L’ecologia profonda


Il filosofo e alpinista norvegese Arne Dekke Eide Næss è il padre della riflessione ecologista del Novecento. Ha contribuito a comprendere che «tutto è collegato» e che ciascuno, con il proprio stile di vita, può affrontare la crisi ecologica e, allo stesso tempo, vivere meglio.

«Introduzione all’ecologia» è un’antologia di scritti del noto filosofo (e alpinista) norvegese Arne Dekke Eide Næss (Oslo, 1912-2009).

«Arne Næss – si legge sul sito delle edizioni Ets – è stato il fondatore del movimento dell’ecologia profonda e il padre della filosofia dell’ecologia, ed è riconosciuto come il più importante filosofo norvegese. […] Personaggio eccentrico e geniale, ha alternato la sua attività accademica all’alpinismo (ha guidato la prima ascensione al Tirich Mir, 7708 metri slm in Pakistan) e alla passione per il pianoforte. Già membro del Circolo di Vienna, ha approfondito diversi ambiti filosofici, dall’epistemologia, alla psicologia, all’etica, alla metafisica, alla filosofia del linguaggio, sviluppando un’originale filosofia della vita («ecosofia T») ispirata ad un tempo alla tradizione occidentale (Spinoza, in particolare) e orientale (Gandhi e il buddismo)».

La visione di Næss s’identifica con l’ontologia della Gestalt, per la quale «tutto è collegato» (traduzione dell’inglese «everything hangs together»), «tutto dipende da tutto»: il primo principio dell’ecologia.

Næss invita il lettore a considerare le connessioni tra il pensiero del filosofo olandese del XVII secolo, Baruch Spinoza, e quello ecologico. Lo fa per 36 pagine fitte fitte, dalla 127 alla 163.

Ci aiutano un utile Indice analitico, l’Elenco delle fonti e una specie di condensato dei fondamenti dell’ecologia profonda proposto in otto punti a pagina 46 nel capitolo intitolato I fondamenti del movimento dell’ecologia profonda.

  1. Version 1.0.0

    La prosperità della vita umana e non umana sulla Terra ha un valore intrinseco. Il valore delle forme di vita non umana è indipendente dall’utilità del mondo non umano.

  2. La ricchezza e la diversità delle forme di vita sono anch’esse valori in se stessi.
  3. Gli uomini non hanno il diritto di ridurre tale ricchezza e diversità, tranne che per soddisfare i loro bisogni reali.
  4. L’attuale interferenza umana nei confronti del mondo non-umano è eccessiva.
  5. Le politiche devono essere modificate.
  6. La situazione risultante sarà profondamente differente da quella odierna e renderà possibile un’esperienza più gioiosa della connessione di tutte le cose.
  7. Il cambiamento ideologico è principalmente quello di apprezzare la qualità della vita piuttosto che cercare un tenore di vita sempre più alto.
  8. Ci sarà una consapevolezza profonda della differenza tra il grande e l’intenso.

L’uomo Arne

Il filosofo è ben raccontato nella sua dimensione umana in un’intervista del 10 febbraio 2015 a Kit-Fai Næss, la sua terza moglie.

Sull’amore di Arne Næss per la montagna e per la musica: «Era un grande pianista», dice la moglie, e quando dovette scegliere se proseguire con la musica o con la filosofia, da giovane esclamò: «Non posso portare ovunque il pianoforte. Mentre, se faccio il filosofo, posso continuare a fare alpinismo».

Per quanto riguarda il futuro dell’ecologia, Arne ricordava spesso che ci sono tre tematiche da approfondire, che fanno capo a tre grandi movimenti: il movimento della giustizia sociale, il movimento dell’ecologia profonda e il movimento pacifista.

In riferimento all’ecologia profonda, per Arne è necessario modificare i nostri comportamenti, per poter cambiare il mondo. Una volta modificati, sarà più facile – quasi naturale – cambiare anche stile di vita. L’ecologia profonda si rivolge più a noi e a come viviamo che ai mezzi tecnologici che usiamo.

In merito alla crisi ecologica, Arne Næss, in alcuni suoi scritti, sembra essere alquanto pessimista sulle possibilità umane di affrontarla e risolverla. Sicuramente, però, per lui l’umanità non è il cancro del pianeta. Probabilmente la sua idea di uomo si avvicina a quella di Aldo Leopold per il quale siamo destinati a essere i custodi della Terra.

Di fondo, però, il filosofo era una persona generalmente molto ottimista: sosteneva che nel XXII secolo l’uomo avrebbe cambiato i propri comportamenti.

Tuttavia, per ora, le cose vanno male, e devono andare male, affinché l’umanità possa modificare il suo modo di vivere.

Essere positivi

L’invito di Næss all’ottimismo emerge anche dalle parole dell’amico Alan Drengson, la cui intervista del 2015 si trova in appendice dopo quella già citata alla moglie. Dal momento che il filosofo norvegese si esprimeva spesso tramite slogan, l’intervistatore domanda all’amico come sintetizzare in una frase, in una sorta di «messaggio in bottiglia», l’eredità filosofica e culturale di Næss.

«Sii positivo in ogni circostanza – è la risposta -; riconosci la tua innata capacità creativa, quella dei tuoi amici e di ogni altra persona, in tutti gli esseri viventi e nella natura. Ama il contatto con la natura e con le sue forme di vita: dedicale del tempo. Allontana ogni mezzo tecnologico e riposati nella natura. Rispetta ogni persona e ogni essere vivente che incontri sul tuo cammino».

Cinzia Picchioni


Piccola bibliografia

Bruno Bignami, Terra, aria, acqua e fuoco. Riscrivere l’etica ecologica, EDB, Edizioni Dehoniane Bologna 2012, pp. 214, 20,50 €.

Franco Nasi e Luca Valera (a cura di), Arne Næss, Quodlibet, Macerata 2023, pp. 376, 24 €.

Fritjof Capra et al., La cura della casa comune, Fondazione italiana di bioarchitettura (a cura di), Libreria editrice Fiorentina, Firenze 2020, pp. 258, 18 €.

Leo Hickman, La vita ridotta all’osso. Un anno senza sprechi: le disavventure di un consumatore coscienzioso, Ponte alle Grazie, Milano 2007, pp. 268, 12 €.

Bill Devall e George Sessions, Ecologia profonda. Vivere come se la natura fosse importante, Nanni Salio (a cura di), Castelvecchi, Roma 2022, pp. 354, 20 €.

Gary Snyder, La grana delle cose, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987, pp. 270.

Mathis Wackernagel e Bert Beyers, Impronta ecologica. Usare la biocapacità del pianeta senza distruggerla, Edizioni Ambiente, Milano 2020, pp. 312, 20 €.

