Il futuro ci guarda


Le serie Tv di buona qualità sono interessanti. Si prendono il tempo per dipanare le storie senza tagli. I personaggi sono approfonditi, le descrizioni accurate e le atmosfere complesse. Ne suggeriamo otto. Tra cui alcune di fantascienza per riflettere su dove andiamo.

Sapete che differenza c’è tra un film e una serie? Siete a casa, la sera, sul vostro divano, gli occhi già a mezz’asta, desiderosi di godervi un paio d’ore di relax. Vi hanno consigliato un film. Lo cercate sulle quattro piattaforme cui siete abbonati (ricordate quando la gente faceva i salti mortali per non pagare il canone Rai? Adesso si paga il triplo per le piattaforme private), lo trovate, ma dopo 10 minuti vi rendete conto che: 1. è lento e vi cala ancora di più la palpebra; 2. non vi interessa il tema; 3. è fatto male; 4. ha troppa violenza / è troppo volgare / troppo per adolescenti / troppo per boomer.

Quindi? Quindi vi armate di santa pazienza (nonostante siate stanchi per la giornata di lavoro e il vostro obiettivo fosse quello di rilassarvi, non di fare ricerche affannose) e cercate un altro film. Spesso non va meglio, e la ricerca riprende.

Le serie Tv, invece, hanno il grande vantaggio di dare sicurezza: quando ne iniziate una, sapete che per dieci, venti, cento serate, siete a posto.

Scherzi a parte, le serie hanno una caratteristica che le rende davvero interessanti: si prendono il tempo per dipanare le storie senza sincopi, senza tagli. I personaggi sono più approfonditi, le atmosfere più complesse e le descrizioni più accurate.

Certo, questo se sono di buona qualità, intelligenti, significative. Anche in questo caso la selezione è fondamentale.

Ve ne propongo alcune che giudico addirittura formative: come vedrete, certe serie sono distopiche, cioè di fantascienza: le suggerisco perché sono un bel modo per parlare di noi, mostrandoci dove potremmo andare a finire proseguendo con la nostra affannosa (e spesso ridicola) ricerca di «progresso».

Hijack

Comincio con una serie non distopica, anzi con un bellissimo racconto di soluzione nonviolenta dei conflitti.

Su un aereo, un mediatore si ritrova nel bel mezzo di un dirottamento. Farà di tutto per far arrivare l’aereo a destinazione salvando duecento persone. Anche sopportare di non essere capito e talvolta creduto dall’equipaggio e dagli altri passeggeri che non hanno chiaro il suo ruolo. Proprio come succede a tanti veri mediatori.

Sette episodi, una trama di quelle che spingerebbero i giovani a guardarle tutte in una notte intera, desiderosi di sapere come andrà a finire.

Chernobyl

In questa, di distopica c’è solo l’incredulità: davvero la sciagura è stata causata da una «prova di incidente»? Davvero hanno fatto di tutto per mettere a tacere la tragedia? Ancora adesso non si sa il numero esatto delle persone che sono morte sacrificandosi per andare a spegnere il reattore con mezzi inadeguati.

Cinque puntate – ve lo anticipo, pesantissime – che si concludono con un processo che è un capolavoro di sceneggiatura e di scrittura dei dialoghi.

Sugar

Un poliziesco scanzonato, ma che nel corso delle poche puntate si fa più serio, e pone anche un dilemma non banale: qual è il coinvolgimento giusto da avere nelle vicende altrui? Chi siamo veramente noi, e chi sono gli altri? Non posso dirvi di più perché non voglio anticipare un importante colpo di scena. Ma l’attore, Colin Farrell, è bravissimo e la trama è sottotraccia. Quella principale quasi non ha importanza: se volete cimentarvi nel capire in anticipo dove andrà a finire questo racconto, dovrete fare molta attenzione a certe frasi.

The signal

Bellissima serie con un finale ironico e provocatorio. Una stazione orbitante internazionale rileva un segnale proveniente dallo spazio. Inizia una battaglia tra scienziati: dirlo o non dirlo? Che conseguenze avrà la consapevolezza che una civiltà aliena sta cercando di comunicare con noi? Ovviamente, al trapelare della notizia, le reazioni sono fortemente contrastanti: dall’esercito che pensa subito a combattere alle comunità spontanee che preparano l’accoglienza. E il finale vi farà riflettere per giorni, promesso.

