Angelelli e Gerardi


Il tempo delle giunte militari in America Latina ha visto fiorire molte esperienze di lotta nonviolenta per la giustizia. Tra queste, quelle del vescovo argentino Enrique Angelelli (1923-1976) e del vescovo guatemalteco Juan Gerardi (1922-1998), entrambi per una Chiesa dei poveri. Entrambi ammazzati dai regimi.

Anselmo Palini, insegnante e saggista di San Giovanni di Polaveno, Brescia, attivo sui temi dei diritti umani e della nonviolenza, ha pubblicato diverse biografie, quasi tutte per l’editore Ave, di testimoni del nostro tempo impegnati per la giustizia e la pace.

Tra questi, ci sono, oltre ai più noti Oscar Romero e Hélder Câmara, altri due vescovi latinoamericani, assassinati dalle giunte militari dei loro Paesi perché testimoni scomodi del Vangelo.

Sono l’argentino Enrique Angelelli (1923-1976) e il guatemalteco Juan Gerardi (1922-1998).

Enrique Angelelli

Enrique Ángel Angelelli Carletti, rettore del seminario di Cordoba, Argentina, e assistente della Joc (gioventù operaia cristiana) e della Juc (gioventù universitaria cristiana), diventa vescovo ausiliario della diocesi nel 1960 schierandosi subito a fianco di campesinos (contadini) e operai.

Durante il Concilio Vaticano II, che lo segna profondamente, è uno dei firmatari del «Patto delle

Catacombe» (16/11/’65), nel quale «i vescovi si impegnano a vivere in povertà, rinunciare ai simboli del potere, mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale, operare per la giustizia e per un nuovo ordine sociale».

Nel 1968, la seconda Conferenza dell’episcopato latinoamericano a Medellin, in Colombia, conferma questa direzione di impegno e, quando viene nominato vescovo di La Rioja, celebra la messa nel barrio Cordoba Sud, uno dei più poveri della città.

A causa delle sue denunce, le autorità proibiscono la trasmissione per radio della messa. Viene allora diffuso un documento nel quale si afferma: «È possibile far tacere una trasmissione radiofonica, ma non la Chiesa, perché la forza e la ragione stessa della sua esistenza sono radicati nella presenza misteriosa dello Spirito di Cristo, che è vivo in ciascun uomo di questa terra, bagnata dal sangue dei suoi figli, versato per difendere la propria dignità».

Nel 1973, durante la festa in onore di Sant’Antonio, nella parrocchia di Anillaco, Angelelli viene aggredito a sassate da sicari dei latifondisti. Il papa Paolo VI gli fa sentire il suo sostegno attraverso una visita del superiore dei Gesuiti, Pedro Arrupe, e di Jorge Mario Bergoglio.

Già prima dell’avvento della giunta militare, gli squadroni della morte della Tripla A (la neofascista Alleanza anticomunista argentina) uccidono preti e laici impegnati, finché, nel 1976, il golpe militare instaura la dittatura che durerà fino al 1983.

Dopo l’ennesimo assassinio di due preti, padre Gabriel Josè Rogelio Longueville e fratel Carlos de Dios Murias, nell’orazione funebre Angelelli invoca: «Mi rivolgo a coloro che hanno preparato, organizzato ed eseguito l’assassinio dei due sacerdoti: aprite gli occhi, fratelli, se vi chiamate cristiani! Rendetevi conto del sacrilegio e del crimine che avete commesso».

Nei giorni successivi raccoglie dai parrocchiani testimonianze e prove di quanto accaduto e prepara un rapporto da trasmettere alla Conferenza episcopale, per evitare che tutto sia insabbiato.

Il 4 agosto 1976, mentre ritorna a La Rioja accompagnato dal vicario episcopale, Arturo Pinto, la sua auto è affiancata da un’altra che la spinge fuori strada facendola ribaltare.

Nonostante i tentativi di farlo passare per un incidente stradale, la verità del crimine non potrà essere nascosta a lungo.

Dopo l’assassinio del vescovo Angelelli, la repressione in Argentina continua. Migliaia di persone sono arrestate e scompaiono, sono rinchiuse nelle caserme, torturate, gettate in mare con i voli della morte. I familiari non riescono ad avere notizie.

Il 30 aprile 1977 un gruppo di quattordici donne, le Madres de Plaza de Mayo, si presentano davanti alla Casa Rosada, il palazzo del Governo, in silenzio e con le foto di figli, mariti, fratelli scomparsi, per avere notizie.

Tutte le settimane, per anni, queste donne saranno lì, con la loro muta presenza, a denunciare l’orrore della dittatura, inaugurando una protesta nonviolenta che risuonerà in tutto il mondo.

Un colpo per la giunta golpista sarà il riconoscimento del Premio Nobel per la pace nel 1980 all’attivista nonviolento cattolico Adolfo Perez Esquivel, che è imprigionato per quattordici mesi e liberato nel 1978.

Dopo la fine della dittatura, nel 1985, il rapporto Nunca Mas, che ricorda anche l’assassinio del vescovo Angelelli, consentirà di avviare i processi contro i militari accusati di gravi violazioni dei diritti umani e porterà alla condanna all’ergastolo dei generali Videla, Massera e altri.

Il 27 aprile 2019 monsignor Enrique Angelelli viene beatificato da papa Francesco.


Juan Gerardi

Il testo di Palini su Juan José Gerardi Conedera riporta nel sottotitolo: «Nunca mas. Mai più».

Anche il Guatemala, infatti, come altri stati latinoamericani, ha vissuto sul proprio territorio la stagione delle dittature militari sostenute dagli Stati Uniti.

Richiamandosi alla dottrina Monroe del 1823 che affermava la supremazia degli Stati Uniti sul continente americano, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, la politica statunitense guarda all’America Latina come al «cortile di casa», da controllare contro il pericolo comunista rappresentato dalla rivoluzione cubana del 1959.

Anche in Guatemala si crea così una stretta alleanza tra gli interessi dell’oligarchia terriera latifondista e le multinazionali statunitensi come la United fruit company, per controllare le monocolture di caffè e banane contro le rivendicazioni contadine e la riforma agraria realizzata dall’unica esperienza democratica guatemalteca, tra il 1945 e il 1954, sotto i governi di Juan José Arevalo (1945-52) e Jacobo Arbenz Guzman (1952-54).

Durante questa breve parentesi viene varata una Costituzione democratica e creato un Codice del lavoro, nasce il Partito guatemalteco del lavoro e la riforma agraria aiuta 100mila famiglie contadine.

Nel 1954, però, un’invasione dall’Honduras guidata dal colonnello guatemalteco Carlos Alberto Castillo Armas, con un gruppo di mercenari e con il diretto aiuto della Cia per respingere il «pericolo rosso», costringe alle dimissioni il presidente Arbenz Guzman.

La giunta militare che si instaura elimina tutte le conquiste democratiche, ripristina il lavoro gratuito degli indigeni, incarcera tutti i sospetti di «comunismo», inaugura un nuovo periodo di repressione e di violazioni dei diritti umani, soprattutto nei confronti delle popolazioni native.

Se in un primo periodo la Chiesa guatemalteca sostiene la dittatura, in seguito, soprattutto dopo il Concilio e la citata Conferenza di Medellin, si diffonde l’«opzione preferenziale per i poveri», di cui Gerardi diventa uno degli esponenti più autorevoli.

Ordinato prete nel 1946, vive tutta l’esperienza del passaggio da una Chiesa schierata con le forze conservatrici a una Chiesa conciliare, attraverso il contatto con le popolazioni rurali, lavorando con le comunità dei popoli indigeni, promuovendo l’uso delle lingue locali nell’alfabetizzazione e nel movimento dei «delegati della parola». Perché, osserva Gerardi, il fatto che esistano culture distinte è una manifestazione della diversità in cui Dio si rivela e agisce all’interno di tutta la cultura umana.

È presidente della Conferenza episcopale del Guatemala dal 1972 al 1976, e poi dal 1980 al 1982. Nel 1976 è il primo firmatario di un documento nel quale i vescovi «denunciano le situazioni di violenza istituzionalizzata, caratterizzate da strutture sociali ingiuste, da emarginazione e miseria».

Per far fronte a tutto ciò, la Chiesa indica la necessità di una radicale riforma agraria, e imputa alle profonde disuguaglianze sociali l’estendersi della rivolta armata, che a sua volta determina l’inasprirsi della repressione. Dunque una spirale di violenza senza fine. Denuncia poi l’esistenza di gruppi paramilitari, l’uso sistematico della tortura, la violazione dei più elementari diritti umani.

Anche la radio diocesana denuncia le violenze e gli assassinii, come lo stesso Gerardi ricorderà: «In quel periodo eravamo vittime di una persecuzione continua. La radio della diocesi era stata accusata dall’esercito di fiancheggiare la guerriglia. Un giorno trovammo un cadavere davanti all’ingresso della radio, con un cartello sul quale era scritto “Padre Lans è morto. Così moriranno tutti gli altri della radio”».

In un anno, dal 1977 al 1978, sono assassinati 143 leader contadini, preti e catechisti.

Nel 1980, anno dell’assassinio in El Salvador di monsignor Oscar Romero, le forze di sicurezza del regime del generale Fernando Romeo Lucas Garcia compiono il massacro all’ambasciata di Spagna: 37 vittime tra contadini e studenti che ne hanno occupato i locali, compresi quattro diplomatici spagnoli.

Lì perde la vita anche il padre di Rigoberta Menchù, futura premio Nobel per la pace nel 1992.

