Scienziate visionarie


Sono poco conosciute, ma molto importanti: le donne che nell’ultimo secolo hanno contribuito con i loro studi a rinnovare la scienza e, insieme, la società. Un libro ne presenta dieci, con le loro impostazioni «visionarie» e innovative.

L’interesse del pubblico verso le storie di donne scienziate cresce nel tempo, stimolato anche da diversi libri.

Per esempio, nel 2018 è uscito Scienziate nel tempo. Più di 100 biografie, volume curato da Sara Sesti e Liliana Moro.

Come sottolinea Adriana Giannini nella sua recensione del libro, «ci si rende subito conto che le scienziate selezionate […] oltre alle doti intellettuali fuori dall’ordinario, dovevano possedere una grande tenacia e sete di sapere per riuscire a evadere dal ruolo che la società prevedeva inesorabilmente per le donne che non volevano essere emarginate: occuparsi della famiglia o chiudersi in convento».

Molte di quelle donne hanno incontrato grossi ostacoli per realizzare i loro progetti, per farsi riconoscere e trovare spazio in un mondo dominato dal potere e dai pregiudizi maschili.

Tra il 2023 e il 2024 sono usciti altri tre titoli su donne scienziate, ciascuno dei quali presenta alcune figure femminili, scelte sulla base di specifiche caratteristiche: si sono occupate di scienze naturali, ambientali, mediche. Tutte con un approccio trans disciplinare, attento ai contesti sociali e alle relazioni interpersonali.

Tra «ribelli», «prime» e «visionarie», queste donne hanno introdotto nuovi modi di vedere, pensare e agire nel loro lavoro.

Visionarie

Ci soffermiamo qui sul libro di Cristina Mangia e Sabrina Presto, Scienziate visionarie, del 2024.

Le due autrici sono ricercatrici del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) che da anni studiano questioni ambientali e di salute pubblica.

La scelta delle dieci figure è in sintonia con il vissuto professionale delle autrici, e con la loro riflessione sulla scienza come impresa collettiva, immersa in un tessuto sociale che condiziona le domande di ricerca, le metodologie di lavoro, gli obiettivi.

Il filo ideale che connette tra loro le studiose presentate nel volume è proprio la convinzione che la scienza debba smettere di essere percepita (e praticata) come lo studio neutrale e oggettivo di una realtà esterna. Deve essere invece riconosciuta come una pratica collettiva e intersoggettiva di esplorazione delle relazioni tra umanità e natura, dipendente dal contesto storico in cui è fatta, dai mezzi tecnici e, soprattutto, dagli obiettivi dell’indagine. Gli obiettivi, infatti, orientano le domande di ricerca, le quali, a loro volta, condizionano la raccolta e interpretazione dei dati che contribuiscono a costruire una visione del mondo per l’intera società.

Un aspetto comune delle studiose presentate è la loro «visionarietà»: la capacità di proporre delle trasformazioni sociali tali da proteggere la sicurezza ambientale, la giustizia e la pace.

Un altro elemento è l’impegno politico. Tutte sono state protagoniste di varie forme di contestazione del maschilismo (spesso razzista) che caratterizzava le leggi, le abitudini, le regole, i vincoli del loro tempo dominato dalla tecno-scienza. Tutte hanno fatto ricorso a metodologie empatiche e nonviolente per sovvertire quella forma insidiosa di patriarcato che impediva alle donne di esprimere le loro potenzialità, e ostacolava la loro attitudine a indagare il mondo naturale con l’obiettivo d’imparare, anziché di usarlo e dominarlo.

L’esigenza di trasformare il modo di pensare e praticare la scienza si è manifestata gradualmente, a partire da quando una minoranza della comunità scientifica (soprattutto femminile) ha fatto emergere la coscienza che la complessità del mondo non può essere esplorata dalle singole discipline separate tra loro, e che occorre far collaborare visioni diverse, non solo scientifiche ma trans disciplinari.

Relazione umanità natura

Le due autrici presentano per prima la figura di Donella Meadows (Usa, 1941-2001), che negli anni 70 del Novecento, insieme ai suoi colleghi, propose l’idea che la Terra sia un sistema complesso, interconnesso e, soprattutto, «finito», ossia con risorse limitate, e limitate capacità di ripristinare gli ecosistemi alterati dalle azioni umane.

Il libro I limiti alla crescita, di cui Meadows fu prima autrice, segnò uno spartiacque nella percezione della relazione tra umanità e natura, anche se alla nuova comprensione delle cose non seguì una sufficiente consapevolezza, né furono prese adeguate misure per ridimensionare l’impatto umano sul pianeta.

Seguono le presentazioni di altre scienziate: Alice Hamilton (Usa, 1869-1970) a partire dall’inizio del Novecento, esplorò per prima le conseguenze dei processi industriali e della produzione di sostanze tossiche sui lavoratori. Aprì la strada alla moderna medicina occupazionale.

Nello stesso periodo Sara Josephine Baker (Usa, 1873-1945) avviò una rivoluzione nella sanità pubblica, introducendo e applicando norme di igiene e prevenzione soprattutto con i bambini e le fasce di popolazione più disagiate.

Un altro esempio significativo della diversa prospettiva delle donne di fronte ai problemi è quello di Alice Stewart (Regno Unito, 1906-2002): mentre ingenti finanziamenti erano destinati a sviluppare prodotti industriali sempre nuovi, pochi fondi venivano assegnati alla medicina sociale, cioè all’indagine degli effetti dei nuovi prodotti sulla salute delle persone.

Fu Alice Stewart a scoprire gli effetti della tecnologia nucleare (dalle radiografie ai fallout delle esplosioni) e a denunciare i rischi dell’esposizione alle sostanze radioattive.

Anche la giapponese Katsuko Saruhashi (1920-2007) fu coinvolta nelle indagini sugli effetti delle radiazioni e ne denunciò le gravi patologie. Non esitò a mettere le sue competenze scientifiche al servizio di una intensa attività pubblica antinucleare, e a incoraggiare le giovani ad approfondire le conoscenze scientifiche a difesa di scelte politiche consapevoli.

La statunitense Rachel Carson (1907-1964), diventata famosa a livello mondiale non solo per i suoi studi, ma anche per le sue doti di scrittrice, ha avuto il merito di opporsi coraggiosamente alla potente industria chimica che, senza scrupoli e senza controlli, stava spargendo pesticidi nelle campagne e nei campi coltivati, con effetti devastanti su ambiente e salute.

Meno famosa, ma altrettanto combattiva, fu Beverly Paigen (1938-2020), anch’essa statunitense, ricercatrice impegnata nello studio di varie forme di cancro. Raccogliendo le segnalazioni di mamme residenti nella città di Niagara Falls a riguardo di malattie e malformazioni nei loro figli, rilevò la presenza di sostanze tossiche nell’area. Dopo anni ottenne di far riconoscere una grave contaminazione nei terreni della zona.

Le ricerche di Carson e Paigen furono ostacolate da scienziati, politici e industriali che screditarono il lavoro scientifico delle due studiose e le attaccarono personalmente in quanto donne.

Solo dopo molti anni, e grazie alla loro competenza e tenacia, furono approvate importanti leggi e create istituzioni nazionali a difesa dell’ambiente e della salute.

Delle altre studiose presentate nel libro, due in particolare, Wangari Maathai (1940-2011), keniana, prima donna africana a ricevere il Nobel per la pace, e Suzanne Simard, canadese, nata nel 1960, sono ricordate soprattutto per l’attenzione che hanno dedicato alle foreste.

Wangari, con il movimento di donne da lei fondato (il Green belt movement), promosse e realizzò la riforestazione di ampie aree del Kenya, recuperando alberi autoctoni e il ripristino di eco-agro-sistemi in grado di sviluppare una agricoltura di sussistenza per le comunità locali.

Suzanne, contrariata dall’abitudine dell’industria del legno di piantare monocolture di alberi e di utilizzare diserbanti chimici per tenere «pulite» le radure, incominciò a indagare se ci fossero delle relazioni, degli scambi di informazioni tra i singoli alberi. Grazie ai suoi studi scoprì che le foreste sono ecosistemi interconnessi, le cui radici, associate a reti di funghi, costituiscono una fittissima rete sotterranea, che sarebbe stata poi chiamata «wood wide web».

L’interpretazione che Simard fornì delle relazioni scoperte dentro l’ecosistema foresta era che tra le diverse forme di vita ci sia cooperazione e mutuo sostegno: una spiegazione che fu accolta con diffidenza e scetticismo dalla comunità accademica.

È lo stesso tipo di reazione che incontrò Lynn Margulis (1938-2011), biologa statunitense, quando propose che, all’interno di singole cellule, siano attive complesse forme di cooperazione tra i corpuscoli intracellulari.

Lo sguardo femminile delle due studiose avrebbe portato a una radicale reinterpretazione di molti scambi tra gli organismi, a tutti i livelli.

Foreste e cellule, e, in generale, tutti i viventi, non sono solo in competizione tra loro, ma elaborano anche raffinati dialoghi e strumenti di cooperazione, che in certi casi portano all’evoluzione di nuove forme di vita.

Al termine della carrellata di presentazioni viene ricordata l’unica scienziata italiana del gruppo, Laura Conti (1921-1993). Come ricordano le due autrici, fu «partigiana, medica, studiosa instancabile, politica, scrittrice, divulgatrice».

Laura Conti riuscì a intrecciare competenze scientifiche e impegni sociali, e a porre alla comunità scientifica domande cruciali sugli intrecci tra scienza, etica, democrazia e condizioni sociali. Domande che – come fanno notare le due autrici – sono ancora oggi di grande attualità.

Trasformare la scienza

La mancanza di fiducia nella capacità delle donne di contribuire allo sviluppo della scienza ha accompagnato tutto il Novecento, e ancora oggi molte studiose fanno fatica a entrare in gruppi di ricerca e farsi ascoltare. Sono portatrici di modi diversi di guardare il mondo, di affrontare i problemi, di svolgere le ricerche: le loro prospettive, quando riescono a farsi sentire, possono aprire la strada a nuove piste, offrire soluzioni innovative a problemi irrisolti.