Humans

Entriamo nella distopia più classica. Ventiquattro episodi, tre stagioni (ma voi non dovrete aspettare, è già uscita tutta).

In un futuro prossimo la collaboratrice domestica sarà una cyber cameriera in «finta pelle e ossa». Gentile, educata, onnipresente, diventa cuoca e babysitter, segretaria e, all’occorrenza, amante.

Ma i robot cominciano a parlarsi. E a ribellarsi, pretendendo che i loro diritti vengano rispettati.

La rivolta è nell’aria, anche perché gli umani si dimostrano decisamente poco comprensivi.

Finale da piangere (se fate il tifo per loro, ovvio: se invece anche voi non vedete l’ora di avere un replicante che lavori per voi…).

Westworld

Serie quasi gemella di Humans. Qui i replicanti sono usati come attori di un parco giochi tematico, un Far West dove gli umani possono letteralmente fare di tutto con i «sintetici». E anche qui la ribellione è nell’aria.

Grande prova attoriale di Ed Harris e Anthony Hopkins. Grandissime scenografie. E interessanti riflessioni sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Però consiglio solo la prima stagione: nella seconda le cose si complicano inutilmente lasciando spazio allo spettacolo e togliendone alle riflessioni filosofiche.

Scissione

La più intellettuale, la più importante. Un’azienda propone ai suoi dipendenti di creare una scissione tra i ricordi che si hanno dentro e fuori l’azienda. Così i segreti non trapeleranno. Ma la cosa viene proposta come un benefit perché «non ci si porterà più il lavoro a casa».

Gli effetti sono dirompenti, e ci interpellano direttamente su cosa voglia dire agire nella società senza consapevolezza. Una sola stagione, nove puntate e, vi assicuro, bastano e avanzano.

Sweet tooth

Finiamo con una serie, almeno all’inizio, tenera. Racconta in due stagioni e 16 episodi (ma sta arrivando la terza) di un mondo in cui la popolazione umana è decimata da un virus. A causa del virus (ma non è sicuro) e delle devastazioni ambientali causate dagli umani, cominciano a nascere degli esseri ibridi, metà umani e metà animali.

A parte la bellezza delle bambine-orso e dei bimbi-cervo, ben presto questi esseri vengono perseguitati. Il resto lo lascio alle vostre prossime, lunghe serate.

Dario Cambiano




Mondi perduti


Non sono molti i film che raccontano il rapporto tra gli esseri umani e la natura mostrando i mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando. Ecco quattro titoli che portano in Bolivia, Perù, Bhutan, Giappone, e scuotono profondamente.

C’è un film che dice tutto. Forse «tutto» è esagerato, però dice tante cose, a chi le sa ascoltare. Parla del Sud del Mondo, della povertà, del cambiamento climatico, della progressiva urbanizzazione delle società, della perdita del contatto con gli altri esseri viventi.

Si intitola Utama. Le terre dimenticate. È un film di Alejandro Loayza Grisi, prodotto nel 2022 tra Bolivia, Uruguay e Francia.

La storia che racconta è semplice, perché, quando si parla di chi vive a contatto con la natura, le narrazioni si fanno semplici.

Virginio e Sisa sono due anziani quechua che vivono isolati sull’altipiano boliviano. La loro età avanza e, con essa, il cambiamento climatico che desertifica i pascoli già stentati di quelle altezze. La loro piccola mandria di lama non ha più cibo.

Virginio ogni giorno deve allontanarsi chilometri da casa per trovare poche radure erbose, e deve raccogliere acqua al villaggio, cosa mai successa prima.

Una malattia completa il quadro.

Nelle inquadrature spaziose, lente, non si legge la maestà della natura, ma l’inquietudine per un ambiente che è cambiato in modo irrimediabile e per il quale nessuno sembra preoccuparsi. Tant’è che il nipote di Virginio e Sisa non sa proporre ai nonni nulla di meglio che la scelta già fatta da suo padre: andare a vivere in città.