La diocesi di Santa Cruz, guidata da Gerardi, da cui provenivano i contadini che avevano occupato l’ambasciata, emette un duro comunicato di condanna: «Da quattro anni il Quichè sopporta il peso di una violenza estrema, aggravato dall’occupazione militare della zona nord e da altre misure che, di fatto, colpiscono il popolo a beneficio di una minoranza. Come causa di fondo scopriamo uno schema di sviluppo economico, sociale e politico che non tiene conto degli interessi dei poveri e si appoggia alla Dottrina della sicurezza nazionale, che sottomette le persone a un regime di terrore. […] Per questa ragione facciamo nostra la denuncia dei contadini che sono morti per il popolo del Quichè, nell’ambasciata di Spagna».

Ma le uccisioni di dirigenti sindacali, preti, operatori pastorali continuano, compresa la madre di Rigoberta Menchù, rapita, torturata e lasciata agonizzante per giorni.

Sfuggito a un attentato, nello stesso anno Gerardi decide di chiudere la diocesi per mettere al riparo sacerdoti e catechisti, e si rifugia presso vari conventi, mentre molte famiglie contadine vanno in montagna, dove formano le Comunità di popolazione in resistenza (Cpr) «che sviluppano forme di convivenza e sistemi di lavoro collettivi e che, grazie alla perfetta conoscenza del territorio, sono in grado di difendersi dall’esercito».

Dopo un viaggio a Roma, a colloquio con papa Giovanni Paolo II, monsignor Gerardi, per sicurezza, non rientra in Guatemala (si scoprirà in seguito, infatti, che era è stato preparato un attentato contro di lui), e si rifugia in Costa Rica fino al 1982.

Nel 1981, una missione di Pax Christi internazionale, guidata da monsignor Luigi Bettazzi, visita Nicaragua, El Salvador, Honduras e Guatemala. Nel rapporto che ne segue si legge: «Sono gli interessi dell’economia occidentale a spingere i sedicenti Paesi liberi e democratici a tenere in piedi quei regimi dittatoriali che assicurano vendite di materie prime e scambi economici in termini vantaggiosi per i Paesi industrializzati che dominano il mondo. Che in questi Paesi del Centroamerica non esista la democrazia, che piccoli gruppi di famiglie straricche dominino e sfruttino la maggioranza della popolazione in miseria, questo non sembra avere molta importanza. Così l’assurda e spietata dittatura del Guatemala serve da punto di riferimento e di ritrovo degli interessi economici e militari di diversi Paesi dagli Stati Uniti a Israele».

Nel 1983, sia il Tribunale permanente dei popoli in seduta a Madrid, sia Amnesty international, condannano le gravissime violazioni dei diritti umani compiute dalla dittatura guatemalteca, in particolare dopo il colpo di stato di Efrain Rios Montt del 1982, che persegue l’annientamento delle comunità Maya, facendo terra bruciata intorno a loro e reclutando a forza i ragazzi per contrastare la guerriglia. Prima di essere deposto da un ennesimo colpo di stato nell’agosto 1983, i suoi diciassette mesi di governo sono tra i più sanguinari della storia del Guatemala.

Il mutato clima internazionale induce ad avviare un processo di transizione politica che consegni il potere ai civili: nel 1985 si svolgono elezioni generali che portano alla vittoria del democristiano Vinicio Cerezo Arévalo, ma il Paese è ancora dilaniato dalla guerra tra esercito e gruppi della guerriglia.

Il vescovo Gerardi, nel 1986 fa parte della Commissione nazionale di riconciliazione, frutto dei primi passi verso un processo di pace nel Paese.

Nel 1989 l’arcivescovo di Città del Guatemala, Prospero Penado del Barrio, gli affida il compito di creare un Ufficio per i diritti umani nella diocesi.

Nella veste di coordinatore di questo ufficio, negli anni parteciperà alla Commissione Onu per i diritti umani, con sede a Ginevra, denunciando l’impunità che regna nel suo Paese.

Dopo il Premio Nobel per la pace a Rigoberta Menchù nel 1992, anche Gerardi riceve diversi riconoscimenti internazionali.

Nel 1994 a Oslo viene sottoscritto un accordo tra il governo del Guatemala e la Unidad Revolucionaria nacional guatemalteca (Urng), che prevede l’istituzione di una Commissione di indagine sulle violenze perpetrate nel Paese. Gerardi propone di integrarla con il progetto Remhi (Recuperacion de la memoria historica), un lavoro da lui coordinato, che si concluderà con la pubblicazione di quattro volumi dal titolo Guatemala. Nunca mas, per documentare le uccisioni, le sparizioni, la repressione e le violazioni dei diritti umani tra il 1956 e il 1996.

L’arcivescovo Penado del Barrio, nella Presentazione del rapporto scrive: «Con questa guerra in cui si è torturato, si è assassinato e si sono fatte scomparire intere comunità, che sono rimaste terrorizzate e indifese in questo fuoco incrociato, in cui si è distrutta la natura, che nella cosmovisione indigena è sacra, la madre terra, è anche stata spazzata via, come un uragano impetuoso, la parte più viva dell’intellighenzia del Guatemala. Il Paese è rimasto improvvisamente orfano di cittadini autorevoli».

Nel 1995 Gerardi partecipa in Italia alla Marcia Perugia-Assisi.

Nel 1996 è firmato finalmente l’accordo di pace, e nel 1998 il rapporto Nunca mas è consegnato a Rigoberta Menchù.

Due giorni dopo la presentazione dei risultati del progetto Remhi, il vescovo Gerardi è assassinato nel suo garage.

Per il delitto saranno condannati il colonnello Byron Lima Estrada, suo figlio, il capitano Byron Lima Oliva, il soldato Obdulio Villanueva e il viceparroco Mario Orantes in qualità di complice, ma i mandanti, gli alti vertici militari e politici, rimarranno liberi.

Angela Dogliotti
Centro studi Sereno Regis


I LIBRI DI ANSELMO PALINI

  •  Hélder Câmara. «Il clamore dei poveri è la voce di Dio», Ave, Roma 2020, pp. 240, 14,00 €.
  •  Don Pierino Ferrari. «Vestito di terra, fasciato di cielo», Ave, Roma 2020, pp. 304, 14,00 €.
  •  Teresio Olivelli. Ribelle per amore, Ave, Roma 2018, pp. 318, 20,00 €.
  •  Oscar Romero. «Ho udito il grido del mio popolo». Ave, Roma 2018, pp. 290, 20,00 €.
  •  Una terra bagnata dal sangue. Oscar Romero e i martiri di El Salvador, Paoline, Milano 2017, pp. 224, 16,00 €.
  •  Marianella Garcìa Villas. «Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi», Ave, Roma 2014, pp. 272, 12,00 €.

Primo Mazzolari. Un uomo libero, Ave, Roma 2009, pp. 304, 16,00 €.




L’ecologia profonda


Il filosofo e alpinista norvegese Arne Dekke Eide Næss è il padre della riflessione ecologista del Novecento. Ha contribuito a comprendere che «tutto è collegato» e che ciascuno, con il proprio stile di vita, può affrontare la crisi ecologica e, allo stesso tempo, vivere meglio.

«Introduzione all’ecologia» è un’antologia di scritti del noto filosofo (e alpinista) norvegese Arne Dekke Eide Næss (Oslo, 1912-2009).

«Arne Næss – si legge sul sito delle edizioni Ets – è stato il fondatore del movimento dell’ecologia profonda e il padre della filosofia dell’ecologia, ed è riconosciuto come il più importante filosofo norvegese. […] Personaggio eccentrico e geniale, ha alternato la sua attività accademica all’alpinismo (ha guidato la prima ascensione al Tirich Mir, 7708 metri slm in Pakistan) e alla passione per il pianoforte. Già membro del Circolo di Vienna, ha approfondito diversi ambiti filosofici, dall’epistemologia, alla psicologia, all’etica, alla metafisica, alla filosofia del linguaggio, sviluppando un’originale filosofia della vita («ecosofia T») ispirata ad un tempo alla tradizione occidentale (Spinoza, in particolare) e orientale (Gandhi e il buddismo)».

La visione di Næss s’identifica con l’ontologia della Gestalt, per la quale «tutto è collegato» (traduzione dell’inglese «everything hangs together»), «tutto dipende da tutto»: il primo principio dell’ecologia.

Næss invita il lettore a considerare le connessioni tra il pensiero del filosofo olandese del XVII secolo, Baruch Spinoza, e quello ecologico. Lo fa per 36 pagine fitte fitte, dalla 127 alla 163.

Ci aiutano un utile Indice analitico, l’Elenco delle fonti e una specie di condensato dei fondamenti dell’ecologia profonda proposto in otto punti a pagina 46 nel capitolo intitolato I fondamenti del movimento dell’ecologia profonda.

  1. Version 1.0.0

    La prosperità della vita umana e non umana sulla Terra ha un valore intrinseco. Il valore delle forme di vita non umana è indipendente dall’utilità del mondo non umano.

  2. La ricchezza e la diversità delle forme di vita sono anch’esse valori in se stessi.
  3. Gli uomini non hanno il diritto di ridurre tale ricchezza e diversità, tranne che per soddisfare i loro bisogni reali.
  4. L’attuale interferenza umana nei confronti del mondo non-umano è eccessiva.
  5. Le politiche devono essere modificate.
  6. La situazione risultante sarà profondamente differente da quella odierna e renderà possibile un’esperienza più gioiosa della connessione di tutte le cose.
  7. Il cambiamento ideologico è principalmente quello di apprezzare la qualità della vita piuttosto che cercare un tenore di vita sempre più alto.
  8. Ci sarà una consapevolezza profonda della differenza tra il grande e l’intenso.

L’uomo Arne

Il filosofo è ben raccontato nella sua dimensione umana in un’intervista del 10 febbraio 2015 a Kit-Fai Næss, la sua terza moglie.