Questo approccio all’idea di scienza, ormai presente da alcuni decenni a livello internazionale, viene individuato con il termine «scienza post normale» (Pns): propone una metodologia di indagine per affrontare problemi complessi e controversi, tipici dell’interfaccia tra scienza, politica e società, ed è parte di un interessante movimento di democratizzazione della scienza. Tuttavia, è condivisa finora da una componente minoritaria della comunità scientifica, ed è contrastata dalla crescente influenza dei poteri forti (economici, politici, finanziari) e dell’apparato industriale militare in favore della competitività e della guerra.

Elena Camino

Suggerimenti di lettura

  • Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers, I limiti alla crescita, Editoriale scientifica, Napoli 2023, pp. 252, 16 €.
  •  Laura Conti, Una lepre con la faccia di bambina, Fandango libri, Roma 2021, pp. 144, 13 €.
  •  Laura Conti, La condizione sperimentale, Fandango libri, Roma 2024, pp. 256, 17 €.
  •  Laura Conti, Discorso sulla caccia. Dove si parla anche di evoluzione, antropogenesi, anatomia femminile, agricoltura. Di coccolamenti durati milioni di anni. Di primati, gatte e lupi. Della dubbia compatibilità tra uomo e pianeta Terra. Di possibili catastrofi. E dei rischi di facili rimedi, Altreconomia, Milano 2023, pp. 144, 13 €.
  •  Laura Conti, Il tormento e lo scudo. Un compromesso contro le donne, Fandango libri, Roma 2023, pp. 272, 18 €.
  •  Laura Conti, Cecilia e le streghe, Fandango libri, Roma 2021, pp. 176, 16 €.
  •  Wangari Maathai, Solo il vento mi piegherà. La mia vita, la mia lotta, Sperling & Kupfer, Milano 2012, pp. 393, 17,50 €.

 




Danilo Dolci, un uomo di pace


Nato cento anni fa, il «Gandhi italiano» è stato nel nostro Paese uno dei pensatori più influenti della nonviolenza, della lotta contro la povertà e per l’emancipazione del Sud Italia. Il suo impegno sociale ed educativo, il suo metodo maieutico e partecipativo, sono attuali ancora oggi. Un libro ci spiega perché.

«Un cambiamento non avviene senza forze nuove, ma queste non nascono e non crescono se la gente non si sveglia a riconoscere i propri interessi e i propri bisogni».

Così diceva Danilo Dolci (1924-1997), uno dei pensatori più influenti della nonviolenza e della lotta contro la povertà e per l’emancipazione del Sud Italia.

Nel centenario della sua nascita, la sua figura è tornata all’attenzione del pubblico.

Per l’occasione, infatti, oltre a una serie di iniziative importanti sparse sul territorio italiano, è uscita una nuova edizione, per Altreconomia, del testo Danilo Dolci. Una rivoluzione nonviolenta. Il volume è curato da Giuseppe Barone, collaboratore di Dolci sin dal 1985, attuale vicepresidente del Centro per lo sviluppo creativo Danilo Dolci, e coordinatore del comitato scientifico del Borgo Danilo Dolci (Trappeto, Palermo).

Danilo Dolci fu soprannominato «Gandhi della Sicilia» o «Gandhi italiano» perché dedicò la sua vita al miglioramento delle condizioni dei contadini della Sicilia adottando metodi nonviolenti. Utilizzò, infatti, il digiuno, ed elaborò il metodo maieutico reciproco per costruire le soluzioni dei problemi sociali insieme alle persone direttamente coinvolte.

Un esempio di democrazia dal basso che oggi, in un momento di grande scollamento tra i cittadini e politica, ritrova la sua attualità.

Biografia di un nonviolento

Il testo di Giuseppe Barone raccoglie una serie di scritti che documentano la vita e le opere di Dolci, e include interviste e testi poco conosciuti che mettono in luce la profondità del suo pensiero e del suo impegno in vari ambiti della società.

Oltre alla biografia di Dolci, nel volume troviamo un ricordo di Luca Baranelli, un’intervista di Mauro Valpiana allo stesso Dolci, nella quale l’intervistato denuncia il rapporto mafia-politica e il riemergere del fascismo già nel 1995, non solo in Sicilia, ma nelle maglie dello Stato.

Di grande interesse sono anche i testi tratti da alcune delle più importanti opere di Dolci come Per una rivoluzione nonviolenta, Dal trasmettere al comunicare e Il metodo maieutico reciproco, dove compie un’attenta analisi della realtà nella quale lavora e illustra il suo impegno sociale ed educativo ispirato alla nonviolenza.

Se c’è una metafora che può indicare l’azione di Danilo Dolci è senz’altro quella della domanda. Attraverso le domande, infatti, egli scavava con bambini e adulti nel terreno dei bisogni e creava con loro le possibili risposte che diventavano progetto politico.

Solo allora intraprendeva mobilitazioni e contatti con i politici del momento, ottenendo anche importanti risultati come la costruzione della diga sul fiume Jato, nella Sicilia Nord occidentale.

Senza dimenticare la creazione del Centro educativo di Mirto (Messina), una scuola immersa nella natura, costruita a misura di bambino.

Basti pensare che ogni aula ha tre entrate che danno tutte sulla campagna, le finestre sono basse, in modo che ogni bambino, anche da seduto, possa vedere fuori, i banchi disposti a cerchio in modo che ci sia coerenza tra il metodo maieutico e la struttura.

Solo così si può passare da una scuola incentrata sul «trasmettere» a una scuola che vuole «comunicare» e costruire un sapere condiviso, basato sull’interesse nei confronti del mondo, così naturale nei bambini e così schiacciato negli adulti.

Un libro da sorseggiare, da assaporare, da leggere insieme perché possa diventare di nuovo realtà.

Rita Vittori
Centro studi Sereno Regis


Piccola bibliografia

  • https://danilodolci.org/
  • www.borgodanilodolci.com/
  • Danilo Dolci, Banditi a Partinico, Sellerio editore, Palermo 2009, pp. 433, € 15,00.
    • Un libro tramite il quale Dolci voleva far conoscere le condizioni in cui versava nel secondo dopoguerra la popolazione della Sicilia fatta di banditi, cioè esclusi dalla società.
  •  Danilo Dolci, Dal trasmettere al comunicare, Sonda edizioni, Milano 2011, pp. 295, € 18,00.
    • Pubblicato per la prima volta nel 1988, in questo saggio Danilo Dolci denuncia i danni causati in ogni ambito da rapporti unidirezionali, trasmissivi, violenti, e propone l’alternativa della comunicazione, della maieutica reciproca, della nonviolenza.
  • Danilo Dolci, Inchiesta a Palermo, Sellerio editore, Palermo 2013, pp. 378, € 18,00.
    • È un’inchiesta su quelli che si industriano e si arrangiano, cioè i disoccupati di Palermo alla fine degli anni 50. Una massa di persone che viveva ai margini della società e in uno stato di degrado.
  •  Danilo Dolci, Processo all’articolo 4, Sellerio editore, Palermo 2011, pp. 425, € 15,00.
    • Danilo Dolci racconta lo «sciopero alla rovescia» nel quale guidò un gruppo di braccianti alla ricostruzione di una strada abbandonata nei dintorni di Partinico e per il quale venne arrestato nel 1956. Descrive cosa accadde nelle piazze, nei tribunali, nelle stanze di polizia. È un documento prezioso per capire quanto fosse dura la strada per affermare la democrazia repubblicana in Italia in quegli anni.
  • Danilo Dolci, Il potere e l’acqua, Melampo editore, Milano 2010, pp. 94, € 12,00.
    • In questo scritto emerge l’esperienza di Danilo Dolci con le popolazioni siciliane sul tema dell’acqua: risorsa fondamentale che può diventare strumento di potere con cui creare disuguaglianze e manipolazioni dell’ordine sociale.
  •  Danilo Dolci, Chissà se i pesci piangono. Documentazione di un’esperienza educativa, Edizioni Mesogea, Messina 2018, pp. 301, € 19,50.
    • È una delle più belle testimonianze dell’impegno educativo di Danilo Dolci all’indomani delle lotte per la diga sullo Jato e di fronte alla spaventosa situazione delle scuole dei territori colpiti dal terremoto.

 




La guerra dentro


Il volume mette in luce le radici affettive della guerra. Quali sono i meccanismi psicologici che inducono a sostenere o rifiutare la violenza armata? Si può considerare tramontata la cultura del «mors tua vita mea»? Alcuni studiosi sostengono di sì.

Il titolo del volume curato da Diego Miscioscia e pubblicato dalle edizioni la meridiana incuriosisce: «La guerra è finita». Ma come? Con tutti i conflitti che ci sono.

«La tesi di questo libro – si legge all’interno – è che sia possibile prefigurare un percorso culturale capace di potenziare alcune funzioni mentali la cui maturazione, in sostanza, possa rendere non più praticabile promuovere o condividere conflitti violenti».

Quello che stiamo vivendo è un tempo in equilibrio sull’orlo di un’estensione incontrollata delle guerre in corso, fino al rischio atomico. È quindi necessaria una riflessione su quali possano essere gli elementi di un percorso diverso che metta la guerra fuori dalla storia e realizzi processi di trasformazione costruttiva dei conflitti e di pace positiva.

Il mondo interno e la guerra

Il testo utilizza punti di vista scientifici diversi (dalla biologia, alla psicologia, alla storia), e parte da un’analisi degli studi psicoanalitici sulle cause della guerra. Questo per mostrare che, nel corso del Novecento, il sistema guerra è entrato in crisi a causa della sua irrazionalità e distruttività, e a causa della sua inefficacia nel risolvere i conflitti. Ma anche per mostrare, allo stesso tempo, che in tale contesto, si sono sviluppate le competenze mentali della pace.

Interessante e opportuno il capitolo di Martina Miscioscia sui conflitti e le pratiche di convivenza tra alcune specie animali. Esso mostra strategie di sopravvivenza orientate più alla cooperazione che alla distruzione del competitore: ci sarebbe molto da imparare dal cervo nobile o dagli scimpanzé bonobo.

