo. J. è stata subito ricoverata in ospedale per problemi vari. H., suo fratello, le è rimasto sempre appresso.

Due giorni dopo il rientro dall’ospedale J. è sparita.
H., interpellato, non ne so nulla, diceva.
Non c’era preoccupazione in lui.

Sale, negli operatori del centro, la rabbia. È rabbia di impotenza. È rabbia per aver perso una ragazza minorenne avendo la sensazione che colui che dice di essere suo fratello non lo sia, e l’abbia venduta.
Parte una denuncia che non porterà a nulla. J. è in un buco nero.
H., pressato dalle richieste, dopo qualche giorno scompare anche lui.

W.

W. è eritrea e ha 22 anni. Nel suo paese era un soldato.
Durante l’addestramento ha dovuto subire un’iniezione «per non rimanere incinta». Da allora non le viene la mestruazione.

Questo tipo di pratica viene applicata per evitare di perdere soldati per colpa delle gravidanze, sia che si tratti di una donna che ha avuto un rapporto consensuale sia che si parli di una violenza sessuale. Cose che succedono.

A causa delle esperienze vissute in addestramento (W. non è mai stata in guerra) ha dei problemi di vista e di udito. Dice di sentire qualcosa che le martella dentro la testa.
Le visite hanno escluso problematiche reali.
Traumi, dicono.

U.

U., V., C., H., U., J. sono chi della Nigeria, chi del Camerun e hanno tra i 21 e i 29 anni. Sono tutte mamme e mogli. Sono arrivate con i loro mariti e i loro bambini.

Nella grande casa che è il loro centro di accoglienza sono state fin da subito trattate come invasori. Il paese nel quale vivono non ha mai accettato queste sei famiglie, in tutto dodici adulti e undici bambini, di età compresa tra i due mesi e i tre anni.

Un giorno due uomini, italiani, hanno fatto irruzione nella casa spaventando i bambini, insultando le donne e aggredendo uno dei ragazzi. U. ha bloccato la porta e ha chiamato i carabinieri. Poi ha sporto denuncia, insieme agli altri.

Gli aggressori si sono difesi sostenendo di essere stati trascinati in casa dagli ospiti.
Video girati sul posto dimostrano la loro colpevolezza.

V.

V. è italiana e ha 30 anni. Da due anni e mezzo lavora come operatrice in diversi centri di accoglienza per richiedenti asilo. V. non è straniera, non in Italia, non nel senso stretto del termine. Ma per il tipo di lavoro che fa si ritrova a interiorizzare storie ed esperienze di donne straniere. A subire espressioni razziste per la parte presa in questa invasione.

Eppure, V. pensa che non ci siano parti da prendere. Che non ci sia un noi e un loro.
V. sono io. Io sono tutte le donne che hanno creduto di poter meritare una vita diversa.
Sono chi sa di valere quanto e come un uomo, e per questo non vuole vivere sottomessa.

Sono tutte le donne che sanno di avere diritto all’istruzione. Alla felicità. Alla salute. A un equilibrio mentale.
Sono quelle donne che sanno di non essere prostitute e di poter combattere per fermare il traffico di esseri umani.
Sono chi vuole poter decidere quando e come avere un bambino.
Sono chi ha partorito bambini morti o malati perché ha dovuto affrontare la gravidanza in viaggio.
Sono le donne che hanno dovuto abortire e quelle che hanno voluto abortire, perché era l’unica scelta che era rimasta nelle loro mani. Perché quando il corpo è oggetto e viene usato, e non è rispettato, alle donne rimane solo l’aborto.
Sono le donne che non hanno potuto abortire perché era troppo tardi. Sono le donne che hanno messo al mondo figli indesiderati, e li hanno amati.

Sono tutte le donne che trovano la forza di denunciare le aggressioni che hanno subito.
Sono coloro che sono sfruttate. Che sono state vendute. Che sono sparite. Che sono morte.
Sono le donne oggi bloccate nei centri di detenzione in Libia.

Sono le donne traumatizzate; traumatizzate e segnate, e quelle che dai traumi hanno trovato la forza di reagire. Sono le donne che conoscono i propri diritti e combattono per vederli rispettati.
Io sono tutte le centinaia di donne che ho incontrato, sfiorato, conosciuto in questi anni.
Sono le donne che non ho incontrato, che non incontrerò e che continueranno a prendere parte a questo fisiologico flusso mondiale di affermazione della dignità femminile.

Valeria Rubino


Sul filo della memoria e delle radici

Dunja Badnjević

Nasce a Belgrado nel 1945 e vive in Italia da più di cinquant’anni. Ha lavorato come redattrice e attualmente si occupa di traduzione e promozione della letteratura serba, croata e bosniaca. Ha tradotto per Adelphi, Guanda, Editori riuniti, Bordeaux ed., Newton Compton e altre case editrici. Per la collana meridiani della Mondadori ha curaro e tradotto Ivo Andric, romanzi e racconti. Con il suo primo libro, L’isola nuda, edito da Bollati Boringhieri, ha ottenuto diversi riconoscimenti nazionali.

Il suo racconto, Ricordi rubati, ha vinto il Premio speciale Torino Film Festival della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Costruito in maniera secca ed essenziale, sa raccontare in poche pagine una storia complessa e animata da più personaggi, tutti con fisionomie ben definite. Ha ritmo, tempo, senso della narrazione. E non perde mai di vista il filo della memoria e delle radici, che rappresentano la base, intelligente e attuale, della storia».

Ricordi rubati

«Ha ucciso un uomo per delle foto?», chiese il poliziotto.
Rigirai i polsi stretti nelle manette: «Sì, l’ho fatto… Non potevo non farlo».

Sono arrivati al tramonto. Avevo chiuso le stalle e i pollai, stavo per preparare la cena. Il mio vecchio era in cortile, da quando i figli se ne sono andati si mette sempre sotto il ciliegio, dove una volta c’era la loro altalena. È lontana l’Australia, non possono venire a trovarci spesso. Ci mandano le fotografie, tutte a colori, con i nipotini che si vede che crescono bene. Noi le sfogliamo, le abbiamo tutte sistemate negli album e così li sentiamo più vicini. Ci bastano i ricordi. L’importante è questo, che loro stanno bene. La nostra è sempre stata una terra povera, difficile viverci.

Dicevo, sono arrivati senza preavviso. Una decina di uomini robusti, con i fucili in mano. Dietro a loro, nascosto, il mio vicino, Kresimir. Un uomo arcigno, mingherlino, la moglie come lui, inacidita, non hanno avuto figli. Veniva spesso a controllare: le vostre pecore sono più grasse, le vostre mucche danno più latte, i vostri alberi danno più frutti.

«Se hai bisogno serviti pure», gli dicevo. «Tanto a noi due vecchi ormai basta poco». Lui mugugnava qualcosa fra sé e se ne andava.

«Avete poco tempo per andarvene», ci ordinarono quelli in uniforme. «Siete serbi e questa non è più la vostra terra. Prendete il vostro carro e via!».

«Come, via, come andarsene? La nostra famiglia vive qui da secoli. Ci ha portato qui Maria Teresa per difendere i confini del suo impero e da allora è la nostra casa. La casa dei nostri padri, nonni, bisnonni…».

«Poche chiacchiere, vecchia! Le cose sono cambiate! Tu e i tuoi avete perso la guerra. Ora questa terra deve ripulirsi dai bastardi!».

«Sì, ripulirsi!», ripeteva anche Kresimir, gli occhi lucidi dalla contentezza.

«Dove ci porterete», chiesi, «e per quanto tempo? Il mio uomo è vecchio ormai, non ce la farà a fare molta strada».

«Prendete il carro e sparite. In Serbia, andrete, dove vi aspettano i vostri!».

I nostri, i loro. Questa guerra noi non l’abbiamo voluta. Ne sentivamo parlare, il vecchio teneva la radio sempre accesa e si faceva il segno della croce. «Basta che non arrivino qui», diceva.

Io ringraziavo Iddio che i figli erano lontani, molti giovani sono morti in questi pochi anni. Senza nemmeno sapere perché morivano.

«Forza», l’uomo in uniforme ormai si era spazientito. «Ci resta poco tempo». Ci fecero montare sul carro, io presi le redini e il cavallo si mosse. Feci per chiudere la casa, ma me lo impedirono. «Ora via, poi si vedrà!». Dietro a loro il vicino Kresimir ridacchiava.

Viaggiammo una notte intera. Un convoglio di vecchi, con poche masserizie accatastate sui carri. Fu il viaggio più lungo della mia vita. All’alba arrivammo alla periferia di una grande città. Qualcuno disse che quella era Belgrado. Ci fermarono e ci fecero spostare sul ciglio della strada.

«Mia moglie sta male!», si sentì da uno dei carri. Dalle case vicine cominciò ad arrivare la gente con brocche d’acqua e qualche panino. Ringraziammo con un groppo in gola.

«Che ci facciamo qui?», si lamentava un altro vecchio. «Voglio morire là dove sono nato. I giovani possono anche rifarsi una vita, per noi ormai è tardi…».

Ci fecero rimanere lì fermi per diverse ore. Non entrammo in città. La sera vennero dei soldati in altre uniformi. Ci scortarono, come vergognandosi, verso Sud, in campagna. Ci sistemarono nei prefabbricati tutti insieme, poi col tempo ci dettero case di mattoni. Vuote. Due letti, un fornello. Qualche coperta. I nuovi vicini senza tante parole portavano quel che potevano. Erano gentili, ma si vedeva che soffrivano anche loro.

Si fece qualche conoscenza. Si parlò delle nostre vite passate, dei figli. «Avete qualche foto?», ci chiesero.

«Le foto, le foto», ripeteva ormai in continuazione anche il mio vecchio. Ormai tutto ingobbito, seduto su uno sgabello davanti alla casa, lo sguardo fisso in lontananza. «Le foto!», supplicava.

Un giorno mi decisi. Presi il treno e dopo diverse ore mi ritrovai al confine. Dopo molte spiegazioni mi fecero un «passi» per l’estero. Quell’estero che era la casa in cui avevo vissuto. La vita che avevo vissuto. Un po’ a piedi, un po’ sui camion di brava gente, arrivai a casa mia.

Trovai il vicino Kresimir sotto il ciliegio e la sua famiglia in casa nostra. Non l’avevano nemmeno ripulita, tutto era rimasto uguale. Le piante si stavano seccando, i fiori erano appassiti. Mi si strinse il cuore ma mi avvicinai. Sulla sedia accanto all’uscio, un fucile. Cattiva coscienza?

«Finalmente ce l’hai fatta!», gli dissi. «Ora hai quello che hai sempre invidiato».

«Questa ora è casa nostra e tu te ne devi andare. Altrimenti chiamo la polizia!», mi rispose.

«Niente polizia, ormai l’ho capito e non chiedo giustizia. E non ti chiedo nemmeno quel poco di valori che sono rimasti fra quelle mura. Voglio solo i miei album, il vecchio ne ha bisogno!

«Quali album? Non li ho visti qui».

«Ce n’erano tanti, con delle foto, ben rilegati, tanto tu che ci fai con le foto della nostra vita?».

«Marija!», gridò Kresimir e uscì la moglie, piccola e mingherlina come lui. «La vecchia cerca le foto, le hai viste forse?».

«Le nostre foto», ripetei «quelle dei miei figli, dei miei nipoti, della nostra giovinezza, dei nostri giorni felici, della nostra casa, delle nostre vite». Ormai piangevo.

«Non ci sono», rispose Marija, incerta «e se c’erano le abbiamo buttate».

«Dove buttate, perché buttate?», balbettai.

«Dai, vecchia, vattene», mi apostrofò Kresimir. «Hai perso tutto, che te ne fai delle foto?».

Sentii la mia testa girare. Come stessi morendo. Qui, davanti alla mia casa, con degli estranei che mi negavano anche la memoria. Che uccidevano anche il ricordo. Che mi privavano della mia vita.

Non so come, presi il fucile. Non ho mai sparato in vita mia. Vidi Kresimir alzarsi e correre verso casa. Premetti il grilletto. Lui cadde e Marija gridò.

Poi siete arrivati voi. Fate quel che volete. Io sono già morta.

Dunja Badnjević

Immagini della città di Mostar distrutta dalla guerra – 1994


Adozioni internazionali: l’amore più forte del sangue

Dorota Czalbowska

Nasce a Varsavia, in Polonia, nel 1962. Compie gli studi in pieno regime comunista. Nel 1989 si trasferisce in Italia per lavoro, dove, con il tempo, forma anche la sua famiglia. Negli anni porta a termine la sua specializzazione linguistica ed entra in contatto con la complessa realtà delle adozioni internazionali. Il suo racconto La ragazza con le trecce, è pubblicato nell’antologia Lingua Madre Duemilaquattordici. Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27).

Con Parole perdute, ha vinto il secondo premio (Premio speciale consulta femminile regionale del Piemonte) della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Per la disinvoltura narrativa con cui l’impresa della genitorialità è rappresentata senza retorica e senza idealizzazione, ma quale occasione di comprensione dell’umano nell’esperienza dell’adozione: tema complesso, estremamente e da tempo connesso con la migrazione, sempre attuale. Per la capacità di narrare, con prosa evocativa, il valore delle origini senza farne una questione di appartenenza, bensì un passato da condividere fra genitori e figlio, perché «le storie irrisolte» non ostacolino le possibilità di esistenza».

Parole perdute

A tutti i genitori coraggiosi, che ho avuto il grande privilegio di conoscere e che mi hanno permesso di fare una piccola parte nella loro meravigliosa avventura di vita…

La macchina sobbalzava sull’asfalto malridotto, ma non mi importava nulla dei colpi che mi scuotevano, sorpassavo le vetture presenti quella mattina sul mio tragitto come se fossero avversari da sconfiggere. L’aria fuori dal finestrino era soffocante come lo erano i miei pensieri. Mi era venuta voglia di fumare. La ripetizione di quel gesto, un tempo usuale, mi era riapparsa con l’impetuosità di un uragano. Al cervello non erano bastati cinque anni di astinenza da quel vecchio vizio del quale non andavo fiero.

Nei momenti di panico più assoluto, la mente richiama automatismi a lei confidenziali; è un inganno in grado di calmare i nervi.

In testa mi rimbalzavano le parole della tua maestra: «C’è stata una rissa con i compagni di classe, suo figlio ha battuto la testa e ha perso i sensi. Abbiamo già avvisato sua moglie, sta andando in ospedale».

Dovevamo aspettarcelo, non era la prima volta che ci facevi preoccupare. Trovarsi a soli nove anni lontano dalla propria terra e doversi fidare di due sconosciuti, che neppure parlavano la tua lingua, sarebbe stato difficile per chiunque.

La corsa in ospedale sembrava interminabile, così come lo è il tuo cammino attraverso un paese a te sconosciuto, un transitare da una lingua a un’altra, un fluttuare tra idiomi vecchi e nuovi, una continua ricerca di parole capaci di riempire il vuoto della tua identità. Sei in un incessante tumulto di emozioni e laddove le tue fuoriescono con l’irruenza di un fiume in piena inducendoti a comportamenti a volte insopportabili, le nostre devono tacere per calmare le tue.

Correvo per salvarti un’altra volta. All’interno della macchina e con le mani serrate sul volante sembravo un animale in gabbia. Se solo fossi riuscito a trovare il modo per comunicare con te. Una violenta raffica di immagini affollava la mia mente che, senza alcuno sforzo, cercava di ripercorrere la tua vita prima di noi. Pensavo al tuo mondo, definito dalle mura della tua casa, dove gli odori della minestra e dell’alcool si confondevano in un tutt’uno e dove le urla e le violenze tra tuo padre e tua madre, ubriachi e ruvidi, facevano parte del tuo quotidiano.

Hai visto cose che nessun bambino dovrebbe mai vedere e che hanno fatto precipitare la tua vita in un abisso senza più riferimenti. La tua famiglia non era più in grado di crescerti e come un soffio di vento ti è stata portata via.

Sei rimasto solo e senza più parole.

Come esprimere così tanto indicibile smarrimento? Forse pensavi che dimenticando la tua lingua e sradicandoti da essa, avresti fatto scomparire anche i ricordi. Così, da quando sei stato portato all’orfanotrofio, ti sei ammutolito. Per non annegare nel vortice che ti ha inghiottito, hai fatto come hai potuto, sostituendo il parlare con singhiozzi, suoni stonati, inciampi, rabbia. Le parole d’affetto di un tempo le hai rimpiazzate con altrettante vuote e assordanti come tamburi nel deserto. È stato così che, solo osservandoti, ho capito che il cambiare la propria lingua è un processo paragonabile a una guerra. Per trovare un modo nuovo di esprimerti e per ricostruirti hai dovuto prima sacrificare pezzi di te; per te non è stata un’opportunità, è stato un incubo.

Ho abbandonato la macchina nel piazzale dell’ospedale ed ho attraversato le porte scorrevoli del pronto soccorso. Eri in coma.

In una frazione di secondo un pensiero mi ha abbagliato come fosse stato un lampo; quando ti risveglierai in quale lingua parlerai, in quale lingua ti dovrò parlare io? E se non fossi in grado di capirti? Il polacco risiede nelle viscere più profonde del tuo essere, è la tua conoscenza inconscia, la tua vera identità e nessuno potrà mai portartelo via, nemmeno tu.

Mentre stavo per telefonare ad Anna, la nostra insegnante di polacco, per dirle di tenersi pronta in caso di necessità, ho sentito una voce rassicurante che mi invitava a sedermi vicino al letto dove eri sdraiato. Tua madre era già lì, più silenziosa del solito, assorta nei suoi pensieri che sistemava meticolosamente le lenzuola del tuo letto. Ci avevano consigliato di parlarti, di farti sentire le nostre voci e di raccontare storie per cercare di risvegliare la tua memoria. Cosa potevamo raccontarti noi, mi domandavo? Un padre e una madre che non condividevano con te alcun passato, a cosa potevano appellarsi, cosa potevano rievocare? Non avevamo ricordi, soltanto la strada ancora da costruire e da percorrere insieme a te.