I due anziani non si rassegnano, ma, con la siccità, anche la mandria di lama perde valore: lo scopo di una vita si dissecca in un’istantanea arida e desolata.

Virginio e Sisa sono personaggi interpretati da due veri quechua: non sono attori. Un’operazione, questa di Loayza Grisi che ricorda il neorealismo italiano.

I loro sguardi, le carezze, l’affetto che si scambiano, sono reali, e questo è ancora più dilaniante: la vita che vediamo sullo schermo è davvero la loro.

«Utama», in lingua quechua, vuol dire «la nostra casa». Una casa che, per colpa di qualcuno tanto distante che non si sa neppure nominare, diventa inospitale.

Lunana alla fine del mondo

C’è un altro film che si dovrebbe guardare subito dopo Utama (anche per tirarsi un po’ su di morale): è Lunana: il villaggio alla fine del mondo, girato da Pawo Choyning Dorji in Bhutan nel 2019. Attenzione: se siete riusciti a resistere al fascino della Bolivia inaridita, non ce la farete con le vallate del Bhutan (un paese grande come un pisello schiacciato tra il materasso Cina e il pavimento India, in mezzo alla catena dell’Himalaya) e sognerete di andarci a vivere.

La trama del film è molto semplice: un maestro elementare viene inviato dal governo a insegnare in un villaggio letteralmente «alla fine del mondo». Tanto in fondo al mondo che la neve interrompe le comunicazioni per sei mesi l’anno e impone al giovane maestro una decisione: accettare l’incarico e restare, oppure tornare indietro prima che la neve lo blocchi.

Il villaggio è così povero che la scuola è una stanza vuota, non ha i vetri, la lavagna, i gessetti.

Per il maestro, inizialmente, la scelta da fare è chiara: tornare alla civiltà al più presto. Ma qualcosa, forse l’estrema gentilezza degli abitanti del villaggio, forse il fatto che loro per primi capiscono il disagio di un forestiero, lo convince a restare.

La trama del film è elementare, eppure la magia che emana è preziosa, imperdibile. Fa davvero venire voglia di andare a cercare quella valle sperduta per vivere più intensamente, perché, quando non hai più le protesi dei telefoni, televisori, social media, e tutti i surrogati di vita di cui ci dotiamo, la vita si fa più intensa, i rapporti più sinceri e intimi.

Altiplano

I film sui mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando, non sono molti, ma scuotono profondamente.

«Altiplano» di Peter Brosens e Jessica Woodworth, prodotto nel 2009, è uno di essi.

Decisamente più crudo dei precedenti, racconta l’ennesimo oltraggio alle terre e popolazioni ancestrali peruviane, avvelenate dai liquami di una miniera, simbolo per eccellenza dello sfruttamento umano della natura.

La popolazione subisce, si ribella, si vendica. Tutto molto triste. Ma drammaticamente vero.

«Altiplano» è un film difficile, non concede nulla di leggero. È un monito per tutti, per ricordarci sempre quanto l’essere umano sappia essere devastante.

Oltre la storia vediamo le spettacolari Ande, la loro impassibile maestà che sembra osservare le tristi vicende umane da un’altra dimensione.

Un invito ad andare oltre, con il pensiero e le azioni.

La ballata di Narayama

L’ultimo film che vogliamo proporvi sul rapporto tra gli esseri umani e la natura è La ballata di Narayama, una pellicola giapponese del 1983 di Shôhei Imamura, Palma d’oro a Cannes.

Orin è una donna settantenne che, prima di recarsi sul monte Narayama, come è tradizione, per lasciarsi morire, «mette a posto» la sua famiglia, procurando, con un ultimo sforzo, il necessario per la loro vita.

La sua vicenda è l’immagine di una diversa interpretazione della vita, la quale non si riduce, come per noi, ad accumulare anni e cose, ma è un darsi agli altri sapendosi ritirare quando è il tempo giusto.

Un film toccante, certamente non facile, ma che ci interroga profondamente sul senso che diamo al nostro vivere.