Il riferimento teorico più forte è, però, quello ai lavori dei due psicoanalisti italiani Franco Fornari e Luigi Pagliarani che, circa 60 anni fa, elaborarono le prime riflessioni relative a come affrontare il rischio atomico, a partire dall’attivazione delle risorse interiori e dalla presa di coscienza delle responsabilità di ciascuno.

Se la guerra, infatti, «è un fenomeno complesso sostenuto da interessi economici, politici e geopolitici enormi e che muove interessi specifici da riconoscere e da esplorare», essa «si innesta anche su […] dinamiche psicologiche che riguardano i nostri sistemi di relazione ed il mondo interno di ciascuno».

Questa dimensione psicologica ci aiuta a comprendere alcuni processi di sostegno alla violenza e alla guerra, e anche il fatto che, per costruire una solida cultura di pace, è necessario lavorare sul mondo interiore che muove i comportamenti di ciascuno.

Il volume, perciò, mette in luce le radici interiori della guerra, riferendosi alla teoria dei codici affettivi elaborata da Fornari. Essa sostiene che i valori e le motivazioni personali nascono da logiche sentimentali diverse che fanno riferimento al mondo familiare: il codice materno, paterno, fraterno, il codice del bambino e quelli sessuali, virile e femminile.

«In sostanza, l’inconscio, attraverso i codici affettivi, aiuta l’uomo a muoversi nel mondo e a cercare di capire quale sia il valore affettivo più utile alla sopravvivenza», si legge nel testo.

È però importante che si realizzi una sorta di «democrazia affettiva», una «buona famiglia interna» che integri e armonizzi i codici diversi, evitando che qualcuno di essi si radicalizzi, come avviene, ad esempio, nella cultura patriarcale che estremizza il codice paterno.

È questa «condizione intrapsichica di integrazione e armonizzazione tra i codici affettivi che rappresenta l’unica base psicologica per una cultura di pace».

Nel corso dell’ultimo secolo alcuni passi nella direzione di uno sviluppo delle competenze mentali della pace sono stati fatti.

Miscioscia individua tre condizioni significative: il rischio della guerra atomica dopo il 1945, che ha fatto percepire come obsoleto il mito della guerra e dell’eroe guerriero; la crisi della cultura patriarcale; la globalizzazione economica, che ha fatto sentire a molti di essere cittadini del mondo più che di nazioni.

Naturalmente la strada da percorrere è ancora lunga, ma la direzione è segnata: la creazione delle Nazioni Unite e l’articolo 11 della nostra Costituzione ne sono due esempi.

Via la guerra dalla storia

Poiché la mente umana è influenzata da ambiente, educazione e cultura, «un cambiamento interiore orientato verso una cultura di pace […] dovrà essere favorito da profonde riforme sociali e culturali, ma anche da nuovi sistemi di sicurezza nei rapporti tra le nazioni».

Nella terza parte del volume si individuano le azioni collettive che possono incidere sui processi mentali dei singoli: favorire il sentimento di essere parte di una comunità; educare con metodi nonviolenti anziché repressivi; narrare la storia come storia del mondo e delle sue civiltà, delle lotte di resistenza civile e di costruzione della pace con mezzi pacifici, invece che come celebrazione di conquiste ed eroi.

L’ultimo capitolo, di Valeria Cenerini, fornisce indicazioni su come parlare di guerra ai bambini, cosa significa educare alla pace, come coltivare empatia, democrazia e dialogo a scuola.

«Il contributo più importante che abbiamo voluto dare in questo libro è segnalare una necessità […]: quella del cambiamento personale verso la democrazia affettiva. Altrimenti l’idea di pace resterà un’utopia […]. Si tratta di capire che la cultura del passato, quella della guerra e del mors tua vita mea è finita. Si tratta, con l’ausilio di esperti, educatori, psicologi, e sociologi, di acquisire nuovi modelli mentali».

Quello fatto da Diego Miscioscia è un lavoro ricco e importante. La presenza di alcune imprecisioni storico culturali che potevano essere evitate da una più rigorosa revisione delle informazioni, nulla toglie al suo valore. Per fare solo due esempi: Aldo Capitini ha fondato il Movimento nonviolento nel 1962, non nel 1952; il Mean non è tra le associazioni promotrici della campagna «Un’altra difesa è possibile» per la costituzione del Dipartimento della difesa civile non armata e nonviolenta, e nemmeno la Rete italiana pace e disarmo, la quale si sarebbe costituita dopo l’inizio della campagna dall’unione della Rete della pace con la Rete italiana per il disarmo, queste sì promotrici della campagna.

L’augurio è che il libro abbia molto successo e che nelle prossime ristampe si possano rivedere queste sviste, perché è uno strumento davvero prezioso.

Come si legge anche nel Preambolo della Costituzione dell’Unesco (firmata nel 1945): «Poiché le guerre hanno inizio nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che bisogna costruire le difese della pace», ed espellere per sempre la guerra dalla storia.

Angela Dogliotti
Centro studi Sereno Regis

bibliografia

  •  Franco Fornari, Psicanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 2023, pp. 288, 24,00 €.
  •  Luigi Pagliarani, Violenza e bellezza. Il conflitto negli individui e nella società, Guerini e Associati, Milano 2012, pp. 111, 13,50 €.
  •  Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia, Mondadori, Milano 2011, pp. 634, 11 €.
  •  Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1992, pp. 656, 13 €.
  •  Antonella Sapio, Per una psicologia della pace, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 944, 58 €.
  •  Franco Fornari, Dissacrazione della guerra. Dal pacifismo alla scienza dei conflitti, Feltrinelli, Milano 1969.



Angelelli e Gerardi


Il tempo delle giunte militari in America Latina ha visto fiorire molte esperienze di lotta nonviolenta per la giustizia. Tra queste, quelle del vescovo argentino Enrique Angelelli (1923-1976) e del vescovo guatemalteco Juan Gerardi (1922-1998), entrambi per una Chiesa dei poveri. Entrambi ammazzati dai regimi.

Anselmo Palini, insegnante e saggista di San Giovanni di Polaveno, Brescia, attivo sui temi dei diritti umani e della nonviolenza, ha pubblicato diverse biografie, quasi tutte per l’editore Ave, di testimoni del nostro tempo impegnati per la giustizia e la pace.

Tra questi, ci sono, oltre ai più noti Oscar Romero e Hélder Câmara, altri due vescovi latinoamericani, assassinati dalle giunte militari dei loro Paesi perché testimoni scomodi del Vangelo.

Sono l’argentino Enrique Angelelli (1923-1976) e il guatemalteco Juan Gerardi (1922-1998).

Enrique Angelelli

Enrique Ángel Angelelli Carletti, rettore del seminario di Cordoba, Argentina, e assistente della Joc (gioventù operaia cristiana) e della Juc (gioventù universitaria cristiana), diventa vescovo ausiliario della diocesi nel 1960 schierandosi subito a fianco di campesinos (contadini) e operai.

Durante il Concilio Vaticano II, che lo segna profondamente, è uno dei firmatari del «Patto delle

Catacombe» (16/11/’65), nel quale «i vescovi si impegnano a vivere in povertà, rinunciare ai simboli del potere, mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale, operare per la giustizia e per un nuovo ordine sociale».

Nel 1968, la seconda Conferenza dell’episcopato latinoamericano a Medellin, in Colombia, conferma questa direzione di impegno e, quando viene nominato vescovo di La Rioja, celebra la messa nel barrio Cordoba Sud, uno dei più poveri della città.

A causa delle sue denunce, le autorità proibiscono la trasmissione per radio della messa. Viene allora diffuso un documento nel quale si afferma: «È possibile far tacere una trasmissione radiofonica, ma non la Chiesa, perché la forza e la ragione stessa della sua esistenza sono radicati nella presenza misteriosa dello Spirito di Cristo, che è vivo in ciascun uomo di questa terra, bagnata dal sangue dei suoi figli, versato per difendere la propria dignità».

Nel 1973, durante la festa in onore di Sant’Antonio, nella parrocchia di Anillaco, Angelelli viene aggredito a sassate da sicari dei latifondisti. Il papa Paolo VI gli fa sentire il suo sostegno attraverso una visita del superiore dei Gesuiti, Pedro Arrupe, e di Jorge Mario Bergoglio.

Già prima dell’avvento della giunta militare, gli squadroni della morte della Tripla A (la neofascista Alleanza anticomunista argentina) uccidono preti e laici impegnati, finché, nel 1976, il golpe militare instaura la dittatura che durerà fino al 1983.

Dopo l’ennesimo assassinio di due preti, padre Gabriel Josè Rogelio Longueville e fratel Carlos de Dios Murias, nell’orazione funebre Angelelli invoca: «Mi rivolgo a coloro che hanno preparato, organizzato ed eseguito l’assassinio dei due sacerdoti: aprite gli occhi, fratelli, se vi chiamate cristiani! Rendetevi conto del sacrilegio e del crimine che avete commesso».

Nei giorni successivi raccoglie dai parrocchiani testimonianze e prove di quanto accaduto e prepara un rapporto da trasmettere alla Conferenza episcopale, per evitare che tutto sia insabbiato.

Il 4 agosto 1976, mentre ritorna a La Rioja accompagnato dal vicario episcopale, Arturo Pinto, la sua auto è affiancata da un’altra che la spinge fuori strada facendola ribaltare.

Nonostante i tentativi di farlo passare per un incidente stradale, la verità del crimine non potrà essere nascosta a lungo.

Dopo l’assassinio del vescovo Angelelli, la repressione in Argentina continua. Migliaia di persone sono arrestate e scompaiono, sono rinchiuse nelle caserme, torturate, gettate in mare con i voli della morte. I familiari non riescono ad avere notizie.

Il 30 aprile 1977 un gruppo di quattordici donne, le Madres de Plaza de Mayo, si presentano davanti alla Casa Rosada, il palazzo del Governo, in silenzio e con le foto di figli, mariti, fratelli scomparsi, per avere notizie.