Ci sentiamo affaticati, stremati, impotenti ma sappiamo che quello che stai vivendo tu è mille volte peggio.

Sono rimasto immobile senza dire una parola. Fissavo i macchinari ai quali eri attaccato osservando la tua quiete del tutto insolita. Vederti in quello stato mi faceva uno strano effetto e accelerava in me il bisogno di trovare una storia da raccontare. All’improvviso mi è apparso il ricordo del nostro viaggio verso di te, il ricordo di quanto volessimo sentirci pronti ma anche di quanto non ci rendessimo conto dell’utopia delle nostre aspettative.

Non si è mai pronti del tutto per questo tipo di esperienze.

Volevamo che diventassi nostro figlio e che rimanesse traccia di quanto tenessimo a te e per questo abbiamo varcato la soglia del nostro coraggio iniziando a studiare il polacco. Una lingua difficile, è vero, ma non aveva importanza visto che era l’unico modo che avevamo per addentrarci nel tuo mondo, nella tua storia, nelle tue radici. Pensavamo che entrando in confidenza con essa sarebbe stato più facile comprendere le esperienze e i dolori che ti portavi dentro. Durante le lezioni, immaginavamo e improvvisavamo situazioni impensabili, dalle più divertenti alle più difficili, alternando frasi di uso comune e giornaliero a frasi più profonde e intime. Per noi Anna era diventata una specie di ponte che ci avrebbe aiutati a raggiungerti e ad accorciare le distanze. Gradualmente, insieme a lei, abbiamo incominciato anche ad apprezzare il tuo paese, nonostante fosse difficile farlo fino in fondo, ma allo stesso tempo sapevamo che il nostro compito, un giorno sarebbe stato anche quello di accompagnarti nel tuo passato. Saresti cresciuto e avresti cercato le tue origini, lungo un percorso inverso, ma necessario per fare pace con chi la pace te l’aveva negata.

Il nostro primo incontro con te è stato sorprendente, sei stato all’altezza della situazione e noi siamo riusciti a contenere le nostre paure e le nostre emozioni. Anna ci ha sempre raccontato di quanto il tuo popolo fosse ospitale e accogliente. E così è stato. Ci hanno fatto molti complimenti per il nostro polacco, anche per le parole pronunciate in modo buffo e goffo, ma piene di sentimento e di affetto. Ogni nostro tentativo di intavolare un discorso che avesse un minimo di senso, aveva come unico scopo quello di essere compresi da te. Ci scrutavi come se stessi facendo un calcolo di probabilità della riuscita dell’operazione, misuravi il grado di fiducia da concederci e parlavi con occhi attenti ai quali nulla sfuggiva, nemmeno la più impercettibile smorfia. A volte accennavi un sorriso. Eravamo avvolti da un uragano emotivo in grado di spazzare via un intero paese, tanto che mentre cercavamo di risultare disinvolti, i nostri nervi erano tesi come corde di violino.

Noi grandi siamo fatti così, spesso ci vergogniamo di mostrare le nostre fragilità per paura di risultare ridicoli.

L’averti conosciuto ci ha confermato ciò che già sapevamo, che saremo ritornati in Polonia a prenderti per portarti via con noi. Ci sentivamo leggeri e felici. Abbiamo continuato a studiare la tua lingua, ma questa volta tutto ci sembrava diverso, anche i suoni delle parole, una volta ostili, erano diventate la più bella delle musiche. La nostra motivazione e la determinazione erano cresciute a dismisura. Ci stavamo preparando con precisione ingegneristica a costruire non solo ponti, ma vere e proprie opere architettoniche, fatte di parole inedite e di sentimenti nuovi.

Purtroppo, con il tuo arrivo in Italia, inaspettatamente tutto è diventato difficile al punto di dare pugni contro i muri, fino a farci sentire svuotati; ci sfidavi, alzavi la voce, cercavi lo scontro, i tuoi improvvisi attacchi di aggressività erano diventati sempre più frequenti.

La tua rabbia era provocante, a volte addirittura autolesiva, sapevi che, facendo del male a te stesso, avresti ferito anche noi. Era il tuo modo di chiederci di non abbandonarti perché, al contrario di ciò che dimostravi, avevi bisogno di noi per cercare di cancellare quel senso di colpa che sentivi dentro. Volevi essere amato incondizionatamente, volevi essere accettato anche se picchiavi e mordevi, anche se non facevi i compiti e ritenevi stupide le tue maestre. Il tuo inconscio ti restituiva scenari impressi nella tua mente, come la mia che richiamava l’odore della sigaretta. In questo siamo uguali, smarriti, indifesi e spaventati, ma non possiamo più permetterci di lasciare al passato le nostre storie irrisolte. Non si può restare aggrappati alle cose, bisogna dare un senso a tutto, anche al dolore, per lasciarlo andare, per permettere alle parole di rifiorire e di scrivere un nuovo capitolo della stessa storia.

Sentivo la gola secca che strozzava ogni mio tentativo di dare forma verbale ai miei pensieri, come quando fai un brutto sogno e vorresti gridare ma rimani intrappolato nel tuo spasmo. Ma mentre stringevo la tua mano guardando il vuoto oltre il vetro della finestra, ho percepito le tue piccole dita agitarsi e poco dopo anche un filo della tua voce. Una scossa improvvisa ha attraversato il mio corpo e solo in quel momento ho avuto la chiarezza che il nostro e il tuo senso di appartenenza non sarebbe più stato soltanto un paese o una lingua, ma il sentire e percepire la vita insieme a te.

Dorota Czalbowska


Aicha Fuamba

Nasce nel 1994 in Congo. Giunta in Italia, nel 2014 si iscrive al liceo di scienze umane a Rovigo. Dopo un anno, per il desiderio di ricongiungersi con la sua famiglia, si trasferisce a Pantelleria, con l’intento di terminare gli studi liceali. Problemi economici costringono il nucleo familiare a ripartire per recarsi a Genova. Rimasta sola, accanto a sé ha una persona che la sta aiutando in attesa di sostenere gli esami di maturità, per poi cercare la sua strada, forse altrove.

Con Sofia Teresa Bisi (insegnate, nata nel 1970 a Rovigo) ha scritto a quattro mani il racconto Per Aspera ad Astra, vincendo il primo premio della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Per il racconto dell’orrore dell’esperienza dell’Africa, del Mediterraneo, dell’Europa, reso possibile dalla relazione di affidamento tra docente e discente. Per la capacità narrativa di trasformare, con il racconto, l’esperienza soggettiva di atrocità, a cui la cronaca drammaticamente abitua, in memoria collettiva. Per il senso civico che presiede all’idea che la condivisione del racconto del dramma migratorio attivi la sopportabilità del ricordo, nell’agire dell’ascolto in relazione. Il racconto è una sorta di Odissea al femminile, in cui la guerra è di altri e la patria e la famiglia sono luoghi frammentati dove non è possibile tornare. Una babele, anche linguistica, all’interno di rapporti di sangue; il tutto narrato in modo mosso e contraddittorio, dove le parole e lo stile ricalcano ed esprimono i sobbalzi dell’animo, le discordanze e le incongruenze dei sentimenti. Il modo in cui viene descritta la storia rispecchia il coraggio di chi lo narra, tenendo il lettore con il fiato sospeso fino alle ultime parole».

Per Aspera ad Astra

L’inizio

Mia mamma Leonnie è nata e cresciuta in Congo, cattolica; papà è del Niger, musulmano. Si sono conosciuti e innamorati in Congo; nel 1992 sono nati due gemelli: i miei fratelli hanno nomi islamici, Hassan e Housseini, e altri con cui li chiamava mamma: Rolly e Roland. Nel 1994 sono nata io e nel 1996 mia sorella Kerene.

Un giorno papà dice a mamma: «Voglio andare in Niger a far visita alla mia famiglia. Porto i bambini». Solo Kerene resta a casa, perché troppo piccola. Papà ha deciso: dobbiamo restare in Niger e avere una cultura come la sua. Mamma aspetterà sei anni il nostro ritorno.

Papà mi affida alla nonna paterna, che mi vuole bene, e anch’io inizio ad amarla. I gemelli invece restano dal fratello di papà, perché lui e sua moglie non hanno figli. Nonna insiste che papà si risposi con una donna musulmana. Così, per rispetto, accetta: è una festa bellissima, dove io non riesco a non essere felice. Poi papà porta tutta la sua famiglia in Niger, anche Kerene.

Mamma sembra impazzita, si dispera, rompe gli oggetti in casa, anche se è in gravidanza. Viani nasce dopo poco; mamma è sola a partorire. Quando il piccolo ha sei mesi, mamma e papà si vedono e litigano; lui la caccia e va a vivere in Francia. La situazione per mamma si fa gravissima: ha un figlio non riconosciuto, vivono per strada. Poi in Niger incontra Camille, un insegnante del Congo, si innamorano: lui accoglie lei con Viani; dalla loro unione nasce Raiss. Per cambiare vita decidono di andare in Libia, ma prima la mamma vuole vedere me e mia sorella: staccarsi da noi le dà un grande dolore. Ci diciamo poche parole, ma è davvero bello! Sento che il legame di sangue può sistemare tutto. In Libia mamma e Camille hanno aiuti e lavoro: la loro vita sembra perfetta.

Io mi rendo conto di non capire la lingua di mia madre, ma quando mi chiama le basta sentire la mia voce, nel dialetto Jarma che uso con la nonna.

Il villaggio

Arrivarci è un’avventura. Viverci una sfida quotidiana. Dove vivo non ci sono più di dieci capanne. Ogni giorno faccio provvista d’acqua e le pulizie; nei boschi invece cerco legna per il fuoco. Ho paura dei temporali: tremo perché potrebbero portarsi via tutto. Quando piove il paesaggio si fa lussureggiante, gli alberi crescono veloci offrendo cibi buonissimi che io corro a cercare.

In quelle comunità la vita trascorre metodica: gli uomini lavorano la terra e le donne si occupano di attività manuali come cucinare. Chi può tiene degli animali, ma la nonna è troppo anziana per accudirli. I negozi non ci sono, neppure la scuola. Qualche volta passa qualcuno con la stoffa, così le donne confezionano vestiti. Non ci sono neppure gli ospedali, ma le donne più esperte sanno curare con le piante. Ricordo una medicina amarissima ma eccezionale per farmi stare bene. Le donne partoriscono in casa, aiutate da abili levatrici. Ci si sposta con dei carretti trascinati da ann, simili agli asini; nessuno ha la bicicletta. Solo adesso mi rendo conto di aver perso tempo inutilmente. La nonna è vecchia e io la accudisco, la aiuto in tutto. Mi piace anche andare a trovare i miei amici, ma lei ha paura che qualcuno mi faccia del male, non vuole sentire odore di un ragazzo addosso a me.

La mia vita cambia nella più grande Kiota, che ha persino un ospedale: una struttura fatiscente e sporca. Una volta devo andarci perché sto male, ma mi rifiuto di stendermi sul lettino! A Kiota c’è il capo dei musulmani del Niger e mantiene salde le tradizioni legate a religione e famiglia.

Qui succede un fatto terribile. Vivo vicino a mio zio e a sua moglie, hanno cinque figli. Un giorno, tornando da scuola, la sua bambina di sette anni è presa e violentata: io e la zia la troviamo in un lago di sangue, con ferite sul corpo e nell’anima. A lungo discuto perché sono vittime di maldicenze. Rimasta di nuovo incinta, il giorno del parto, mia zia è accompagnata all’ospedale con problemi di salute: il bambino non respira; lei è distrutta e malata. Da quel giorno decido che da grande farò l’ostetrica.

Sposarsi?

A 15 anni i miei fratelli chiamano spesso la mamma e le chiedono di venire a prenderci: c’è il rischio che ci facciano sposare; là decidono le famiglie. Così mamma, da sola, riattraversa il deserto e ci chiede di seguirla in Libia. Non so descrivere l’emozione che provo in quel momento: sento la mia vita, le certezze, gli affetti, tutto in totale confusione! «Non so cosa fare», dico, con la bocca così secca che sembra legata con una corda. «Sto bene qui con la nonna. Lei mi ama».

La nonna mi conosce e avverte qualcosa di strano. «Cos’hai bambina mia?», mi chiede. «Cosa ti preoccupa?». Io provo un nodo in gola quando mi fa domande, mi sembra di tradirla. Nonostante ciò, siamo decise a partire.

La fuga

Il piano ha così inizio. Mamma ci invita ad accompagnarla nella capitale. «È solo per fare alcune commissioni», diciamo. Così usciamo da casa senza niente, ma un dolore e un senso di vuoto mi appesantiscono il respiro e le gambe. Di notte saliamo su un pullman che ci porta al famigerato camion per la traversata del deserto. Per il viaggio, mamma compera tutto il necessario, come gli spaghetti e il gari di manioca, cibi che si preparano velocemente, ma il bagaglio permesso è minimo.

Il guidatore è di poche parole, si sottopone a ritmi incredibili. Intorno a noi c’è solo deserto, raramente si vede qualche albero. Non avrei mai pensato di trovarmi in una situazione così difficile. Improvvisamente vedo la precarietà della vita, lo sforzo, la fame, il freddo, la sete, il sonno. Tutti insidiosi e insopportabili. Il mio carattere ottimista mi fa considerare tutto come un gioco, senza farmi domande. Mamma invece è terrorizzata. Spesso capita di dover fare dei tratti a piedi sulle dune di sabbia; lei è grossa e fa tanta fatica, così io e Kerene la aiutiamo. Per dormire ci si appoggia per terra, tutti vicini, sopra i vestiti di ricambio.

Il viaggio è lungo e a un tratto ho dolori lancinanti alla pancia: senza medicine inizio a temere il peggio. C’è però un ragazzo vicino a me, che parla un dialetto diverso dal mio: prende un tappo d’acqua, dice delle preghiere e me la fa bere. Non so se sia magia o miracolo, ma poi sto meglio!

I momenti più bui si presentano al centro del deserto, nella città di Dirq. I soldi sono finiti ma il viaggio è ancora lungo. Mamma finge che vada tutto bene, ma deve vendere gli oggetti più utili, anche la torcia.

A un controllo perdiamo le speranze. Le guardie non credono alla nostra parentela, perché mamma parla in francese e noi in dialetto e temono che ci abbia rapite. Dopo tanta paura, sono i gemelli a confermare per telefono la nostra sincerità. Ma le difficoltà non vogliono finire. Non torna nessuno a prenderci, a farci risalire sul camion. Bisogna avere soldi, molti soldi. E così ci troviamo rinchiusi in un recinto, dietro un muro altissimo. Dopo qualche giorno in quell’inferno, papà trova i soldi per il viaggio. Un suo amico ci permette di lavarci e cambiarci, ci dà vestiti puliti, cibo e un’auto.

In Libia

Siamo stanchissimi, ma alla frontiera ci aspettano nuovi problemi: siamo senza soldi e documenti. Rischiamo, preghiamo. Alla fine, arriviamo a Saba e si avvera un desiderio: ci laviamo e mangiamo tutti fino a scoppiare! Incontro i miei fratelli: Viani, Raiss ed Hernst, il più piccolino. «Sono bellissimi», penso, «ma non so come parleremo: non conosco la loro lingua». Ci sistemiamo con persone di tante zone dell’Africa, ma io soffro di nostalgia, vorrei tornare in Niger. Così io e Kerene pensiamo a salvarci con un gesto vile: rubiamo dei soldi a mamma e di nascosto andiamo a telefonare alla zia.

«Zia, sei tu?»

«Aicha, Kerene?» la voce le trema ma sembra felice.

«Chi vi ha portate via?» Le spieghiamo l’accaduto e le diamo informazioni per trovarci.

Il nostro unico pensiero è tornare, ma ancora oggi non mi so perdonare un gesto così vile.

Un’altra vita

Dopo poco io e mia sorella confessiamo a mamma il nostro gesto. Lei piange e basta. «Dobbiamo sbrigarci», dice «Non c’è un attimo da perdere». Lei sa quanto stiamo rischiando, così partiamo subito: un’altra avventura, un altro camion. Ricordo con terrore la sensazione di soffocamento là dentro. Prego, spero, aspetto. Sono giorni interminabili: fuori dalla città, in attesa di sconosciuti.

«Loro sono malvagi», sento dire degli uomini che gestiscono i camion.

«Vogliono soldi, tanti soldi».

«Non li abbiamo per tutti», sussurrano mamma e Camille. «Come faremo? Quelli là non hanno pazienza!».

Alla fine, è deciso: io, mamma e Viani stiamo alle porte di Tripoli ad aspettare il carico successivo. Così inizia il mio incubo. Di notte ci portano in un luogo lontano da tutto, orribile. Ci picchiano a sangue e abbandonano. «Mamma, dove siamo?» sussurro, nella speranza che lei mi conforti. La sua voce trema. «Corriamo, dai!», ci dice. Le ferite sarebbero rimaste per sempre, ma il dolore non la ferma. Corriamo piangendo e tenendoci forte per mano. Dopo un po’ ci separiamo: Viani è veloce e leggero come una piuma, mamma non ce la fa. Siamo senza scarpe e impauriti. «Ci saranno case, persone, animali feroci?»

A un certo punto vediamo un alto recinto.

«Dai, saltiamo!»

Io lo scavalco per prima, in fretta e agile.

«Coraggio!», dico. «Non è difficile».

Viani mi segue, ma la mamma si blocca.

«Andate. Vi raggiungo tra poco» ci dice. Ci vuole solo vedere salvi. Invece l’aspettiamo e andiamo insieme.

È tardissimo, abbiamo fame e sonno, non sappiamo quanti altri pericoli ci aspettano.

Camminiamo fino al giorno successivo, poi vediamo una casa.

«Sarà abitata?», ci chiediamo

«Non importa», risponde mamma. «Chi sa parlare l’arabo come me, qui è al sicuro bambini miei». Lei ci rassicura, non lascia trasparire lo sconforto.