Dario Cambiano
Centro studi Sereno Regis




Il profeta, il vecchio e il minatore


Un ex muratore semianalfabeta diventa profeta e artista in Sicilia. Un coro collettivo di donne e uomini anziani di cinque regioni italiane porta alla luce un passato che rimane ancora presente. Un minatore peruviano compie un viaggio nell’aspetto infernale dell’oro.

Lassù

«È venuto il tempo di annientare coloro che distruggono la terra». Con questa citazione di Apocalisse 11,18, Bartolomeo
Pampaloni apre il suo ultimo film doc, Lassù, uscito nella primavera di quest’anno, prodotto da Graffiti Doc e Aeternam Film, e già vincitore sia del Trento Film Festival che del Nuovi Mondi Festival, due premi che pesano e che rendono la misura di quanta strada abbia fatto Pampaloni, già noto per il suo Roma Termini.

Lassù racconta la storia (reale) di Nino, ex muratore che viveva nella periferia di Palermo con la sua famiglia e che ora vive da solo in cima a una montagna facendo il profeta e facendosi chiamare Isravele («Elevarsi» letto al contrario).

Lassù, sul monte che sovrasta la Riserva naturale di Capo Gallo, c’è la sua dimora: una vecchia e abbandonata postazione di vedetta della Reale marina militare borbonica del Regno delle Due Sicilie che, negli ultimi vent’anni di lavoro solitario, Isravele ha trasformato in un portentoso tempio naïf, considerato uno dei più impressionanti esempi di outsider art in Europa.

Isravele sale e scende, ogni giorno, con lo zaino carico di sassolini e cemento. Porta in alto il basso, e così lo purifica. Trasforma l’incuria in bellezza, tramite un lavoro costante, al limite del disumano, che lui chiama preghiera.

Da qualche tempo turisti sempre più numerosi arrivano lassù, spinti dalla curiosità per quell’uomo misterioso che annuncia la venuta dell’Apocalisse e che in città viene chiamato l’eremita.

«Per raccontare quest’uomo – afferma l’autore del film doc – ho deciso di piantare la mia tenda nel terreno adiacente questo magnifico tempio e di passare le giornate assieme a lui. È così che, giorno dopo giorno, per quasi due anni, ho tentato di penetrare il mistero del meraviglioso artista che si è incarnato nel corpo di un muratore semi-analfabeta. Il risultato è un ritratto dell’artista, di ogni artista, la cui esistenza, in ogni tempo e luogo, non può nutrirsi d’altro che dell’irriducibilità assoluta rispetto alle logiche del mondo, di quel mondo che sorge ai piedi del monte sul quale si staglia l’opera di Nino. Un mondo che scorre sempre più veloce verso l’oblio di sé e per il quale l’artista non cessa di essere uno scandalo vivente».

Il tempo rimasto

Se la storia di Nino è quasi sospesa nella realtà, Il tempo rimasto di Daniele Gaglianone, classe 1966, è un poetico tuffo nella vita quotidiana di chi ha alle spalle molto tempo già trascorso e poco, davvero poco, ancora davanti a sé. Uscito nel gennaio scorso e prodotto da Zalab Film, Istituto Luce Cinecittà e Rai Cinema, Il tempo rimasto è una riflessione sulla vecchiaia e su cosa si può scoprire quando ci si ferma a recuperare i propri ricordi.

Il film nasce da un lungo percorso di ascolto di decine di persone in cinque regioni italiane, alla ricerca di un mondo che «fino a ieri» poteva apparire remotissimo e che invece sembra stranamente ancora presente.

Daniele Gaglianone è uno dei più importanti registi indipendenti del cinema italiano contemporaneo, in un’intervista rilasciata a Gabriella Mancini ha affermato: «Volevo a tutti i costi, al di là dell’ascolto delle parole, raccogliere i piccoli segnali meno evidenti: i gesti, i volti scavati dalle rughe, il segno del tempo che è trascorso. Così come i silenzi che nel film affiorano e sono silenzi non gratuiti, ma seguono l’onda emotiva del racconto. Sono storie tutte in bilico tra un futuro che forse non interessa più, che per quanto possa riservarci delle sorprese, è sempre all’ombra della luce di quanto già vissuto e un presente che è ancora intrecciato con il passato, perché chi racconta non si limita a ricordare ciò che è addietro, ma lo rivive. E lo rivive in modo talmente intenso da sorprendere prima di tutto chi racconta».