Tutte le settimane, per anni, queste donne saranno lì, con la loro muta presenza, a denunciare l’orrore della dittatura, inaugurando una protesta nonviolenta che risuonerà in tutto il mondo.

Un colpo per la giunta golpista sarà il riconoscimento del Premio Nobel per la pace nel 1980 all’attivista nonviolento cattolico Adolfo Perez Esquivel, che è imprigionato per quattordici mesi e liberato nel 1978.

Dopo la fine della dittatura, nel 1985, il rapporto Nunca Mas, che ricorda anche l’assassinio del vescovo Angelelli, consentirà di avviare i processi contro i militari accusati di gravi violazioni dei diritti umani e porterà alla condanna all’ergastolo dei generali Videla, Massera e altri.

Il 27 aprile 2019 monsignor Enrique Angelelli viene beatificato da papa Francesco.


Juan Gerardi

Il testo di Palini su Juan José Gerardi Conedera riporta nel sottotitolo: «Nunca mas. Mai più».

Anche il Guatemala, infatti, come altri stati latinoamericani, ha vissuto sul proprio territorio la stagione delle dittature militari sostenute dagli Stati Uniti.

Richiamandosi alla dottrina Monroe del 1823 che affermava la supremazia degli Stati Uniti sul continente americano, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, la politica statunitense guarda all’America Latina come al «cortile di casa», da controllare contro il pericolo comunista rappresentato dalla rivoluzione cubana del 1959.

Anche in Guatemala si crea così una stretta alleanza tra gli interessi dell’oligarchia terriera latifondista e le multinazionali statunitensi come la United fruit company, per controllare le monocolture di caffè e banane contro le rivendicazioni contadine e la riforma agraria realizzata dall’unica esperienza democratica guatemalteca, tra il 1945 e il 1954, sotto i governi di Juan José Arevalo (1945-52) e Jacobo Arbenz Guzman (1952-54).

Durante questa breve parentesi viene varata una Costituzione democratica e creato un Codice del lavoro, nasce il Partito guatemalteco del lavoro e la riforma agraria aiuta 100mila famiglie contadine.

Nel 1954, però, un’invasione dall’Honduras guidata dal colonnello guatemalteco Carlos Alberto Castillo Armas, con un gruppo di mercenari e con il diretto aiuto della Cia per respingere il «pericolo rosso», costringe alle dimissioni il presidente Arbenz Guzman.

La giunta militare che si instaura elimina tutte le conquiste democratiche, ripristina il lavoro gratuito degli indigeni, incarcera tutti i sospetti di «comunismo», inaugura un nuovo periodo di repressione e di violazioni dei diritti umani, soprattutto nei confronti delle popolazioni native.

Se in un primo periodo la Chiesa guatemalteca sostiene la dittatura, in seguito, soprattutto dopo il Concilio e la citata Conferenza di Medellin, si diffonde l’«opzione preferenziale per i poveri», di cui Gerardi diventa uno degli esponenti più autorevoli.

Ordinato prete nel 1946, vive tutta l’esperienza del passaggio da una Chiesa schierata con le forze conservatrici a una Chiesa conciliare, attraverso il contatto con le popolazioni rurali, lavorando con le comunità dei popoli indigeni, promuovendo l’uso delle lingue locali nell’alfabetizzazione e nel movimento dei «delegati della parola». Perché, osserva Gerardi, il fatto che esistano culture distinte è una manifestazione della diversità in cui Dio si rivela e agisce all’interno di tutta la cultura umana.

È presidente della Conferenza episcopale del Guatemala dal 1972 al 1976, e poi dal 1980 al 1982. Nel 1976 è il primo firmatario di un documento nel quale i vescovi «denunciano le situazioni di violenza istituzionalizzata, caratterizzate da strutture sociali ingiuste, da emarginazione e miseria».

Per far fronte a tutto ciò, la Chiesa indica la necessità di una radicale riforma agraria, e imputa alle profonde disuguaglianze sociali l’estendersi della rivolta armata, che a sua volta determina l’inasprirsi della repressione. Dunque una spirale di violenza senza fine. Denuncia poi l’esistenza di gruppi paramilitari, l’uso sistematico della tortura, la violazione dei più elementari diritti umani.

Anche la radio diocesana denuncia le violenze e gli assassinii, come lo stesso Gerardi ricorderà: «In quel periodo eravamo vittime di una persecuzione continua. La radio della diocesi era stata accusata dall’esercito di fiancheggiare la guerriglia. Un giorno trovammo un cadavere davanti all’ingresso della radio, con un cartello sul quale era scritto “Padre Lans è morto. Così moriranno tutti gli altri della radio”».

In un anno, dal 1977 al 1978, sono assassinati 143 leader contadini, preti e catechisti.

Nel 1980, anno dell’assassinio in El Salvador di monsignor Oscar Romero, le forze di sicurezza del regime del generale Fernando Romeo Lucas Garcia compiono il massacro all’ambasciata di Spagna: 37 vittime tra contadini e studenti che ne hanno occupato i locali, compresi quattro diplomatici spagnoli.

Lì perde la vita anche il padre di Rigoberta Menchù, futura premio Nobel per la pace nel 1992.

La diocesi di Santa Cruz, guidata da Gerardi, da cui provenivano i contadini che avevano occupato l’ambasciata, emette un duro comunicato di condanna: «Da quattro anni il Quichè sopporta il peso di una violenza estrema, aggravato dall’occupazione militare della zona nord e da altre misure che, di fatto, colpiscono il popolo a beneficio di una minoranza. Come causa di fondo scopriamo uno schema di sviluppo economico, sociale e politico che non tiene conto degli interessi dei poveri e si appoggia alla Dottrina della sicurezza nazionale, che sottomette le persone a un regime di terrore. […] Per questa ragione facciamo nostra la denuncia dei contadini che sono morti per il popolo del Quichè, nell’ambasciata di Spagna».

Ma le uccisioni di dirigenti sindacali, preti, operatori pastorali continuano, compresa la madre di Rigoberta Menchù, rapita, torturata e lasciata agonizzante per giorni.

Sfuggito a un attentato, nello stesso anno Gerardi decide di chiudere la diocesi per mettere al riparo sacerdoti e catechisti, e si rifugia presso vari conventi, mentre molte famiglie contadine vanno in montagna, dove formano le Comunità di popolazione in resistenza (Cpr) «che sviluppano forme di convivenza e sistemi di lavoro collettivi e che, grazie alla perfetta conoscenza del territorio, sono in grado di difendersi dall’esercito».

Dopo un viaggio a Roma, a colloquio con papa Giovanni Paolo II, monsignor Gerardi, per sicurezza, non rientra in Guatemala (si scoprirà in seguito, infatti, che era è stato preparato un attentato contro di lui), e si rifugia in Costa Rica fino al 1982.

Nel 1981, una missione di Pax Christi internazionale, guidata da monsignor Luigi Bettazzi, visita Nicaragua, El Salvador, Honduras e Guatemala. Nel rapporto che ne segue si legge: «Sono gli interessi dell’economia occidentale a spingere i sedicenti Paesi liberi e democratici a tenere in piedi quei regimi dittatoriali che assicurano vendite di materie prime e scambi economici in termini vantaggiosi per i Paesi industrializzati che dominano il mondo. Che in questi Paesi del Centroamerica non esista la democrazia, che piccoli gruppi di famiglie straricche dominino e sfruttino la maggioranza della popolazione in miseria, questo non sembra avere molta importanza. Così l’assurda e spietata dittatura del Guatemala serve da punto di riferimento e di ritrovo degli interessi economici e militari di diversi Paesi dagli Stati Uniti a Israele».

Nel 1983, sia il Tribunale permanente dei popoli in seduta a Madrid, sia Amnesty international, condannano le gravissime violazioni dei diritti umani compiute dalla dittatura guatemalteca, in particolare dopo il colpo di stato di Efrain Rios Montt del 1982, che persegue l’annientamento delle comunità Maya, facendo terra bruciata intorno a loro e reclutando a forza i ragazzi per contrastare la guerriglia. Prima di essere deposto da un ennesimo colpo di stato nell’agosto 1983, i suoi diciassette mesi di governo sono tra i più sanguinari della storia del Guatemala.

Il mutato clima internazionale induce ad avviare un processo di transizione politica che consegni il potere ai civili: nel 1985 si svolgono elezioni generali che portano alla vittoria del democristiano Vinicio Cerezo Arévalo, ma il Paese è ancora dilaniato dalla guerra tra esercito e gruppi della guerriglia.

Il vescovo Gerardi, nel 1986 fa parte della Commissione nazionale di riconciliazione, frutto dei primi passi verso un processo di pace nel Paese.

Nel 1989 l’arcivescovo di Città del Guatemala, Prospero Penado del Barrio, gli affida il compito di creare un Ufficio per i diritti umani nella diocesi.

Nella veste di coordinatore di questo ufficio, negli anni parteciperà alla Commissione Onu per i diritti umani, con sede a Ginevra, denunciando l’impunità che regna nel suo Paese.

Dopo il Premio Nobel per la pace a Rigoberta Menchù nel 1992, anche Gerardi riceve diversi riconoscimenti internazionali.

Nel 1994 a Oslo viene sottoscritto un accordo tra il governo del Guatemala e la Unidad Revolucionaria nacional guatemalteca (Urng), che prevede l’istituzione di una Commissione di indagine sulle violenze perpetrate nel Paese. Gerardi propone di integrarla con il progetto Remhi (Recuperacion de la memoria historica), un lavoro da lui coordinato, che si concluderà con la pubblicazione di quattro volumi dal titolo Guatemala. Nunca mas, per documentare le uccisioni, le sparizioni, la repressione e le violazioni dei diritti umani tra il 1956 e il 1996.

L’arcivescovo Penado del Barrio, nella Presentazione del rapporto scrive: «Con questa guerra in cui si è torturato, si è assassinato e si sono fatte scomparire intere comunità, che sono rimaste terrorizzate e indifese in questo fuoco incrociato, in cui si è distrutta la natura, che nella cosmovisione indigena è sacra, la madre terra, è anche stata spazzata via, come un uragano impetuoso, la parte più viva dell’intellighenzia del Guatemala. Il Paese è rimasto improvvisamente orfano di cittadini autorevoli».