Ci avviciniamo e troviamo qualcuno con cui parlare. Sono minuti lunghissimi, in cui ci pare di contrattare il nostro destino.

«Davvero ci portano?». Esultiamo io e Viani.

Forse è il nostro giorno fortunato. Troviamo un passaggio per la capitale, e anche un paio di scarpe! Ci sono tante persone, africani di diverse etnie, ognuno con una storia diversa, ma siamo preoccupate di non riuscire a trovare Camille e i miei fratelli. Che strano! Le amicizie fatte nei momenti più difficili sembrano destinate a essere più forti e a durare.

Dopo due giorni, ritroviamo i nostri familiari. Un’emozione immensa!

«Non dobbiamo più separarci!», è la nostra promessa.

La nuova amica del Congo ci ospita per un po’, mentre cerchiamo di sistemarci.

Mamma e papà trovano un impiego e noi una scuola. Mamma però mi preoccupa: mangia poco, dimagrisce, ha paura che qualcuno dell’ambasciata ci porti via. Cerchiamo allora di organizzarci un’identità nuova: decidiamo di non usare più la lingua del Niger e ci diamo dei nuovi nomi: Kerene diventa Habiba e io, invece di Aicha, mi faccio chiamare Bellevie.

Nuovi incubi

Sembra troppo bello per essere vero. Nel 2011 la Libia viene sconvolta dalla guerra.
I bombardamenti sono sempre più frequenti, così decidiamo di sospendere la scuola.
Intanto ci giunge notizia che ci sono dei ponti aerei per il ritorno degli stranieri nelle loro nazioni.

«Non ci torno più!», dicevamo tutti.

«Tornare in Niger vuol dire azzerare tutto. Ammettere di essere scappati. Essere puniti».

«Che ne dite dell’Italia?», dicono mamma e Camille.

«Italia» ci risuona nella mente a vuoto.

«La Francia è il mio sogno», dice mamma. Forse dall’Italia sarà facile arrivarci.

Bisogna sbrigarsi e preparare tutto. Il problema sono ancora i soldi: ne servono tantissimi. Iniziamo quindi la procedura per la partenza. Chi gestisce i migranti li ammassa fuori città, in case disabitate in attesa del momento per partire. Sono strutture terribili: usiamo gli alberi come bagno e stiamo in silenzio, anche se la solidarietà che si crea è unica.

È il 9 aprile 2011. È il cuore della notte. Nascondendoci dalla sorveglianza armata ci imbarchiamo mentre intorno a noi si sente minaccioso il rumore delle bombe che ci gela il sangue.

All’inizio il mare è calmo e il vento appare buono. L’arrivo a Lampedusa è previsto per la mattina successiva. L’indomani, però, la barca è ancora in alto mare. Gira voce che sia rotta o che chi la sta guidando abbia perso la rotta.

All’improvviso ci arriva l’ordine di liberarci di gioielli e oggetti preziosi, perché siamo vittima di un incantesimo e dobbiamo gettare in mare tutto. Adesso mamma è davvero spaventata.

Da musulmana inizio, dunque, a pregare con il Corano in mano e mia sorella accanto. Per questo litigo con mamma, che è cattolica e attribuisce la colpa dei problemi di viaggio al Corano.

«Buttatelo in mare se volete arrivare sani e salvi». Ci dice sempre più forte.
«No! Non faremo un gesto simile. Se vuoi buttare qualcosa, lancia in mare la tua Bibbia», diciamo offese.

La lite fa emergere vecchie tensioni; il nostro legame non è mai stato del tutto «normale»; ho vissuto troppo a lungo lontana da lei; non riesco nemmeno a darle del tu.
Affrontiamo quattro lunghi giorni in condizioni spaventose. Già dal terzo non c’è più da mangiare: la fame e la sete si aggiungono a sonno e paura.

All’improvviso si scorgono delle luci: sembra uno scoglio, invece si delinea l’aspetto di una piccola città.

«È Pantelleria! Siamo arrivati!».

Il mare però sembra fare di tutto per non permetterci di sbarcare: è agitatissimo, ci fa urtare tra di noi. Le onde sbattono contro la barca che si impenna vistosamente. 192 vite si sentono più fragili che mai; poi da una piccola imbarcazione pochi marinai di Pantelleria ci vedono in difficoltà, ci raggiungono e ci invitano a seguirli al porto. Ma la nostra barca sembra non voglia essere guidata: in un’ora e mezza le nostre vite vengono segnate per sempre.

Il mare è davvero troppo agitato: ci fa sbattere tra di noi e colpisce spaventosamente il barcone che sembra impazzito. Mamma è pallida e non parla: guarda Camille. Dopo poco mi dà la mano: sento che mi è impossibile rifiutare quel gesto, che poi fa anche con Kerene.

Le onde sono sempre più alte, impediscono di vedere intorno; ma vicino ci sono gli scogli: un impatto forte, terribile causa uno squarcio sulla fiancata dell’imbarcazione. Trattengo il fiato, ho il cuore in gola, mi sento viva e quindi mi metto a pregare: «Dio, ti prego, fa’ che non succeda più…». La barca incontra un’onda enorme, tutto cambia prospettiva in un attimo: siamo catapultati in mare. È tutto un gridare, agitarsi, aggrapparsi a qualunque cosa. Chi si cerca, chi nuota, chi resta immobile: molti di noi non sanno nuotare e sopportano il loro atroce destino. Io ho un salvagente che papà ha comprato prima di partire; all’improvviso sento che qualcuno me lo vuole strappare. Per reazione decido di afferrarlo con più forza: non so nuotare.

La Guardia Costiera e i volontari arrivano e ci aiutano a uscire dall’acqua. «Non mi sembra vero», mi viene da dire. «Grazie», dico in un modo che forse si capisce solo nel mio sguardo.

«Kerene! Camille! Mamma!» iniziamo a cercarci.

«Mamma! Mamma! No!»

Non l’ho salvata, nessuno la trova. Sento sirene e vedo ambulanze. Mi mancano le forze, Kerene sviene, ci portano in ospedale. Vedo un’amica di mamma, lei mi abbraccia forte, in silenzio. Poco dopo vedo un ragazzo conosciuto in Libia. «Prega», mi dice, ma io sento al petto un male cattivo e profondo. Non riesco a prendere sonno: i capogiri, la paura, le tensioni sembrano sfogarsi su di me tutti insieme. Incontro i bambini, salvi per fortuna, e poi papà, su una sedia a rotelle, con lo sguardo perso e senza forze. Nessuno però ha visto mamma.

Nell’isola dobbiamo ripensare la nostra vita, anche se non ci fanno mancare niente. Il giorno peggiore è quando ci accompagnano in obitorio per riconoscere la nostra mamma bella e giovane, stesa in un tavolo, ghiacciata, con i suoi vestiti addosso. È la prima volta che vedo una persona morta. «Non c’è più, non la rivedremo mai più», è tutto quello che riesco a pensare. Al funerale ci sono tante persone: i militari, il sindaco e gli altri superstiti.

Dopo pochi giorni, decido di telefonare a papà per informarlo della scomparsa della mamma. Lui è dispiaciuto ma non dice altro, neanche che ha voglia di incontrarci.

Per un po’ restiamo ospiti da una famiglia di Pantelleria: Mariano e Giuseppina ci trattano come parenti. Dopo sei mesi, andiamo a Trapani per i documenti di soggiorno. A me sembra una specie di prigione: si sta nelle stanze e si mangia tutti assieme in una sala grandissima. Qualche volta si fanno i turni per mangiare. Nel campo di Trapani, dopo qualche settimana, arriva papà dalla Francia, con la nuova moglie e una figlia.

«Ho già parlato con l’assistente sociale: ha detto che è giusto che veniate con me».

Io, Kerene e Viani siamo preoccupati. Al telefono con la nonna ho capito che papà vuole riportarci in Niger, non in Francia con lui. È difficile dirgli di no: lo dobbiamo fare in tribunale a Palermo, per restare con Camille, che ora lavora in aeroporto e così è riuscito ad affittare una casa per tutti noi.

Io e Kerene ci iscriviamo in terza media, Viani e Raiss alle elementari ed Ernest all’asilo. Per noi la lingua italiana è difficilissima, l’assenza di mamma è penosa e abbiamo tante responsabilità. Io e Kerene vogliamo prendere i sacramenti, come desiderava la mamma, ma soffro perché io e Camille litighiamo spesso.

Il mio più grande desiderio è andare a trovare la nonna per Natale: lei mi dà pace e affetto. Il visto è difficile da avere; aspetto notizie dall’ambasciata. Al telefono dico: «Nonna, tra un po’ ritorno da te!».

«Bambina mia, che notizia meravigliosa. Ho voglia di abbracciarti!».

Ma l’ennesima tragedia non si fa aspettare: lei muore l’11 novembre. Non serve più il visto. Dolori e rimpianti mi creano incubi e crisi di pianto. Non riesco a trovare pace, e la scuola, iniziata con ritardo, è una preoccupazione forte.

Oggi frequento il Liceo delle scienze umane a Pantelleria. La mia famiglia è sparsa per il mondo. Resto con i miei sogni: laurearmi, diventare ostetrica, sposarmi, avere dei gemelli e vivere in una città movimentata.

Aicha Fuamba
e Sofia Teresa Bisi


Hanno firmato il dossier:

Daniela Finocchi, ideatrice e direttrice del Concorso nazionale Lingua Madre.

Dorota Czalbowska (Polonia), Aicha Fuamba (Rd Congo) e Sofia Teresa Bisi (Italia) Dunja Badnjević (Serbia), Valeria Rubino (Italia), partecipanti e concorrenti al Clm 2018.

Gigi Anataloni, direttore di MC, ha curato e coordinato questo dossier.

___________________

Il prossimo concorso sarà nel 2023. I racconti vanno presentati entro il 15 dicembre 2022. Per maggiori informazioni:

 

 




Racconti di donne straniere in Italia

Testi delle seguenti donne straniere e non: Alessandra Rosa, Luisa Zhou, Jacqueline Nieder, Dounya Mahboub, Angela María Osorio Méndez | Foto di: Carlo Cretella | A cura di: Gigi Anataloni | Per gentile concessione del «Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre»


Sommario

Racconti di donne straniere in italia.
Il Concorso letterario Lingua Madre Raccontare, incontrare e conoscersi
La storia di Ele.
(S)corri nelle mie vene. Sottopelle.
Eleonora.
Changes.
Jet lag affettivo.

Tutte le autrici del Concorso Lingua Madre sul palco per fare una foto finale! (Foto di Carlo Cretella)


Il Concorso letterario Lingua Madre

Raccontare, incontrare e conoscersi

Il concorso, promosso dalla regione Piemonte e dal Salone internazionale del libro di Torino, e ideato nel 2005 da Daniela Finocchi, è diretto alle donne straniere (anche di seconda o terza generazione) residenti in Italia, con una sezione per le donne italiane che vogliano raccontare le donne straniere che hanno incontrato e che hanno saputo trasmettere loro «altre identità».

Al concorso si possono inviare racconti e/o fotografie, la premiazione avviene nella giornata di chiusura del Salone del libro di Torino e le opere selezionate ogni anno sono pubblicate in un’antologia.

Non vengono messi limiti, né barriere. Si può scrivere e fotografare a qualsiasi età e in qualsiasi condizione, che si sia una bambina delle elementari o una donna detenuta, e si può partecipare da sole, con opere realizzate a quattro mani, ma anche in gruppo. E se l’italiano scritto non lo si padroneggia ancora, non importa, ci si può far aiutare da un’altra donna italiana (il bando del concorso non solo lo ammette ma lo incoraggia). Scopo del progetto è dare voce a chi spesso non ce l’ha e creare occasioni di scambio, relazione, conoscenza.

Il progetto opera sotto gli auspici del Centro per il libro e la lettura, dell’Istituto autonomo del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo e, in dodici anni, è diventato qualcosa di più grande e complesso, svolge oltre 100 incontri ogni anno su tutto il territorio nazionale con laboratori, incontri, presentazioni, convegni, reading e tanto altro. Inoltre, dal ricco materiale di narrazioni raccolte sono nate e continuano a svilupparsi tante altre iniziative e progetti che vanno dalla realizzazione di video e prodotti multimediali a mostre, libri, spettacoli teatrali tratti dai racconti e festival internazionali.

La nostra riconoscenza a Daniela Finocchi, ideatrice e coordinatrice del Concorso nazionale letterario «Lingua Madre», per aver voluto condividere con i lettori di MC queste storie di vita.
Tutti i testi del 2016 sono pubblicati nel volume: Lingua Madre Duemilasedici. Racconti di donne straniere in Italia, edizioni SEB27.
Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre
Casella Postale 427 – Via Alfieri, 10 – 10121 Torino Centro


La storia di Ele

di Alessandra Rosa [Italia]

Aprì la porta e si accorse che era venerdì… dai corridoi proveniva un olezzo nauseante di pesce (il venerdì in prigione c’è sempre il pesce… e c’è sempre lo stesso olezzo!). Come ogni mattina, A. si era alzata verso le 7.30 e, bevuto il suo caffè, aveva cominciato a sbrigare le faccende di «cella» (già, nulla cambia, nemmeno in prigione, quelle ci toccano sempre) e fu proprio in quel momento che, alzati gli occhi verso quell’orizzonte, grigio anche nei giorni di sole, vide Ele davanti all’ufficio matricole. Per chi non lo sapesse quest’ufficio si potrebbe descrivere come una specie di tornello che se lo prendi in un senso è la prima porta verso l’inferno, ma se lo prendi al contrario è l’ultima porta prima del paradiso: Ele quel giorno lo stava prendendo dalla parte sbagliata. In qualche modo A. fu immediatamente colpita da quella miriade di colori su sfondo nero, era un arcobaleno di fucsia, verde pisello e giallo; A. pensò tra sé e sé che nonostante quella ragazza fosse «nera» (perché è così che le detenute bianche chiamano quelle di colore) di «nero» aveva ben poco e sprigionava allegria colorata in ogni suo movimento, mentre il suo atteggiamento complessivo aveva un non so che di armonico, di aggraziato.

Dai corridoi proveniva il solito brusio: «Ecco, ne arriva un’altra», «Nuova giunta», «Africa» e via via cominciava la lotteria per scoprire per quale motivo Ele stava entrando a far parte di quella grande famiglia allargata (già, perché, per molti detenuti il carcere diventa, per un determinato periodo di tempo, una nuova famiglia, mentre per altri è l’unica che abbiano mai avuto… per tutti comunque è la famiglia adottiva che nessuno può rifiutare).

Mentre la vedeva camminare, A. avrebbe voluto avvisarla, prepararla, proteggerla come una mamma fa istintivamente verso una figlia (d’altronde si dice che una tigre in gabbia rimane sempre una tigre ma anche una madre in gabbia rimane sempre una madre), perché Ele sembrava proprio una bambina dal corpo agile di una gazzella e dagli occhi impauriti di un cerbiatto e una madre riconosce sempre la paura negli occhi di un bambino. Però dalle finestre del carcere non si può urlare, si rischia un rapporto disciplinare (la prima cosa che ti insegnano in carcere è quella di farti gli affari tuoi, che è quasi sempre meglio) e allora A. rimase in silenzio.

A. sapeva che Ele stava per affrontare la parte più forte del dolore, quella più «invasiva» dell’entrata in carcere; infatti, nonostante la gentilezza istintiva con la quale una donna tocca un’altra donna, quella divisa blu notte l’avrebbe spogliata di tutto, le avrebbe fatto aprire le gambe e con un colpo di tosse le avrebbe chiesto di buttare fuori l’ultima parte di Africa che ancora teneva nascosta dentro di sé; solo chi ci è passato sa cosa si prova a spogliarsi quando non ti vuoi spogliare, quando non è ora di farlo, e cosa si prova a rimanere nude di fronte a qualcuno che non sei stato tu a scegliere, senza neppure ricevere un qualsiasi compenso come prezzo della tua vergogna, del tuo avvilimento! «Povera Ele!» pensò A.

Il caso volle che Ele finisse proprio di fronte alla cella di A., portava sulle braccia un lenzuolo, una coperta, lo shampoo, lo spazzolino, il dentifricio… ma era la paura a pesarle maggiormente e a farle piegare le braccia, come se stesse portando un peso spropositato per le sue forze.

La chiusero nella cella n. 16 e alla chiusura della porta A. vide Ele trasalire… e chi è stato in carcere sa bene perché si sobbalza al rumore delle chiavi che chiudono la cella dietro di te: è un rumore sinistro che non si dimentica più, mai più.

Ele ebbe solo un momento per guardare negli occhi A. poi scoppiò in un pianto silenzioso e nella sezione smisero tutti di parlare, smisero di fare qualsiasi cosa per ascoltare e rispettare quel pianto. In prigione con le lacrime ti puoi fare la doccia ma nessuno si permette di prenderti in giro quando piangi, nessuno osa dire di smettere, perché si impara a rispettare il dolore degli altri, a volte più del proprio.

Un’ora dopo, A. preparò un buon caffè, scaldò un po’ di latte, due biscotti e li porse ad Ele… Ele non parlava, sorrideva e diceva solo «grazie», ma in quel sorriso A. aveva visto tutta l’Africa che quella povera ragazza aveva lasciato da bambina e quel sorriso… non riuscirà mai più a dimenticarlo.

Ele consegnò ad A. un plico di carte: erano scritte in italiano ed Ele di italiano sapeva poco o niente, solo qualche rara parola che le serviva per lavorare, di cui non andava certo fiera, ma che all’occorrenza usava con profitto.

In quei fogli c’era la previsione di un infausto futuro (chissà perché i magistrati tendono sempre a rendere le cose più brutte e gravi di quello che sono in realtà… per «spaventarti» dicono, come se di paura Ele non ne avesse già provata abbastanza in quella buia strada del sesso dalla quale proveniva). In ogni caso le quaranta pagine di carte che Ele nemmeno capiva avevano il peso di quaranta catene di ferro e la stavano imprigionando.