Il film di Gaglianone si gioca sul filo dell’emozione scatenata dal recupero della memoria di persone anziane, diverse tra loro, ma identiche nella capacità di ricostruire se stesse com’erano anni e anni prima, in un modo corale. «L’intento è quello di accompagnare lo spettatore dentro una storia nella quale non ci sono singoli protagonisti, dove non bisogna cercare un filo, perché se non lo cerchi sarà poi il filo a trovare lo spettatore».

C’è una domanda che aleggia nel film, a volte quasi esplicitata, però decisiva per cogliere la sua cifra poetica: di tutto ciò che ho vissuto, visto, provato, resterà qualcosa? Il film, grazie a Gaglianone, offre la risposta, ed è sì, resterà.

Mother Lode

Con Mother Lode, uscito nel 2021 per la regia di Matteo Tortone, lasciamo l’Italia e approdiamo in Sud America.

È la storia di Jorge che lascia la sua famiglia e il suo lavoro di mototaxi nei sobborghi di Lima per cercare fortuna nella miniera più elevata e più pericolosa delle Ande peruviane. Isolata su un ghiacciaio, La Rinconada è «la città più vicina al cielo». Qui arrivano ogni anno migliaia di lavoratori stagionali attratti dalla possibilità di far fortuna e dalla speranza di una vita migliore.

Da qui, Jorge inizia un viaggio fatto di premonizioni, dove la realtà e l’immaginazione si mescolano e dove il sogno della ricchezza viene pagato dal sacrificio umano: l’oro, infatti, appartiene al Diavolo e el Tio de la Mina reclama sacrifici. Occasionalmente dei giovani minatori scompaiono.

Una coproduzione italo-franco-svizzera davvero ben riuscita, in bianco e nero con un sapore di neorealismo italiano.

Nelle note di regia, Matteo Tortone scrive: «L’idea del film inizia in un villaggio di minatori, nella parte Nord della Tanzania. Ero attratto dall’aspetto metafisico dell’oro, controcampo delle implicazioni macroeconomiche del mercato dell’oro.

La Rinconada mi è sembrata il setting perfetto per raccontare la corsa all’oro contemporanea: una città di minatori situata a 5.300 metri d’altezza sulle Ande, una destinazione che attira masse di uomini a causa della crisi economica globale».

Nel lavoro di Tortone c’è molto più di una generica, seppur doverosa, denuncia del «sistema». C’è la capacità di fare di Jorge una sorta di Virgilio che ci accompagna negli inferi del mondo con una semplicità disarmante, mettendoci di fronte alle singole responsabilità personali. Il sistema siamo anche noi, nessuno escluso. Ognuno per la sua parte.

Sante Altizio




Spiritualità e prove impossibili


Le vita ci mette spesso di fronte prove che ci sembra di non sapere superare. Eppure gli eroi di questi film ci provano. E alcuni ci riescono pure. Forse anche grazie a una buona carica spirituale.

Amore e morte

Tutti coloro che amano il cinema lo sospettavano, ma i dati ufficiali sono stati peggiori delle attese. I rilevamenti ufficiali dell’Anica, Associazione nazionale industrie cinematografiche, resi noti a fine dicembre, ci dicono che in Italia nel 2021 i cinema hanno registrato un incasso complessivo di 170 milioni di euro. Il 73% in meno rispetto alla media del triennio 2017-2019. I biglietti staccati al botteghino sono stati 30 milioni, prima della pandemia si oscillava tra gli 80 e i 100 milioni.

Però, anche se è stato un anno terribile per il grande schermo, il più importante festival del cinema indipendente italiano, il Torino film festival, ha battuto un colpo, ed è tornato, a novembre, a respirare in grande.