 




Il futuro ci guarda


Le serie Tv di buona qualità sono interessanti. Si prendono il tempo per dipanare le storie senza tagli. I personaggi sono approfonditi, le descrizioni accurate e le atmosfere complesse. Ne suggeriamo otto. Tra cui alcune di fantascienza per riflettere su dove andiamo.

Sapete che differenza c’è tra un film e una serie? Siete a casa, la sera, sul vostro divano, gli occhi già a mezz’asta, desiderosi di godervi un paio d’ore di relax. Vi hanno consigliato un film. Lo cercate sulle quattro piattaforme cui siete abbonati (ricordate quando la gente faceva i salti mortali per non pagare il canone Rai? Adesso si paga il triplo per le piattaforme private), lo trovate, ma dopo 10 minuti vi rendete conto che: 1. è lento e vi cala ancora di più la palpebra; 2. non vi interessa il tema; 3. è fatto male; 4. ha troppa violenza / è troppo volgare / troppo per adolescenti / troppo per boomer.

Quindi? Quindi vi armate di santa pazienza (nonostante siate stanchi per la giornata di lavoro e il vostro obiettivo fosse quello di rilassarvi, non di fare ricerche affannose) e cercate un altro film. Spesso non va meglio, e la ricerca riprende.

Le serie Tv, invece, hanno il grande vantaggio di dare sicurezza: quando ne iniziate una, sapete che per dieci, venti, cento serate, siete a posto.

Scherzi a parte, le serie hanno una caratteristica che le rende davvero interessanti: si prendono il tempo per dipanare le storie senza sincopi, senza tagli. I personaggi sono più approfonditi, le atmosfere più complesse e le descrizioni più accurate.

Certo, questo se sono di buona qualità, intelligenti, significative. Anche in questo caso la selezione è fondamentale.

Ve ne propongo alcune che giudico addirittura formative: come vedrete, certe serie sono distopiche, cioè di fantascienza: le suggerisco perché sono un bel modo per parlare di noi, mostrandoci dove potremmo andare a finire proseguendo con la nostra affannosa (e spesso ridicola) ricerca di «progresso».

Hijack

Comincio con una serie non distopica, anzi con un bellissimo racconto di soluzione nonviolenta dei conflitti.

Su un aereo, un mediatore si ritrova nel bel mezzo di un dirottamento. Farà di tutto per far arrivare l’aereo a destinazione salvando duecento persone. Anche sopportare di non essere capito e talvolta creduto dall’equipaggio e dagli altri passeggeri che non hanno chiaro il suo ruolo. Proprio come succede a tanti veri mediatori.

Sette episodi, una trama di quelle che spingerebbero i giovani a guardarle tutte in una notte intera, desiderosi di sapere come andrà a finire.

Chernobyl

In questa, di distopica c’è solo l’incredulità: davvero la sciagura è stata causata da una «prova di incidente»? Davvero hanno fatto di tutto per mettere a tacere la tragedia? Ancora adesso non si sa il numero esatto delle persone che sono morte sacrificandosi per andare a spegnere il reattore con mezzi inadeguati.

Cinque puntate – ve lo anticipo, pesantissime – che si concludono con un processo che è un capolavoro di sceneggiatura e di scrittura dei dialoghi.

Sugar

Un poliziesco scanzonato, ma che nel corso delle poche puntate si fa più serio, e pone anche un dilemma non banale: qual è il coinvolgimento giusto da avere nelle vicende altrui? Chi siamo veramente noi, e chi sono gli altri? Non posso dirvi di più perché non voglio anticipare un importante colpo di scena. Ma l’attore, Colin Farrell, è bravissimo e la trama è sottotraccia. Quella principale quasi non ha importanza: se volete cimentarvi nel capire in anticipo dove andrà a finire questo racconto, dovrete fare molta attenzione a certe frasi.

The signal

Bellissima serie con un finale ironico e provocatorio. Una stazione orbitante internazionale rileva un segnale proveniente dallo spazio. Inizia una battaglia tra scienziati: dirlo o non dirlo? Che conseguenze avrà la consapevolezza che una civiltà aliena sta cercando di comunicare con noi? Ovviamente, al trapelare della notizia, le reazioni sono fortemente contrastanti: dall’esercito che pensa subito a combattere alle comunità spontanee che preparano l’accoglienza. E il finale vi farà riflettere per giorni, promesso.

Humans

Entriamo nella distopia più classica. Ventiquattro episodi, tre stagioni (ma voi non dovrete aspettare, è già uscita tutta).

In un futuro prossimo la collaboratrice domestica sarà una cyber cameriera in «finta pelle e ossa». Gentile, educata, onnipresente, diventa cuoca e babysitter, segretaria e, all’occorrenza, amante.

Ma i robot cominciano a parlarsi. E a ribellarsi, pretendendo che i loro diritti vengano rispettati.

La rivolta è nell’aria, anche perché gli umani si dimostrano decisamente poco comprensivi.

Finale da piangere (se fate il tifo per loro, ovvio: se invece anche voi non vedete l’ora di avere un replicante che lavori per voi…).

Westworld

Serie quasi gemella di Humans. Qui i replicanti sono usati come attori di un parco giochi tematico, un Far West dove gli umani possono letteralmente fare di tutto con i «sintetici». E anche qui la ribellione è nell’aria.

Grande prova attoriale di Ed Harris e Anthony Hopkins. Grandissime scenografie. E interessanti riflessioni sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Però consiglio solo la prima stagione: nella seconda le cose si complicano inutilmente lasciando spazio allo spettacolo e togliendone alle riflessioni filosofiche.

Scissione

La più intellettuale, la più importante. Un’azienda propone ai suoi dipendenti di creare una scissione tra i ricordi che si hanno dentro e fuori l’azienda. Così i segreti non trapeleranno. Ma la cosa viene proposta come un benefit perché «non ci si porterà più il lavoro a casa».

Gli effetti sono dirompenti, e ci interpellano direttamente su cosa voglia dire agire nella società senza consapevolezza. Una sola stagione, nove puntate e, vi assicuro, bastano e avanzano.

Sweet tooth

Finiamo con una serie, almeno all’inizio, tenera. Racconta in due stagioni e 16 episodi (ma sta arrivando la terza) di un mondo in cui la popolazione umana è decimata da un virus. A causa del virus (ma non è sicuro) e delle devastazioni ambientali causate dagli umani, cominciano a nascere degli esseri ibridi, metà umani e metà animali.

A parte la bellezza delle bambine-orso e dei bimbi-cervo, ben presto questi esseri vengono perseguitati. Il resto lo lascio alle vostre prossime, lunghe serate.

Dario Cambiano




Vite contro Hitler


Storie di cristiani nonviolenti tedeschi e austriaci oppositori del regime nazista ce ne sarebbero molte da raccontare. Il libro di Francesco Comina ne raccoglie alcune note e altre sconosciute. Tutte esemplari.