Ad un certo punto A. vide che Ele aveva smesso di piangere, che si era alzata in piedi di fronte alla finestra… non che ci fosse nulla di interessante da guardare al di fuori di quell’apertura sigillata con una grata di ferro, a parte le ciminiere di una discarica che non avevano nulla da spartire con le distese africane in cui Ele aveva trascorso la sua infanzia. A. sapeva che il cuore può procurarsi in breve tempo il biglietto per qualsiasi viaggio ed immaginò che Ele stesse appunto viaggiando verso le savane e le colline del continente in cui era nata, dove forse aveva trascorso gli unici momenti sereni della sua giovane e travagliata vita: non volle disturbare quel momento e la lasciò in pace, a gustarsi quel tramonto, quel sole che si stava preparando alla notte. A. non poteva immaginare che cosa sarebbe successo in seguito e col senno di poi, avrebbe pensato «chissà se disturbandoti avrei potuto modificare gli eventi successivi… chissà se…».

Alle 18 la divisa blu notte dalle unghie smaltate cominciò il controllo delle celle, «la conta» in gergo penitenziario, e arrivata davanti a quella di Ele l’aveva chiamata ma lei non rispose; la guardia carceraria, in un misto di rispetto, fretta e superficialità abitudinaria non insistette e non la richiamò. Mezz’ora dopo però ritornò, forse spinta da un presentimento, chiamò di nuovo Ele ed ancora una volta ella non rispose: quel silenzio cominciò a diventare sospetto, quasi arrogante, al punto da indurre la guardia ad aprire con nervosismo la cella ed entrare per scuotere la ragazza ed obbligarla a rispondere alla chiamata.

Fu in quel momento che A. sentì un urlo di terrore provenire dalla cella di Ele e vide la divisa blu dalle unghie laccate cercare con tutte le forze di sollevare Ele da terra e staccare quel filo di nylon che le serrava la gola. Per fare ciò la guardia carceraria si era rotta tutte le unghie, quasi tutte le unghie, ma tutto risultò inutile e vano.

Era il periodo peggiore del «sovraffollamento carcerario» e quella guardia era l’unica sul piano: da sola non ce l’avrebbe mai fatta… e fu costretta ad aprire la cella di A. e a chiederle aiuto per sostenere quel corpo, che tra la vita e la morte pesava il doppio… Di fronte alla morte, non c’è colore, non c’è divisa che tenga e la divisa blu notte tremava perché non riusciva a staccare Ele da quel letto, alle sbarre del quale la ragazza di colore si era appesa e si stava lentamente lasciando morire.

«Un paio di forbici». Urlò la guardia. «Dammi un paio di forbici, presto!».
«Non abbiamo forbici», rispose A., sgomenta.
«Un coltello, allora. Per l’amor di Dio, dammi qualcosa per tagliare quel filo!», continuava ad urlare disperatamente la divisa blu notte…

Ma in prigione non ci sono coltelli, non c’è nulla per tagliare… Ci si può far male e comunque certi aggeggi possono servire come strumenti di offesa.

Con la forza e il coraggio della disperazione A. e la guardia riuscirono a rompere il filo di nylon e ad adagiare Ele nel corridoio. Adesso era veramente diventata nera, ma un nero che non aveva nulla a che vedere con il colore della sua pelle viva e giovane che aveva catturato l’attenzione di A. Tutto il corpo di Ele, A. e la guardia se ne resero immediatamente conto mentre la stavano liberando dai vestiti, stava assumendo il colore di chi sta morendo per asfissia: solo la bava biancastra che le usciva dalla bocca segnava un netto ed orribile contrasto con tutto quel nero di morte.

A. si chiuse in cella da sola; ormai erano arrivati i paramedici con il defibrillatore, ma dopo alcuni tentativi, alle 19.45 l’apparecchiatura con la gelida frase “no more signal” aveva decretato che Ele nella cella 16 non sarebbe più tornata.

A modo suo Ele era tornata libera.

A. non riuscì a trattenere le lacrime e pianse, pianse come non aveva mai fatto prima di allora… eppure neppure la conosceva… non sapeva nemmeno il suo nome… e non capiva perché… ma pianse e pianse ancora…

Piangeva per quel sorriso di un attimo che tuttavia l’aveva colpita per sempre.

A. pensava ad Ele come a una farfalla: per lei infatti era nata, vissuta e morta nello stesso giorno, così colorata e così fragile.

Nessuno forse l’avrebbe cercata, nessuno avrebbe sentito la sua mancanza… nessuno avrebbe saputo dove Ele era volata (se arrivi nel giardino del carcere speri che chi ti conosce in fondo non lo scopra mai), ma A. sapeva cosa era stata per lei e sapeva che non avrebbe mai più potuto dimenticarla.

Il giorno dopo, sulla stampa, quasi in ultima pagina, in mezzo a qualche strana pubblicità, c’era un trafiletto di quattro righe che diceva «prostituta nigeriana si suicida in carcere». Ancora una volta nessuno aveva pensato che fosse importante darle un’identità… c’era solo l’età, 32 anni, ed A. pensò che a lei era sembrata più giovane, molto più giovane.

Il giorno dopo A. scrisse sulla porta della tragica cella, rigorosamente messa sotto sequestro, questo messaggio:

«Cara Ele spero tu sia tornata vento tra gli alberi della tua Africa.
Corri, vola, libera e felice al di là del tempo e dei luoghi.
Ogni volta che sentirò sulle guance un vento caldo
penserò alla carezza del tuo sorriso…
Ti ho chiamato Ele perché in nigeriano Ele vuol dire gazzella».

Alessandra Rosa


Nasce a Torino nel 1966. Si diploma al Liceo classico Massimo D’Azeglio e si laurea alla Scuola universitaria di Scienze motorie. Lavora per un periodo presso il ministero dell’Interno, studia Scienze infermieristiche e insegna educazione fisica presso la propria società sportiva, della quale è anche presidente. Divorziata e mamma di tre ragazze, è stata in regime di arresti domiciliari fino al gennaio 2017. Attraverso la scrittura, scoperta durante il periodo di restrizione carceraria, riesce a visualizzare il suo dolore, metabolizzarlo e non averne più paura. Scoprire la sensibilità letteraria le permette di vincere ogni forma di pregiudizio. Il suo racconto La storia di Ele ha vinto il Premio Speciale Giuria Popolare della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

 


(S)corri nelle mie vene. Sottopelle

di Luisa Zhou – [Cina]

© AfMC / Alvaro Pacheco

Per quanto detestasse il villaggio, Ayue amava percorrere quella strada in salita che l’avrebbe portata alle immense, infinite risaie di Yuhu.

Le piaceva il suono dei suoi passi sulla pietra nuda, il chiacchiericcio delle case che si affacciavano sulla via, il tepore del sole sulla pelle alle otto del mattino. Sapeva bene che l’afa estiva l’avrebbe investita con tutta la sua violenza da lì a qualche ora, proprio per questo cercava di godersi quel momento in un misto di aspettativa e leggerezza. Una delle poche consapevolezze che aveva, infatti, era che nelle terre della provincia di Wencheng il mese di luglio – almeno per lei – aveva il sapore degli incubi, intensificato dal ronzare delle zanzare e dall’umidità che pareva soffocarli tutti in una morsa. Tuttavia, il panorama delle campagne cinesi aveva una bellezza intrinseca che difficilmente poteva essere messa in dubbio. All’orizzonte il profilo delle montagne permetteva al cielo di scivolare su e giù in un’altalena di colori e di forme, mentre le nuvole scorrevano pigre sullo sfondo.

Era come contemplare una di quelle tele ad olio dove i contorni sono sfuggenti, sfumano nel sogno. Ayue amava sollevare lo sguardo e perdersi in tutto questo, cadere fuori dal tempo e risvegliarsi all’improvviso, con una fotografia in più negli occhi.

Ogni tanto cercava di immaginarsi anche una vita lì, nel paese che aveva visto nascere i propri genitori – una vita semplice, contadina, scandita da momenti precisi e ripetuti nel tempo. Sveglia all’alba, colazione, giro al mercato, pranzo, qualche risata strappata, cena, una partita a mahjong, un’ultima passeggiata alla luce dei lampioni.

Ma non sarebbe sopravvissuta, non sarebbe riuscita a vincere quella quotidianità fatta di terra, di legna, di lenta rassegnazione – era difficile riconoscersi in un luogo così diverso da quello in cui era nata lei, l’Italia.

Ciò che sua madre chiamava ??, jiaxiang, paese natale, per lei non era altro che una serie di edifici tutti uguali in un paesino nella regione di Zhejiang. Nient’altro, se non un minuscolo puntino nella geografia della Cina.

Come avrebbe potuto trovare le sue radici in un posto del genere?

In quale misura avrebbe potuto comprendere, sentire, la sua identità, tanto era sospesa fra un mondo e l’altro? Era come rimanere immobili a metà di un ponte, indecisi della direzione da prendere.

L’unica cosa che le restava da fare era osservare le acque sotto di lei, il fiume inarrestabile della vita, cercando di riemergere dai propri pensieri.

Chisonoqualèilmiopostonelmondocercareritrovarsiperdersiriflessirespira.

Spesso, in balìa dei tumulti che le sconvolgevano la mente, Ayue tratteneva il respiro, come in apnea. In perenne attesa che qualcuno arrivasse a risolvere il groviglio delle sue emozioni.

Si ricordava ancora la volta in cui era andata in Grecia, dopo cinque anni di studi classici. Era salita sull’acropoli di Atene con quella che era la sua classe, quando ad un tratto una delle sue compagne, la cui nonna era originaria di Patrasso, cominciò a piangere. Di un pianto che significava più di mille parole.

Non singhiozzava, ma le lacrime scendevano copiose di fronte allo spettacolo del Partenone, della capitale intera, come se all’improvviso il sangue avesse cominciato a ribollire e a gridare l’appartenenza a quella terra infuocata e splendida come solo le cose eterne sanno essere.

E Ayue l’aveva guardata, l’aveva vista trasformarsi, piena di consapevolezza.
È casa mia, sembravano dire i suoi occhi, anche questa è casa mia.
Ma non sembrava esserci «casa» per quella ragazza italo-cinese, non ancora.

© AfMC / Alvaro Pacheco

  • Non dimenticarti le tue origini.
    Le intreccerò con quelle nuove.
  • Non puoi comportarti da italiana.
    Sto solo cercando di essere me stessa.
  • Non tradire i valori della famiglia.
    Vi amerò per sempre,
    ma rispetterò ciò che è giusto.
  • La vita è lavoro, lavoro, lavoro.
    La vita è un’esplosione di bellezza
    nei posti più inaspettati.
  • Tu non appartieni a questo posto.
    A quale posto appartengo allora?
  • A cosa ti serve continuare a studiare?
    Per andare oltre, per superare i confini.
  • Quando aprirai una tua attività?
    Voglio poter creare.
  • Ti devi sacrificare per la famiglia.
    Non significa rinunciare ai miei sogni.
  • Non puoi stare con un ragazzo italiano.
    Non saranno altri a scegliere chi amerò.
  • Sei cinese.
    E molto di più.

La prima volta che aveva visitato i nonni al villaggio era stata delusa dalla rapidità con cui era scemato il suo entusiasmo, ma aveva solo sette anni e i bambini si annoiano in fretta. Soprattutto, sanno essere tanto intelligenti da tenersi alla larga dalle domande esistenziali che portano al limbo delle non risposte. Crescendo, tuttavia, si decide di volere di più dalla vita, di essere di più – si vuole dare un perché alle proprie azioni, un senso ai propri sogni, una giustificazione ai propri errori.

Ed è in questo punto della storia che Ayue si sentiva persa.

Sentiva la propria identità sfuggirle di continuo, sabbia fra le dita, in costante mutamento. Le capitava di guardarsi allo specchio e non riuscire a dare un nome al proprio riflesso.

Era la figlia cinese dei proprietari del ristorante vicino al centro.
Era la studentessa italiana che aveva scelto il liceo classico.

Era la ragazza senza nazionalità che si rifugiava nel respiro della scrittura.
Alla ricerca di una terra a cui appartenere.
Cittadina del mondo, le piaceva definirsi, come molti altri prima di lei.

Continuò a camminare sul ciglio della strada, mordendosi il labbro inferiore come faceva tutte le volte che non sapeva bene cosa dire.
In quel momento, non trovava le parole per parlare con se stessa.
Pochi passi più indietro, la madre la seguiva con sguardo distratto, concentrata sulle diverse colture della terra. Patate, erbe, verdure, fiori.

Era capace di riconoscere tutte quelle piante attraverso un’occhiata veloce delle foglie, a cui ogni tanto aggiungeva una carezza, strofinandole fra le dita in un gesto che le illuminava i pensieri.

Pochi passi più avanti, un signore. In testa il ??, douli, il tipico cappello di paglia dei contadini, fra le mani più di settant’anni e un’ascia per tagliare la legna.

Ayue si intenerì a quella vista. Notò le braccia magre, ma forti dell’uomo, e il mezzo sorriso che aveva sulle labbra nel momento in cui si accorse delle due passanti. Lo vide fare un cenno di saluto e chinarsi di nuovo a lavoro.

C’era un’incredibile forza in quei movimenti, una forza che aveva reso grande una cultura millenaria – impossibile restare indifferenti.

La giovane si sentiva come lacerata dal desiderio di avvicinarsi a quel popolo, ma, al contempo, tendeva a rifiutarlo, a negarlo a se stessa perché troppo distante, diverso, in una lotta che l’avrebbe costretta a rinunciare a una delle sue sfaccettature. Sarebbe stata una sconfitta, e lei non l’avrebbe permesso.

In quel momento la madre la superò, mentre lei rallentò il passo per osservare ancora un poco il signore.

Era colpita dalla precisione dei tagli, dalla costanza, dall’alzarsi e abbassarsi della lama che, in alcuni istanti, pareva catturare addirittura la luce del sole.

Con questo ricordo in tasca, Ayue proseguì la camminata, tenendo d’occhio la schiena della madre. Le vennero in mente tutti i litigi che avevano avuto, tutte le parole che si erano dette senza forse volerlo.

Per un attimo, le si strinse il cuore al pensiero di quella donna smarrita in una realtà che non riconosceva come la propria, con un pugno di speranze e due bambini al seguito.

Cina, Italia, Italia, Cina.
Ti senti più italiana o più cinese?
A quella domanda, Ayue non sapeva mai come rispondere.
Per dire qualcosa di sincero, avrebbe dovuto scavare in profondità, sporcarsi le unghie con il fango delle apparenze, andare oltre la superficie.

Forse, solo allora, avrebbe capito che la sua identità non era fatta di percentuali e di esclusioni. Era qualcosa di più, qualcosa che viveva sotto pelle, che le scorreva nelle vene come sangue.

Era il suo io più intimo, senza il quale lei non sarebbe stata la stessa.

Madre e figlia stavano ancora camminando, ora fianco a fianco, quando ad un tratto il cielo si rabbuiò. Iniziò a piovere – dapprima piano, quasi timidamente, poi sempre più forte, fino a sfociare in un vero e proprio acquazzone estivo, di quelli che ti colpiscono la pelle con violenza, che ti lasciano smarrito ma inebriato, che riecheggiano sulla pietra, liberandoti dai pensieri.

Le due donne cominciarono a correre, ma non c’era modo di sfuggire al diluvio.

Poi, così com’era arrivato, all’improvviso tutto finì, lasciando solo foglie bagnate e odore di pioggia.

Ayue si fermò, il respiro affannato – si spostò i capelli dal viso, assaporando il gusto dell’acquazzone sulle labbra. Guardò la madre, anche lei completamente fradicia, e non riuscì a trattenere un sorriso.

Esausta, sollevò gli occhi al cielo, riprendendo fiato.

E fu allora che se ne accorse: sopra le loro teste, le nuvole avevano lasciato spazio ad un arcobaleno dai colori così vividi da rapire anche lo sguardo della madre. Per quanto fossero diverse, c’erano ancora dei punti in comune.

E c’era così tanta bellezza in questo.

Luisa Zhou


Luisa Zhou nasce a Torino l’11 gennaio 1995 da genitori originari di un piccolo villaggio nella regione di Zhejiang, nella Cina meridionale. Luisa cresce, scrive, sogna e la sua infanzia e l’adolescenza sono strettamente legate al ricordo di un ristorante. Frequenta il liceo classico masticando la lingua dell’epica e della tragedia per cinque anni, tuttavia sui suoi documenti appare la scritta «nazionalità cinese». A diciannove anni decide di partire per Hangzhou, dove trascorre un anno sabbatico alla ricerca delle proprie origini. Al suo rientro in Italia, continua quella che è l’ordinaria vita di una ragazza universitaria. Il suo racconto, (S)corri nelle mie vene. Sottopelle, ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.


Eleonora

di Jacqueline Nieder [Italia]

© AfMC / Marco Bello

Sei sdraiata al caldo, sotto le lenzuola pulite. Il ginecologo ti ha controllato un’altra volta ma vorrei che lo facesse di nuovo, per essere certa che non ti accadrà nulla. Mi alzo e cerco l’infermiera. Mentre mi allontano, ti lamenti. Non sono sicura se è perché me ne sto andando o perché finalmente ti ho lasciata sola. Quando torniamo, l’infermiera mi assicura che manca poco, che ogni cosa sta seguendo il suo corso naturale. Me lo ripeto di continuo, ma la luce al neon dei corridoi elude il passare del tempo, lo deforma. È facile confondere ciò che è stato con ciò che sta per accadere. Siamo in Italia, dopotutto, e sono passati vent’anni, dovrei smetterla di avere paura. Non si sentono i colpi di carro armato prima dell’alba o i passi dei soldati che fanno irruzione nell’ospedale e uccidono chi, in fondo, è già morto. Mi dico che sei al sicuro mentre confondo i suoni delle macchine e i lamenti delle altre pazienti con quelli delle sirene. Eleonora. Le hai dato un nome di questa terra ma tua figlia sarà figlia di questa terra? E noi di cosa siamo figlie?