Il premio come miglior film è andato a «Between two dawns», tra due albe, del regista turco Selman Ancar, che a soli 32 anni, al suo esordio, lascia pubblico e giuria a bocca aperta. Tutto nasce da un incidente mortale all’interno della fabbrica di famiglia di Kadir, il protagonista. Kadir si fa carico di tutto ciò che comporta un dramma di quelle dimensioni, ma non è sempre così facile fare i conti con se stessi in situazioni simili. In una recente intervista rilasciata ad Antonio Maiorino per il sito

taxidrivers.it, è lo stesso Selman Ancar a spiegare: «Ho sempre trovato molto cinematografica la nostra incapacità di raggiungere una conclusione riguardo problemi di questo tipo, così come l’opportunità di poterli osservare da diversi punti di vista. In più, volevo ritrarre il momento in cui un personaggio attraversa un conflitto morale, intrappolato tra la coscienza, la famiglia e i propri sogni».

Un altro regista che ha fatto del realismo e della scelta morale un tratto distintivo della sua cinematografia è Uberto Pasolini, romano trapiantato a Londra, che è stato nelle sale a fine anno con «Nowhere special», bellissimo e struggente. È la storia di un padre un po’ scalcagnato e solo, che ha ancora pochi mesi da vivere a causa di un tumore, e un bimbo di 4 anni al quale decide di trovare una famiglia solida e ricca a cui affidarlo dopo la sua morte. Inutile dire che il bambino, Daniel Lemont, è una vera sorpresa. Amore e morte in «Nowhere special» si tengono per mano. Però Uberto Pasolini (Uberto, non Umberto, e non è parente del grande Pier Paolo) ha una cifra stilistica che strappa applausi ed è capace di vette altissime di tenerezza. Per averne conferma prima di guardare «Nowhere special» (lo trovate per fortuna su Netflix, visto che è sparito dalle sale troppo presto per essere apprezzato come meriterebbe), concedetevi anche «Still life» (lo trovate a noleggio su Google Play e su

iTunes), che il regista romano ha girato nel 2013. È la storia di un impiegato pubblico londinese il cui compito è, ogni volta che muore una persona sola, di trovare qualche amico, parente, conoscente da avvisare e portare al funerale. Nessuno deve fare l’ultimo viaggio da solo.

Il picchiatore con le mani ferite

A queste storie di forte realismo e grandissima umanità possiamo aggiungere un esperimento interessante in corso su Sky. Il 28 gennaio è andata in onda la prima puntata della prima stagione di «Christian». Nella periferia romana un uomo, Christian, lavora per un boss della mala e come tale si comporta. È un picchiatore, uno tosto, fino a quando le mani iniziano a essere doloranti, a tal punto da sanguinare. Ha le stigmate. E la storia prende un’altra piega. La serie è tutta inserita nel genere crime, ma la scelta fatta da Sky e da Lucky Red (che produce) è avvincente. Diretta da Stefano Lodovichi e con un bravo Edoardo Pesce nella parte del picchiatore che deve fare i conti con qualcosa per lui del tutto incomprensibile, «Christian» inaugura un filone definito «dramady supernatural», che ha le carte in regola per fare strada. Il rischio di cadere nel ridicolo è dietro l’angolo, la possibilità di fare a pugni con la sensibilità religiosa, con l’idea di sacro è concreta, ma nelle prime due puntate il rischio pare scampato. Vedremo nel prosieguo della serie.

Spiritualità on demand

Rimanendo nel mondo delle piattaforme che, almeno in questa fase pandemica e post pandemica, hanno soppiantato il ruolo delle sale cinematografiche, vale la pena segnalare che Netflix ha arricchito il suo carnet di titoli a carattere religioso. Digitando le menù di ri-cerca la parola «spiritualità», l’elenco delle proposte è interessante: film, serie tv e documentari che nella home della multinazionale trovano poco spazio, ma che meritano attenzione.

Tra questi: «Blue Miracle. A pesca per un sogno», di Julio Quintana, uscito nel 2021. Tratto da una storia realmente accaduta, Blue Miracle ricostruisce in chiave di dramma a sfondo sportivo la vicenda di Casa Hogar, l’orfanotrofio messicano di Cabo San Lucas che, nel 2014, fece scalpore per la sua incredibile vittoria al Torneo annuale di Bisbee Black & Blue, la competizione di pesca sportiva più importante del paese. La sopravvivenza dell’orfanotrofio dipendeva da quella gara di pesca: vincere o morire.