È esistita un’opposizione tedesca a Hitler? Certamente sì, in Germania e in Austria sono state scritte pagine ammirevoli di resistenza al regime nazista.

Il recente libro del giornalista e scrittore di Bolzano, Francesco Comina, La lama e la croce, fa emergere tracce significative di tali storie: «In queste pagine, che non vogliono essere né un’opera storiografica né una galleria esaustiva di cattolici antinazisti, si ricordano alcune vite, solo alcune fra le tantissime vicende di uomini, donne, ragazzini rimasti fedeli alla coscienza in nome del Vangelo». Non è un saggio storico critico, dunque, ma un resoconto memorialistico appoggiato su una solida base documentaria che ricostruisce il nucleo essenziale di vite, in genere giovani, illuminate dalla volontà di opporsi alla crudeltà della tirannia.

Una varietà di storie

Alcune di queste storie godono di una certa notorietà, come quella di Franz Jägerstätter, il contadino austriaco che rifiutò di far parte dell’esercito di Hitler.

Altre sono pressoché sconosciute, come quella di Heinrich Dalla Rosa, giovane prete della zona di Merano.

In queste vicende possiamo rintracciare differenti modalità di contrapposizione al regime hitleriano: ci sono «i casi di testimoni “solitari”», come Max Josef Metzger o suor Angela Autsch, l’angelo di Auschwitz, oppure quelli di resistenti inseriti in un gruppo, come Eva-Maria Buch e Maria Terwiel, che erano parte dell’organizzazione della «Rote Kapelle», o Walter Klingenbeck e i suoi amici a Monaco di Baviera. C’è anche un esempio di disobbedienza di massa: le duemila reclute di Bressanone che nel febbraio del 1945 non pronunciarono la formula canonica del giuramento a Hitler, «l’unico gesto – scrive Comina – di ribellione da parte di una compagnia di soldati di cui si è a conoscenza sotto il nazionalsocialismo».

Comune a tutti è stata la concreta spinta ad agire, l’«obiezione di coscienza», l’insopprimibile necessità di disobbedire e di non essere complici di chi calpestava la dignità e i diritti fondamentali di altri uomini.

Visioni di mondi futuri

Dei personaggi di cui racconta la vita, Comina aiuta a cogliere, oltre alla centralità dell’obiezione di coscienza, la capacità di leggere alcuni segni del mondo futuro, sia in senso drammatico, come l’affacciarsi di una nuova guerra mondiale, intravisto da Max Josef Metzger già nel 1929, sia in direzione opposta, come i germi di novità politica e religiosa, intravisti sempre da Metzger, che saranno alla base della costruzione di un’Europa più giusta e pacifica e di una Chiesa cattolica meno ripiegata su se stessa. Ecco allora la sua prefigurazione di una Confederazione europea e l’aspirazione a un dialogo ecumenico fra Chiese d’Oriente e d’Occidente.

In padre Dalla Rosa e in altri, invece, Comina trova le anticipazioni di istanze che saranno alla base del Concilio Vaticano II, un cattolicesimo più aperto al mondo moderno e capace di innovare la propria liturgia e azione pastorale.

Mayr-Nusser e Jägerstätter

Alcune delle figure ricordate in questo libro possono essere approfondite grazie ad altri studi dello stesso Francesco Comina. È il caso, ad esempio, di Josef Mayr-Nusser che, da recluta delle SS, decise di non giurare ad Adolf Hitler e, accusato di «disfattismo», fu processato e condannato a essere internato nel campo di Dachau, dove Mayr-Nusser non arrivò mai, perché morì prima di raggiungerlo di broncopolmonite e stenti (L’uomo che disse no a Hitler, Il Margine, 2014).

Comina ha dedicato un libro anche a Jägerstätter, il cui caso è stato poco conosciuto fino alla sua beatificazione nel 2007.

Con il tempo la bibliografia su di lui è cresciuta, e la sua storia è stata raccontata anche nel film di Terrence Malick, La vita nascosta – Hidden Life (2019).

Oltre a quello di Comina (Solo contro Hitler, Emi, 2021), in lingua italiana sono disponibili diversi altri testi che ricostruiscono la biografia di questo straordinario obiettore, condannato a morte e ghigliottinato per avere rifiutato di prestare il servizio militare nell’esercito nazista. «Besser die Hände als der Wille gefesselt», ha scritto Jägerstätter negli ultimi giorni della sua vita, «meglio avere incatenate le mani piuttosto che la volontà». L’esito della sua breve vita si è rivelato una testimonianza altissima in omaggio a questo principio. Chi volesse confrontarsi direttamente con le sue parole, può farlo grazie a un libro che raccoglie le lettere che scrisse in carcere (Scrivo con le mani legate, Berti, 2005).

Le due storie più note

Come si diceva, in La lama e la croce, Comina ha ripercorso soltanto alcune delle vite dei molti resistenti al nazismo. Molte altre ne esistono, e forse non poche attendono di essere portate alla luce ed esplorate. Tra quelle note, nelle pagine del libro viene citata, anche se non narrata, quella che probabilmente è la storia di opposizione al nazismo più celebre: l’azione di controinformazione che vide protagonisti i ragazzi della Rosa Bianca e che ebbe come epicentro Monaco di Baviera tra l’estate del 1942 e il febbraio del 1943. In tanti ne hanno scritto ma forse la prima testimonianza da leggere è quella lasciataci da Inge Scholl, sorella di Sophie e Hans, i due componenti più noti del gruppo (La Rosa Bianca, Itaca, 2006).

Altra vicenda molto conosciuta è quella del grande teologo e pastore protestante Dietrich Bonhoeffer, impiccato il 9 aprile 1945 nel campo di Flossenbürg perché coinvolto nel complotto per uccidere Hitler. Resistenza e resa, che raccoglie le lettere e altri scritti composti nel carcere di Tegel, nel quale Bonhoeffer fu rinchiuso tra il 1943 e il 1945, è un libro indispensabile, un classico del Novecento che non si può evitare di leggere.

Massimiliano Fortuna
Centro studi Sereno Regis

I LIBRI E IL FILM CITATI

  •  Francesco Comina, L’uomo che disse no a Hitler. Josef Mayr-Nusser, un eroe solitario, Il Margine, Trento 2014, pp. 179, 14 €.
  •  Francesco Comina, Solo contro Hitler. Franz Jägerstätter, il primato della coscienza, Emi, Verona 2021, pp. 173, 16 €.
  •  Franz Jägerstätter, Scrivo con le mani legate. Lettere dal carcere e altri scritti dell’obiettore-contadino che si oppose ad Adolf Hitler, Berti, Piacenza 2005, pp. XXXV, 231, 13 €.
  •  Inge Scholl, La Rosa Bianca, Itaca, Castel Bolognese 2006, pp. 190, 12 €.
  •  Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, Queriniana, Brescia 2024, pp. 688, 23 €.
  •  Terrence Malick, La vita nascosta. Hidden Life, Germania-Stati Uniti, 2019.