Sull’amore di Arne Næss per la montagna e per la musica: «Era un grande pianista», dice la moglie, e quando dovette scegliere se proseguire con la musica o con la filosofia, da giovane esclamò: «Non posso portare ovunque il pianoforte. Mentre, se faccio il filosofo, posso continuare a fare alpinismo».

Per quanto riguarda il futuro dell’ecologia, Arne ricordava spesso che ci sono tre tematiche da approfondire, che fanno capo a tre grandi movimenti: il movimento della giustizia sociale, il movimento dell’ecologia profonda e il movimento pacifista.

In riferimento all’ecologia profonda, per Arne è necessario modificare i nostri comportamenti, per poter cambiare il mondo. Una volta modificati, sarà più facile – quasi naturale – cambiare anche stile di vita. L’ecologia profonda si rivolge più a noi e a come viviamo che ai mezzi tecnologici che usiamo.

In merito alla crisi ecologica, Arne Næss, in alcuni suoi scritti, sembra essere alquanto pessimista sulle possibilità umane di affrontarla e risolverla. Sicuramente, però, per lui l’umanità non è il cancro del pianeta. Probabilmente la sua idea di uomo si avvicina a quella di Aldo Leopold per il quale siamo destinati a essere i custodi della Terra.

Di fondo, però, il filosofo era una persona generalmente molto ottimista: sosteneva che nel XXII secolo l’uomo avrebbe cambiato i propri comportamenti.

Tuttavia, per ora, le cose vanno male, e devono andare male, affinché l’umanità possa modificare il suo modo di vivere.

Essere positivi

L’invito di Næss all’ottimismo emerge anche dalle parole dell’amico Alan Drengson, la cui intervista del 2015 si trova in appendice dopo quella già citata alla moglie. Dal momento che il filosofo norvegese si esprimeva spesso tramite slogan, l’intervistatore domanda all’amico come sintetizzare in una frase, in una sorta di «messaggio in bottiglia», l’eredità filosofica e culturale di Næss.

«Sii positivo in ogni circostanza – è la risposta -; riconosci la tua innata capacità creativa, quella dei tuoi amici e di ogni altra persona, in tutti gli esseri viventi e nella natura. Ama il contatto con la natura e con le sue forme di vita: dedicale del tempo. Allontana ogni mezzo tecnologico e riposati nella natura. Rispetta ogni persona e ogni essere vivente che incontri sul tuo cammino».

Cinzia Picchioni


Piccola bibliografia

Bruno Bignami, Terra, aria, acqua e fuoco. Riscrivere l’etica ecologica, EDB, Edizioni Dehoniane Bologna 2012, pp. 214, 20,50 €.

Franco Nasi e Luca Valera (a cura di), Arne Næss, Quodlibet, Macerata 2023, pp. 376, 24 €.

Fritjof Capra et al., La cura della casa comune, Fondazione italiana di bioarchitettura (a cura di), Libreria editrice Fiorentina, Firenze 2020, pp. 258, 18 €.

Leo Hickman, La vita ridotta all’osso. Un anno senza sprechi: le disavventure di un consumatore coscienzioso, Ponte alle Grazie, Milano 2007, pp. 268, 12 €.

Bill Devall e George Sessions, Ecologia profonda. Vivere come se la natura fosse importante, Nanni Salio (a cura di), Castelvecchi, Roma 2022, pp. 354, 20 €.

Gary Snyder, La grana delle cose, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987, pp. 270.

Mathis Wackernagel e Bert Beyers, Impronta ecologica. Usare la biocapacità del pianeta senza distruggerla, Edizioni Ambiente, Milano 2020, pp. 312, 20 €.

 




Noi e Voi, dialogo lettori – missionari


Sererit, grazie a padre Aldo

padre Aldo Giuliani

Caro padre Aldo (Giuliani),
vorrei esprimere il mio sincero apprezzamento per il tuo servizio a noi, la comunità Sererit della sotto contea di Samburu Nord. Tu ci hai dato uno dei servizi regolari più affidabili. Da quando la Chiesa cattolica ha inaugurato Sererit nel 1999 nell’area dello Ndoto (sulle Ndoto Mountains – le Montagne del sogno, ndr), sotto la tua guida come parroco, ha offerto servizi di altissima qualità e anche di sostegno umanitario alla comunità di Sererit e dello Ndoto in generale.

Scrivo per esprimere la mia sincera gratitudine per il grande impegno, la devozione e la leadership che hai dimostrato per le nostre comunità attraverso la tua guida spirituale e i tuoi insegnamenti. Hai condiviso la parola di Dio con i membri della nostra comunità. Grazie per la tua umiltà, integrità e dedizione che hanno creato un ambiente amorevole e costruttivo per tutti, specialmente per i giovani.

Io e il governo della contea Samburu abbiamo riconosciuto con apprezzamento la cura, l’amore e il sostegno offerti ogni giorno dalla parrocchia cattolica di Sererit attraverso i servizi di assistenza sanitaria nel dispensario grazie alla tua iniziativa personale. Riconosciamo i programmi sanitari della chiesa, compresi il trasporto gratuito di malati fino all’ospedale di livello quattro della sotto contea di Baragoi (da due a tre ore di macchina su una pista tra le montagne, ndr) e le cliniche gratuite per la salute delle madri e dei neonati.

L’istruzione è davvero uno degli strumenti più potenti per ridurre la povertà e la disuguaglianza nelle nostre società. L’istruzione allevia ulteriormente la povertà in quanto produce manodopera qualificata e crea un atteggiamento giusto per il lavoro e lo sviluppo.

In qualità di rappresentante della popolazione dell’area dello Ndoto, sono grato per gli investimenti che hai fatto nelle infrastrutture educative, tra cui l’illuminazione della scuola di Sererit e due dormitori per la scuola primaria, le due aule per la scuola secondaria di Lekeri, le due scuole materne per le comunità di Sererit e Lekeri. Apprezzo sinceramente anche il trasporto degli studenti delle scuole superiori da e per Baragoi durante l’apertura e la chiusura della scuola. Le borse di studio a oltre 200 studenti che studiano in vari college e università (a Nairobi o altri centi, ndr) sono riconosciute e molto apprezzate.

Normalmente si dice che «l’acqua è vita». Sono grato ai progetti idrici che hai avviato nello Ndoto. Questi progetti hanno migliorato gli standard di vita delle comunità locali promuovendo la buona salute e l’approvvigionamento di acqua potabile a distanza ravvicinata, (con grandi vantaggi) soprattutto per le donne e i bambini che vanno a scuola. Grazie per i progetti di approvvigionamento idrico a Maragi, Lkitagesi, Naisunyru e Sererit.

Panorama della missione di Sererit (p Aldo Giuliani)

Durante le gravi siccità, sei venuto in aiuto delle comunità dello Ndoto per restituire la dignità umana a coloro che soffrivano. Apprezziamo il cibo che hai fornito attraverso il sostegno della parrocchia. Hai anche facilitato i beneficiari del programma governativo nazionale «Inua Jamii» («solleva i vicini», ndr) che si sono trovati ad affrontare sfide per raggiungere (con sei e più ore di viaggio, ndr) la Kenya commercial bank (Kcb) a Maralal. Grazie infinite, reverendo padre Giuliani.

Esprimo anche gratitudine per aver impiegato una decina di persone per il lavoro della parrocchia. Questo ha migliorato direttamente lo status economico delle loro famiglie e indirettamente quello dei loro parenti. Apprezziamo anche la manutenzione delle strade (che hai fatto) con l’impiego di manodopera locale.

Guardando in avanti prometto la mia continua collaborazione e quella di sua eccellenza, il governatore della contea di Samburu, S.E. Lati Lelelit, in progetti di sviluppo per migliorare i mezzi di sussistenza delle persone.

Mi impegno a sostenere la parrocchia di Sererit nelle sfide che deve affrontare, in particolare nel settore sanitario. La nostra collaborazione avrà l’obiettivo di valorizzare i progetti di approvvigionamento idrico. Nel bilancio finanziario 2024/2025, il progetto di manutenzione Loikumkum è stato approvato, ci consulteremo e ci appoggeremo sulla vostra competenza tecnica durante l’attuazione di questo progetto.

Ancora una volta, grazie mille per la tua assistenza. Apprezzo molto la tua presenza e l’aiuto dato alle comunità dello Ndoto.

Onorevole Ali Lealmusia
Contea Samburu, Kenya, 19/06/2024

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Distribuzione cibo ai bambini

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Festa e benedizione del campo sportivo

La missione sui Monti dei sogni

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Sconosciuto

Un libro avvincente che racconta storie di vita. Un affresco corale dove trovano posto le vicende dell’esistenza umana in relazione all’amore e al valore della vita. L’amore per Dio e per il mondo come quello della quotidianità vissuta nella missione di suore in Perù, che accoglie minori abbandonati. L’amore per la vita dei protagonisti Marta e Joaquin, due giovani alla ricerca di se stessi che si incontrano in un viaggio al Machu Picchu, senza sapere di dover poi condividere la medesima sorte inaspettata e vertiginosa.

Sono molti i personaggi e le storie che si intrecciano nel racconto, da Marta e Joaquin con le loro famiglie, a Bianca e Greta, le giovani ospiti della missione di suore in Perù. Sullo sfondo le due città europee di Milano e Madrid da dove vengono i protagonisti, entrambi poco più che ventenni, alle prese con la voglia di vivere e la sofferenza per quella figura paterna evanescente presentata loro dalle rispettive madri. Due i mondi a confronto: quello della moderna civiltà occidentale e quello tradizionale delle popolazioni indigene dell’America Latina.