Fuori è già buio. La luce sopra al letto si riflette sulla tua pelle bianca a tal punto che sembra emanata da te e ti trasfigura. Le rughe di dolore che hai sul viso, nello sforzo di spingere, somigliano a quelle di una maschera crudele. All’improvviso, ti sento fredda e mi fai paura. Non riesco a guardarti. Mi stringi la mano fino a farmi male e ho bisogno di andar via. Quando la contrazione ti lascia riprendere fiato, mi libero ed esco dalla stanza, con il pretesto di cercare ancora l’infermiera.

Non volevo guardarti nemmeno la prima volta, non te l’ho detto mai. Sei nata poco dopo l’inizio della guerra, nel ‘93. In tutti questi anni non ti ho mai raccontato di Osijek e del nostro passato. In fondo, non ti è mai interessato, forse perché sapevi che era da lì che veniva il mio rancore.

Ti dò un’ultima occhiata. Hai cappelli rossi così belli, le pareti azzurre ricordano un cielo, ma la tua espressione mi spinge ad allontanarmi. È la stessa di quella volta al parco, quando avevi sei anni. Facevi piovere delle piccole zolle di terra su un formicaio con la medesima leggerezza con cui gettavano le bombe su Osijek. Ti divertiva veder impazzire quelle povere bestiole, e ti sgridavo e avevo paura di te.

Sentivo tornare un rancore lontano. Osijek era un enorme formicaio, i muri segnati dai colpi di mortaio. La strada principale aveva ceduto sotto il peso dei cingolati. Vivevo con mio marito, Saša, in una piccola villetta ai limiti della città, vicino ai campi di mais. L’abbiamo lasciata quando è scoppiata la guerra e sono cominciate le retate. Ogni settimana cambiavamo posto. Cercavamo le abitazioni già perquisite o abbandonate. Molti serbi erano scappati, lasciando la città. Noi forzavamo le porte e dormivamo nei loro letti, senza accendere le luci quando scendeva la notte. Avevamo imparato a trovarci nel buio e a restare in silenzio per giorni interi. Qualche volta, nel bel mezzo della notte, le stanze venivano inondate da una luce calda come quella del sole, ma ogni volta era soltanto il fuoco croato appiccato alle case serbe.

© AfMC / Marco Bello

Verso la metà di giugno, mentre Saša era andato a cercare da mangiare, scesi in strada e vidi dei ragazzi attorno a un furgoncino rovesciato. Con le lamiere che avevano recuperato, stavano costruendo un’enorme croce sul ciglio della strada. Due di loro erano soldati, con delle barbe lunghe e incolte. L’altro indossava un cappello di lana e aveva un fucile legato alla schiena. Nessuno di loro portava la fascia bianca al braccio, ciò voleva dire che non erano croati. Non so bene perché, ma cominciai a pregare. Quando se ne andarono, attraversai la strada e m’inginocchiai vicino alla croce. Cercavo l’erba medica per poterla mangiare. Ne presi un bel fascio anche per Saša e rientrai a casa.

Di quella sera ricordo gli odori. Ricordo l’odore di sudore che riempì la stanza quando fecero irruzione mentre stavo dormendo. L’odore di bruciato che entrava dalla finestra, che si mescolava all’odore della mia paura. Erano gli stessi delle lamiere, i due soldati e il civile. Sentivo ancora sulle labbra l’aroma dell’erba e della terra. Quando se ne andarono, gli odori sparirono con loro. Non li riesco più a sentire, nemmeno dopo tutto questo tempo.

Sapevo di aspettarti. Ne ero consapevole già da quella stessa notte, mentre la vicina, che aveva sentito le grida, mi lavava nella vasca da bagno piena di acqua e sale. Mi sono presa a pugni la pancia per la disperazione. Ma non te ne sei andata, per fortuna, non te ne sei andata.

La notte successiva siamo partiti per andare da mia sorella. Abitava fuori città, al confine con i boschi. In cuor mio speravo avesse ancora una gallina o due, non ne potevo più di soffrire la fame. Abbiamo deciso di muoverci a piedi, per nasconderci nei campi e camminare lontano dalle strade. Saša è morto proprio lì, con una gamba prigioniera in una trappola per lupi. Non avevo abbastanza forza per trascinarlo. Sono rimasta con lui per tre giorni finché non se n’è andato.

Da mia sorella non sono mai arrivata. Ho camminato finché ho potuto, nella direzione opposta rispetto ai rumori, alle luci e alle voci che sentivo. Ad un certo punto mi sono trovata davanti a una vecchia casa di boscaioli. Dentro, si erano nascoste alcune donne e un ragazzo giovanissimo, serbo come mio marito. Un disertore, uno che ad ammazzare metà della sua famiglia si era rifiutato. Mi accolsero senza dire niente. Entrai in quella casa come un fantasma e loro entrarono nella mia vita nello stesso modo.

Tra quelle donne una era impazzita. Ogni tanto si metteva a gridare e sbavava, presa dai tremori. Il ragazzo le tappava la bocca perché avevamo paura di farci sorprendere persino dal sole al mattino. Mangiavamo le radici, il mais e le lepri cacciate con i lacci. Eravamo in tre con le pance gonfie. Una aveva solo quattordici anni. Perse il bambino al secondo mese, poco dopo il mio arrivo. L’altra, di trenta, lo partorì e lo abbandonò in mezzo al campo.

Tu, invece, sei arrivata d’inverno. Dovevano esserci venti gradi sotto zero. La neve era alta un metro e rendeva tutto più sopportabile, nascondeva le cose. Sei venuta di notte e ti ho maledetto. Tremavo dal freddo e dalla fame. Le donne più forti mi hanno portato vicino alla caldaia a legna. Hanno detto che così, forse, non sarei morta e non saresti morta neanche tu. Ricordo il sudiciume, i ratti che correvano lungo i muri e avevo paura che cominciassero a mordermi e non riuscissi a difendermi. Sono rimasta sola per molto tempo, poi la ragazzina è venuta con il serbo. Mi hanno messo una coperta e hanno fatto pressione sul mio stomaco per aiutarti a uscire. Sei venuta in fretta. Ho sperato che fossi nata morta, non avrei avuto il coraggio di lasciarti su un cumulo di neve. Invece hai cominciato a piangere e io con te. Ed è stato in quel momento, credo, nella spinta istintiva che ne è seguita, nelle braccia protese in avanti, nelle mani aperte, che è cambiato tutto. E come ti ho avuta, ti ho stretta, nascosta dentro il seno, sotto la coperta, vicino alla caldaia. Ti alitavo in fronte per non farti congelare e ti baciavo come se fossi un miracolo. Ti ringraziavo di essere venuta da me. Così, ora, in questo ospedale, dopo vent’anni, sento ancora il bisogno di chiederti perdono. Per ciò che è rimasto del rancore, per la storia che non ti ho mai raccontato, per le mie paure che a volte credo di vedere sul tuo viso.

Sto cercando di tornare da te, mi sono persa nei corridoi del padiglione Ovest. Chiedo indicazioni a una signora anziana che sembra un vigile e conosce tutto di questo posto. Mentre corro nella giusta direzione, sento che mi chiami. Quando entro nella stanza, l’infermiera sta sollevando Eleonora e dietro ci sei tu, i capelli rossi e sudati appiccicati alla fronte. La prendi, la baci, la stringi e ringrazi Dio e me. Me. Hai Eleonora negli occhi mentre mi avvicino a voi e mi rendo conto che il nostro passato, tu, lo hai sempre conosciuto. Solo ora capisco, dopo vent’anni, che il perdono me lo avevi già dato quel giorno, in quella cantina, in quella Croazia, mentre ti alitavo sul viso per non farti congelare.

Jacqueline Nieder


Nasce a Parma nel 1991 da padre argentino, originario di Buenos Aires, e madre mantovana. Frequenta un liceo scientifico sperimentale con indirizzo linguistico, apprendendo l’inglese e il francese; si laurea in Lettere Moderne all’Università di Bologna e attualmente vive a Torino, dove studia Storytelling alla Scuola Holden. Ama leggere e narrare storie. Il suo racconto Il cappello del Signor E è pubblicato sulla rivista per bambini dei «MagazziniOz» e riceve menzioni d’onore in concorsi di poesia. Ama la fotografia e tiene una fitta corrispondenza con la nonna che definisce sua amica di penna. Il suo racconto, Eleonora, vince il Premio Sezione Speciale Donne Italiane della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.


Changes

di Dounya Mahboub [Marocco]

© AfMC / Claudia Caramanti

Mio padre, uomo ignorante e violento, fisicamente corpulento, massiccio, duro con se stesso e il prossimo, vedeva in me qualcosa di insolito e di diverso nei miei atteggiamenti. Ogni volta che mi vedeva, diceva: «Dounya, non basta pregare cinque volte al giorno, il nostro Dio ci osserva, più devoti siamo e migliore sarà la nostra esistenza!».

Avevo diciotto anni, aiutavo mia madre in casa e guardavo le mie tre sorelle più piccole. Mio padre, fervente religioso, parlava sempre della guerra di Dio verso gli infedeli, diceva che noi credenti eravamo il suo mezzo divino per purificare la nostra religione ed era giusto punire con violenza anche quelli contrari alla guerra santa. Non accettavo questi discorsi ma ero obbligata a non rispondergli, a non fare nulla, immobile al termine delle sue frasi, con il volto impassibile deglutivo quelle parole, perché se avessi osato controbattere e dar vita a una discussione, mi avrebbe picchiata e poi avrebbe picchiato anche mia madre che non c’entrava nulla. La mia schiena era pur sempre dritta e i miei pensieri rimanevano conformi al mio essere, a quella che sono: atea.

Vivevo fingendo, un’attrice di un film che non consiglierei a nessuno, schiava di una religione che non mi appartiene. Pensavo: per quanto ancora? Mi succedeva spesso di perdermi nel vortice assiduo di una speranza ignota. Sentivo freddo quando pensavo alla resa della mia anima mortale, i brividi mi affannavano il respiro, mi alzavo e allo specchio della camera riprendevo possesso della ragione, guardandomi il volto, pensavo certa: «Sono io, sempre io, la ragazza che trova ragione nel sognare un mondo migliore».

Un mattino, nella mia camera, sotto le coperte, stavo aspettando che la luce entrasse dalla finestra perché le riflessioni della notte mi avevano fatto capire che non c’era più tempo da perdere. Mi alzai dal letto e appena mio padre uscì di casa, presi mia madre da parte e le dissi: «Basta mamma! Così non voglio più vivere, preferisco la morte a questa vita».

Mia madre, con le lacrime agli occhi, abbracciandomi disse: «Hal targhabi fi lhoroub!? Aina?».
«In Italia, mamma».

Sapevo benissimo che ottenere un visto per l’Italia non era per niente semplice e le azioni che dovevo svolgere in segreto richiedevano molto tempo e tanta speranza. Dopo alcuni giorni, mi diressi all’ambasciata Italiana a Rabat: con l’iscrizione avrei potuto ottenere un visto lavorativo di sei mesi; intanto mi misi in contatto con mio zio, già in Italia da alcuni anni. Gli raccontai di tutte le pressioni che subivo da mio padre e di tutta la voglia che avevo di scappare.

Mio zio, dopo diversi mesi e vari tentativi, riuscì a trovare una famiglia benestante e, dopo la notizia di mio zio, tutto si trasformò in luce ai miei occhi e nessuno poté più fermarmi. Durante una notte così calda che le candele accese nella casa si scioglievano come burro al sole, scappai, senza lasciare alcuna traccia di movimenti rumorosi che avrebbero potuto infastidire il sonno di mio padre. Ero disposta ad assumermi la responsabilità di un lavoro, per ottenere un permesso di soggiorno. In quel periodo di tempo non avevo mai perso la speranza, sulla mia vicina partenza. Quando poi arrivò, durante il volo, il cuore mi batteva così forte e lo stomaco faceva così male fino a nausearmi, i miei pensieri si perdevano unendosi alla scia dell’aereo, senza mai disperdersi, però. Mi calmavo sapendo che stava per incominciare una nuova vita.

Arrivata a Milano, sperduta in quel grande aeroporto, da lontano, vidi mio zio che mi cercava fra la gente, mi misi a correre fino a lui e, abbracciandolo, le mie paure si sbiadirono sul suo volto sorridente. Giunta finalmente ad Asti potevo girare per quelle vie che profumavano di libro ancora da aprire. Ero ospite di mio zio in corso Alba, molto vicino alla casa in cui dovevo incominciare a lavorare. In quella casa ricca di oggetti a me sconosciuti, svolgevo diverse mansioni e imparavo con grande entusiasmo i piatti tipici piemontesi per la preparazione del pranzo e della cena. Passavo molte ore nella biblioteca della casa, per la sete di sapere che avevo sempre avuto.

Già da bambina leggevo tutto quello che trovavo, ma in Marocco i libri non potevamo permetterceli e mio padre controllava sempre le mie letture; poter leggere così tante cose diverse mi ha permesso di farmi una cultura, solo mia, nessuno mi diceva cosa leggere. Ho preso il diploma e adesso mi mancano tre esami per laurearmi in Scienze politiche a Torino.

Continuo a lavorare per pagarmi gli studi, sperando un giorno di tornare, fiera di me stessa, a Marrakech e portare via, dalle grinfie di mio padre, mia madre e le mie sorelle, che non meritano quella vita.

Sento di essere dove volevo vivere…
Sento di essere una straniera ancora, ma di non avere più la paura di allora…
Conquistatrice di sogni e di viaggi, vago nell’anima del mondo, portando nel cuore le mie origini.

Dounya Mahboub


Nasce il primo gennaio 1994, a Marrakech, in Marocco. Si trasferisce in Italia, ad Asti, all’età di sedici anni, dove tuttora vive con suo zio. Lì frequenta il liceo linguistico «Ugo Foscolo» e, dopo aver conseguito il diploma, si iscrive all’Università degli studi di Torino per seguire il corso triennale in Scienze politiche e sociali. Dopo la laurea, desidera intraprendere una carriera diplomatica e aspira alla politica internazionale: le piacerebbe diventare assistente parlamentare europeo. Il suo racconto, Changes, ha vinto il Premio Speciale Rotary Club Torino Mole Antonelliana della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.


Jet lag affettivo

di Angela María Osorio Méndez [Colombia]

© AfMC / Impegnarsi Serve

Unità di misura Utc, il fuso orario. È così che devo misurare la metà delle mie relazioni interpersonali, in perenne jet lag affettivo: «Ci sentiamo al mio pranzo, ossia per la tua colazione»; «no, a quell’ora non posso, sarò nel pieno del sonno». Un constante rendez-vous sfuggente, perché in effetti ci dimentichiamo spesso di quegli appuntamenti su Skype quando viviamo quell’altra parte delle nostre vite, quella parte fatta da carne e ossa, contatti e odori.

«Il jet lag, spesso indicato come “mal di fuso” […] è una condizione clinica che si verifica quando si attraversano vari fusi orari (di solito più di due fusi orari), come avviene nel caso di un lungo viaggio in aereo […]. Il fenomeno si verifica a causa dell’alterazione dei normali ritmi circadiani». Wikipedia con usuale semplicità spiega la condizione che io vivo da sei anni, senza viaggiare o prendere aerei o attraversare time zones. Questa è la storia della costante «alterazione dei normali ritmi» affettivi e dei meccanismi impiegati per provare a metterli in sincronia e far collidere le nostre diverse e lontane Utc, annullando le distanze spaziali e temporali per cui possa esistere un solo piano, il nostro, dove emisfero Nord e Sud diventino un tutt’uno.

| JET LAG, 7h | 23:00 UTC -5; 06:00 UTC +2

A 2.640 metri sopra il livello del mare (s.l.m.) l’ossigeno è scarso, ma noi bogotani riusciamo a respirare benissimo. Siamo come quei mammiferi marini che riescono a mantenere il fiato per più di un’ora sott’acqua, tutto grazie ovviamente a uno degli adattamenti più estremi che esistano in natura. No, non sto dicendo che a Bogotá si viva in apnea, per quanto a volte i suoi abitanti possano sembrare sirene scappate dalle isole Sorrentine: nella capitale a volte piove tanto, ma a volte piove pure tantissimo e la gente come per magia sembra prendere quella forma, metà pesce metà umano. A 2.640m s.l.m., a quest’ora a Bogotá la maggior parte dei suoi dieci milioni di abitanti sta andando al letto; i pochi negozi ancora aperti iniziano a chiudersi; le luci nelle case e negli appartamenti a spegnersi; il traffico a diminuire di intensità. Ai 239m s.l.m. di Torino invece, le serrande iniziano ad alzarsi, le panetterie ad aprire e la moka a diffondere il suo profumo di mattina italiana: caffè es-pres-so. Un rito osservato, compreso e imparato solo con il passare dei mesi dal mio arrivo in Italia e con tanta fatica. «Ma come preparate il caffè in Colombia? Ma senza la moka? E allora come?» «D’accordo ti spiego io: l’acqua va fino alla valvola, o se vuoi un po’ più in alto se la moka lo permette. Il caffè lo devi mettere con questo cucchiaio asciutto, metti la mano così intorno e fai questo movimento. Il migliore caffè è questo, prendi solo questo marchio, non gli altri! Stretta bene la moka la metti sul fuoco basso e fai uscire il caffè piano, fino al fischio. Ecco, la moka si usa così».

All’inizio mi sembrava impossibile e oggi mi sembra impossibile non farlo. La moka ormai significa mattina, senza di lei non ci si sveglia. Ed insieme al caffè in tazza piccola a colazione ci sono biscotti dolci, oppure brioche dolci, magari alla marmellata. Ogni tanto baro e il mio caffè diventa un americano, lungo e in tazza grande, e puntualmente incontro lo stupore degli italiani a cui racconto che a 2.640m s.l.m. per colazione si mangia solo cibo salato: i soliti café con leche o chocolate, huevos revueltos , arepas con queso y pan. Il caffè americano è ammesso quando ho voglia di iniziare la giornata più alla colombiana.