Infine vale la pena segnalare la nuova avventura sul piccolo schermo di Davide Demichelis, ideatore e conduttore di «Radici, l’altra faccia dell’immigrazione», che, dopo sei stagioni, va ancora in onda in replica su Rai3, la domenica alle ore 13.

Visto che le nuove stagioni, per ora, rimangono nel cassetto delle ipotesi, il gruppo di lavoro di Demichelis trasloca su Green explorer, nuova trasmissione che andrà in onda sul Canale 176 di Sky. Lo stesso autore sui canali social presenta così la stagione che va a iniziare: «Abbiamo fatto un bel viaggio, fra le isole del mar Tirreno, per esplorarne l’ambiente e raccontare storie di na-tura, persone e animali.

Abbiamo esplorato con i volontari di Delphis i delfini di Ischia, e poi il vero oro di Capri (l’olio), le borracce di Procida, le miniere dell’Elba, il miele di Ponza, il carcere della Gorgona che ne protegge la natura, le berte di Ventotene e ancora molte altre storie di persone, animali e ambienti. Filo rosso delle nostre esplorazioni: una barca a vela. Il mezzo di trasporto più ecologico per raggiungere questi luoghi».

Sante Altizio




Ministeri e montagne


Il ministero della Cultura ha lanciato un portale streaming per la cultura italiana: itsart.tv. Intanto nel cuneese, un produttore e regista di cinema indipendente, porta nelle piazze a bordo della sua Renault4 un film su un amico di Boves che vive la sobrietà in modo radicale.

itsart.tv

Da fine giugno l’italia è diventata tutta «zona bianca». La campagna vaccinale sta funzionando, si torna lentamente alla «normalità».

Anche il mondo delle sale cinematografiche, che da qualche settimana ha riaperto i battenti dopo un anno di stop, prova a rialzare la testa.

A fine maggio, aveva ripreso l’attività meno del 50% delle sale italiane (500 su 1.250), ma è il confronto del box office di quest’anno con quello di due anni fa a fare impressione. Il bimestre aprile-maggio 2021 ha segnato incassi per circa 3 milioni e mezzo di euro e poco meno di 600mila spettatori; nel 2019, nello stesso periodo, gli incassi superavano i 52 milioni di euro e le presenze sfioravano gli 8 milioni. Un abisso che gli interventi governativi faticheranno a colmare.

In questo contesto, ancora inevitabilmente segnato dai cambi di abitudini ai quali ci ha costretto l’emergenza sanitaria, vale la pena segnalare la nascita di ItsArt, quella che è stata soprannominata, forse un po’ troppo frettolosamente, «la Netflix della cultura italiana».

Si tratta del nuovo portale streaming annunciato nell’aprile del 2020 dal ministro della Cultura Dario Franceschini che, di fronte al lockdown e alla conseguente esplosione della fruizione online di tutto il fruibile, ha dato il via al progetto.

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. La piattaforma streaming che si trova all’indirizzo www.itsart.tv, non assomiglia a Netflix.

Non è una app che ti apre le porte di una library alla quale accedi senza limiti con un canone mensile, ma una piattaforma sulla quale ci si registra gratuitamente (anche con il profilo Facebook o l’account di Gmail) e tramite cui si può accedere a un catalogo di contenuti: gratuiti, gratuiti con pubblicità, a noleggio e, infine, da acquistare e scaricare.

Il catalogo è diviso in tre macro sezioni: «Palco», dedicato al teatro, «Luoghi» focalizzato sui musei, «Storie», sul cinema d’autore italiano.

Non mancano gli eventi musicali in esclusiva: da Emma Marrone a Claudio Baglioni.

Per il momento non è un catalogo amplissimo, soprattutto nella sezione cinematografica.

La piattaforma però è interessante, e copre un vuoto di mercato, che è giusto sia stato colmato dal ministero.