Nel romanzo l’autrice riesce a cogliere e raccontare bene l’essenza delle istanze che appartengono ad ogni vita umana: l’importanza dell’elaborazione identitaria per la persona, la necessità di conoscere il volto della mamma e del papà che colmano naturalmente il desiderio di sentirsi amati e parte della famiglia umana. Di contro, l’avanzare veloce della società contemporanea che minaccia il senso identitario delle persone lasciandole in balia di un’odiosa sensazione di vuoto e disperazione che disorienta. Si smarriscono così il senso della misura e l’amore per la vita che educa ad accettare anche la sofferenza.

Luisa Rota

Se il racconto è di fantasia, non lo sono però le problematiche sollevate che penetrano nella solitudine e negli interrogativi che potrebbero sorgere in futuro tra i figli nati da fecondazione eterologa. Tema questo più che mai attuale ma volutamente ignorato o trattato con superficialità. […]

Con questo libro, che per ragioni personali è rimasto a lungo nel cassetto, ho voluto sollecitare alcune riflessioni. […] È difficile sviscerare motivazioni che hanno a che fare con sensibilità differenti, soprattutto quando il contesto va in una certa direzione, seguendo leggi ormai presenti in molti Stati europei e non. Ma c’è dell’altro che potrebbe succedere con queste tecniche di fecondazione, di cui non si parla e che solo un romanzo può mettere in evidenza, trattandosi ancora di una rarissima probabilità. A voi lettori scoprire di che cosa si tratta. Buona lettura.

Faccio notare che validi consulenti per la traccia logistica del libro sono stati diversi articoli della rivista «Missioni Consolata».

Silvana Ferrario
27/06/2024

Silvana Ferrario, Sconosciuto, edizioni Marna, Ponteranica (Bg) 2022, pp. 288, € 16.




Il tempo delle non cose


Uno stile semplice e diretto. Libri sottili ma corposi. Il filosofo Byung-Chul Han, docente a Berlino, accende la luce sui malesseri tipici della vita contemporanea. In particolare, sul senso di irrealtà legato all’uso di computer, smartphone, intelligenza artificiale. E prova a suggerire possibili antidoti.

Byung-Chul Han, nato a Seul nel 1959, attualmente vive e insegna filosofia e cultural studies all’Universià di Berlino. Analizza da anni le conseguenze politiche e psicosociali del modello economico neoliberista nelle società occidentali e soprattutto l’influenza del digitale nelle nostre vite, sempre più dipendenti dalle tecnologie.

Nel suo Le non cose, edito da Einaudi, ci offre una lucida riflessione sulla società che stiamo costruendo. Lo fa tramite uno stile semplice e diretto, efficace nell’accendere una nuova luce sulla realtà che ci sta intorno.

Il testo offre una lettura immersiva del mondo attuale, e ha il dono di sorprenderci ricomponendo i diversi sensi delle cose che ci accadono.

Non è una critica, ma una lettura e interpretazione di quel senso di estraneazione che ci prende mentre compiamo i nostri atti quotidiani circondati da strumenti come smartphone e computer, nostri compagni di vita.

Scrive Han: «L’ordine terreno, l’ordine planetario, è costituito da cose che assumono una forma durevole e creano un ambiente stabile, abitabile. […] Oggi all’ordine terreno subentra l’ordine digitale. L’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo». Non sono più gli oggetti ad arredare il mondo, ma le informazioni. Non è più la mano che costruisce oggetti a fondare l’essere in senso heideggeriano, ma l’informazione.

La sintesi di questa nuova ontologia diventa lo smartphone. Esso ci fornisce l’illusione di avere il mondo a portata di mano. Nella comunicazione digitale l’altro è sempre meno presente, preferiamo, infatti, mandare un messaggio piuttosto che chiamare per non esporci al dialogo. È così che ci ritiriamo in una bolla narcisistica, facendo scomparire di fatto l’empatia, le relazioni, e finendo per sentirci soli. E in questo vuoto nasce la depressione come sintomo di mancanza di nutrimento che solo il sentirsi all’interno di una comunità può guarire.

Quando Han affronta il tema dell’intelligenza artificiale, la definisce «senza cuore», perché mette insieme dati già esistenti, senza far apparire nuovi scenari di senso. Calcola ma non crea nulla di nuovo, si limita a scegliere tra opzioni già esistenti.

Anche la memoria del computer è senza cuore. È «additiva», mentre la nostra memoria è «narrativa». Questo è uno dei nodi interessanti del libro: la differenza tra dato e ricordo. I dati memorizzati dal computer sono messi in fila e conservati così come sono stati inseriti, senza essere elaborati. Il ricordo invece è evocativo, possiede una profondità che risuona nell’interiore e riorganizza gli eventi spesso con significati nuovi.

Byung-Chul Han ci offre anche una via di uscita da questa irrealtà: il silenzio.

Solo nel silenzio si riesce a ritrovare il contatto con la parte più profonda del nostro essere. Nel silenzio si sta in ascolto, si è in relazione con il tutto che ci circonda, si avverte la profondità che è verticale tanto in alto quanto in basso. Nel silenzio si esercita quello sguardo contemplativo dotato di pazienza per il lungo e il lento che diventa preghiera. E come afferma a pag. 105: «È il silenzio a salvare» la nostra vita.

Dello stesso autore

Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, Einaudi, 2023.

Il filosofo si domanda quali sono gli effetti della digitalizzazione sulla democrazia, rispondendo che ci troviamo in una fase di passaggio a un regime totalitario basato sui «dati» e su nuove figure come gli influencer.

Iperculturalità. Cultura e globalizzazione, Nottetempo, 2023.

In questo testo Han ragiona sulla smaterializzazione degli spazi e dei confini della cultura grazie alla globalizzazione degli ultimi decenni. Se prima la cultura di ciascuno era un elemento di costruzione della sua identità, ora tutte le culture appaiono importanti. Ma forse questo significa che non ci si sente davvero a casa in nessun luogo.

Elogio della Terra. Un viaggio in giardino, Nottetempo, 2022.

Han incentra questo libro sulla cura del suo giardino a Berlino, attraverso cui ha riscoperto la felicità legata ai ritmi della natura. Mentre il mondo digitale allontana dalle esperienze sensoriali, estranea da dolore e corporeità, il ritorno alla terra aiuta a ritrovare una spiritualità nella quale i colori, i suoni, la relazione con gli insetti, restituiscono all’uomo la sua vera appartenenza.

La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, 2022.

Han sottolinea come la nostra società sia caratterizzata dalla paura del dolore e della morte e imponga di essere sempre positivi, in salute e felici. Le persone cercano, allora, forme di anestesia simbolica e concreta per liberarsi da ciò che le rende sofferenti e mortali: una rimozione sociale della morte e del dolore.

Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, 2016.

Han analizza le nuove forme di potere che inchiodano l’individuo: non siamo più di fronte a un potere coercitivo e punitivo, ma a soggetti che si sfruttano da soli per diventare «imprenditori di se stessi». Alla conquista di sempre nuove competenze e motivazioni per raggiungere il successo, senza orari di lavoro né diritti, ossessionati dalla continua ricerca di superare i propri limiti.

Rita Vittori

 




Con la resistenza civile


Dentro un conflitto cruento o contro un regime oppressivo, cosa funziona di più? La resistenza armata o quella civile? Al di là delle valutazioni morali, studiare quali azioni sono più efficaci e catalogarle e raccontarle, come ha fatto l’autrice del libro di questo mese, può offrire una risposta semplice e logica.

«La nonviolenza è una bella idea, però funziona solo in alcuni casi. Se tutti fossimo nonviolenti, il mondo sarebbe più giusto e pacifico, ma non è così, e sin tanto che esisteranno aggressori, prepotenti, tiranni, dovremo attrezzarci per combatterli con le loro stesse armi».

«In una democrazia, la resistenza civile è da preferire, ma nelle autocrazie, dove il popolo viene represso da un governo dispotico, non raggiunge risultati».

«Di fronte a un’aggressione come quella della Russia nei confronti dell’Ucraina, l’unica resistenza possibile è quella armata».

Quante volte abbiamo sentito ripetere questa narrazione, anche da parte di chi non guarda alla nonviolenza con sospetto e rifiuto preconcetto. E quante volte i pacifisti si sono trovati in difficoltà nel rispondere, opponendo petizioni di principio più che fatti?

Il libro di Erica Chenoweth nasce proprio per contestare queste obiezioni con i fatti della storia.

È interessante che la stessa autrice nella prefazione confessa che inizialmente era molto critica sulle possibilità della resistenza nonviolenta.

Nel 2006, con Maria Stephan, iniziò studi sui movimenti sociali contemporanei, catalogandoli tra «prevalentemente violenti» e «nonviolenti», al fine di valutarne, in modo sistematico ed empirico, i tassi di successo.

Ne è venuto fuori un database, aggiornato di anno in anno, formato da 623 casi storici, il cui elenco si trova in appendice al libro. Esso dimostra che le rivolte nonviolente hanno avuto successo nel 50% dei casi, contro un 25% delle rivolte armate.

Il database è disponibile online al sito del progetto Navco (Nonviolent and violent campaigns and outcomes).

Azioni, lotte, movimenti

Da quegli studi nasce il libro Come risolvere i conflitti.

L’edizione americana è del 2021 e ha un titolo diverso, a mio parere più incisivo: Civil resistance: what everyone needs to know (La resistenza civile. Ciò che ognuno dovrebbe conoscere).