Nuova speranza, nuove azioni


Davanti ai processi di distruzione del mondo, sono necessarie resilienza e azioni. Ognuno di noi può dare un contributo unico e significativo.

«Il tratto costante del suo impegno […] è la consapevolezza che il lavoro culturale, politico e spirituale per rafforzare la resilienza e la capacità di azione di individui e gruppi è l’unico modo per far fronte alla catastrofe dei processi di distruzione in atto nel mondo».

Così scrive Giovanni Scotto, curatore dell’edizione italiana di «Speranza attiva», a proposito di Joanna Macy, autrice del libro assieme a Chris Johnstone.

Attivista nonviolenta fin dagli anni Settanta, Macy ci invita a trasformare le nostre relazioni in una «rete della vita», attraverso un «lavoro che riconnette» gli esseri umani e il mondo, per superare il diffuso senso di disconnessione che sta alla radice delle crisi contemporanee.

La «speranza attiva» è l’asse portante del percorso, perché coltivarla «significa diventare partecipi nel realizzare ciò che più vogliamo». Ma come fare per metterci in gioco? Le tre parti del libro ce lo spiegano.

La grande svolta

Nella prima parte, intitolata La grande svolta, l’autrice analizza la crisi della modernità attraverso tre narrazioni: quella «dell’ordinaria amministrazione», nella quale tutto «va bene così», «non si può cambiare nulla», l’obiettivo è «andare avanti»; quella del collasso ambientale e sociale cui ci sta portando il mondo dell’ordinaria amministrazione; infine, quella della «grande svolta» che narra l’emergere di risposte creative capaci di avviare la transizione dalla società industriale della crescita a una che cura la vita.

Non c’è dubbio che la crescita infinita perseguita dal capitalismo liberista abbia prodotto i disastri cui oggi assistiamo. Nel XX secolo il consumo globale di combustibili fossili è aumentato di 20 volte. L’industria, l’agricoltura moderna, la crescita demografica, gli stili di vita occidentali, hanno sestuplicato l’uso di acqua e incrementato la siccità dal 15 al 30% delle terre emerse. Secondo il Millennium project delle Nazioni Unite, povertà estrema e fame potrebbero essere cancellate entro il 2030 con 160 miliardi di dollari l’anno, mentre la spesa militare mondiale nel solo 2022 è stata di 2.240 miliardi.

È evidente, dunque, che il collasso del pianeta deriva anche da scelte politiche orientate alle armi, invece che all’utilizzo delle risorse contro le diseguaglianze e il cambiamento climatico.

Per cambiare occorre diventare consapevoli delle scelte fatte e delle alternative esistenti.

Nei grandi processi di cambiamento, all’inizio le cose succedono solo ai margini, poi però le nuove idee e i nuovi comportamenti si diffondono fino a raggiungere una massa critica e un punto di svolta.

Nella narrazione della grande svolta Macy mostra che l’azione di cambiare noi stessi, accrescendo compassione ed empatia, e quella di cambiare il mondo sono essenziali entrambe e si rinforzano a vicenda.

L’autrice propone, dunque, un percorso di cambiamento che si articola in un processo di empowerment in diverse tappe: le prime due descritte nei capitoli Cominciare dalla gratitudine e Onorare il dolore del mondo, contenuti nella prima parte del volume, le altre nei capitoli delle due parti a seguire: Vedere con occhi nuovi e Andare avanti.

La gratitudine ci disintossica dal consumismo, basato sull’insoddisfazione: negli ultimi 50 anni sono state consumate più risorse che durante tutto il resto della storia umana. Nonostante questo non siamo più felici e la depressione ha raggiunto livelli da «epidemia». La gratitudine ci offre una via di uscita perché sposta l’attenzione da «cosa manca» a «cosa c’è» ed è essenziale per la sopravvivenza, come sanno i popoli nativi che ringraziano costantemente la Natura.

L’intelligenza ecologica riconosce che il nostro benessere personale dipende dal benessere del mondo naturale, da rispettare, preservare e ringraziare.

Per poter affrontare le sfide, dobbiamo sviluppare modi di parlarne che non diventino battaglie per determinare di chi sia la colpa, né attivino meccanismi di evitamento, ma sviluppino piuttosto la consapevolezza che il dolore del mondo è il nostro dolore. Scegliendo di onorare il dolore della perdita invece di ignorarlo, spezziamo l’incantesimo che ci rende insensibili davanti alla dissoluzione del mondo.

Vedere con occhi nuovi

Nella seconda parte, intitolata Vedere con occhi nuovi, l’autrice propone quattro tappe, ciascuna descritta in un capitolo.

Espandere l’identità è la prima: l’idea di un separato dagli altri non è l’unica possibile. Il nostro sé può diventare un «sé ecologico», più ampio e profondo, sentendo il mondo naturale come parte di noi. La natura ci insegna che la vita non si espande combattendo, ma facendo rete.

Per fare rete occorre Un altro tipo di potere (la seconda tappa), la collaborazione, il «potere con» anziché il «potere su».

Ognuno di noi deve sentirsi protagonista del processo di guarigione e riparazione a livello globale, ma, perché esso avvenga, ciascuno deve giocare il proprio ruolo per attivare il «potere con». Sentirci troppo autosufficienti rischia di farci dimenticare che abbiamo bisogno gli uni degli altri. Nell’aiuto reciproco le nostre vite diventano ricche di senso e insieme possiamo Arricchire la comunità (la terza tappa).

Oltre allo sviluppo di una comunità che sappia estendersi a tutta l’umanità, è importante anche ampliare il nostro punto di vista sul tempo, Estendere il tempo (quarta tappa): per assicurare il legno necessario per la manutenzione del tetto della sala comune del New College dell’Università di Oxford, costruito nel 1379 con travi di quercia, i forestali piantarono grandi querce che crescevano lentamente. Oggi il nostro sistema economico fissa obiettivi e misura il successo in base alla rapidità della crescita. Ma sappiamo che perseguire una crescita infinita in un mondo limitato è una ricetta per il disastro.

Per comprenderne l’entità, immaginiamo che il viaggio della vita sulla Terra fino a oggi sia racchiuso in una giornata di 24 ore: ogni minuto equivale a 3 milioni di anni. Due minuti prima della mezzanotte compare una scimmietta africana, l’antenato comune a umani e scimpanzé. L’intera storia dell’homo sapiens, dai primi passi a oggi, si svolge negli ultimi 5 secondi.