Nel 1995 Gerardi partecipa in Italia alla Marcia Perugia-Assisi.

Nel 1996 è firmato finalmente l’accordo di pace, e nel 1998 il rapporto Nunca mas è consegnato a Rigoberta Menchù.

Due giorni dopo la presentazione dei risultati del progetto Remhi, il vescovo Gerardi è assassinato nel suo garage.

Per il delitto saranno condannati il colonnello Byron Lima Estrada, suo figlio, il capitano Byron Lima Oliva, il soldato Obdulio Villanueva e il viceparroco Mario Orantes in qualità di complice, ma i mandanti, gli alti vertici militari e politici, rimarranno liberi.

Angela Dogliotti
Centro studi Sereno Regis


I LIBRI DI ANSELMO PALINI

  •  Hélder Câmara. «Il clamore dei poveri è la voce di Dio», Ave, Roma 2020, pp. 240, 14,00 €.
  •  Don Pierino Ferrari. «Vestito di terra, fasciato di cielo», Ave, Roma 2020, pp. 304, 14,00 €.
  •  Teresio Olivelli. Ribelle per amore, Ave, Roma 2018, pp. 318, 20,00 €.
  •  Oscar Romero. «Ho udito il grido del mio popolo». Ave, Roma 2018, pp. 290, 20,00 €.
  •  Una terra bagnata dal sangue. Oscar Romero e i martiri di El Salvador, Paoline, Milano 2017, pp. 224, 16,00 €.
  •  Marianella Garcìa Villas. «Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi», Ave, Roma 2014, pp. 272, 12,00 €.

Primo Mazzolari. Un uomo libero, Ave, Roma 2009, pp. 304, 16,00 €.




L’ecologia profonda


Il filosofo e alpinista norvegese Arne Dekke Eide Næss è il padre della riflessione ecologista del Novecento. Ha contribuito a comprendere che «tutto è collegato» e che ciascuno, con il proprio stile di vita, può affrontare la crisi ecologica e, allo stesso tempo, vivere meglio.

«Introduzione all’ecologia» è un’antologia di scritti del noto filosofo (e alpinista) norvegese Arne Dekke Eide Næss (Oslo, 1912-2009).

«Arne Næss – si legge sul sito delle edizioni Ets – è stato il fondatore del movimento dell’ecologia profonda e il padre della filosofia dell’ecologia, ed è riconosciuto come il più importante filosofo norvegese. […] Personaggio eccentrico e geniale, ha alternato la sua attività accademica all’alpinismo (ha guidato la prima ascensione al Tirich Mir, 7708 metri slm in Pakistan) e alla passione per il pianoforte. Già membro del Circolo di Vienna, ha approfondito diversi ambiti filosofici, dall’epistemologia, alla psicologia, all’etica, alla metafisica, alla filosofia del linguaggio, sviluppando un’originale filosofia della vita («ecosofia T») ispirata ad un tempo alla tradizione occidentale (Spinoza, in particolare) e orientale (Gandhi e il buddismo)».

La visione di Næss s’identifica con l’ontologia della Gestalt, per la quale «tutto è collegato» (traduzione dell’inglese «everything hangs together»), «tutto dipende da tutto»: il primo principio dell’ecologia.

Næss invita il lettore a considerare le connessioni tra il pensiero del filosofo olandese del XVII secolo, Baruch Spinoza, e quello ecologico. Lo fa per 36 pagine fitte fitte, dalla 127 alla 163.

Ci aiutano un utile Indice analitico, l’Elenco delle fonti e una specie di condensato dei fondamenti dell’ecologia profonda proposto in otto punti a pagina 46 nel capitolo intitolato I fondamenti del movimento dell’ecologia profonda.

  1. Version 1.0.0

    La prosperità della vita umana e non umana sulla Terra ha un valore intrinseco. Il valore delle forme di vita non umana è indipendente dall’utilità del mondo non umano.

  2. La ricchezza e la diversità delle forme di vita sono anch’esse valori in se stessi.
  3. Gli uomini non hanno il diritto di ridurre tale ricchezza e diversità, tranne che per soddisfare i loro bisogni reali.
  4. L’attuale interferenza umana nei confronti del mondo non-umano è eccessiva.
  5. Le politiche devono essere modificate.
  6. La situazione risultante sarà profondamente differente da quella odierna e renderà possibile un’esperienza più gioiosa della connessione di tutte le cose.
  7. Il cambiamento ideologico è principalmente quello di apprezzare la qualità della vita piuttosto che cercare un tenore di vita sempre più alto.
  8. Ci sarà una consapevolezza profonda della differenza tra il grande e l’intenso.

L’uomo Arne

Il filosofo è ben raccontato nella sua dimensione umana in un’intervista del 10 febbraio 2015 a Kit-Fai Næss, la sua terza moglie.

Sull’amore di Arne Næss per la montagna e per la musica: «Era un grande pianista», dice la moglie, e quando dovette scegliere se proseguire con la musica o con la filosofia, da giovane esclamò: «Non posso portare ovunque il pianoforte. Mentre, se faccio il filosofo, posso continuare a fare alpinismo».

Per quanto riguarda il futuro dell’ecologia, Arne ricordava spesso che ci sono tre tematiche da approfondire, che fanno capo a tre grandi movimenti: il movimento della giustizia sociale, il movimento dell’ecologia profonda e il movimento pacifista.

In riferimento all’ecologia profonda, per Arne è necessario modificare i nostri comportamenti, per poter cambiare il mondo. Una volta modificati, sarà più facile – quasi naturale – cambiare anche stile di vita. L’ecologia profonda si rivolge più a noi e a come viviamo che ai mezzi tecnologici che usiamo.

In merito alla crisi ecologica, Arne Næss, in alcuni suoi scritti, sembra essere alquanto pessimista sulle possibilità umane di affrontarla e risolverla. Sicuramente, però, per lui l’umanità non è il cancro del pianeta. Probabilmente la sua idea di uomo si avvicina a quella di Aldo Leopold per il quale siamo destinati a essere i custodi della Terra.

Di fondo, però, il filosofo era una persona generalmente molto ottimista: sosteneva che nel XXII secolo l’uomo avrebbe cambiato i propri comportamenti.

Tuttavia, per ora, le cose vanno male, e devono andare male, affinché l’umanità possa modificare il suo modo di vivere.

Essere positivi

L’invito di Næss all’ottimismo emerge anche dalle parole dell’amico Alan Drengson, la cui intervista del 2015 si trova in appendice dopo quella già citata alla moglie. Dal momento che il filosofo norvegese si esprimeva spesso tramite slogan, l’intervistatore domanda all’amico come sintetizzare in una frase, in una sorta di «messaggio in bottiglia», l’eredità filosofica e culturale di Næss.

«Sii positivo in ogni circostanza – è la risposta -; riconosci la tua innata capacità creativa, quella dei tuoi amici e di ogni altra persona, in tutti gli esseri viventi e nella natura. Ama il contatto con la natura e con le sue forme di vita: dedicale del tempo. Allontana ogni mezzo tecnologico e riposati nella natura. Rispetta ogni persona e ogni essere vivente che incontri sul tuo cammino».

Cinzia Picchioni


Piccola bibliografia

Bruno Bignami, Terra, aria, acqua e fuoco. Riscrivere l’etica ecologica, EDB, Edizioni Dehoniane Bologna 2012, pp. 214, 20,50 €.

Franco Nasi e Luca Valera (a cura di), Arne Næss, Quodlibet, Macerata 2023, pp. 376, 24 €.

Fritjof Capra et al., La cura della casa comune, Fondazione italiana di bioarchitettura (a cura di), Libreria editrice Fiorentina, Firenze 2020, pp. 258, 18 €.

Leo Hickman, La vita ridotta all’osso. Un anno senza sprechi: le disavventure di un consumatore coscienzioso, Ponte alle Grazie, Milano 2007, pp. 268, 12 €.

Bill Devall e George Sessions, Ecologia profonda. Vivere come se la natura fosse importante, Nanni Salio (a cura di), Castelvecchi, Roma 2022, pp. 354, 20 €.

Gary Snyder, La grana delle cose, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987, pp. 270.

Mathis Wackernagel e Bert Beyers, Impronta ecologica. Usare la biocapacità del pianeta senza distruggerla, Edizioni Ambiente, Milano 2020, pp. 312, 20 €.

 




Noi e Voi, dialogo lettori – missionari


Sererit, grazie a padre Aldo

padre Aldo Giuliani

Caro padre Aldo (Giuliani),
vorrei esprimere il mio sincero apprezzamento per il tuo servizio a noi, la comunità Sererit della sotto contea di Samburu Nord. Tu ci hai dato uno dei servizi regolari più affidabili. Da quando la Chiesa cattolica ha inaugurato Sererit nel 1999 nell’area dello Ndoto (sulle Ndoto Mountains – le Montagne del sogno, ndr), sotto la tua guida come parroco, ha offerto servizi di altissima qualità e anche di sostegno umanitario alla comunità di Sererit e dello Ndoto in generale.

Scrivo per esprimere la mia sincera gratitudine per il grande impegno, la devozione e la leadership che hai dimostrato per le nostre comunità attraverso la tua guida spirituale e i tuoi insegnamenti. Hai condiviso la parola di Dio con i membri della nostra comunità. Grazie per la tua umiltà, integrità e dedizione che hanno creato un ambiente amorevole e costruttivo per tutti, specialmente per i giovani.

Io e il governo della contea Samburu abbiamo riconosciuto con apprezzamento la cura, l’amore e il sostegno offerti ogni giorno dalla parrocchia cattolica di Sererit attraverso i servizi di assistenza sanitaria nel dispensario grazie alla tua iniziativa personale. Riconosciamo i programmi sanitari della chiesa, compresi il trasporto gratuito di malati fino all’ospedale di livello quattro della sotto contea di Baragoi (da due a tre ore di macchina su una pista tra le montagne, ndr) e le cliniche gratuite per la salute delle madri e dei neonati.