È questo, resistenza civile, il nome che Erica Chenoweth dà a quel complesso di azioni, lotte, movimenti che altri chiamano lotta nonviolenta, che Gandhi chiamava Satyagraha, forza della verità. E mette subito in chiaro che si tratta di un metodo di lotta contro il potere costituito, giacché in un mondo e in situazioni ingiuste, i conflitti vanno innanzitutto suscitati, e solo dopo risolti, mentre il nemico peggiore è l’assuefazione a quella che Johan Galtung chiama «violenza strutturale».

La nonviolenza funziona?

Il libro è organizzato in domande, che costituiscono i titoli dei paragrafi, questi a loro volta raggruppati in cinque capitoli: le basi, come funziona la resistenza civile, la violenza interna, la violenza contro il movimento, il futuro della resistenza civile.

La domanda principale che sottende tutto il volume è: la resistenza civile funziona per ottenere giustizia e difendere i diritti umani? In quali circostanze?

Il metodo di lavoro usato astrae dall’ideologia e dalla concezione morale per concentrarsi prevalentemente sul tema dell’efficacia della lotta, cosa non sempre gradita ai nonviolenti, soprattutto qui da noi. È l’approccio di Gene Sharp (1928-2018), filosofo e politologo americano, definito il «Macchiavelli della nonviolenza», che si cimentò sin dagli anni Settanta (Politica dell’azione nonviolenta, 3 volumi pubblicati da Edizioni Gruppo Abele) a dimostrare che il metodo nonviolento era più efficace della lotta armata. Fu fondatore, nel 1983, dell’Albert Einstein institute per «lo studio e l’utilizzo della nonviolenza nei conflitti di tutto il mondo». La Chenoweth si definisce una sua allieva.

I successi di un metodo

Corsi di formazione, libretti sulle metodologie, contatti con attivisti di tutto il mondo, servirono a spronare diverse campagne nonviolente, anzi, vere e proprie rivoluzioni, molte delle quali ottennero significativi successi.

Ricordiamo la lunga lotta nonviolenta del popolo polacco che fu all’origine del tracollo dell’impero sovietico, a cui seguirono la rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia, la lotta per la democrazia in Germania Est, ma pure il caso delle Filippine con la caduta del dittatore Marcos nel 1986.

Grazie a questi successi il metodo della resistenza civile ebbe ulteriore diffusione, in particolare con la stagione delle «rivoluzioni colorate» degli anni Novanta e Duemila nei paesi ex comunisti dell’Est Europa, contro la corruzione e per la democrazia. E qui molti ci vedono l’intervento del dipartimento di Stato Usa.

Ci sono tuttora discussioni tra gli attivisti e gli studiosi su questo approccio: se la nonviolenza è «solo una metodologia», può essere usata per fini buoni o cattivi, da socialisti o democratici, da fautori dell’ordoliberismo, da progressisti o reazionari.

Anche questo è un tema dibattuto dalla Chenoweth, titolo di uno dei cento paragrafi.

Fatti e conclusioni

Tornando al libro, esso si basa su uno studio statistico: l’autrice, per rispondere alle domande, osserva come le varie resistenze civili hanno lavorato. Sia quelle che hanno avuto successo, sia le altre. Dunque, le risposte non sono mai teoriche, o ideologiche, ma sempre basate sui fatti.

Si viene dunque a conoscenza di un gran numero di lotte nonviolente, della loro evoluzione, delle problematiche affrontate. Come uno scienziato, l’autrice cerca di estrarre da esse delle leggi generali, ma sempre con l’avvertenza «salvo smentite», e con l’invito a continuare lo studio.

Alcune conclusioni generali vengono indicate alla fine del volume, e qui le riassumo.

  • Fare resistenza civile significa ribellarsi al potere costituito attraverso metodi più inclusivi della violenza.
  • La resistenza civile non si limita a «toccare il cuore» dell’avversario, è lotta, e vince quando riesce a generare defezioni nel suo potere.
  • Non si esaurisce nelle manifestazioni e nelle marce, include metodi di non cooperazione, costruzione di poteri alternativi, coinvolgendo una vasta parte di popolo e costruendo alleanze.
  • Negli ultimi cento anni, la resistenza civile si è dimostrata più efficace della lotta armata.
  • Non sempre ha successo ma funziona molto meglio di quanto i suoi detrattori non affermino e, soprattutto, anche quando perde, è decisamente meno letale.

Un insegnamento molto utile oggi, mentre è in atto una corsa generalizzata alla guerra vista come unica soluzione contro autocrati e dittatori.

La domanda «ma agli ucraini servirebbe la nonviolenza?», non la troverete in questo libro, chiuso in stampa nel 2021.

Possiamo solo dire che non siamo in grado di capire se la nonviolenza sarebbe stata efficace o meno, essendo una possibilità scartata fin dal principio, e che, di certo, vediamo cosa sta facendo la guerra oggi.

Paolo Candelari

Centro studi Sereno Regis




La via di Capitini


La via di Capitini

È il filosofo che ha portato la teoria e la prassi della nonviolenza gandhiana in Italia. È stato, tra le altre cose, fondatore del Movimento nonviolento e ideatore della marcia Perugia-Assisi. Una serie di volumi ne ripropongono il pensiero.

Aldo Capitini (Perugia 1899 – 1968) è il grande maestro della nonviolenza del Novecento italiano. È suo il contributo determinante per l’introduzione nel nostro paese del pensiero e della prassi nonviolenta secondo la lezione gandhiana.

La sua figura, rimasta marginale per decenni nella cultura italiana, nell’ultimo trentennio ha conosciuto un rinnovato interesse da parte di un certo numero di studiosi.

Tra questi, Mario Martini occupa un posto di indiscussa centralità. Egli, infatti, allo studio del pensiero di Capitini ha affiancato una vasta attività divulgativa tesa, da un lato, a farlo conoscere tramite incontri pubblici e, dall’altro, a promuovere nuove edizioni dei suoi scritti.

Forse proprio per questa ragione, Martini non ha mai dedicato al fondatore del Movimento nonviolento italiano una monografia sistematica: la sua scelta è sempre stata quella di «far parlare lo stesso Capitini».

Anche il libro a sua firma uscito quest’anno per le edizioni Aras, L’altra via di Aldo Capitini, non è propriamente un saggio. Esso raccoglie diversi testi, tra cui alcuni inediti, scritti da Martini nel corso degli ultimi trent’anni come introduzioni a nuove pubblicazioni dei libri del filosofo perugino, studi in lavori collettanei, articoli, ecc.

Avere riunito in un volume unico tutti questi interventi rappresenta davvero una buona notizia.

Nel libro tutti i principali temi capitiniani sono toccati e sono oggetto di indagine critica. In particolar modo, si analizzano gli aspetti filosofici e religiosi della visione del mondo di Capitini, il quale, nella luce della stella polare della nonviolenza, intreccia in modo stimolante e originale teoria e pratica, metafisica e pedagogia, politica e religione, dimensione sociale e prospettive escatologiche, disobbedienza civile e spirito profetico.

Le ragioni della nonviolenza

Per chi intendesse accostarsi direttamente alle pagine di Aldo Capitini, il punto di partenza potrebbe essere un’antologia curata dallo stesso Mario Martini, Le ragioni della nonviolenza (Ets, 2016). Il volume si propone di presentare le principali nervature della riflessione capitiniana sulla nonviolenza, tenendo però costantemente presente che per l’autore il momento della riflessione non può essere disgiunto da quello dell’azione.

Il filo rosso del libro è dunque un quadro nel quale le «premesse teoriche», già ben riconoscibili nel primo scritto del 1937, Elementi di un’esperienza religiosa, si saldano al concreto «impegno nonviolento», il cui vertice simbolico può ritenersi la Marcia della pace Perugia-Assisi che Capitini ideò e che si svolse per la prima volta il 24 settembre 1961.

Religione aperta

Va ricordato che negli ultimi anni sono state ripubblicate due opere di Capitini che possono essere considerate delle vere e proprie summae del suo pensiero e rappresentano testi ideali dai quali partire per uno studio approfondito di questo autore.

Nel 2011 Laterza, che di Capitini fu il primo editore, ha riproposto Religione aperta, pubblicazione affidata anche in questo caso alle cure di Mario Martini.

Il libro, che uscì nel 1955 e da lì a poco venne incluso nell’Indice dei libri proibiti (soppresso nel 1966), affronta in modo organico i vari aspetti che caratterizzano l’esperienza religiosa dell’autore, incentrata sull’idea di «apertura» e in contrapposizione alle religioni istituzionalizzate, cristallizzate in una rigida dogmatica, strutturate in forme di potere.

Una decina di anni dopo la pubblicazione di Religione aperta, nel 1966, apparve un altro testo fondamentale riedito di recente, La compresenza dei morti e dei viventi (Libreria editrice fiorentina, 2022). L’idea di «compresenza», già affiorata in diversi scritti precedenti, trova la sua ultima e più compiuta elaborazione in queste pagine dense di pensiero, forse ardue sotto certi aspetti, di certo teoreticamente vertiginose, nelle quali Capitini prova a mostrare in tutte le sue articolazioni la propria prospettiva metafisico religiosa fondata sulla speranza nell’avvento di una realtà ultima, liberata dai vincoli della sofferenza e della morte.

Amico di Norberto Bobbio

Un cenno merita, infine, la pubblicazione dell’epistolario capitiniano, o meglio di una parte di esso. Anche questa è un’iniziativa che deve molto all’impegno di Mario Martini, che la promosse quando presiedeva il comitato scientifico della Fondazione Capitini e che venne accolta dall’editore Carocci, presso il quale, tra il 2007 e il 2012, apparvero sei volumi di carteggi, uno relativo alle lettere di ambito famigliare, gli altri intercorsi con alcune figure di rilievo pubblico: Walter Binni, Danilo Dolci, altro nome imprescindibile per la nonviolenza italiana del Novecento, Guido Calogero, Edmondo
Marcucci e Norberto Bobbio. Quest’ultimo, che si è confrontato a lungo con Capitini, ha sempre rivolto grande attenzione alla questione della pace e allo studio dei pacifismi, seppure con declinazioni teoriche differenti.