© AfMC / Impegnarsi Serve

| JET LAG, 7h | 01:00 UTC -5; 08:00 UTC +2

A 239m s.l.m. le arterie della città pulsano. Tram, bus, metro, bicicletta, auto, bike sharing, car sharing, passi veloci… ogni flusso si intreccia e ciascuno disegna il proprio tracciato strategico. La prima tratta in bicicletta, la seconda parte sul tram arancione che porta alla coincidenza che finalmente arriverà a destinazione. Ma in alcuni casi si può pure cambiare l’ordine, prima il bus, a seguire il ToBike ed infine il tram. Oppure solo la bici o alle volte solo il bus. Ma questa dimestichezza arriva solo dopo anni di pratica e di percorrenza delle vie della città, perché qua le strade non sono semplici numeri, qua le strade sono vere e proprie biografie ed è più che ovvio che non sia facile orientarsi fra tutti questi nomi. Appena arrivata in città, ho abitato fra le strade degli artisti; una condizione meravigliosa che sembrava impormi tacitamente il mandato di vivere artisticamente. Non so se ci sono effettivamente riuscita, ma quando ogni giorno da via Antonio Canova imboccavo via Benvenuto Cellini, fino alla fermata del bus, a me sembrava sempre di camminare in un museo.

Bogotá invece, con il suo passato coloniale, ha una rete stradale che segue i lineamenti del cardo e del decumano: la toponomastica della griglia che ne risulta non utilizza nomi di municipi e personaggi storici, bensì è composta da numeri, ordinali e cardinali. Oggi vengono chiamate carreras e calles: le prime sono le strade che vanno dal Nord al Sud e le calles sono quelle perpendicolari alle carreras. La numerazione delle calles nasce da Plaza Bolivar, piazza principale della città, e aumenta fino al numero duecento verso il Nord e altrettanto verso il Sud. Le carreras invece crescono di cifra da Est verso Ovest, partendo dalla catena di montagne che costeggia imponente e rigogliosa la città da Nord a Sud, definendo il suo limite naturale. Con questa configurazione urbanistica non c’è bisogno di interiorizzare i nomi e le vocazioni di vie e quartieri per potersi muovere, ma esiste sempre la possibilità di ubicarsi all’interno della griglia. Dall’incrocio della calle diciotto con la carrera quarta per dirigersi all’angolo della calle quattordici con la carrera seconda, basta spostarsi quattro isolati verso Sud e due verso Est. Sommare e sottrarre è l’unico modo per arrivare.

| JET LAG, 7h | 03:00 UTC -5; 10:00 UTC +2.

A 2.640m s.l.m. le persone dormono. Mia madre dorme, mio padre dorme, le mie sorelle dormono, i miei fratelli dormono, i miei amici dormono, le mie amiche dormono e io, a 239m s.l.m faccio una pausa, una pausa caffè al bar con i miei colleghi. In Colombia i bar servono solo bevande alcoliche e aprono solitamente alla sera.

La prima volta che mi hanno chiesto se volevo andare al bar per l’intervallo a metà mattina mi sono stupita, non riuscivo a capire cosa volevano fare i miei compagni. «Bere a metà mattina?». Solo più tardi ho capito che al bar si va per il caffè e che questo si beve al banco, in piedi e al volo! Una volta ancora, questo per me non era affatto scontato: in Colombia il caffè si beve da seduti accompagnato da chiacchiere rilassate, non in fretta e meno che mai in piedi.

Durante la loro ultima visita in Italia è stato naturale per mia madre e mia zia, quelle che ora dormono a 2.640m s.l.m., affidarsi alla scritta «cappuccino al banco 2 euro» per andare a consumare la bevanda calda sedute al banco, che in spagnolo significa panchina. Ingannate crudelmente dalla similitudine fra banco in italiano e banco in spagnolo, hanno scoperto solo al momento di pagare che banco sta per bancone, fermezza su due piedi e sveltezza di consumazione.

| JET LAG, 7h | 05:00 UTC -5; 12:00 UTC +2

A 239m s.l.m. è ora di pranzo, ed ancora una volta si discute di pasta.

Lui: «Con il pesto non si mangia mai la pasta lunga»; io: «E allora prendi quella corta che c’è lì nello scaffale!». Lui: «Ma no, ma neanche i maccheroni vanno bene! Portami le caserecce, o i fusilli, la pasta deve essere un po’ attorcigliata».
Lui, ride. Lei a lui: «Lo so che c’è chi mangia la pasta lunga col pesto, ma con lei bisogna essere tranchant: non le percepisce queste sottigliezze soggettive…».

In Colombia la struttura di un pasto inizia tipicamente con la frutta servita in un piatto piccolo, preferibilmente di vetro. La seconda portata si chiama sopa e consiste appunto in una zuppa, che deve essere servita calda e su un piatto fondo; la terza pietanza si chiama seco. La parola seco in spagnolo vuole dire asciutto, ed è legittimo che venga dopo la zuppa, che è sugosa. Per il seco solitamente si compongono nel piatto diversi elementi: verdure, carne o legumi, e immancabilmente il riso bianco, il cui ruolo è fondamentale per il seco. Tutti gli altri ingredienti possono variare a piacere, ma il riso bianco è la colonna portante del seco. Insieme al seco si beve il jugo, ogni giorno fatto con un frutto diverso: ieri lulo, domani mora, oggi guanabana. Ed infine si chiude con il tinto, una specie di caffè americano e a volte un dolce come un bocadillo de guayaba, una gelatina guava.

Io però a 239m s.l.m. sto mangiando un primo, un secondo e dopo un po’ d’insalata con pane e dopo la frutta tagliata al tavolo e, per finire, un caffè es-pres-so con un gianduiotto.

© AfMC / Impegnarsi Serve

| JET LAG, 7h |  07:00 UTC -5; 14:00 UTC +2

A 2.640m s.l.m. la gente si sta alzando. Mia madre si sveglia, mio padre si sveglia, tutti si svegliano, compresa me, che sono a 239m s.l.m. e a un mare di distanza. Mi sveglio come loro, ma non da una notte stellata, io mi sveglio dalla siesta: un’attività che in qualche modo riesce a sincronizzarmi con la Colombia e con i suoi ritmi circadiani, con il suo fuso orario.

E questa comune sveglia crea lo spazio e il tempo per una condizione di simile dissimilitudine, di uno strano stare insieme a distanza, un paio di ore di sole condiviso, anche se qua è calante e là è in ascesa. Sono proprio queste le ore preferite per gli appuntamenti cibernetici. Servono solamente internet, un dispositivo portatile, auricolari, uno spazio silenzioso dove poter parlare e del tempo.

Ma in questo primo pomeriggio a 239m s.l.m. queste condizioni fanno fatica a declinarsi nella realtà e sembrano escludersi a vicenda: se ho la connessione, il computer e le cuffie, non ho tempo, o non sono nello spazio adatto; se non ho impegni e sono in un bel luogo, accogliente e favorevole a una bella chiacchierata, magari ho anche con me pc e auricolari, mi manca internet, e cosi via, in costante compromesso spazio temporale.

Ma a volte riusciamo a sospendere il jet lag e ci sincronizziamo per un po’, a volte per alcuni minuti, magari per alcune ore. Diventiamo una specie di piano topologico, dove la distanza tra punti non conta: le nostre diverse condizioni spaziali e temporali s’incontrano in un istante, in una topografia e cronologia che non esiste, loro a 2.640m s.l.m. con il loro fuso orario UTC -5 ed io ai 239m s.l.m. con il mio UTC +2. In questo modo apriamo un’altra dimensione che per noi, che siamo connessi, esisterà oltre il tempo della durata di questa chiamata.

Anche dopo, ognuno di noi sentirà scorrere un ritmo parallelo a quello del proprio quotidiano, e in ogni cosa che faremo, caffè che prenderemo, traffico che sfideremo, convenzione che decostruiremo sarà presente l’idea dell’altro, dall’altro lato dell’oceano, respirando un’altra composizione chimica di aria: fino alla prossima tregua di jet lag affettivo.

Angela María Osorio Méndez


Nasce nel 1986 a Bogotá, in Colombia. Nel suo paese d’origine studia Arti visive; si trasferisce in Italia e ottiene la doppia laurea italo-colombiana in Architettura presso il Politecnico di Torino. Nel 2014 inizia il dottorato in Studi Urbani del Gran Sasso Science Institute (Gssi), presso L’Aquila. Realizza progetti di sviluppo territoriale attraverso iniziative culturali e artistiche, come The School of Losing Time a Londra e Mirafiori Millefogli, in corso di attuazione, a Torino. Il suo racconto, Jet lag affettivo, ha vinto il Primo Premio della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

 




Aromi e sapori di casa lontana


Per gentile concessione del «Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre»


Non solo cibo

Il cibo riveste un ruolo cruciale nelle storie raccontate da molte donne: lo dimostrano i tanti testi che ogni anno giungono al «Concorso letterario nazionale Lingua Madre», assunto come progetto permanente della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di Torino. Il concorso è diretto alle donne straniere (anche di seconda e terza generazione) residenti in Italia e prevede anche una sezione per le donne italiane che vogliano raccontare storie di donne straniere.

Molto più di un semplice premio letterario, il Concorso Lingua Madre negli anni si è trasformato in qualcosa di più grande, grazie anche all’ampia rete di contatti e legami intessuti con associazioni, enti, scuole, carceri, realtà al femminile presenti su tutto il territorio nazionale, ma anche internazionale. Dal 2005 a oggi sono state oltre 4.000 le partecipanti e, tra queste, moltissime hanno dedicato le proprie narrazioni al cibo, sottolineandone il valore identitario, culturale, sociale e simbolico. Da questa constatazione è nata nel 2009 la collaborazione del Concorso con Slow Food che, insieme a Terra Madre, offrono un premio speciale al racconto maggiormente ispirato a piatti e tradizioni culinarie.

E, ancora, proprio grazie a questa forte attinenza tematica, l’anno scorso e in concomitanza con Expo Milano 2015, il Concorso è entrato – con una serie di iniziative e progetti – nel grande network al femminile We Women for Expo, nato per agire sui temi dell’alimentazione, per migliorare il diritto universale al cibo.

Il Concorso è inoltre tra i principali partner di Transnational Appetites: Migrant Women’s Art and Writing on Food and the Environment, un progetto di ricerca – di cui è titolare la prof. Daniela Fargione -, promosso dal Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Torino e finanziato dalla Compagnia di San Paolo, che ha come obiettivo quello di esplorare la relazione tra arte, letteratura, cibo, cambiamenti climatici, ecologia, dalla prospettiva delle donne migranti. A esso è collegato il Festival «Alla tavola delle migranti» (che avrà luogo il 17 settembre 2016 presso l’Aula Magna della Cavallerizza Reale di Torino): una manifestazione pensata per coinvolgere l’intera cittadinanza sui temi delle culture migranti, della biodiversità culturale, del rispetto dell’ambiente e delle sue risorse in un’ottica di condivisione e cambiamento tra dibattiti, concerti musicali, mostre fotografiche, laboratori di disegno, reading, proiezioni di film e documentari, con la partecipazione di ospiti inteazionali.

Ecco a voi dunque i racconti vincitori del Premio Speciale Slow Food/Terra Madre: una raccolta ricca di tutti i sapori, i colori, i profumi del mondo.

Daniela Finocchi
ideatrice e direttrice del concorso


borscht_in_white_wine_recipe_-_russian_cuisine_170574324-cut1. Il profumo della domenica

di Michaela Sebokova (Slovacchia)

Mi attendeva una lunga giornata all’ospedale, tra una visita diagnostica e l’altra. Non era un periodo buono. Superati i quarant’anni, il mio corpo ha iniziato a protestare. Era giunto il momento di scoprie il motivo. Dopo lunghe discussioni ho convinto mio marito che mi lasciasse affrontare gli esami da sola. Avrebbe pensato lui ai ragazzi, alla scuola e al pranzo.

La mattina degli esami mi sono munita di pazienza, ho infilato una bottiglietta d’acqua nella borsa e sono partita per l’ospedale. Le solite stradine tortuose di montagna, l’abituale traffico di fuoristrada rombanti, api singhiozzanti e motorini folli, semafori rotti, gente a piedi, il piccolo parcheggio sempre pieno. Per incoraggiarmi, prendo un buon caffè al bar accanto all’ospedale e mastico un pezzo di crostata. Mmmh, buona. Sembra fatta in casa. Forse la prepara la mamma del barista. Per un attimo non penso ad altro. La magia del cibo funziona sempre.

Salendo al primo piano passo davanti all’edicola. Mentalmente scarto tutte le riviste che costano più di due euro. La scelta si restringe alle riviste tascabili di cucina. Ne prendo una qualsiasi, pago, e mi siedo davanti all’ambulatorio. Chissà come mai, non ho tempo per cominciare ad annoiarmi che già mi chiamano.

Dopo un’ora esco, sfinita. Bevo un sorso d’acqua, la mano trema, anche la bocca trema. «Su, da brava, che non è niente, hai quasi finito!» cerco di convincermi. Mi ritiro in un angolino, accanto alla finestra. Per il secondo esame devo aspettare il primo pomeriggio, non mi conviene tornare a casa.

Così me ne sto seduta lì, su una brutta sedia di plastica, a osservare la pioggia che batte violentemente sul vetro. Il cielo è cupo e le grosse nuvole corrono a Est, inseguite dal vento. Sento che la mia maschera di coraggio si sta di nuovo sgretolando, il brutto tempo mi si rispecchia nell’anima. Come se cercassi l’ancora di salvataggio, apro la borsa e tiro fuori il libricino di cucina. Vediamo. Polpette di agnello. Torta di radicchio. Pubblicità. Zuppa di lenticchie, bene. Crostata di zucca (ecco, siamo sotto Halloween). Pubblicità. Mi tolgo gli occhiali, mi riposo un po’. Per la prima volta guardo in faccia le persone che dividono la sala d’attesa. Non la condividono, ma la dividono, perché ognuna ha creato intorno a sé un piccolo spazio personale impenetrabile per gli altri. E forse nessuno vuole violentare lo spazio di qualcun altro, ognuno chiuso nei propri problemi e pensieri, dolori e preoccupazioni. Non ci sono bambini, gli unici ammessi a penetrare le difese degli adulti.

C’è una signora anziana, elegante nel suo cappotto un po’ fuori moda. Ogni tanto mi rivolge un’occhiata curiosa. Non m’infastidisce, non è per niente invadente. Ricomincio a leggere. Anatra con le mele. Ravioli di pesce. Pubblicità. L’infermiera chiama l’anziana signora. Torta di patate. Cavolfiore gratinato. Pubblicità. La signora esce, si rimette in una paziente attesa. La osservo sopra gli occhiali, mi sembra che stia recitando una preghiera. Distolgo educatamente lo sguardo. «Io sono una donna forte, forte!» mi ripeto come un mantra e continuo a leggere. Pasta all’uovo. E poi, una breve scritta, un’introduzione: «Il profumo di lasagne, di cannelloni, di pasta al foo che si diffonde in casa… A chi questi piatti non farebbero tornare in mente la domenica, la mamma, l’infanzia?».

Rimango pietrificata. Del tutto irragionevolmente ho voglia di gridare a squarciagola «A me! A me non fanno ricordare proprio niente della mia infanzia, le lasagne e la pasta al foo!». All’improvviso mi sento fuori luogo, fuori paese, fuori pianeta. Mi sembra di essere in un posto del tutto sbagliato, perché i miei ricordi sono sbagliati. La domenica di casa mia sapeva di brodo di carne, pollo fritto, purea di patate e pesche sciroppate. Come faccio a vivere qui, se la parola «lasagne» non sveglia in me nessuna emozione?

Pensavo di essere ormai immunizzata. Integrata. Una brava moglie e mamma di figli italiani. Mimetizzata, una straniera che non nasconde di esserlo ma che non le dispiace se la scambiano per un’italiana; in realtà l’immagine di mimetizzarsi è del tutto ridicola, in un paesino di montagna che conta sì e no cinquecento abitanti e dove tutti sanno perfino che numero di scarpe porti. Certo, ho insegnato ai miei bambini la mia lingua madre, ma la nostra lingua di casa è l’italiano. Preparo le calze per la Befana e le bandiere per la Festa della Repubblica. Cucino le lasagne emiliane, il risotto alla milanese, lo stracotto e la cassata. E qualche volta delizio la famiglia con un piatto tipico delle mie zone, un gulasch di cinghiale o un’oca al foo. Pensavo di avere dietro le spalle la nostalgia di sapori, di profumi. Un errore.

Una risatina isterica mi sale sulle labbra. La mia maschera immaginaria si rompe, sento il rumore assordante quando cade per terra, e comincio a piangere in silenzio. Piango tutte le mie preoccupazioni, paure. E anche la mia folle e improvvisa voglia di tornare bambina e trovare a casa la mamma che prepara il pranzo domenicale.

Dopo qualche istante l’anziana signora si alza, si avvicina.

«Cara, si sente bene?», mi dice con quella sua voce tremula, dolce. Scuoto la testa. Potrebbe essere un sì, o un no.

«Suvvia, cara, non deve piangere così. Si risolve tutto, vedrà. Ce l’ha un fazzoletto?».

Certo che ce l’ho un fazzoletto, ne ho un pacchetto intero, ne sono sicura, ma non riesco a trovarlo. La signora mi dà il suo, di tessuto fine. Profuma di lavanda. Dopo un secondo di imbarazzo ci soffio il naso. Non ho mai usato un fazzoletto di stoffa.

Passano cinque minuti, dieci. Ho smesso di piangere. Nel frattempo, senza rendermene conto, la signora mi si è seduta accanto. Non parliamo, ma tra noi si è già creato un legame particolare.