Se poi immaginiamo di rappresentare in 24 ore i 250mila anni della storia umana, scopriamo che per quasi 23 ore siamo stati cacciatori raccoglitori. A due minuti dalla mezzanotte avviene la rivoluzione industriale. Nell’ultimo minuto la popolazione cresce da uno a sette miliardi. Negli ultimi 20 secondi (dal 1950 a oggi) l’umanità ha usato più risorse di quanto non abbia fatto in tutto il resto della sua storia.

Andare avanti

Nella terza parte del volume, Andare avanti, Joanna Macy invita a immaginare futuri possibili per diventare lungimiranti. La realtà è un processo in continuo movimento. Per sostenere il cambiamento nella direzione che ci appare giusta occorre credere che sia possibile, sapendo che le scelte che si fanno lo influenzano, poi occorre chiedersi: «Cosa stiamo facendo per aiutare a costruire il futuro che vogliamo?», infine è importante trovare dei punti di riferimento che indichino cosa è possibile: andare a conoscere e portare alla luce esempi di lotte che hanno avuto successo.

Il cambiamento è un fenomeno discontinuo: possono avvenire passaggi improvvisi e imprevisti, eventi apparentemente insignificanti possono portare a profonde trasformazioni. Esistono delle «soglie» passate le quali succede qualcosa di nuovo, come avviene per l’acqua che, a un certo punto, rapidamente cristallizza.

Ognuno può

Viviamo in un’epoca in cui il corpo della terra è sotto attacco. Allo stesso tempo, sta avvenendo uno straordinario processo di rigenerazione, una risposta creativa e vitale, la Grande svolta.

Troviamo la forza di affrontare la situazione nel momento in cui riconosciamo che ciascuno di noi ha un ruolo significativo da giocare, un contributo unico e specifico. Accettando la sfida di fare del nostro meglio, scopriamo una perla preziosa che arricchisce la nostra vita e, allo stesso tempo, contribuisce a guarire il Pianeta.

Angela Dogliotti
Centro Studi Sereno Regis

Altre letture sul tema:

  •  – Helena Norberg-Hodge, Ispirarsi al passato per progettare il futuro. Dal Ladakh una lezione universale per la localizzazione e la decrescita, Arianna Editrice, Bologna 2013.
  • – Rob Hopkins, Immagina se, Chiarelettere, 2020.
  • – Rebecca Solnit, Un paradiso all’inferno, Fandango, 2009.
  • – Daniel Tarozzi, Io faccio così. Viaggio in camper alla scoperta dell’Italia che cambia, Chiarelettere, 2013.
  • – Melania Bigi, Martina Francesca, Deborah Rim Moiso, Facilitiamoci! Prendersi cura di gruppi e comunità, La Meridiana, 2016.
  • – Elena Pulcini, La cura del mondo, Bollati Boringhieri, 2009.



Dare uno schermo alla pace


La prima edizione del festival di cinema e nonviolenza, «Give peace a screen», è stato un successo: 1.848 cortometraggi di registi da 111 paesi del mondo per raccontare drammi, gioie e modi per fare la pace.

Gli inizi sono sempre difficili, scriveva Chaim Potock. Ma sono anche strabilianti, entusiasmanti. Ispiranti. Specie se si tratta della nascita di un nuovo festival.

Il Centro studi Sereno Regis si occupa di cinema dal 2010 lavorando sulla relazione tra cinema e nonviolenza.

Esiste un cinema di pace? Che promuova la risoluzione creativa e nonviolenta dei conflitti? Si può educare alla pace con il cinema?

Abbiamo posto la domanda a registi di tutto il mondo, organizzando il festival Give peace a screen (Gpas), per capire se è possibile «dare uno schermo alla pace», darle voce, farla vivere nelle immagini di un film.

Non ci aspettavamo una risposta così importante: 1.848 cortometraggi da 111 paesi. Un panorama stupefacente sulla nostra contemporaneità: dalla guerra in Ucraina agli sfruttamenti minerari in Turchia, dal recupero dei bambini-soldato colombiani al dramma dell’utero in affitto scelto per sopravvivenza.

Mostrare un mondo che urla

Il lavoro di selezione è stato duro. Alla fine, abbiamo presentato al pubblico 137 lavori di giovani registi: la visione di un mondo che urla, lotta, si ribella, e, soprattutto, desidera la pace.

Il programma è stato presentato al pubblico dal 19 al 22 ottobre 2023 a Torino: un successo, ma soprattutto l’apertura di un canale di dialogo con il mondo tramite il racconto di drammi, gioie e diversi modi di fare la pace.

Perché fare un festival significa fare rete con il mondo. Significa sostenere il regista camerunese scappato da casa a causa delle scorribande delle milizie islamiste; aiutarne uno turco al quale la polizia ha sottratto i suoi hard disk; tradurre in italiano decine di opere di registi senza risorse economiche. Significa creare una rete di solidarietà per mostrare al pubblico come si può parlare di pace in mezzo ai conflitti.

Al Give peace a screen è andato in scena il mondo che vuole la pace, che si ribella al silenzio imposto dai regimi (è un caso che la nazione più rappresentata sia stata l’Iran, con 223 cortometraggi?), che cerca di far conoscere le ingiustizie affinché si possa partecipare, solidarizzare, intervenire.

La forza dei cortometraggi

La prima edizione del festival è stata dedicata alla «costituzione del mondo», per celebrare i 75 anni della Carta fondamentale italiana: i cortometraggi sono stati proposti secondo gli articoli delle Costituzioni attualmente in vigore nel mondo, per sottolineare come sia necessario dare loro un’attuazione completa, creare un nuovo patto tra gli esseri umani che contempli anche un nuovo «accordo» con la natura.

Un evento speciale l’ha inaugurato: l’opera Migrants, del pluripremiato regista iraniano Masoud Ahmadi, una lirica e coreografica visione del dramma delle migrazioni moderne.

Il festival ha ospitato anche il documentario di Lorenzo Muscoso, Io e Paolo, emozionante ricordo di Salvo Borsellino, fratello di Paolo, il giudice ucciso dalla mafia a Palermo nel 1992.

Give peace a screen è stato chiuso dall’ultimo lavoro di Adonella Marena, film maker ambientalista recentemente scomparsa, montato dal figlio Davide Balistreri: Gli altri animali, una riflessione sul nostro rapporto con i «non umani».

«Questo festival è la dimostrazione che il cortometraggio è uno strumento che sempre più persone usano per denunciare ingiustizie, documentare sfruttamenti e violenze, all’interno della società e sulla natura», afferma Loredana Arcidiacono, coordinatrice di Gpas per i documentari: «È uno strumento economico che si può girare con un telefono, e la sua brevità diventa risorsa, perché costringe alla chiarezza espositiva».

I premiati

Tre giurie diverse hanno attribuito alle opere in gara tre premi da 1.000 euro.

La prima ha assegnato l’ormai tradizionale premio Gli occhiali di Gandhi a La voix des autres, di Fatima Kaci, Francia, 2023: «Perché accade di rado di incontrare film come questo che incantano, inducono a riflettere e sono costruiti alla perfezione».