Lo stesso Bobbio, peraltro, dopo la scomparsa dell’amico, avvenuta nel 1968, gli ha dedicato due brevi saggi (composti in momenti diversi e ripubblicati assieme qualche anno fa dalle Edizioni dell’Asino in un opuscolo intitolato Il pensiero di Aldo Capitini) che rappresentano quanto di meglio sia stato scritto su di lui e che possono costituire un’altra porta d’accesso alle sue idee.

Massimiliano Fortuna




Mondi perduti


Non sono molti i film che raccontano il rapporto tra gli esseri umani e la natura mostrando i mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando. Ecco quattro titoli che portano in Bolivia, Perù, Bhutan, Giappone, e scuotono profondamente.

C’è un film che dice tutto. Forse «tutto» è esagerato, però dice tante cose, a chi le sa ascoltare. Parla del Sud del Mondo, della povertà, del cambiamento climatico, della progressiva urbanizzazione delle società, della perdita del contatto con gli altri esseri viventi.

Si intitola Utama. Le terre dimenticate. È un film di Alejandro Loayza Grisi, prodotto nel 2022 tra Bolivia, Uruguay e Francia.

La storia che racconta è semplice, perché, quando si parla di chi vive a contatto con la natura, le narrazioni si fanno semplici.

Virginio e Sisa sono due anziani quechua che vivono isolati sull’altipiano boliviano. La loro età avanza e, con essa, il cambiamento climatico che desertifica i pascoli già stentati di quelle altezze. La loro piccola mandria di lama non ha più cibo.

Virginio ogni giorno deve allontanarsi chilometri da casa per trovare poche radure erbose, e deve raccogliere acqua al villaggio, cosa mai successa prima.

Una malattia completa il quadro.

Nelle inquadrature spaziose, lente, non si legge la maestà della natura, ma l’inquietudine per un ambiente che è cambiato in modo irrimediabile e per il quale nessuno sembra preoccuparsi. Tant’è che il nipote di Virginio e Sisa non sa proporre ai nonni nulla di meglio che la scelta già fatta da suo padre: andare a vivere in città.

I due anziani non si rassegnano, ma, con la siccità, anche la mandria di lama perde valore: lo scopo di una vita si dissecca in un’istantanea arida e desolata.

Virginio e Sisa sono personaggi interpretati da due veri quechua: non sono attori. Un’operazione, questa di Loayza Grisi che ricorda il neorealismo italiano.

I loro sguardi, le carezze, l’affetto che si scambiano, sono reali, e questo è ancora più dilaniante: la vita che vediamo sullo schermo è davvero la loro.

«Utama», in lingua quechua, vuol dire «la nostra casa». Una casa che, per colpa di qualcuno tanto distante che non si sa neppure nominare, diventa inospitale.

Lunana alla fine del mondo

C’è un altro film che si dovrebbe guardare subito dopo Utama (anche per tirarsi un po’ su di morale): è Lunana: il villaggio alla fine del mondo, girato da Pawo Choyning Dorji in Bhutan nel 2019. Attenzione: se siete riusciti a resistere al fascino della Bolivia inaridita, non ce la farete con le vallate del Bhutan (un paese grande come un pisello schiacciato tra il materasso Cina e il pavimento India, in mezzo alla catena dell’Himalaya) e sognerete di andarci a vivere.

La trama del film è molto semplice: un maestro elementare viene inviato dal governo a insegnare in un villaggio letteralmente «alla fine del mondo». Tanto in fondo al mondo che la neve interrompe le comunicazioni per sei mesi l’anno e impone al giovane maestro una decisione: accettare l’incarico e restare, oppure tornare indietro prima che la neve lo blocchi.

Il villaggio è così povero che la scuola è una stanza vuota, non ha i vetri, la lavagna, i gessetti.

Per il maestro, inizialmente, la scelta da fare è chiara: tornare alla civiltà al più presto. Ma qualcosa, forse l’estrema gentilezza degli abitanti del villaggio, forse il fatto che loro per primi capiscono il disagio di un forestiero, lo convince a restare.

La trama del film è elementare, eppure la magia che emana è preziosa, imperdibile. Fa davvero venire voglia di andare a cercare quella valle sperduta per vivere più intensamente, perché, quando non hai più le protesi dei telefoni, televisori, social media, e tutti i surrogati di vita di cui ci dotiamo, la vita si fa più intensa, i rapporti più sinceri e intimi.

Altiplano

I film sui mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando, non sono molti, ma scuotono profondamente.

«Altiplano» di Peter Brosens e Jessica Woodworth, prodotto nel 2009, è uno di essi.

Decisamente più crudo dei precedenti, racconta l’ennesimo oltraggio alle terre e popolazioni ancestrali peruviane, avvelenate dai liquami di una miniera, simbolo per eccellenza dello sfruttamento umano della natura.

La popolazione subisce, si ribella, si vendica. Tutto molto triste. Ma drammaticamente vero.

«Altiplano» è un film difficile, non concede nulla di leggero. È un monito per tutti, per ricordarci sempre quanto l’essere umano sappia essere devastante.

Oltre la storia vediamo le spettacolari Ande, la loro impassibile maestà che sembra osservare le tristi vicende umane da un’altra dimensione.

Un invito ad andare oltre, con il pensiero e le azioni.

La ballata di Narayama

L’ultimo film che vogliamo proporvi sul rapporto tra gli esseri umani e la natura è La ballata di Narayama, una pellicola giapponese del 1983 di Shôhei Imamura, Palma d’oro a Cannes.

Orin è una donna settantenne che, prima di recarsi sul monte Narayama, come è tradizione, per lasciarsi morire, «mette a posto» la sua famiglia, procurando, con un ultimo sforzo, il necessario per la loro vita.

La sua vicenda è l’immagine di una diversa interpretazione della vita, la quale non si riduce, come per noi, ad accumulare anni e cose, ma è un darsi agli altri sapendosi ritirare quando è il tempo giusto.

Un film toccante, certamente non facile, ma che ci interroga profondamente sul senso che diamo al nostro vivere.

Dario Cambiano
Centro studi Sereno Regis




Atomica e nonviolenza


L’attualità di un pensatore cristiano e nonviolento

Lanza Del Vasto, scrittore, artista e attivista, morto nel 1981 ma molto attuale, fu tra i primi a denunciare i pericoli dell’atomica. Nel nostro tempo l’umanità si trova di fronte a un bivio: la via irrazionale della guerra, quella efficace della nonviolenza.

È stato di recente pubblicato, per le Edizioni La Meridiana, Le due potenze. L’atomica e la nonviolenza, un agile libro che raccoglie due testi di Lanza Del Vasto, tra i primi a denunciare i pericoli dell’atomica.

Poeta, filosofo, pellegrino, profeta della nonviolenza, intellettuale e artista cristiano, Lanza Del Vasto nacque a San Vito dei Normanni (Br) nel 1901 e morì a Murcia, in Spagna, nel 1981. È ricordato, tra le altre cose, per aver dato vita in Francia nel 1948 alla Comunità dell’Arca, una realtà di vita comunitaria fondata sul modello degli ashram gandhiani che egli aveva conosciuto in India tra il 1937 e il 1938 presso il Mahatma Gandhi e in pellegrinaggio alle sorgenti del Gange.

Della bomba e della Chiesa

Nel primo dei due testi, intitolato Della bomba, l’autore afferma che, di fronte alla concatenazione delle violenze legittime (quelle che trovano giustificazione nei torti dell’avversario), e nel nuovo contesto creato dall’avvento dell’atomica, l’umanità si trova di fronte a un bivio: o la guerra perpetua che porta alla distruzione, oppure la nonviolenza che porta alla rottura della catena e alla liberazione.

La prima strada è irrazionale: si può capire, infatti, che un uomo si sacrifichi per la sua terra, per il suo focolare, ma non che sacrifichi allo stesso tempo ciò per cui egli si sacrifica. Nell’era atomica, non vi è più sacrificio, ma suicidio e crimine imperdonabile.

Nel secondo testo, intitolato La Chiesa di fronte al problema della guerra, Del Vasto argomenta come la nonviolenza sia mezzo di difesa e di salvezza ben più di ogni arma, perché l’evangelico non opporsi al malvagio non è arrendersi, ma non opporre cattiveria alla sua cattiveria, e colpi ai suoi colpi. Non significa non difendersi, ma rifiutare di offendere con il motivo di difendere, di rendere il male, raddoppiandolo, con il pretesto di fermarlo, giacché, così facendo, si entra nella catena il cui ultimo anello è la morte.

Più avanti l’autore delinea quali sono i tratti del conflitto nonviolento quando, affermando che la nonviolenza è lotta per la giustizia con le armi della giustizia, scrive: «Se il mio nemico è un uomo come me, io sono un uomo come lui, e posso sbagliare. Ed è pure probabile e, per parte, certo. Devo dunque scoprire la mia parte di torto nell’affare e se, per fortuna, vi riesco, devo riconoscerla davanti a lui e offrire riparazione. Sarà un passo verso la verità e verso la pacificazione, poiché questo finirà per inclinarlo a seguirmi nella medesima direzione». E ancora: «Se restituisco lo schiaffo, giustifico il suo; il suo spirito di giustizia continuerà a deviare nel giustificarsi, perché lo spirito di giustizia è quell’istinto che fa ricercare l’equilibrio. L’equilibrio è la giustizia, ma quando si devia, si cerca un punto di appoggio che è, appunto, la giustificazione».