La signora mi chiede quando ho il prossimo esame. Le rispondo tra due ore. «Allora venga, abbiamo tutto il tempo per prendere un buon tè», dice con la voce che non accetta rifiuti.

Scendiamo le scale, la signora apre il suo ombrello e ci para entrambe. Entriamo nel bar, ordiniamo il tè nero, il più forte che ci sia: niente aromi e sapori aggiunti.

Mi faccio avvolgere da quel profumo familiare, lascio che il tempo scorra e che le cose succedano. Poi, la sua domanda-non domanda rivoltami con tatto: «Le auguro che la cosa che l’ha fatta piangere vada per il meglio».

Guardo il suo viso animato, i gentili occhi grigi. La pelle sembra di alabastro, è quasi trasparente. Per la risposta tiro fuori il libricino e mostro alla signora la pagina con l’introduzione «Il profumo di lasagne…».

Lei inforca gli occhiali e si mette a leggere. Dopo inclina la testa e dice: «Ed è questo che l’ha fatta piangere?».

Arrossisco per la vergogna, la mia disperazione di poco fa ora mi appare ben esagerata.

«Forse non le piacciono le lasagne?» mi sorride dolcemente.

Incoraggiata, le rispondo sinceramente: «È solo che all’improvviso mi sono di nuovo sentita talmente straniera! A me il profumo di lasagne non rievoca nessun ricordo d’infanzia, mia mamma la domenica preparava il brodo e il pollo fritto».

La signora annuisce e dice pensierosa: «Io sono nata qui», fa un gesto vago con la mano, «ma ora che ci penso, sa di cosa profumava la mia infanzia? Di borsch!». E si mette a ridere con una risata argentea, contagiosa. «In sessant’anni vissuti in Italia, mia mamma, ex ballerina del teatro Marijinskij, non ha mai imparato a fare le lasagne. Però faceva un borsch eccezionale!».

L’anziana signora beve un sorso del suo tè nero. Poi mi dà una pacca delicata sulla mano e aggiunge: «Non sia triste perché non ha dei ricordi “giusti”, cara. Consideri invece, quanti italiani possono dire, come noi due, di avere dei ricordi del tutto diversi. Siamo speciali, noi straniere e figlie di donne straniere. Abbiamo in memoria i sapori e i profumi di terre lontane che gli italiani non se li sognano neanche!», conclude con gli occhi luccicanti da monella.

Guardo l’anziana signora di cui non so ancora il nome e le dico riconoscente: «Io sono Michaela. E la ringrazio di cuore».

Lei mi fa un occhiolino e risponde: «E io mi chiamo Anoushka. E la ringrazio tanto per avermi fatto venire in mente il mio piatto d’infanzia. Quando si è anziani, a volte ci si scorda le cose più buone».

Ci scambiamo i numeri di telefono e ci promettiamo di non perderci di vista. Magari potremmo prendere un altro tè insieme, un giorno.

Toiamo all’ospedale. Nel frattempo ha smesso di piovere, il vento forte porta l’odore di bosco autunnale. Sa di castagne e di funghi porcini. Sorrido. Affronterò con pacatezza anche il secondo esame. E la prossima domenica cucinerò una bella pentola di borsch.

Michaela Sebokova

Michaela Sebokova teaserbox_40189041Michaela Sebokova nasce in Slovacchia, a Nove Zamky, il 19 agosto 1975. Nel 2001 si trasferisce in Italia e lavora a Padova come impiegata. Nel tempo libero scrive, legge, traduce letteratura per bambini e si cimenta con la cucina ma, come lei stessa sottolinea, al primo posto rimane sempre la sua famiglia. Ha scritto un libro di narrativa e una fiaba. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in antologie e riviste. Il suo racconto Il profumo della domenica ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del VII Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

 


Ciambelline intrecciate-cut2. Magie del passato

di Ramona Hanachiuc (Romania)

Avete mai passato una notte in bianco per aspettare il risveglio della nonna? Io sì. Da piccola.
Passavamo le vacanze insieme, io e mia cugina, dai nonni matei. Privilegio raro direi, mio padre imponeva sempre le vacanze dai nonni patei, quindi, i rari giorni passati dalla Nonna per eccellenza erano giorni dorati… Poi… Poi c’era lei: la mia cuginetta, l’unica cugina femmina, ma nata quattro anni dopo di me, considerata troppo piccola per frequentarci. A detta di mio padre che ovviamente sapeva quel che era meglio per me. Non ha mai voluto capire quanto mi facesse male la lontananza che imponeva dai parenti matei. Ma ora lo capisce… Oh se glielo faccio capire! Non perdo nessuna occasione: ogni volta che posso tolgo una spina dal mio cuore per infilarla nel suo…! Vendetta? Non direi, semplicemente vive ciò che mi ha imposto lui di vivere quando ancora non potevo scegliere per me.

Dicevo che passavo qualche giorno di vacanza dai nonni matei in inverno… Certe volte, prima che calasse la sera, nonna usciva di casa con un catino di legno tra le mani. Io intuivo già dove stava andando. Avvolgevo di corsa un vecchio scialle di lana sulle spalle di mia cugina, le facevo infilare gli stivali nei piedi e la trascinavo, a volte nella neve, dietro di me nel cortile.

«Vieni, vieni, ti faccio vedere una magia…», lei mi seguiva con gli occhi blu spalancati quasi strisciando per terra. Ci avvicinavamo in silenzio al granaio e con l’indice davanti alla bocca chiedevo l’assoluto silenzio: nonna non doveva sapere che eravamo lì. Con un cenno le facevo capire di seguire i miei movimenti: appoggiavamo la fronte alle astine fredde di legno che componevano le pareti del vecchio granaio e guardavamo dentro.

La nonna, leggermente chinata sul catino, setacciava la farina con movimenti regolari e ondeggianti.

Gli ultimi spruzzi di luce che il sole infilava timidamente tra le saette e la polvere di farina mossa dai suoi movimenti, la avvolgevano in una nuvola dorata e cangiante. Troppo piccola mia cugina per capire che non era magia. E con le labbra appuntite sussurrava incantata: «Nonna è diventata una fata…».

Guardavo i suoi occhi grandi e azzurri: erano pieni di incanto e curiosità. Sorridevo e la riportavo di corsa in casa per non farci sorprendere. Aspettavamo la nonna sedute tranquille sul divano, solo le gambe dondolavano impazienti e i cuori battevano forte per l’eccitazione. Erano le nostre impronte nella neve, gli sguardi incuriositi e le guance arrossate dal freddo a tradirci.

Nonna sorrideva nascondendo la bocca dietro al suo scialle, appoggiava il catino con la farina su una sedia vicino alla stufa e lo avvolgeva con una tovaglia pulita. Era per scaldarla: la farina prima di diventare pane doveva essere coccolata, areata e riscaldata vicino alla stufa per tutta la notte.

Poi andavamo a dormire: nonna e nonno nella piccola stanza che di giorno serviva da salotto e cucina, noi bambine nella cameretta adiacente, separati solo da una porta con piccole finestre intagliate, che restava quasi sempre aperta.

All’alba, nonna si alzava, e in silenzio accendeva una piccola lampada a petrolio. Rinfrescava il fuoco buttando qualche pezzo di legno sui carboni ancora accesi e toglieva la tovaglia che aveva ricoperto il catino. La luce gialla e la polvere di farina ricreavano un’altra nuvola che avvolgeva la donna minuta e lievemente curva sulla sua magia… Altri colori, altri profumi… Stesso sguardo dolce e sorridente della nonna.

La luce tremolante e i rumori sordi mi svegliavano e cambiavo posizione nel letto strisciando come un gatto in agguato sotto le coperte, in modo da trovare l’angolazione giusta per non perdermi nessun suo movimento. Cercavo invano di svegliare la piccola addormentata di fianco a me. All’inizio mi seguiva ma non appena riuscivamo a trovare la posizione con la visione migliore e la sua testa ritoccava il letto, ritornava nel mondo dei sogni. Io continuavo a seguire i movimenti lenti che la nonna con il suo corpo snello ma stanco compiva come dei piccoli rituali: legava intorno alla vita il grembiule bianco a fiori rosa, si lavava le mani, controllava con le dita che l’acqua riscaldata sul fuoco non fosse troppo calda e iniziava ad impastare. Con le mani creava un «vulcano» di farina, sotto nascondeva il sale e in mezzo iniziava a versare il lievito sciolto nell’acqua calda insieme a qualche cucchiaino di miele. Lentamente l’impasto iniziava a prendere consistenza.

All’inizio rimaneva incollato alle sue mani, e lei, con sapienti movimenti e l’aiuto di altra farina, lo faceva ritornare nel catino, continuando a mescolare, stringere e lavorare con forza tutta quella massa bianca e morbida. Il profumo iniziava a riempire la casa, profumo acido di pasta lievitata, legna che brucia e calore. Mi riaddormentavo poi sfinita appena nonna rimetteva il vecchio catino vicino alla stufa e sedeva su una sedia per lavorare a maglia per qualche ora.

Al nostro risveglio era tutto pronto: un grande asse di legno ricoperto di farina, piccoli pezzi di impasto che ci aspettavano per prendere le più bizzarre e svariate forme e le teglie unte e infarinate per infoare. Facevamo colazione in un soffio, latte, pane e marmellate, con gli occhi luccicanti fissi sui pezzi di pasta che ci aspettava, poi una volta finito di masticare e deglutire quasi intero l’ultimo boccone, ci mettevamo all’opera.

Sollevavo mia cugina e la sedevo inginocchiata su una sedia morbida; io di fianco a lei in piedi: ero più grande. Iniziavamo a modellare con cura i nostri impasti. Guardavo le piccole manine con le dita grassocce affondare nella pasta morbida, stendere, tirare, annodare, e i suoi occhi grandi e blu che si aprivano e chiudevano ripetutamente.

«Vedi…, – le dicevo. – Vedi che nonna è magica? Hai visto cosa ha fatto diventare la farina che ha portato in casa ieri sera?». Sgranava ancora di più gli occhi e, mordendosi le labbra tra i denti, continuava a lavorare l’impasto morbido.

Lei formava sempre delle colombe, io delle ciambelle intrecciate che spennellavamo poi con l’uovo e infoavamo insieme al pane della nonna e aspettavamo con le guance arrossate dal calore davanti al foo accesso. Ognuna mangiava poi la sua creazione, egoisticamente, orgogliosamente, lodandone la bontà. Stessa farina, stesso foo, forme diverse, gusti diversi per ognuna di noi. Diversi come diversi erano i nostri occhi che guardavano le stesse magie.

Ci pensavo giusto l’altra sera, mentre mia cugina impastava nella sua cucina.
– Facciamo le colombe? –, mi ha chiesto.

– Tu ti ricordi come si fanno? Io non ne sono sicura, eri tu l’esperta!

Solleva gli occhiali e sposta una ciocca di capelli, poi si mette al lavoro.

– La mia è più graziosa –, ho detto qualche minuto dopo. Lei ride divertita: – Certo! La mia è incinta… Come me…  –. Aspetta il secondo figlio la mia cuginetta.

E mentre la guardo toccarsi amorevolmente la pancia con la mano aperta, cerco di ricordarmela da piccola, e mi vengono in mente i suoi grandissimi occhi azzurri. Azzurri e curiosi come il mare.

Ramona Hanachiuc

Ramona Hanachiuc cRamona Hanachiuc nasce il 7 luglio del 1976 a Vaslui in Romania, dove riceve un’istruzione scolastica durante gli ultimi anni del periodo Ceausescu. Mette al mondo, all’età di vent’anni, sua figlia Ioana e nel 1999 decide di trasferirsi con lei in Italia, ad Alba, dove ancora oggi vive e lavora. È volontaria del 118 cittadino e nel tempo libero – come lei stessa racconta – ama dedicarsi alla lettura di quei classici che durante la dittatura le erano proibiti. Il suo racconto Magie del passato ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del IX Concorso letterario nazionale Lingua Madre.


taboule? libanese unico - cut3. Tabboulé, una nuova ricetta per l’integrazione

di Lydia Keklikian (Libano)

Da Beirut una ricetta che stuzzica non solo l’appetito, ma anche la vita complessa del nostro paese.
Tabboulé e integrazione sono cose diverse, ma simili al tempo stesso.

Diverse perché il primo è un piatto mediterraneo composto di diversi ingredienti che si prepara per un pranzo festoso, favorendo l’incontro tra persone o famiglie, viene presentato nei momenti di festa in occasione di un matrimonio o di semplice convivialità.

Il tabboulé è il primo piatto che si porta a tavola e si offre ai commensali per cominciare il pranzo.

L’integrazione a sua volta è una realtà composita per i vari elementi che la costituiscono. Richiama l’idea di una pluralità di culture diverse, la presenza di persone differenti per etnia, religione e cultura in un determinato contesto sociale. È colorata come il tabboulé, in quanto coinvolge nel processo persone diverse disponibili a percorrere una strada nuova che conduce a vivere insieme.

Nell’integrazione, pertanto le persone non devono sciogliersi le une nelle altre, non devono perdere la propria entità culturale, folkloristica, ma devono fare in modo da comporre una realtà colorata, vivace e appetitosa che stuzzica il desiderio di ognuno a conoscersi a vicenda.

Nel tabboulé gli ingredienti non si fondono tra di loro, ma si amalgamano bene al punto da offrire sia alla vista che al gusto un’armonia tale da rendere piacevole il mangiare suscitando una sensazione di freschezza e un piacere che invade tutti i sensi.

Nell’integrazione, il punto di partenza è l’incontro tra persone diverse. Immaginiamo una persona italiana e una straniera di origine africana. Magari l’italiano di pelle bianca e l’africana di pelle nera. Il colore della pelle può essere, in un primo momento, un motivo per attirare l’attenzione e suscitare curiosità.

Se l’incontro avviene in un bar, possiamo vedere come agiscono queste due persone. Bevono il caffè, chiacchierano e si scambiano sorrisi ed espressioni varie che denotano un’armonia e una complicità. Se poi arrivano a baciarsi, questo gesto può suscitare curiosità, a volte perplessità o disapprovazione e può diventare occasione di giudizio che va dal rispetto fino alla critica totale verso ciò che si è visto. Non possiamo certo ancora parlare di integrazione. Questa non può risultare da un incontro al bar o da un bacio.

Come non si può dire che il tabboulé è buono solo perché siamo abbagliati dai colori che si distinguono in un piatto ben presentato.

È importante avere la ricetta giusta e preparare il piatto seguendo le indicazioni precise. È altrettanto importante che tutti gli ingredienti siano ben visibili quando il piatto è sotto i nostri occhi. Ogni ingrediente deve restare ben distinto, mantenere il suo colore e la sua forma, pur essendo amalgamato agli altri ingredienti. Il sapore poi deve poterli distinguere e offrire al palato un gusto piacevole e di completezza in modo da suscitare in chi lo mangia un benessere e un piacere che lo lascino soddisfatto e appagato.

Anche l’integrazione parte dalla vista e dal palato, ma anche dalla piena consapevolezza dei valori comuni delle persone con culture diverse con le quali ci si impegna ad interagire.

Non può essere raggiunta una volta per tutte! Non è un percorso che si intraprende e si conclude in tempo breve, non può essere neppure definito a priori.

È come se la vita di una coppia di giovani raggiungesse il suo traguardo nel momento della celebrazione delle nozze. Se fosse così non avrebbe più senso continuare a vivere insieme e ad impegnarsi tutti i giorni per un traguardo già raggiunto. Lo sappiamo che non è così; il giorno del matrimonio rappresenta il punto di arrivo, ma anche un punto di partenza; percorso che porta due persone a costruire giorno per giorno il loro progetto di vita insieme con sincerità e responsabilità per il resto dei loro giorni.

Lo stesso vale per l’integrazione, per costituire un cammino positivo per entrambe le parti, deve essere un impegno preso da tutte e due le parti e portato avanti con lucidità e responsabilità, ben coscienti della sacrosanta realtà che le due parti hanno ciascuna il diritto di esistere, di progredire e di essere se stesse.

L’integrazione è il cammino di una vita delle persone e delle comunità. Una delle sue fasi è il momento dell’impegno solenne, come il giorno delle nozze, in cui le due parti si rendono conto che non possono più vivere l’una senza l’altra e dove si è convinti che il bene di entrambi è condizionato dalla volontà di impegnarsi reciprocamente nel rispetto di ciascuno e nella complementarietà.

Nel tabboulé chi decide le dosi è la persona che lo prepara. Chi decide come preparare il piatto è colei/colui che lava e taglia gli ingredienti, li mescola e li predispone nel piatto.

Nell’integrazione una parte non può decidere per l’altra. È vero che politiche diverse e persone con concezioni diverse possono incidere e condizionare la preparazione e l’attuazione di questo percorso, ma alla fine tocca alle persone direttamente coinvolte renderlo effettivo nella vita quotidiana con gradualità e modalità proprie e diverse da un quartiere all’altro. Se sono convinta che nel mio quartiere si trovano persone provenienti da luoghi diversi e incontro alcune di queste che condividono lo stesso interesse per il quartiere, sarà nostra responsabilità renderlo più vivibile. In tal senso, non posso più scaricare su altri il fatto che queste persone si chiudano nelle proprie case o nel proprio gruppo senza avere il coraggio di guardare in faccia i problemi esistenti e di impegnarsi per affrontarli.

Per riuscire a preparare il tabboulé non basta conoscere la ricetta, essere capaci di lavare o tagliare il prezzemolo, spezzettare la cipolla e spremere il limone.

Ci vuole attenzione quando si pulisce il prezzemolo, si lava e si taglia. Il prezzemolo deve essere tritato a mano, né troppo grande altrimenti le persone rischiano di strozzarsi, né troppo piccolo perché si rischia di ridurlo in brodaglia. Dopo, lo si deve lasciare a parte mentre si prepara il resto. La menta fresca deve essere lavata e asciugata, tritata al momento opportuno, altrimenti diventa nera e da buttare via. Il pomodoro deve essere tritato nella dimensione giusta per poter essere mangiato con facilità, facendo attenzione a non schiacciarlo durante la tritatura perché si rischia di ridurlo in succo di pomodoro. Una parte del limone deve essere spremuta e il restante lasciato intero del quale si ricava la scorza grattugiata.