L’istruzione è davvero uno degli strumenti più potenti per ridurre la povertà e la disuguaglianza nelle nostre società. L’istruzione allevia ulteriormente la povertà in quanto produce manodopera qualificata e crea un atteggiamento giusto per il lavoro e lo sviluppo.

In qualità di rappresentante della popolazione dell’area dello Ndoto, sono grato per gli investimenti che hai fatto nelle infrastrutture educative, tra cui l’illuminazione della scuola di Sererit e due dormitori per la scuola primaria, le due aule per la scuola secondaria di Lekeri, le due scuole materne per le comunità di Sererit e Lekeri. Apprezzo sinceramente anche il trasporto degli studenti delle scuole superiori da e per Baragoi durante l’apertura e la chiusura della scuola. Le borse di studio a oltre 200 studenti che studiano in vari college e università (a Nairobi o altri centi, ndr) sono riconosciute e molto apprezzate.

Normalmente si dice che «l’acqua è vita». Sono grato ai progetti idrici che hai avviato nello Ndoto. Questi progetti hanno migliorato gli standard di vita delle comunità locali promuovendo la buona salute e l’approvvigionamento di acqua potabile a distanza ravvicinata, (con grandi vantaggi) soprattutto per le donne e i bambini che vanno a scuola. Grazie per i progetti di approvvigionamento idrico a Maragi, Lkitagesi, Naisunyru e Sererit.

Panorama della missione di Sererit (p Aldo Giuliani)

Durante le gravi siccità, sei venuto in aiuto delle comunità dello Ndoto per restituire la dignità umana a coloro che soffrivano. Apprezziamo il cibo che hai fornito attraverso il sostegno della parrocchia. Hai anche facilitato i beneficiari del programma governativo nazionale «Inua Jamii» («solleva i vicini», ndr) che si sono trovati ad affrontare sfide per raggiungere (con sei e più ore di viaggio, ndr) la Kenya commercial bank (Kcb) a Maralal. Grazie infinite, reverendo padre Giuliani.

Esprimo anche gratitudine per aver impiegato una decina di persone per il lavoro della parrocchia. Questo ha migliorato direttamente lo status economico delle loro famiglie e indirettamente quello dei loro parenti. Apprezziamo anche la manutenzione delle strade (che hai fatto) con l’impiego di manodopera locale.

Guardando in avanti prometto la mia continua collaborazione e quella di sua eccellenza, il governatore della contea di Samburu, S.E. Lati Lelelit, in progetti di sviluppo per migliorare i mezzi di sussistenza delle persone.

Mi impegno a sostenere la parrocchia di Sererit nelle sfide che deve affrontare, in particolare nel settore sanitario. La nostra collaborazione avrà l’obiettivo di valorizzare i progetti di approvvigionamento idrico. Nel bilancio finanziario 2024/2025, il progetto di manutenzione Loikumkum è stato approvato, ci consulteremo e ci appoggeremo sulla vostra competenza tecnica durante l’attuazione di questo progetto.

Ancora una volta, grazie mille per la tua assistenza. Apprezzo molto la tua presenza e l’aiuto dato alle comunità dello Ndoto.

Onorevole Ali Lealmusia
Contea Samburu, Kenya, 19/06/2024

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Le meraviglie del passato, le sfide del presente (MC 05/2015)

Distribuzione cibo ai bambini

Accoglienza a nuovo visitatore

Festa e benedizione del campo sportivo

La missione sui Monti dei sogni

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Sconosciuto

Un libro avvincente che racconta storie di vita. Un affresco corale dove trovano posto le vicende dell’esistenza umana in relazione all’amore e al valore della vita. L’amore per Dio e per il mondo come quello della quotidianità vissuta nella missione di suore in Perù, che accoglie minori abbandonati. L’amore per la vita dei protagonisti Marta e Joaquin, due giovani alla ricerca di se stessi che si incontrano in un viaggio al Machu Picchu, senza sapere di dover poi condividere la medesima sorte inaspettata e vertiginosa.

Sono molti i personaggi e le storie che si intrecciano nel racconto, da Marta e Joaquin con le loro famiglie, a Bianca e Greta, le giovani ospiti della missione di suore in Perù. Sullo sfondo le due città europee di Milano e Madrid da dove vengono i protagonisti, entrambi poco più che ventenni, alle prese con la voglia di vivere e la sofferenza per quella figura paterna evanescente presentata loro dalle rispettive madri. Due i mondi a confronto: quello della moderna civiltà occidentale e quello tradizionale delle popolazioni indigene dell’America Latina.

Nel romanzo l’autrice riesce a cogliere e raccontare bene l’essenza delle istanze che appartengono ad ogni vita umana: l’importanza dell’elaborazione identitaria per la persona, la necessità di conoscere il volto della mamma e del papà che colmano naturalmente il desiderio di sentirsi amati e parte della famiglia umana. Di contro, l’avanzare veloce della società contemporanea che minaccia il senso identitario delle persone lasciandole in balia di un’odiosa sensazione di vuoto e disperazione che disorienta. Si smarriscono così il senso della misura e l’amore per la vita che educa ad accettare anche la sofferenza.

Luisa Rota

Se il racconto è di fantasia, non lo sono però le problematiche sollevate che penetrano nella solitudine e negli interrogativi che potrebbero sorgere in futuro tra i figli nati da fecondazione eterologa. Tema questo più che mai attuale ma volutamente ignorato o trattato con superficialità. […]

Con questo libro, che per ragioni personali è rimasto a lungo nel cassetto, ho voluto sollecitare alcune riflessioni. […] È difficile sviscerare motivazioni che hanno a che fare con sensibilità differenti, soprattutto quando il contesto va in una certa direzione, seguendo leggi ormai presenti in molti Stati europei e non. Ma c’è dell’altro che potrebbe succedere con queste tecniche di fecondazione, di cui non si parla e che solo un romanzo può mettere in evidenza, trattandosi ancora di una rarissima probabilità. A voi lettori scoprire di che cosa si tratta. Buona lettura.

Faccio notare che validi consulenti per la traccia logistica del libro sono stati diversi articoli della rivista «Missioni Consolata».

Silvana Ferrario
27/06/2024

Silvana Ferrario, Sconosciuto, edizioni Marna, Ponteranica (Bg) 2022, pp. 288, € 16.




Il tempo delle non cose


Uno stile semplice e diretto. Libri sottili ma corposi. Il filosofo Byung-Chul Han, docente a Berlino, accende la luce sui malesseri tipici della vita contemporanea. In particolare, sul senso di irrealtà legato all’uso di computer, smartphone, intelligenza artificiale. E prova a suggerire possibili antidoti.

Byung-Chul Han, nato a Seul nel 1959, attualmente vive e insegna filosofia e cultural studies all’Universià di Berlino. Analizza da anni le conseguenze politiche e psicosociali del modello economico neoliberista nelle società occidentali e soprattutto l’influenza del digitale nelle nostre vite, sempre più dipendenti dalle tecnologie.

Nel suo Le non cose, edito da Einaudi, ci offre una lucida riflessione sulla società che stiamo costruendo. Lo fa tramite uno stile semplice e diretto, efficace nell’accendere una nuova luce sulla realtà che ci sta intorno.

Il testo offre una lettura immersiva del mondo attuale, e ha il dono di sorprenderci ricomponendo i diversi sensi delle cose che ci accadono.

Non è una critica, ma una lettura e interpretazione di quel senso di estraneazione che ci prende mentre compiamo i nostri atti quotidiani circondati da strumenti come smartphone e computer, nostri compagni di vita.

Scrive Han: «L’ordine terreno, l’ordine planetario, è costituito da cose che assumono una forma durevole e creano un ambiente stabile, abitabile. […] Oggi all’ordine terreno subentra l’ordine digitale. L’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo». Non sono più gli oggetti ad arredare il mondo, ma le informazioni. Non è più la mano che costruisce oggetti a fondare l’essere in senso heideggeriano, ma l’informazione.

La sintesi di questa nuova ontologia diventa lo smartphone. Esso ci fornisce l’illusione di avere il mondo a portata di mano. Nella comunicazione digitale l’altro è sempre meno presente, preferiamo, infatti, mandare un messaggio piuttosto che chiamare per non esporci al dialogo. È così che ci ritiriamo in una bolla narcisistica, facendo scomparire di fatto l’empatia, le relazioni, e finendo per sentirci soli. E in questo vuoto nasce la depressione come sintomo di mancanza di nutrimento che solo il sentirsi all’interno di una comunità può guarire.

Quando Han affronta il tema dell’intelligenza artificiale, la definisce «senza cuore», perché mette insieme dati già esistenti, senza far apparire nuovi scenari di senso. Calcola ma non crea nulla di nuovo, si limita a scegliere tra opzioni già esistenti.

Anche la memoria del computer è senza cuore. È «additiva», mentre la nostra memoria è «narrativa». Questo è uno dei nodi interessanti del libro: la differenza tra dato e ricordo. I dati memorizzati dal computer sono messi in fila e conservati così come sono stati inseriti, senza essere elaborati. Il ricordo invece è evocativo, possiede una profondità che risuona nell’interiore e riorganizza gli eventi spesso con significati nuovi.

Byung-Chul Han ci offre anche una via di uscita da questa irrealtà: il silenzio.

Solo nel silenzio si riesce a ritrovare il contatto con la parte più profonda del nostro essere. Nel silenzio si sta in ascolto, si è in relazione con il tutto che ci circonda, si avverte la profondità che è verticale tanto in alto quanto in basso. Nel silenzio si esercita quello sguardo contemplativo dotato di pazienza per il lungo e il lento che diventa preghiera. E come afferma a pag. 105: «È il silenzio a salvare» la nostra vita.

Dello stesso autore

Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, Einaudi, 2023.

Il filosofo si domanda quali sono gli effetti della digitalizzazione sulla democrazia, rispondendo che ci troviamo in una fase di passaggio a un regime totalitario basato sui «dati» e su nuove figure come gli influencer.