La soluzione del «non uccidere»

A corredo dei due testi di Lanza Del Vasto, il volume offre una prefazione di Daniel Vigne, presidente dell’Association des amis de Lanza Del Vasto, e i contributi di Antonino Drago – che analizza la storia dell’atomica e la proposta della nonviolenza -, del teologo Giovanni Mazzillo – sulle linee portanti del Magistero ecclesiale sulla pace dopo il fondatore delle Comunità dell’Arca -, di Maria Albanese ed Enzo Sanfilippo – sull’eredità del pensatore pugliese- e di Frederic Vermorel – che cura una parziale ma preziosa biobibliografia.

Il testo di Antonino Drago, che commenta il saggio di Lanza Del Vasto I quattro flagelli, di cui il volume riporta alcuni estratti, si articola in tre parti: una storia delle armi atomiche; l’analisi della posizione di Lanza Del Vasto che decostruisce la razionalità degli stati nucleari; la proposta di una razionalità alternativa nelle politiche di difesa che parta dal Trattato Onu di messa al bando delle armi nucleari (Tpnw) e arrivi ad affermare la novità epocale della nonviolenza.

La nonviolenza è la vera alternativa storica alla guerra, perché ripropone la millenaria sapienza sociale del «non uccidere», non intesa, però, come semplice rifiuto passivo della violenza, ma come strumento di risoluzione dei conflitti, come dimostrato dall’efficacia delle tecniche adottate da Gandhi in India.

Di fronte all’infinita potenza tecnologica della bomba, la nonviolenza è anch’essa potente, perché recupera l’infinita forza interiore di ogni persona.

Davanti ai conflitti, il metodo nonviolento è più della razionalità, perché alla ragione aggiunge l’etica. Dunque se, come afferma Del Vasto, le due grandi scoperte del secolo sono la nonviolenza e la bomba atomica, si tratta di scegliere tra questi due poli.

Oggi è in atto un braccio di ferro tra i 46 paesi favorevoli alle bombe atomiche (le nove potenze nucleari e i cinque paesi ospitanti gli ordigni, più altri 32), e i 122 favorevoli al Tpnw (i 65 che l’hanno ratificato, più i 57 che l’hanno approvato nel 2017).

Solo l’azione dei popoli motivati eticamente farà bandire le armi nucleari dalla coscienza dell’umanità. Solo dopo di ciò queste armi potranno essere eliminate anche formalmente da provvedimenti giuridici della comunità internazionale.

Le gocce del colibrì

Se fosse evidente a tutti la catena che collega la vittima innocente di un qualunque paese in guerra all’operaio che ha costruito la bomba, all’ingegnere che l’ha progettata, alle banche che ne hanno sostenuto la produzione, al ragioniere che ha emesso le fatture, ai lavoratori dei porti che l’hanno imbarcata, e così via, scopriremmo che in essa è coinvolta qualche persona che conosciamo, magari un nostro parente o un nostro vicino di casa.

Se ciascuno di noi ne fosse consapevole, potrebbe fare come il colibrì che, in una favola africana, fa la sua parte portando nel suo minuscolo becco due gocce d’acqua per spegnere l’incendio.

Angela Dogliotti

 




Le frontiere del mondo


Ogni giorno, 400 milioni di container attraversano il globo. Carichi di tutte le merci lecite (come ananas, o scarpe) e illecite (come droghe, o armi), per essi non esistono frontiere. Se si vuole capirne qualcosa, si trovano muri, filo spinato e, a volte, militari armati.

A ndrea Bottalico è ricercatore, redattore di «Napoli Monitor» e di riviste di inchiesta sociale.

Si era già occupato delle condizioni di lavoro nei cantieri navali con Il fuoco a mare. Ascesa e declino di una città-cantiere del sud Italia (Monitor edizioni, 2016).

Quest’ultimo libro Le frontiere del mondo. Viaggio nella filiera del container, apparentemente breve, è in realtà ricchissimo di notizie, riflessioni e interrogativi.

Spazia su un’estensione geografica internazionale delineando le caratteristiche di numerosi porti – da Genova, Gioia Tauro, Marsiglia, Beirut, Anversa, a Rotterdam – di cui descrive gli aspetti strutturali popolandoli di abitanti che ne identificano il contesto sociale ed economico.

Il linguaggio scorre, il discorso non ha intoppi. L’oggetto del racconto è complesso, ma è molto apprezzabile l’insieme dato da profondità investigativa e buona scrittura, integrate con l’oggettività del reportage.

Bottalico traduce i dati della sua ricerca in narrazione, con una storia che si snoda nel tempo.

I personaggi si animano via via che il narratore si trova immerso nelle realtà, inaspettatamente sconosciute e misteriose, in cui svolge la sua analisi.

L’inventore dei container

Un primo bandolo per dipanare il racconto è offerto dal personaggio che diede inizio alla storia dei container: Malcolm Purcell McLean. Autotrasportatore di origini scozzesi, nato nel 1913 nella Carolina del Nord (Usa), con i suoi risparmi McLean comprò un camion di seconda mano e fondò nel 1934 una piccola impresa per il trasporto di prodotti agricoli, la McLean Trucking.

In pochi anni divenne proprietario di una flotta di 2mila camion e trenta terminal sul territorio degli Stati Uniti.

La sua fortuna dipese dalla messa in pratica di una sua intuizione sulla gestione del traffico internazionale delle merci: se invece di scaricare le merci dai camion per caricarle ogni volta sulle navi, si fossero caricati direttamente i rimorchi dei tir sulle navi, si sarebbe risparmiato tempo, denaro, lavoro.

Lo sviluppo dei container nacque da questa semplice osservazione.

Banane e cocaina

Raccontando le vicende di McLean, Bottalico sottolinea che «il vero affare delle compagnie di trasporti non è gestire navi o treni, ma spostare la merce». Presenta così la vera protagonista del suo libro: la merce.

«Oggigiorno più di quattrocento milioni di container si spostano in tutto il mondo trasportando il 90% di ogni cosa e irrorando il globo di prodotti».

La merce viaggia in incognito dentro enormi scatole di metallo, in quantità e con velocità crescenti. Questa accelerazione produce un impatto enorme a livello globale sulle relazioni sociali, gli ambienti di lavoro, le dinamiche di potere, l’ambiente.

Una delle tante pecche di questa pervasività è il fatto che, a fronte dell’enorme numero di container, si effettuano controlli sul loro contenuto su meno del 2%.

«Di conseguenza – aggiunge Bottalico – è possibile trovare cocaina all’interno di un container che trasporta ananas, o carne, o frutta esotica, o frutti di mare, o caschi di banane, e armi all’interno di un container di sacchi di cemento, o bobine di carta, e così via. Lecita o illecita, la merce si confonde tra la merce […] oltrepassando le frontiere a ritmi sempre più frenetici e secondo logiche precise anche se contorte, attraverso una fitta rete di società […], holding finanziarie e intermediari di varia natura, trafficanti e multinazionali […]».

Recinzioni e filo spinato

Bottalico trasmette un’idea della complessità del sistema merce ponendo domande alle quali non riceve risposte (cosa c’è in quel container? dov’è diretta quella nave? chi ha in concessione quell’area portuale?) e offrendo, pagina dopo pagina, confronti tra i porti (dalle banchine genovesi controllate dai camalli alle piattaforme deserte di Rotterdam) e dialoghi occasionali (il camionista che veglia di notte la sua merce, il marinaio che attende di imbarcarsi, lo spedizioniere che gestisce flussi logistici sull’intero pianeta).

Le descrizioni quasi fotografiche dei luoghi fanno da scenario, aiutando chi legge a trovare appigli in un discorso nel quale la merce continuamente sfugge.

«La strada parallela alla banchina – scrive Bottalico del porto di Gioia Tauro (RC) – è attraversata da camion pieni di cassette della frutta che cercano di evitare i fossi. Da quelle parti le gru si possono osservare meglio insieme alle navi ormeggiate in banchina. Un cancello alto e lungo crea una sorta di cintura con sofisticati sistemi di sorveglianza che separano il caleidoscopio portuale dal mondo di fuori. I militari presidiano l’ingresso di un’azienda. Si possono sentire i rumori delle operazioni di sbarco e imbarco, oltre le cancellate e le recinzioni che delimitano l’area portuale con filo spinato e le telecamere».

«Vago per un po’ in un labirinto per poi ritrovare la strada – racconta Bottalico di Rotterdam -. I duecento ettari del terminal con le sue quarantuno gru […] si riescono a scorgere appena sulla sponda opposta in lontananza. Più mi avvicino e più mi rendo conto della loro imponenza […]. Al lato opposto del terminal un antico mulino e alle spalle del mulino le due torri di raffreddamento della centrale nucleare di Doel. Il villaggio si trova nel mezzo, tra il terminal, il fiume e la centrale, intorno a un’area grande tremila campi di calcio».

Un libro da leggere e rileggere per apprezzare la varietà di storie, persone e paesaggi, per soppesare l’impossibilità di tracciare e controllare la merce e percepirne la pervasività e l’ormai inarrestabile espansione distruttrice.

Elena Camino

Ecco altri tre libri e un film per approfondire:

  • Sergio Bologna, Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale, DeriveApprodi, Roma 2017, pp. 217, € 18.
  • David Abulafia, Il grande mare. Storia del Mediterraneo, Mondadori, Milano 2017, pp. 695, € 25.
  • Giorgio Nebbia, La violenza delle merci, Ecoistituto del Veneto Alex Langer, Venezia, 1999, pp. 48.
  • Allan Sekula, Noël Burch, The Forgotten Space, Icarus Film, New York 2010.