La cipolla tritata deve essere condita, prima di mescolarla con gli altri ingredienti, con sale e pepe per far esaltare il sapore e renderlo meno sgradevole al tempo stesso.

L’integrazione deve seguire la stessa procedura, ma con ingredienti diversi. Ci deve essere la stessa cura e amore. Deve anche risultare come il lavoro congiunto di diverse persone desiderose di presentare a chi la mangia una pietanza appetitosa che soddisfa le aspettative di tutti; deve esaltare il valore di ogni persona umana e saziare coloro che cercano pace, armonia e dialogo. In tal modo si valorizzerebbe il principio della dignità umana e renderebbe tutti capaci di farcela.

L’integrazione non prevede la scomparsa di un gruppo nell’altro, non tollera la disparità, non appoggia le ingiustizie e non si alimenta di pregiudizi e di disprezzo.

L’integrazione giornisce quando ci si completa nell’incontro, quando ognuno mantiene la sua specificità e la sua ricchezza culturale, e gode quando vede tutte queste diversità camminare insieme nelle stesse strade della città.

Per il tabboulé il percorso è analogo. Nella terrina predisposta per mescolare gli ingredienti, si prepara il grano, si aggiunge il prezzemolo tritato, il pomodoro e la cipolla, distribuendo a forma di cerchio ogni ingrediente uno sopra l’altro. Si versa il succo di limone seguendo sempre la forma circolare, l’olio d’oliva e la scorza di limone grattugiata. Si mescola con un cucchiaio grande, con delicatezza e cura come se si stesse accarezzando il viso di un neonato, facendo attenzione a non schiacciare gli ingredienti, rispettando la singolarità di ogni ingrediente.

Nell’integrazione bisogna stare attenti a non sopraffare l’altra persona, a non prevaricare l’anima dell’altro e a non svalutae la ricchezza nel nome di un bene comune.

Ciò vale sia per la parte italiana sia per quella straniera. Nell’integrazione non c’è una parte debole e una forte. Non ci sono persone capaci e persone disabili. Tutte le componenti del progetto sono diversamente abili e diversamente capaci. Bisogna cercare di far emergere le capacità di ognuno e di lavorare sugli aspetti che presentano punti deboli.

Le parole scritte da Gibran nel suo famoso libro «Il Profeta» ci aiutano a comprendere meglio la relazione fra integrazione e matrimonio:

«Voi siete nati insieme
e insieme starete per sempre.
Sarete insieme quando le bianche ali della morte disperderanno i vostri giorni.
E insieme nella silenziosa memoria di dio.
Ma vi sia spazio nella vostra unione,
E tra voi danzino i venti dei cieli.

Amatevi l’un l’altro,
ma non fatene una prigione d’amore:
Piuttosto vi sia un moto di mare
tra le sponde delle vostre anime.
Riempitevi l’un l’altro le coppe,
ma non bevete da un’unica coppa.
Datevi sostentamento reciproco,
ma non mangiate dello stesso pane.

Cantate e danzate insieme e state allegri,
ma ognuno di voi sia solo,
Come sole sono le corde del liuto,
benché vibrino di musica uguale.
Donatevi il cuore,
ma l’uno non sia di rifugio all’altro,
Poiché solo la mano della vita
può contenere i vostri cuori.

E siate uniti, ma non troppo vicini;
Le colonne del tempio si ergono distanti,
E la quercia e il cipresso non crescono l’una
all’ombra dell’altro».

È chiaro che l’integrazione è un cammino di amore che non soffoca, di condivisione che non mescola, di rispetto che non schiaccia, di accettazione che non pretende che una parte si annulli per essere accolta dall’altra. È lo stesso per il tabboulé!

A questo punto non ponetevi altre domande.
Lasciatevi portare dall’armonia dei gusti e dei colori di questo piatto e abbandonatevi nell’oceano dell’umanità racchiusa in ognuno dei suoi ingredienti. Umanità che svela l’origine di ogni ingrediente, di ogni terra lavorata dalle persone, di ogni fatica sudata per preparare il necessario e renderlo disponibile per il piacere dei vostri sensi e palati.

È la stessa umanità che ci circonda ogni giorno, di pelle bianca o nera, di una religione o di un’altra. Questa umanità che si esprime attraverso linguaggi che a noi possono essere sconosciuti e che emette suoni che non riusciamo a decifrare…

E ciò che meraviglia è la verità che dentro e dietro ogni ingrediente che compone il tabboulé si nasconde un territorio che magari conosciamo perché gli ingredienti sono stati coltivati a casa nostra, lavorati e preparati da mani straniere per offrirci un piatto che riteniamo esotico!

Buon appetito e buona integrazione.

Lydia Keklikian

Lydia KeklikianLydia Keklikian: Cittadina italiana, nata in Libano da famiglia armena è laureata in Scienze Sociali a Beirut, diplomata in Scienze Religiose a Brescia, laureata in Lingue Orientali a Venezia. Da anni si occupa di immigrazione, intercultura e mediazione culturale con particolare attenzione ai temi legati alle religioni, alla donna orientale, alla cultura araba armena e turca per quanto riguarda le leggi di famiglia, le tradizioni sociali e culturali attraverso la fiaba la musica e la cucina. Il suo racconto Tabboulé, una nuova ricetta per l’integrazionha vinto il Premio speciale Slow Food-Terra Madre della IV edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

 


Kibbeh-c4. A Téta, ricordi congelati

Traslata dall’arabo all’italiano, catapultata telefonicamente da un continente all’altro, che sapore ha la morte?
Toavo da una serata fra amici in zona Ostiense la notte che, a Zouk Mkayel, morì Téta. La notizia arrivò l’indomani via cellulare, Libano-Italia in un secondo: ricordo la spossatezza di quelle ore, il silenzio sospeso, l’estraneità surreale, ma non ricordo dolore. Non subito. Ricordo quelle quattro lettere impresse in pancia come se si trattasse di un nome proprio, senza necessità di tradurle: Téta.

Téta, sei andata via e il freezer conserva ancora memoria dei cibi che hai cucinato e impacchettato per me. Sapevo che sarebbe accaduto, forse ero io a volerlo, ci ho sempre trovato un che di poetico: adesso ho tanti piccoli kebbeh stipati nel ghiaccio, li trovo esageratamente evocativi e so bene che li mangerò con un groppo alla gola e che, celebrando la mia commemorazione laica, penserò fate questo in memoria di me. Ripercorrerò le volte che non mi mandavi via senza una borsa piena di khiara, khobez, kebbeh e, se riuscivi, addirittura qualche mehshi cousa. Ora il freezer è una teca sacra, ostensorio profano di ricordi congelati.

Ricordo congelato è la foto scattata col cellulare di te che prepari il tabboulé sfidando gli anni e le intemperie, coi capelli di fronte agli occhi e lo sguardo basso e concentrato mentre smisti le foglie di prezzemolo e poi tagli fette finissime di cipolla e pomodori e intanto canticchi le tue filastrocche.

Ricordo congelato è il primo cenno di anzianità. Ero piccola quando Téta è caduta nel corridoio e ha perso i sensi. Guardavo la tivù e non me ne sono accorta fino a che la gola non mi ha portato verso la cucina per chiedere un arous jibneh. Il corpo fermo a terra che ho trovato a metà strada, con un rivolo di sangue che sgorgava dal labbro, non mi sembrava reale: forte dei miei undici anni, avevo la certezza che Téta non potesse cadere così. Invece, da quel momento, cominciò a farlo: cadere o scomparire per qualche ora o giorno, per tornare poi un bel mattino a casa, a sorpresa. Ho memorie sfocate della volta in cui papà la salvò dall’arresto cardiaco notturno davanti alla tivù: guardavano i giochi a premi insieme e per un lasso di tempo indefinito nessuno si accorse che Téta non rideva più e che il suo non era il solito afflosciarsi in uno stanco riposo serale. Papà, quando capì che il cuore di Téta aveva smesso di funzionare, corse a farle il massaggio cardiaco, poi arrivò l’ambulanza, la portò via e, non appena papà appurò che Téta si fosse davvero ripresa, le lanciò sette otto accidenti in dialetto libanese. Io quella notte dormivo da ore nella mia stanzetta; credo di aver dormito per giorni o di aver vissuto in una sorta di infantile torpore: al mio risveglio, Téta era sempre lì, punto fisso della mia quotidianità a Zouk.

Ricordo congelato è la frase rituale, ripetuta ogni sera: Qu’est-ce que Vous voulez manger demain? Me l’ha sempre chiesto così, Téta. A me sembrava di stare in un hotel di lusso e lo zio di Boston la prendeva in giro per quella sua ostinazione a dare del voi anche ai familiari. Téta sorrideva con aria furbetta e raccontava per l’ennesima volta di quel francese scolastico imparato fra lezioni di economia domestica e di pittura, in ambienti gerarchici in cui non esisteva che si potesse dare del tu a qualcuno. Per Téta la confidenza in francese non aveva un corrispondente linguistico e per me sentirla darmi del voi è sempre stato come prendere parte ad un banchetto fra ambasciatori. Io, ambasciatrice d’Italia, in visita a lei, rappresentante del Libano. L’autorevolezza e l’eleganza dell’alto ceto sicuramente l’ha sempre avuta Téta, più di me. Bastava un gesto e Hala capiva cosa avrebbe dovuto cucinare l’indomani, sapeva senza bisogno di dirlo che non bisognava comprare i lahmi b’ajin senza fornire al fornaio l’impasto di carne che lei stessa preparava, perché era l’unico di cui si fidasse.

Andare in Libano era quindi per dei versi come gettarsi a capofitto nel set di uno di quei film talmente ben riusciti che sembrano realtà, tanta è la naturalezza: io non mi accorgevo di niente, ventenne distratta, ma lei cornordinava ogni minuscolo evento che prendeva vita fra le mura domestiche. Sapevo che al mio arrivo avrei puntualmente trovato lo shmandour e che a nulla sarebbe servito offendere l’orgoglio di Téta dicendo che con gli anni qualcosa nel mio gusto era cambiato e che lo shmandour non mi piaceva più: sapevo che la cucchiaiata di shmandour, almeno per fare il gesto, dovevo ingoiarla con estremo riconoscimento. Perché il primo latte della vacca incinta, ingrediente principale, è merce rara e Téta diffondeva ai paesi vicini la notizia del mio arrivo già settimane prima, affinché il primissimo latte della vacca partoriente finisse fra le sue mani e potesse avviare i processi di preparazione di quella primizia dolce. Tanto più lo shmandour smetteva di piacermi, quanto più aumentava la gratitudine per il gesto fedele di Téta nei confronti di me, figliola prodiga.

A volte mi è bastato fissare un piatto con gola per trovare Hala affianco a porgermelo: subito era chiaro che il mio sguardo fosse stato intercettato da Téta; un po’ mi sentivo oppressa o presa in giro, poi mi dicevo che in una famiglia di maghi le cose non potevano che andare così. Una famiglia di maghi: così amava descriverla nonno, prima di morire. Il prozio mago era il capostipite, poi, con l’avanzare delle generazioni, quella magia si è ridimensionata e si è fatta semplice filosofia. Ma chissà che poi non sia un po’ la stessa cosa.

Ricordo congelato è lo sguardo triste di Téta mentre guarda la tivù e le si spezza il cuore di fronte alla morte di palestinesi e israeliani – ya kharam, diceva di entrambi. Io penso a quanto quello stesso conflitto è stato strumentalizzato nell’altra parte del mondo, la mia, riducendosi a rigido gioco di fazioni a distanza di sicurezza.

Ricordo congelato è Téta che, mentre vado in piscina, mi ferma per darmi un bacio sulla guancia e dirmi serissima «Attention de tomber dans l’eau». Ogni volta, fino all’ultimo, ho sospettato che l’età le giocasse un brutto scherzo o la facesse allarmare per pericoli inesistenti, ma ogni volta era invece lei a prendersi gioco di me con ironia sottile. Questa frase, questo francese sbagliato e maccheronico, era la frase di complicità ridanciana con cui due generazioni si danno la staffetta – quasi un gioco di ruoli – e a quella più antica non resta altro che dare raccomandazioni assurde alla più giovane, pur con piena coscienza della loro assurdità.

Ora le foto di Téta invadono il web: i suoi figli e nipoti sparsi per il mondo si fanno compagnia come possono, si consolano vicendevolmente, cercano di mantenere vivo il suo ricordo, anche se buona parte ha dimenticato la lingua madre o la utilizza soltanto sporadicamente. Siamo schegge scagliate nei cinque continenti e Facebook è la nostra disillusa preghierina serale, adesso che nessuno più accosta la porta della camera come faceva Téta mentre, con aria bambina, si inginocchiava sul suo letto per fare il segno della croce. Il social network è una chiesa virtuale con le sedie vuote ed è lecito domandarsi in fondo cosa arriva, cosa passa da un cuore all’altro, da una pancia all’altra e da un computer all’altro, salendo oltre i pensieri tradotti in tutte le lingue del mondo, cosa è sempre arrivato negli scambi comunicativi fra tutti noi, la Big Khalil Family, noi che traduciamo goffamente dall’inglese al francese all’italiano all’arabo i nostri pensieri e le nostre emozioni, noi che cerchiamo significanti molteplici per indicare un unico significato e non sappiamo mai quali sfumature si perdono in questo travaso continuo di informazioni.

Ricordi congelati.

Tutto questo e solo questo rimane di te – la mia Téta in un’altra lingua – ed io non so bene con quanta efficacia l’italiano sappia essere fedele a questi ricordi: mi appare come lingua impacciata, incapace, inesperta nell’espressione di queste memorie che hanno sede altrove; lingua dei tentativi e degli errori. Eppure è per errori e traduzioni concatenate che abbiamo mandato avanti la nostra comunicazione intergenerazionale ed intercontinentale: sentimenti perennemente filtrati da successive conversioni mentali. Chissà quante cose abbiamo frainteso, quante ne abbiamo gonfiate, quante rimpicciolite, chissà quali immagini mentali c’erano in te, dietro le tue frasi in un francese imbalsamato, e che modifiche hanno subito nella loro caduta a effetto domino verso il mio orecchio che le percepiva e dava loro un altro senso, il mio.

Apro il freezer, prendo un kebbeh, ne tasto la sfericità. Non ho il coraggio di mangiarlo, basta l’odore a tuffarmi di nuovo in antiche corse sotto il sole ad acchiappare le code dei gatti a Zouk e poi correre in spiaggia. Provo a ricreare l’eco della tua voce – Attention de tomber dans l’eau! – ma non ne sono più davvero capace.

Chissà dove sei, Téta.
Attenzione a non cadere in acqua, Téta, ovunque tu sia.

Sento che l’italiano è giunto al limite: non è più sufficiente a narrare la nostra storia in questa maniera. In italiano il ricordo libanese di te non fa che sbiadirsi più velocemente, gli spaghetti nella scansia non sanno chi tu sia stata, ma questi kebbeh sì, ne hanno chiara memoria, sono figli delle tue mani pazienti ed è mio compito tradurre fino in fondo questi ricordi. Guardo la sfera di grano e carne e all’improvviso so che, finché non racconterò la tua scomparsa in un’unica lingua, la tua figura rimarrà in bilico fra due mondi. Presenza e assenza, occidente e oriente, vita e morte.

Respiro profondamente. Traduco.
Téta in arabo vuol dire nonna.
Lo dico sottovoce, finalmente, e sento il sottilissimo germe della mancanza farsi spazio ed espandersi fino a occupare anche l’altra parte di me, quella che parla italiano. Due metà si ricongiungono, i ricordi riprendono vita, il ghiaccio attorno al kebbeh si è sciolto, ora la tua scomparsa ha una dolorosissima forma.
Mi manchi, nonna.

Leyla Khalil

Leyla Khalil,Leyla Khalil, italo-libanese, nasce a Roma il 30 agosto 1991. È mediatrice culturale e ha pubblicato racconti e poesie in antologie per Edizioni Ensemble, Giulio Perrone, L’Erudita, Ediesse, Guasco, Seb27. Appassionata di narrativa e cucina, tiene due rubriche settimanali su facciunsalto.it: “Cosa borbottano le pentole” e “La Grasse Matinée”. Ideatrice del progetto di scrittura “Fast Writing, scritti di rapida consumazione”, ha curato per Edizioni Ensemble la prima raccolta di racconti incentrati sui fast-food come non luoghi e sta lavorando a nuovi sviluppi sul tema. Il suo racconto, Ricordi congelati, ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre del X Concorso letterario nazionale Lingua Madre

 



  • Questo dossier narrativo centrato sul cibo, è frutto della collaborazione con «Lingua Madre», il concorso letterario nazionale la cui premiazione avviene ogni anno nel contesto del «Salone Internazionale del Libro di Torino».
    È la terza volta che MC pubblica testi scritti per questo concorso in lingua italiana da donne provenienti da ogni parte del mondo. La prima volta fu il racconto, Cubetti di zucchero, apparso in MC 4/2015, seguito poi dal dossier Sono anch’io Italia, sogni non impossibili, in MC 8-9/2015.
  • A «Lingua Madre», che ha scelto di presentare quattro testi premiati nel contesto del «Premio Slow Food – Terra Madre», va tutta la nostra riconoscenza.
  • I testi sono stati selezionati da Daniela FinocchIi, ideatrice e cornordinatrice del concorso. Il dossier è stato cornordinato da Gigi Anataloni.
  • Il libro: Daniela Finocchi (a cura di), Lingua Madre Duemilasedici, Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB27, via Accademia Albertina, 21 – 10123 – Torino; sito: seb27.it, sarà nelle librerie in autunno.