C’è anche da dire che una fonte autorevole come la rivista Wired, che il mondo digitale lo segue e lo conosce davvero bene, non è stata tenera con ItsArt. La critica maggiore riguarda la scelta del socio da parte del ministero per realizzare il progetto, cioè ChiliTv (un privato che ha già una piattaforma on demand) e non la Rai, che con la sua RaiPlay ha un know how più che collaudato e affidabile. La critica è sensata. Qualche perplessità c’è anche sui prezzi, non proprio bassissimi, sia per i noleggi che per gli acquisti.

Al netto delle critiche, però, oggi esiste un luogo sul web dove poter trovare un catalogo tutto focalizzato sul «petrolio italiano»: la cultura.

I prossimi mesi ci diranno se il pubblico gradisce e se il progetto di Dario Franceschini ha colpito nel segno.

«Grazie al cielo»

In questo periodo così liquido (per dirla alla Bauman), anche per il cinema, vale la pena segnalare l’uscita dell’ultimo film del cuneese Remo Schellino, classe 1965. S’intitola «Grazie al cielo» e Schellino, che lo ha scritto e prodotto, lo racconta così: «Quella che racconto è la storia di Franco Dalmasso detto “Politica”, un uomo che ha fatto una scelta. Da 1978 fino al 2019 ha vissuto a ridosso di una casa tra i boschi di Cerati a Boves, nel cuneese, senza corrente elettrica, gas e televisore. L’acqua la prendeva alla sorgente e il fuoco lo teneva perennemente acceso. Si era sistemato utilizzando solo l’esterno di una casa, il cortile, il portico e il balcone dove dormiva tutto l’anno. «Mi piace addormentarmi quando fa buio – afferma nel film – e svegliarmi con il chiarore dell’alba e guardare il cielo».

Un pacifista, uomo di montagna, militante politico negli anni ’70 e ’80. Un orto ben coltivato, una vasta conoscenza di tutte le proprietà delle erbe spontanee che usa per curarsi i piccoli malanni stagionali. Legge, si informa dei fatti del mondo tramite una radio alimentata a batterie sempre sintonizzata su Radio Popolare di Milano.

Le poche volte che scendeva a Boves, si recava in biblioteca per il prestito di libri. Franco tende a precisare: «Non sono un guru, per nulla, non mi atteggio a maestro e, come diceva Socrate, so di non sapere. Ho ancora molte cose da imparare».

«Ho conosciuto Franco nel giugno 2012 – racconta il regista Remo Schellino -, e da allora siamo diventati grandi amici e i nostri incontri sono diventati lunghe chiacchierate che ho registrato e filmato sino al 2019 quando si è trasferito in un’abitazione di amici in una frazione di Boves.

Abbiamo fatto anche molte lunghe camminate nel bosco durante le quali lui mi insegnava le varie proprietà curative di determinate erbe spontanee. Si parlava di politica, del senso della vita, della morte e di come lottare per un mondo a dimensione di uomo.

Dal suo saper ascoltare; dalla sua capacità di raccontarsi e di raccontare il vissuto della sua vita scavando dentro l’animo umano e lasciando piano piano affiorare i sentimenti veri; e dal nostro girovagare tra gli alberi, è nato il film Grazie al cielo».

Il film, che dura un’ora, è un’autentica piccola perla, ma, come succede a tante perle del cinema, non avrà una distribuzione tradizionale.

Visto che Remo Schellino non è nuovo alle produzioni di nicchia e di valore che raccontano storie considerate a torto dai broadcaster di poco interesse, la distribuzione dei suoi film se l’è letteralmente inventata.

Si chiama «Cinema itinerante», ed è tutto stipato sulla sua vecchia R4: schermo, proiettore, impianto audio. Lo chiamano piccoli comuni, pro loco, associazioni della zona, ma non solo. Fin dove la sua R4 arriva, arrivano il suo cinema e le sue storie.

Le prime proiezioni di Grazie al cielo hanno già registrato il sold out. Mai meno di 80 persone per ogni proiezione.

La scorsa estate, tra un lockdown e l’altro, Remo Schellino ha totalizzato una trentina di date con una media di 70 spettatori. Oltre duemila persone davanti al grande schermo montato in piazza.

Il cinema continua a essere una splendida magia anche al tempo dello streaming.

Sante Altizio