Cristiani e musulmani: una parola comune


A partire dal documento firmato nel febbraio 2019 da papa Francesco e dal grande imam Ahmad Al-Tayyeb, un libro che segue le recenti tappe del dialogo tra le due più diffuse religioni al mondo, ricco di sfide difficili, ma belle.

Anche nel nostro tempo segnato da secolarizzazione e pluralismo, le religioni hanno un ruolo importante per la costruzione di un rapporto pacifico tra le culture.

Un segno di questo è la rilevanza assunta dal Documento di Abu Dhabi, poche pagine firmate da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb, grande imam di Al-Azhar, il 4 febbraio 2019, nell’ottavo centenario dell’incontro di san Francesco d’Assisi con il sultano d’Egitto.

Ne parlano nel loro volume: Per una fratellanza umana. Cristiani e musulmani uniti nella diversità, edito da Paoline nel 2021, Paolo Branca, docente di lingua e letteratura araba, e Antonio Cuciniello, assegnista di ricerca in studi islamici, entrambi presso l’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano.

I due autori rileggono quel documento sotto il profilo dei rapporti tra la Chiesa cattolica e i musulmani, e lo inquadrano nel percorso compiuto negli ultimi decenni, indicandone gli orientamenti di fondo: il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità, la sincerità delle intenzioni (papa Francesco); il «proclamare con chiarezza ciò che abbiamo in comune» (Benedetto XVI); infine i quattro livelli della solidarietà spirituale enucleati da padre Maurice Borrmans, islamista francese e missionario dei Padri Bianchi: il dialogo dei cuori; il dialogo della vita; il dialogo audace su Dio e sull’uomo; il coraggioso dialogo del silenzio, in cui Dio parla al cuore di ciascuno.

Gli autori Barca e Cuciniello ripercorrono, quindi, alcune delle tappe del dialogo islamocristiano che hanno fatto maturare il Documento di Abu Dhabi.

Scrivono della Lettera aperta a sua santità papa Benedetto XVI inviatagli da trentotto sapienti musulmani nel 2006 dopo il suo famoso discorso di Ratisbona (per il quale il trascendentalismo islamico separava fede e ragione). In essa ribadivano che «l’unità di Dio, la necessità di amarlo e la necessità di amare il prossimo sono il terreno comune tra islam e cristianesimo», ricordando che Corano 16,125 invita i musulmani al dialogo con ebrei e cristiani.

I due studiosi della Cattolica ricordano poi la lettera indirizzata nel 2007 da 138 esponenti musulmani a capi religiosi cristiani, intitolata Una parola comune tra noi e voi, citazione del Corano 3,64: «Veniamo a una parola comune tra noi e voi». In essa si sostiene che le differenze tra le religioni non devono provocare odio e conflitto, ma il «gareggiare nelle opere buone» (Corano 5,48).

Nel 2016, trecento personalità musulmane da centoventi paesi, nella Dichiarazione di Marrakech sui diritti delle minoranze religiose nei paesi a maggioranza musulmana, auspicavano una «giurisprudenza della cittadinanza» come base comune per superare le discriminazioni religiose.

Infine, nel Documento di Abu Dhabi, breve e semplice, cristiani e musulmani hanno indicato insieme i valori che li accomunano e che appartengono anche all’etica laica delle dichiarazioni moderne dei diritti.

La fratellanza umana, in tutte le spiritualità, sostiene la dignità di poveri, deboli, vittime.

«In nome di Dio», musulmani e cristiani riconoscono questa fraternità e la cultura del dialogo.

Il pluralismo religioso è parte della volontà di Dio. I linguaggi religiosi orientano, più che definire. Il concetto occidentale di laicità è espresso col termine arabo che significa «civile», né militare, né confessionale.

In particolare, «Dio ha proibito di uccidere, perché chiunque uccide una persona è come se uccidesse tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se salvasse l’umanità intera», detto ebraico, poi islamico, ora anche cristiano, che suggerisce oggi l’illiceità di ogni guerra, incapace di realizzare giustizia.

Nel Documento sono affermati anche i diritti della donna.

Nasce un islam europeo che non è più solo importato. In Italia sono 2,7 milioni i musulmani residenti, tra cittadini italiani e stranieri.

Le giovani donne musulmane a scuola studiano più degli uomini, rispettano i genitori, ma non si riconoscono nel modello materno: cercano un compagno di vita da pari a pari. Se mettono il velo, lo fanno per scelta.

Nello stesso 2019, la dichiarazione, Una fratellanza per la conoscenza e la cooperazione, delle maggiori rappresentanze musulmane di Italia e Francia, ha aderito al Documento di Abu Dhabi e ha istituito, in scuole e università, consigli culturali per un patto educativo globale interreligioso.

Enrico Peyretti

Per approfondire

 

 

 

 

 

 

 

  • Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale. Guida alla lettura di Giacomo Costa, Elledici 2021.
  • Teologia del pluralismo religioso, Pazzini Editore 2013.
  • Il Corano. A cura di Layla Mustapha Ammar. Introduzione, traduzione e commento di Alessandro Bausani, BUR, 2006.
  • Cristianesimo e Islam in dialogo, Claudiana 2004.
  • Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi 2003.
  • Storie italiane di buona convivenza, EDB 2004.
  • Vite e detti di santi musulmani, TEA 1988.
  • Detti e fatti del profeta dell’Islām, Utet 2009.
  • Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 2004.
  • Per un consenso etico tra culture, Marietti 1995.

 

 

 

 

 

 

 


Librarsi per la pace

Inizia con questo numero una nuova collaborazione tra Missioni Consolata e il Centro studi Sereno Regis. In un tempo di generale «chiamata alle armi», sentiamo il bisogno di tutti i contributi possibili per far crescere la cultura della pace.

I l Centro studi Sereno Regis (Cssr) è uno spazio culturale nato a Torino nel 1982 dall’iniziativa di alcune persone impegnate nei campi della pace, nonviolenza, obiezione di coscienza, disarmo, ma anche dell’ambiente, educazione e partecipazione dal basso (ad esempio con il sostegno al sorgere dei comitati di quartiere).

È oggi uno dei più importanti e riconosciuti centri italiani di documentazione e promozione della cultura della nonviolenza e della trasformazione nonviolenta dei conflitti con un patrimonio archivistico unico nel suo genere.

La «mission»

La mission del Cssr si declina in tre ambiti trasversali: ricerca, formazione e azione, e prevede un forte investimento nella condivisione del suo patrimonio archivistico e dei suoi studi, attraverso un programma di attività mirate a intensificare la relazione con il territorio e al coinvolgimento di ampi settori della società con un approccio libero, inclusivo e cooperativo.

La programmazione culturale, che si fonda sull’utilizzo di discipline diverse in dialogo tra loro (tra cui, ad esempio, le arti e il cinema, oltre alle iniziative educative, alle analisi offerte in convegni, e così via), è indirizzata all’approfondimento, alla discussione, al confronto sui temi cardine dell’ambiente, della pace, del dialogo, della partecipazione democratica.

Domenico Sereno Regis

Il Centro studi prende il nome da uno dei suoi fondatori, scomparso prematuramente nel 1984, Domenico Sereno Regis, partigiano nonviolento e, tra le altre cose, instancabile animatore dei primi comitati di quartiere nella Torino del dopoguerra. Il tema della partecipazione consapevole e diffusa, infatti, è da sempre una cifra della vita associativa del Centro. Facilitare i processi partecipativi, dare voce a chi non ne ha, accompagnare lo sviluppo di associazioni e movimenti verso il raggiungimento dei loro obiettivi, fa parte delle competenze che negli anni l’associazione ha sviluppato insieme all’approfondimento delle «tecnologie sociali» che permettono a questi processi di raggiungere i propri obiettivi con inclusività ed equità.

Nonviolenza e riconciliazione

Le figure di Domenico Sereno Regis (1921-1984) e di Nanni Salio (1943-2016), quest’ultimo presidente del Centro studi fino alla sua scomparsa, hanno dato le radici culturali e impersonato le motivazioni politiche e filosofiche dell’associazione.

L’ambito socioculturale di riferimento nel quale il Centro studi si riconosce è quello più ampio e complessivo del Movimento internazionale della riconciliazione (Mir) e del Movimento nonviolento (Mn), a livello internazionale rappresentato dall’Ifor (International fellowship of reconciliation, sei premi Nobel per la pace), di cui il Mir è la sezione italiana, e dalla War resisters’ international, di cui è sezione italiana il Movimento nonviolento.

Luca Lorusso e Cssr

MIR E MN

Il Mir (Movimento internazionale della riconciliazione) opera congiuntamente al Mn (Movimento nonviolento).
Sulla base dell’insegnamento dei maestri della nonviolenza (Gandhi, M. L. King e Aldo Capitini) il Mir è impegnato nella contestazione radicale della guerra e della dottrina militare, di un modello di sviluppo piramidale basato sulla rapina di risorse umane e naturali, di una democrazia formale che sancisce di fatto il sopruso del forte sul debole.

Persegue il fine di una società pacificata più che pacifica, dove cioè il conflitto venga risolto in modo nonviolento, ma non negato o rimosso. Per questo è attento alle dinamiche sociali, ai fatti politici locali e internazionali, a quanto si muove dal basso nella direzione di una crescita del «potere di tutti».
Gli strumenti del suo agire, in base al principio gandhiano della connessione tra mezzi e fini, rispondono integralmente ai criteri di verità, gradualità, lealtà verso l’avversario.
Il Mir, pur essendo di matrice religiosa, rispetta e valorizza la tradizione laica. Il Mn, pur essendo di matrice laica, rispetta e valorizza ogni fede religiosa.

Cssr

https://serenoregis.org
https://www.ifor.org
https://www.wri-irg.org