Il premio Aurora alla miglior sceneggiatura è stato assegnato a The borders never die, di Hamidreza Arjomandi, Iran, 2023, «per l’idea efficace di intrecciare crudo realismo e dimensione onirica».

Il premio Pertinace alla miglior regia è stato assegnato a Things unheard of, di Ramazan Kılıç, Turchia, 2023: «Per la grande capacità di dirigere attori giovanissimi e rendere lieve una situazione drammatica».

La giuria del premio, La pace preventiva, ha assegnato la vittoria a Out of the lines, di Sajjad Aslani, Iran, 2023, «perché interpreta perfettamente il concetto di pace preventiva e regala in un minuto il pathos e l’energia dei grandi film».

È stata attribuita una Menzione d’onore a Danpatra, di Abhijit Dagaduji Chavan, India, 2022, «per il coraggio di anteporre l’urgenza dell’educazione al rispetto dovuto alla religione». E una Menzione d’onore a Ezequiel Baraja, di Juan Fernández Gebauer, Argentina, 2021, «perché evidenzia il valore dello sport come motore di riscatto sociale, strumento di consapevolezza individuale e di libertà».

La giuria ha assegnato il Premio Adonella Marena sul tema della sostenibilità a Magos das plantas di Diogo Linhares, Portogallo, 2023, «perché attraverso le parole di un personaggio semplice e profondo, pone in evidenza il legame fisico che c’è, ma viene ignorato, tra piante e umani». Una Menzione d’onore a Dear Animal, di Younes Kafashian, Iran, 2023: «Una storia tenera e ironica che non ha bisogno di parole per illustrare un atto di amore, e insieme un insegnamento, da un anziano a un giovane». Altra Menzione d’onore a The Fledgeling, di Murtaza Ansari, Pakistan, 2023: «È sufficiente un minuto per esprimere il contrasto tra la violenza del gesto umano e la tenerezza delle creature indifese. Un flash semplice ed emozionante».

Un tesoro da valorizzare

Il festival non finisce: i 1.848 cortometraggi arrivati costituiscono un tesoro prezioso che sarà utilizzato per serate a tema e dedicate ai paesi che hanno partecipato.

Soprattutto, il Give peace a screen, ci auguriamo, diventerà un appuntamento fisso nel panorama cinematografico torinese.

Dario Cambiano

Centro Studi Sereno Regis




Il profeta, il vecchio e il minatore


Un ex muratore semianalfabeta diventa profeta e artista in Sicilia. Un coro collettivo di donne e uomini anziani di cinque regioni italiane porta alla luce un passato che rimane ancora presente. Un minatore peruviano compie un viaggio nell’aspetto infernale dell’oro.

Lassù

«È venuto il tempo di annientare coloro che distruggono la terra». Con questa citazione di Apocalisse 11,18, Bartolomeo
Pampaloni apre il suo ultimo film doc, Lassù, uscito nella primavera di quest’anno, prodotto da Graffiti Doc e Aeternam Film, e già vincitore sia del Trento Film Festival che del Nuovi Mondi Festival, due premi che pesano e che rendono la misura di quanta strada abbia fatto Pampaloni, già noto per il suo Roma Termini.

Lassù racconta la storia (reale) di Nino, ex muratore che viveva nella periferia di Palermo con la sua famiglia e che ora vive da solo in cima a una montagna facendo il profeta e facendosi chiamare Isravele («Elevarsi» letto al contrario).

Lassù, sul monte che sovrasta la Riserva naturale di Capo Gallo, c’è la sua dimora: una vecchia e abbandonata postazione di vedetta della Reale marina militare borbonica del Regno delle Due Sicilie che, negli ultimi vent’anni di lavoro solitario, Isravele ha trasformato in un portentoso tempio naïf, considerato uno dei più impressionanti esempi di outsider art in Europa.

Isravele sale e scende, ogni giorno, con lo zaino carico di sassolini e cemento. Porta in alto il basso, e così lo purifica. Trasforma l’incuria in bellezza, tramite un lavoro costante, al limite del disumano, che lui chiama preghiera.

Da qualche tempo turisti sempre più numerosi arrivano lassù, spinti dalla curiosità per quell’uomo misterioso che annuncia la venuta dell’Apocalisse e che in città viene chiamato l’eremita.

«Per raccontare quest’uomo – afferma l’autore del film doc – ho deciso di piantare la mia tenda nel terreno adiacente questo magnifico tempio e di passare le giornate assieme a lui. È così che, giorno dopo giorno, per quasi due anni, ho tentato di penetrare il mistero del meraviglioso artista che si è incarnato nel corpo di un muratore semi-analfabeta. Il risultato è un ritratto dell’artista, di ogni artista, la cui esistenza, in ogni tempo e luogo, non può nutrirsi d’altro che dell’irriducibilità assoluta rispetto alle logiche del mondo, di quel mondo che sorge ai piedi del monte sul quale si staglia l’opera di Nino. Un mondo che scorre sempre più veloce verso l’oblio di sé e per il quale l’artista non cessa di essere uno scandalo vivente».

Il tempo rimasto

Se la storia di Nino è quasi sospesa nella realtà, Il tempo rimasto di Daniele Gaglianone, classe 1966, è un poetico tuffo nella vita quotidiana di chi ha alle spalle molto tempo già trascorso e poco, davvero poco, ancora davanti a sé. Uscito nel gennaio scorso e prodotto da Zalab Film, Istituto Luce Cinecittà e Rai Cinema, Il tempo rimasto è una riflessione sulla vecchiaia e su cosa si può scoprire quando ci si ferma a recuperare i propri ricordi.

Il film nasce da un lungo percorso di ascolto di decine di persone in cinque regioni italiane, alla ricerca di un mondo che «fino a ieri» poteva apparire remotissimo e che invece sembra stranamente ancora presente.

Daniele Gaglianone è uno dei più importanti registi indipendenti del cinema italiano contemporaneo, in un’intervista rilasciata a Gabriella Mancini ha affermato: «Volevo a tutti i costi, al di là dell’ascolto delle parole, raccogliere i piccoli segnali meno evidenti: i gesti, i volti scavati dalle rughe, il segno del tempo che è trascorso. Così come i silenzi che nel film affiorano e sono silenzi non gratuiti, ma seguono l’onda emotiva del racconto. Sono storie tutte in bilico tra un futuro che forse non interessa più, che per quanto possa riservarci delle sorprese, è sempre all’ombra della luce di quanto già vissuto e un presente che è ancora intrecciato con il passato, perché chi racconta non si limita a ricordare ciò che è addietro, ma lo rivive. E lo rivive in modo talmente intenso da sorprendere prima di tutto chi racconta».