Iperculturalità. Cultura e globalizzazione, Nottetempo, 2023.

In questo testo Han ragiona sulla smaterializzazione degli spazi e dei confini della cultura grazie alla globalizzazione degli ultimi decenni. Se prima la cultura di ciascuno era un elemento di costruzione della sua identità, ora tutte le culture appaiono importanti. Ma forse questo significa che non ci si sente davvero a casa in nessun luogo.

Elogio della Terra. Un viaggio in giardino, Nottetempo, 2022.

Han incentra questo libro sulla cura del suo giardino a Berlino, attraverso cui ha riscoperto la felicità legata ai ritmi della natura. Mentre il mondo digitale allontana dalle esperienze sensoriali, estranea da dolore e corporeità, il ritorno alla terra aiuta a ritrovare una spiritualità nella quale i colori, i suoni, la relazione con gli insetti, restituiscono all’uomo la sua vera appartenenza.

La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, 2022.

Han sottolinea come la nostra società sia caratterizzata dalla paura del dolore e della morte e imponga di essere sempre positivi, in salute e felici. Le persone cercano, allora, forme di anestesia simbolica e concreta per liberarsi da ciò che le rende sofferenti e mortali: una rimozione sociale della morte e del dolore.

Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, 2016.

Han analizza le nuove forme di potere che inchiodano l’individuo: non siamo più di fronte a un potere coercitivo e punitivo, ma a soggetti che si sfruttano da soli per diventare «imprenditori di se stessi». Alla conquista di sempre nuove competenze e motivazioni per raggiungere il successo, senza orari di lavoro né diritti, ossessionati dalla continua ricerca di superare i propri limiti.

Rita Vittori

 




Con la resistenza civile


Dentro un conflitto cruento o contro un regime oppressivo, cosa funziona di più? La resistenza armata o quella civile? Al di là delle valutazioni morali, studiare quali azioni sono più efficaci e catalogarle e raccontarle, come ha fatto l’autrice del libro di questo mese, può offrire una risposta semplice e logica.

«La nonviolenza è una bella idea, però funziona solo in alcuni casi. Se tutti fossimo nonviolenti, il mondo sarebbe più giusto e pacifico, ma non è così, e sin tanto che esisteranno aggressori, prepotenti, tiranni, dovremo attrezzarci per combatterli con le loro stesse armi».

«In una democrazia, la resistenza civile è da preferire, ma nelle autocrazie, dove il popolo viene represso da un governo dispotico, non raggiunge risultati».

«Di fronte a un’aggressione come quella della Russia nei confronti dell’Ucraina, l’unica resistenza possibile è quella armata».

Quante volte abbiamo sentito ripetere questa narrazione, anche da parte di chi non guarda alla nonviolenza con sospetto e rifiuto preconcetto. E quante volte i pacifisti si sono trovati in difficoltà nel rispondere, opponendo petizioni di principio più che fatti?

Il libro di Erica Chenoweth nasce proprio per contestare queste obiezioni con i fatti della storia.

È interessante che la stessa autrice nella prefazione confessa che inizialmente era molto critica sulle possibilità della resistenza nonviolenta.

Nel 2006, con Maria Stephan, iniziò studi sui movimenti sociali contemporanei, catalogandoli tra «prevalentemente violenti» e «nonviolenti», al fine di valutarne, in modo sistematico ed empirico, i tassi di successo.

Ne è venuto fuori un database, aggiornato di anno in anno, formato da 623 casi storici, il cui elenco si trova in appendice al libro. Esso dimostra che le rivolte nonviolente hanno avuto successo nel 50% dei casi, contro un 25% delle rivolte armate.

Il database è disponibile online al sito del progetto Navco (Nonviolent and violent campaigns and outcomes).

Azioni, lotte, movimenti

Da quegli studi nasce il libro Come risolvere i conflitti.

L’edizione americana è del 2021 e ha un titolo diverso, a mio parere più incisivo: Civil resistance: what everyone needs to know (La resistenza civile. Ciò che ognuno dovrebbe conoscere).

È questo, resistenza civile, il nome che Erica Chenoweth dà a quel complesso di azioni, lotte, movimenti che altri chiamano lotta nonviolenta, che Gandhi chiamava Satyagraha, forza della verità. E mette subito in chiaro che si tratta di un metodo di lotta contro il potere costituito, giacché in un mondo e in situazioni ingiuste, i conflitti vanno innanzitutto suscitati, e solo dopo risolti, mentre il nemico peggiore è l’assuefazione a quella che Johan Galtung chiama «violenza strutturale».

La nonviolenza funziona?

Il libro è organizzato in domande, che costituiscono i titoli dei paragrafi, questi a loro volta raggruppati in cinque capitoli: le basi, come funziona la resistenza civile, la violenza interna, la violenza contro il movimento, il futuro della resistenza civile.

La domanda principale che sottende tutto il volume è: la resistenza civile funziona per ottenere giustizia e difendere i diritti umani? In quali circostanze?

Il metodo di lavoro usato astrae dall’ideologia e dalla concezione morale per concentrarsi prevalentemente sul tema dell’efficacia della lotta, cosa non sempre gradita ai nonviolenti, soprattutto qui da noi. È l’approccio di Gene Sharp (1928-2018), filosofo e politologo americano, definito il «Macchiavelli della nonviolenza», che si cimentò sin dagli anni Settanta (Politica dell’azione nonviolenta, 3 volumi pubblicati da Edizioni Gruppo Abele) a dimostrare che il metodo nonviolento era più efficace della lotta armata. Fu fondatore, nel 1983, dell’Albert Einstein institute per «lo studio e l’utilizzo della nonviolenza nei conflitti di tutto il mondo». La Chenoweth si definisce una sua allieva.

I successi di un metodo

Corsi di formazione, libretti sulle metodologie, contatti con attivisti di tutto il mondo, servirono a spronare diverse campagne nonviolente, anzi, vere e proprie rivoluzioni, molte delle quali ottennero significativi successi.

Ricordiamo la lunga lotta nonviolenta del popolo polacco che fu all’origine del tracollo dell’impero sovietico, a cui seguirono la rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia, la lotta per la democrazia in Germania Est, ma pure il caso delle Filippine con la caduta del dittatore Marcos nel 1986.

Grazie a questi successi il metodo della resistenza civile ebbe ulteriore diffusione, in particolare con la stagione delle «rivoluzioni colorate» degli anni Novanta e Duemila nei paesi ex comunisti dell’Est Europa, contro la corruzione e per la democrazia. E qui molti ci vedono l’intervento del dipartimento di Stato Usa.

Ci sono tuttora discussioni tra gli attivisti e gli studiosi su questo approccio: se la nonviolenza è «solo una metodologia», può essere usata per fini buoni o cattivi, da socialisti o democratici, da fautori dell’ordoliberismo, da progressisti o reazionari.

Anche questo è un tema dibattuto dalla Chenoweth, titolo di uno dei cento paragrafi.

Fatti e conclusioni

Tornando al libro, esso si basa su uno studio statistico: l’autrice, per rispondere alle domande, osserva come le varie resistenze civili hanno lavorato. Sia quelle che hanno avuto successo, sia le altre. Dunque, le risposte non sono mai teoriche, o ideologiche, ma sempre basate sui fatti.

Si viene dunque a conoscenza di un gran numero di lotte nonviolente, della loro evoluzione, delle problematiche affrontate. Come uno scienziato, l’autrice cerca di estrarre da esse delle leggi generali, ma sempre con l’avvertenza «salvo smentite», e con l’invito a continuare lo studio.

Alcune conclusioni generali vengono indicate alla fine del volume, e qui le riassumo.

  • Fare resistenza civile significa ribellarsi al potere costituito attraverso metodi più inclusivi della violenza.
  • La resistenza civile non si limita a «toccare il cuore» dell’avversario, è lotta, e vince quando riesce a generare defezioni nel suo potere.
  • Non si esaurisce nelle manifestazioni e nelle marce, include metodi di non cooperazione, costruzione di poteri alternativi, coinvolgendo una vasta parte di popolo e costruendo alleanze.
  • Negli ultimi cento anni, la resistenza civile si è dimostrata più efficace della lotta armata.
  • Non sempre ha successo ma funziona molto meglio di quanto i suoi detrattori non affermino e, soprattutto, anche quando perde, è decisamente meno letale.

Un insegnamento molto utile oggi, mentre è in atto una corsa generalizzata alla guerra vista come unica soluzione contro autocrati e dittatori.

La domanda «ma agli ucraini servirebbe la nonviolenza?», non la troverete in questo libro, chiuso in stampa nel 2021.

Possiamo solo dire che non siamo in grado di capire se la nonviolenza sarebbe stata efficace o meno, essendo una possibilità scartata fin dal principio, e che, di certo, vediamo cosa sta facendo la guerra oggi.

Paolo Candelari

Centro studi Sereno Regis




La via di Capitini


La via di Capitini

È il filosofo che ha portato la teoria e la prassi della nonviolenza gandhiana in Italia. È stato, tra le altre cose, fondatore del Movimento nonviolento e ideatore della marcia Perugia-Assisi. Una serie di volumi ne ripropongono il pensiero.

Aldo Capitini (Perugia 1899 – 1968) è il grande maestro della nonviolenza del Novecento italiano. È suo il contributo determinante per l’introduzione nel nostro paese del pensiero e della prassi nonviolenta secondo la lezione gandhiana.

La sua figura, rimasta marginale per decenni nella cultura italiana, nell’ultimo trentennio ha conosciuto un rinnovato interesse da parte di un certo numero di studiosi.

Tra questi, Mario Martini occupa un posto di indiscussa centralità. Egli, infatti, allo studio del pensiero di Capitini ha affiancato una vasta attività divulgativa tesa, da un lato, a farlo conoscere tramite incontri pubblici e, dall’altro, a promuovere nuove edizioni dei suoi scritti.

Forse proprio per questa ragione, Martini non ha mai dedicato al fondatore del Movimento nonviolento italiano una monografia sistematica: la sua scelta è sempre stata quella di «far parlare lo stesso Capitini».