Il film di Gaglianone si gioca sul filo dell’emozione scatenata dal recupero della memoria di persone anziane, diverse tra loro, ma identiche nella capacità di ricostruire se stesse com’erano anni e anni prima, in un modo corale. «L’intento è quello di accompagnare lo spettatore dentro una storia nella quale non ci sono singoli protagonisti, dove non bisogna cercare un filo, perché se non lo cerchi sarà poi il filo a trovare lo spettatore».

C’è una domanda che aleggia nel film, a volte quasi esplicitata, però decisiva per cogliere la sua cifra poetica: di tutto ciò che ho vissuto, visto, provato, resterà qualcosa? Il film, grazie a Gaglianone, offre la risposta, ed è sì, resterà.

Mother Lode

Con Mother Lode, uscito nel 2021 per la regia di Matteo Tortone, lasciamo l’Italia e approdiamo in Sud America.

È la storia di Jorge che lascia la sua famiglia e il suo lavoro di mototaxi nei sobborghi di Lima per cercare fortuna nella miniera più elevata e più pericolosa delle Ande peruviane. Isolata su un ghiacciaio, La Rinconada è «la città più vicina al cielo». Qui arrivano ogni anno migliaia di lavoratori stagionali attratti dalla possibilità di far fortuna e dalla speranza di una vita migliore.

Da qui, Jorge inizia un viaggio fatto di premonizioni, dove la realtà e l’immaginazione si mescolano e dove il sogno della ricchezza viene pagato dal sacrificio umano: l’oro, infatti, appartiene al Diavolo e el Tio de la Mina reclama sacrifici. Occasionalmente dei giovani minatori scompaiono.

Una coproduzione italo-franco-svizzera davvero ben riuscita, in bianco e nero con un sapore di neorealismo italiano.

Nelle note di regia, Matteo Tortone scrive: «L’idea del film inizia in un villaggio di minatori, nella parte Nord della Tanzania. Ero attratto dall’aspetto metafisico dell’oro, controcampo delle implicazioni macroeconomiche del mercato dell’oro.

La Rinconada mi è sembrata il setting perfetto per raccontare la corsa all’oro contemporanea: una città di minatori situata a 5.300 metri d’altezza sulle Ande, una destinazione che attira masse di uomini a causa della crisi economica globale».

Nel lavoro di Tortone c’è molto più di una generica, seppur doverosa, denuncia del «sistema». C’è la capacità di fare di Jorge una sorta di Virgilio che ci accompagna negli inferi del mondo con una semplicità disarmante, mettendoci di fronte alle singole responsabilità personali. Il sistema siamo anche noi, nessuno escluso. Ognuno per la sua parte.

Sante Altizio




Il mondo al pronto soccorso


Il clima, la pandemia, la situazione in Ucraina precedente alla guerra. Tre film documentari sulle tre emergenze che, in modi diversi, stanno scuotendo il mondo. Quando il linguaggio cinematografico aiuta a guardare le cose per farsene carico.

A riveder le stelle

Emanuele Caruso, classe 1985, è un regista di cui si parla parecchio da alcuni anni, e non a caso.

Di origini siciliane e radici albesi, Caruso rappresenta, sia nella forma che nella sostanza, una sorta di piccola nuova frontiera della produzione cinematografica di casa nostra. Ha prodotto, tra il 2014 e il 2018, due film (E fu sera e fu mattina e La terra buona) finanziati interamente da compagne di crowdfunding di grande successo e, nonostante lo scetticismo che accompagna spesso chi ha il coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo, anche nelle sale cinematografiche il pubblico ha risposto con un entusiasmo che ha di molto superato le attese.

Il 2 marzo, a Domodossola, è stata la volta della prima nazionale del suo nuovo film: A riveder le stelle, prodotto di nuovo con la sua Obiettivo Cinema.

Questa volta Caruso si è cimentato su un terreno già frequentato in gioventù: il documentario d’autore. Un gruppo di sei persone che non si conoscevano prima, tra cui gli attori Maya Sansa e Giuseppe Cederna, e il medico Franco Berrino, fondatore dell’associazione «La grande via», per sette giorni hanno macinato molta strada e scoperto la Val Grande, al confine tra Piemonte e Svizzera, 150 chilometri quadrati di natura selvaggia. A guidare il loro cammino c’era una semplice riflessione, che per il regista rappresenta il filo rosso che lega tutto il racconto: «Stiamo distruggendo il pianeta e nessuno fa niente. Nessuno, sono io».

Sulla pagina web dedicata al film, Emanuele Caruso scrive: «Quando, nei prossimi anni, il cambiamento climatico provocherà la più grande crisi che l’uomo dovrà mai affrontare, volgeremo il nostro sguardo al passato. Guardando indietro, ai tanti errori che con consapevolezza abbiamo commesso negli anni, ci porremo allora un’unica domanda: “Come abbiamo potuto permetterlo?”».

Il film è in distribuzione in alcune sale del Nord Italia, ma è possibile organizzare ovunque si voglia proiezioni per scuole e associazioni.

Tutti i dettagli sono sul sito www.obiettivocinema.com.

Ogni 90 secondi

Restando nell’ambito delle emergenze che ci riguardano tutti direttamente, va segnalato che il 31 marzo, giorno della fine ufficiale dello stato d’emergenza sanitaria in Italia, alle ore 23,30 su Rai1 è andato in onda Ogni 90 secondi. Storie di pronto soccorso tra emergenza e urgenza, un film documentario prodotto dalla Simeu, Società italiana medicina d’emergenza urgenza, firmato dal regista televisivo Davide Demichelis.

Il lavoro è un tributo a quei luoghi – sono 650 i pronto soccorso attivi in Italia -, che nel marzo del 2020 sono stati travolti dalla pandemia.

Uscendo dalla retorica dell’eroismo, Davide Demichelis viaggia da Nord a Sud alla scoperta della prima frontiera della sanità italiana e di chi, con dedizione e una professionalità altissima, permette che i pronto soccorso funzionino al meglio delle loro possibilità.

La forza del film è anche la rinuncia al catalogo delle debolezze del sistema. Quelle le conosciamo. Ciò che non conosciamo abbastanza, invece, sono le storie dei medici, degli infermieri, dei professionisti della medicina d’emergenza.

Li abbiamo scoperti a causa della pandemia, ma loro c’erano prima e ci saranno dopo. Certo per chi ha lavorato settimane di fila senza staccare mai, ha iniziato il turno a febbraio del 2020 e lo ha finito a maggio, nulla sarà davvero più come prima.

Quando la competenza e l’esperienza si fanno servizio e si mettono a disposizione, tutto sembra possibile. Il senso del dovere prende il sopravvento e il pronto soccorso diventa casa e famiglia, il luogo in cui rimarrai fino a quando sarà necessario. Non un minuto di meno.