Anche il libro a sua firma uscito quest’anno per le edizioni Aras, L’altra via di Aldo Capitini, non è propriamente un saggio. Esso raccoglie diversi testi, tra cui alcuni inediti, scritti da Martini nel corso degli ultimi trent’anni come introduzioni a nuove pubblicazioni dei libri del filosofo perugino, studi in lavori collettanei, articoli, ecc.

Avere riunito in un volume unico tutti questi interventi rappresenta davvero una buona notizia.

Nel libro tutti i principali temi capitiniani sono toccati e sono oggetto di indagine critica. In particolar modo, si analizzano gli aspetti filosofici e religiosi della visione del mondo di Capitini, il quale, nella luce della stella polare della nonviolenza, intreccia in modo stimolante e originale teoria e pratica, metafisica e pedagogia, politica e religione, dimensione sociale e prospettive escatologiche, disobbedienza civile e spirito profetico.

Le ragioni della nonviolenza

Per chi intendesse accostarsi direttamente alle pagine di Aldo Capitini, il punto di partenza potrebbe essere un’antologia curata dallo stesso Mario Martini, Le ragioni della nonviolenza (Ets, 2016). Il volume si propone di presentare le principali nervature della riflessione capitiniana sulla nonviolenza, tenendo però costantemente presente che per l’autore il momento della riflessione non può essere disgiunto da quello dell’azione.

Il filo rosso del libro è dunque un quadro nel quale le «premesse teoriche», già ben riconoscibili nel primo scritto del 1937, Elementi di un’esperienza religiosa, si saldano al concreto «impegno nonviolento», il cui vertice simbolico può ritenersi la Marcia della pace Perugia-Assisi che Capitini ideò e che si svolse per la prima volta il 24 settembre 1961.

Religione aperta

Va ricordato che negli ultimi anni sono state ripubblicate due opere di Capitini che possono essere considerate delle vere e proprie summae del suo pensiero e rappresentano testi ideali dai quali partire per uno studio approfondito di questo autore.

Nel 2011 Laterza, che di Capitini fu il primo editore, ha riproposto Religione aperta, pubblicazione affidata anche in questo caso alle cure di Mario Martini.

Il libro, che uscì nel 1955 e da lì a poco venne incluso nell’Indice dei libri proibiti (soppresso nel 1966), affronta in modo organico i vari aspetti che caratterizzano l’esperienza religiosa dell’autore, incentrata sull’idea di «apertura» e in contrapposizione alle religioni istituzionalizzate, cristallizzate in una rigida dogmatica, strutturate in forme di potere.

Una decina di anni dopo la pubblicazione di Religione aperta, nel 1966, apparve un altro testo fondamentale riedito di recente, La compresenza dei morti e dei viventi (Libreria editrice fiorentina, 2022). L’idea di «compresenza», già affiorata in diversi scritti precedenti, trova la sua ultima e più compiuta elaborazione in queste pagine dense di pensiero, forse ardue sotto certi aspetti, di certo teoreticamente vertiginose, nelle quali Capitini prova a mostrare in tutte le sue articolazioni la propria prospettiva metafisico religiosa fondata sulla speranza nell’avvento di una realtà ultima, liberata dai vincoli della sofferenza e della morte.

Amico di Norberto Bobbio

Un cenno merita, infine, la pubblicazione dell’epistolario capitiniano, o meglio di una parte di esso. Anche questa è un’iniziativa che deve molto all’impegno di Mario Martini, che la promosse quando presiedeva il comitato scientifico della Fondazione Capitini e che venne accolta dall’editore Carocci, presso il quale, tra il 2007 e il 2012, apparvero sei volumi di carteggi, uno relativo alle lettere di ambito famigliare, gli altri intercorsi con alcune figure di rilievo pubblico: Walter Binni, Danilo Dolci, altro nome imprescindibile per la nonviolenza italiana del Novecento, Guido Calogero, Edmondo
Marcucci e Norberto Bobbio. Quest’ultimo, che si è confrontato a lungo con Capitini, ha sempre rivolto grande attenzione alla questione della pace e allo studio dei pacifismi, seppure con declinazioni teoriche differenti.

Lo stesso Bobbio, peraltro, dopo la scomparsa dell’amico, avvenuta nel 1968, gli ha dedicato due brevi saggi (composti in momenti diversi e ripubblicati assieme qualche anno fa dalle Edizioni dell’Asino in un opuscolo intitolato Il pensiero di Aldo Capitini) che rappresentano quanto di meglio sia stato scritto su di lui e che possono costituire un’altra porta d’accesso alle sue idee.

Massimiliano Fortuna




Mondi perduti


Non sono molti i film che raccontano il rapporto tra gli esseri umani e la natura mostrando i mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando. Ecco quattro titoli che portano in Bolivia, Perù, Bhutan, Giappone, e scuotono profondamente.

C’è un film che dice tutto. Forse «tutto» è esagerato, però dice tante cose, a chi le sa ascoltare. Parla del Sud del Mondo, della povertà, del cambiamento climatico, della progressiva urbanizzazione delle società, della perdita del contatto con gli altri esseri viventi.

Si intitola Utama. Le terre dimenticate. È un film di Alejandro Loayza Grisi, prodotto nel 2022 tra Bolivia, Uruguay e Francia.

La storia che racconta è semplice, perché, quando si parla di chi vive a contatto con la natura, le narrazioni si fanno semplici.

Virginio e Sisa sono due anziani quechua che vivono isolati sull’altipiano boliviano. La loro età avanza e, con essa, il cambiamento climatico che desertifica i pascoli già stentati di quelle altezze. La loro piccola mandria di lama non ha più cibo.

Virginio ogni giorno deve allontanarsi chilometri da casa per trovare poche radure erbose, e deve raccogliere acqua al villaggio, cosa mai successa prima.

Una malattia completa il quadro.

Nelle inquadrature spaziose, lente, non si legge la maestà della natura, ma l’inquietudine per un ambiente che è cambiato in modo irrimediabile e per il quale nessuno sembra preoccuparsi. Tant’è che il nipote di Virginio e Sisa non sa proporre ai nonni nulla di meglio che la scelta già fatta da suo padre: andare a vivere in città.

I due anziani non si rassegnano, ma, con la siccità, anche la mandria di lama perde valore: lo scopo di una vita si dissecca in un’istantanea arida e desolata.

Virginio e Sisa sono personaggi interpretati da due veri quechua: non sono attori. Un’operazione, questa di Loayza Grisi che ricorda il neorealismo italiano.

I loro sguardi, le carezze, l’affetto che si scambiano, sono reali, e questo è ancora più dilaniante: la vita che vediamo sullo schermo è davvero la loro.

«Utama», in lingua quechua, vuol dire «la nostra casa». Una casa che, per colpa di qualcuno tanto distante che non si sa neppure nominare, diventa inospitale.

Lunana alla fine del mondo

C’è un altro film che si dovrebbe guardare subito dopo Utama (anche per tirarsi un po’ su di morale): è Lunana: il villaggio alla fine del mondo, girato da Pawo Choyning Dorji in Bhutan nel 2019. Attenzione: se siete riusciti a resistere al fascino della Bolivia inaridita, non ce la farete con le vallate del Bhutan (un paese grande come un pisello schiacciato tra il materasso Cina e il pavimento India, in mezzo alla catena dell’Himalaya) e sognerete di andarci a vivere.

La trama del film è molto semplice: un maestro elementare viene inviato dal governo a insegnare in un villaggio letteralmente «alla fine del mondo». Tanto in fondo al mondo che la neve interrompe le comunicazioni per sei mesi l’anno e impone al giovane maestro una decisione: accettare l’incarico e restare, oppure tornare indietro prima che la neve lo blocchi.

Il villaggio è così povero che la scuola è una stanza vuota, non ha i vetri, la lavagna, i gessetti.

Per il maestro, inizialmente, la scelta da fare è chiara: tornare alla civiltà al più presto. Ma qualcosa, forse l’estrema gentilezza degli abitanti del villaggio, forse il fatto che loro per primi capiscono il disagio di un forestiero, lo convince a restare.

La trama del film è elementare, eppure la magia che emana è preziosa, imperdibile. Fa davvero venire voglia di andare a cercare quella valle sperduta per vivere più intensamente, perché, quando non hai più le protesi dei telefoni, televisori, social media, e tutti i surrogati di vita di cui ci dotiamo, la vita si fa più intensa, i rapporti più sinceri e intimi.

Altiplano

I film sui mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando, non sono molti, ma scuotono profondamente.

«Altiplano» di Peter Brosens e Jessica Woodworth, prodotto nel 2009, è uno di essi.

Decisamente più crudo dei precedenti, racconta l’ennesimo oltraggio alle terre e popolazioni ancestrali peruviane, avvelenate dai liquami di una miniera, simbolo per eccellenza dello sfruttamento umano della natura.

La popolazione subisce, si ribella, si vendica. Tutto molto triste. Ma drammaticamente vero.

«Altiplano» è un film difficile, non concede nulla di leggero. È un monito per tutti, per ricordarci sempre quanto l’essere umano sappia essere devastante.

Oltre la storia vediamo le spettacolari Ande, la loro impassibile maestà che sembra osservare le tristi vicende umane da un’altra dimensione.

Un invito ad andare oltre, con il pensiero e le azioni.

La ballata di Narayama

L’ultimo film che vogliamo proporvi sul rapporto tra gli esseri umani e la natura è La ballata di Narayama, una pellicola giapponese del 1983 di Shôhei Imamura, Palma d’oro a Cannes.

Orin è una donna settantenne che, prima di recarsi sul monte Narayama, come è tradizione, per lasciarsi morire, «mette a posto» la sua famiglia, procurando, con un ultimo sforzo, il necessario per la loro vita.

La sua vicenda è l’immagine di una diversa interpretazione della vita, la quale non si riduce, come per noi, ad accumulare anni e cose, ma è un darsi agli altri sapendosi ritirare quando è il tempo giusto.

Un film toccante, certamente non facile, ma che ci interroga profondamente sul senso che diamo al nostro vivere.

Dario Cambiano
Centro studi Sereno Regis