In chiusura, un medico denuncia chiaramente quanto pesi ancora ciò che (forse) ci siamo lasciati alle spalle, afferma: «Se per assurdo dovesse restare un solo medico al mondo, quel medico sarà un medico di pronto soccorso. Non c’è nessuna alternativa possibile».

Per poter seguire la programmazione del film o organizzare una proiezione, scrivere a ufficio.stampa@simeu.it.

Il documentario è visibile anche sulla piattaforma di Raiplay.

Winter on fire

L’ultima emergenza, dopo quella ambientale e quella sanitaria, con cui chiudiamo questo numero di Librarsi, è la guerra in corso in Ucraina.

Su Netflix dal 2016 è presente un film documentario che ora è tempo, per chi non lo avesse fatto, di vedere. O magari anche di rivedere, perché alla luce degli avvenimenti e dello strano dibattito che circonda il conflitto, la visione di Winter on Fire del regista russo Evgeny Afineevsky può rivelarsi illuminante.

Il film, del 2015, è il racconto di quanto avvenne a Kiev dal novembre 2013 al febbraio del 2014 in Piazza Maidan.

Rileggere quei fatti, che portarono alla fuga del presidente Victor Yanukovic in Russia, oggi ha un sapore diverso. Evgeny Afineevsky compone un puzzle che rende con grande chiarezza la drammaticità di quelle settimane: da una parte c’era una grande fetta di opinione pubblica che voleva avvicinarsi all’Europa per dare all’Ucraina una vera indipendenza da Mosca, dall’altra una politica troppo debole e corrotta per andare fino in fondo e recidere il vincolo con la Federazione Russa.

Il film è crudo. La violenza dei Berkut, i corpi speciali della polizia poi disciolti, sui manifestanti è impressionante. Le scene dei cecchini che sparano sulla folla, che prendono di mira coloro che soccorrono i feriti, riporta alle pagine più buie dell’assedio serbo di Sarajevo. Ciò che però oggi più colpisce di Winter on Fire è la consapevolezza che quella vittoria di piazza è stata tradita di nuovo. A distanza di soli otto anni è ancora la voglia del popolo ucraino di essere Europa a segnare il tragico destino della sua nazione.

Sante Altizio




Tra Italia e Africa


Un giallista torinese che indaga luoghi e quartieri abitati da un’umanità di poveri e immigrati. Un libro intervista che attraversa l’Italia in 10 delle sue ferite ambientali grazie alla voce di altrettanti sacerdoti. Una raccolta di reportage africani firmati dal compianto Raffaele Masto.

Gialli tra migranti

Uno dei grandi meriti di Andrea Camilleri è di avere creato, grazie al suo commissario Montalbano, una vera e propria «scuola italiana della letteratura gialla». Camilleri ha indicato una strada e tanti autori di casa nostra hanno provato a percorrerla. Alcuni con ottimi risultati.

Tra coloro che hanno appreso, e bene, la lezione di Camilleri, ce n’è uno torinese i cui libri meritano, a mio avviso, grande attenzione. Prima di tutto per la loro capacità di caratterizzarsi e rendersi originali all’interno di un genere letterario in sé molto lineare: trovare l’assassino.

Gioele Urso, che nella vita fa il giornalista, è autore di Calma & Karma. Torino rosso sangue, uscito nel novembre scorso per Golem Edizioni. Il titolo è l’unico particolare poco azzeccato: sembra il viatico alla lettura di un libro splatter. Invece no. Urso ha scritto una storia degna di nota. Delicata, profonda, socialmente rilevante.

Due anni fa aveva esordito con Le colpe del nero per le Edizioni del Capricorno. Titolo, questa volta, più che centrato.

Protagonista di entrambe le storie è il commissario Riccardo Montelupo (due omaggi in un solo nome: Montelupo è nel carattere, nelle movenze, nel metodo investigativo, un po’ il Ricciardi di De Giovanni e un po’ il Montalbano di Camilleri).

Il commissario di Urso è in forza alla questura di Torino, ha radici siciliane e una idiosincrasia innata per le ingiustizie sociali.

Accanto a Montelupo compare, sia nel primo che nel secondo libro, il giovane videogiornalista Gianni Incerti, con un fiuto da cronista di razza e una grande passione per il Milan degli olandesi. Per la cronaca, Urso è milanista, oltre che reporter.

Fin qui siamo quasi nella norma. Ciò che però rende, a mio avviso, il lavoro di Urso più interessante di altri, sono i contesti sociali nei quali si sviluppano le trame: nel primo era il Cie, Centro di identificazione ed espulsione, di corso Brunelleschi, nel secondo l’ex Moi, le palazzine di via Giordano Bruno costruite per le olimpiadi invernali del 2006, poi occupate da rifugiati.

I torinesi hanno ben chiaro che tipo di ferite sono stati quei due luoghi per la città. Il tema migratorio, le storie delle persone arrivate a Torino, in genere per essere sfruttate, abusate, usate, sono il cuore del racconto.

Non ricordo altri giallisti che abbiano scelto strutturalmente quel mondo per raccontarlo (e denunciarlo) nei loro libri.


Preti verdi

S’intitola Preti verdi, è uscito per Edizioni Terra Santa. Lo ha scritto il giornalista toscano Mario Lancisi, al quale si devono già diverse apprezzatissime pubblicazioni su don Milani.

È un libro che possiamo tranquillamente definire «necessario», e la ragione è racchiusa, prima di tutto, nel suo sottotitolo: L’Italia dei veleni e i sacerdoti simbolo della battaglia
ambientalista.

Mario Lancisi ha incontrato e raccontato la vicenda di dieci territori dall’ecosistema devastato e di altrettanti sacerdoti che hanno speso e spendono la propria vocazione per sanare la ferita inferta alle persone che quel territorio lo vivono.

Si tratta di don Palmiro Prisutto, don Giuseppe Trifirò, padre Nicola Preziuso, padre Maurizio Patriciello, don Marco Ricci, don Michele Olivieri, padre Guidalberto Bormolini, don Albino Bizzotto, don Gabriele Scalmana e padre Bernardino Zanella.

Il libro traccia un viaggio doloroso, quasi una Via Crucis che, dalla Sicilia, passando per Taranto e «la terra dei fuochi», porta al Veneto.

A segnare le tappe di questo terribile Giro d’Italia senza bicicletta sono le migliaia di morti provocate dalla devastazione ambientale. Bambini, donne, uomini, comunità intere decimate da forme tumorali le cui cause sono da ascrivere alla voracità di gruppi industriali e organizzazioni mafiose.

La dedica del libro è chiara: «A tutti i morti di tumore per l’inquinamento e i veleni provocati da uno sviluppo economico che mette al centro il profitto e non l’uomo».

A dare il via a questo coraggioso lavoro di Lancisi è l’enciclica Laudato si’ che rimette al centro del dibattito ecclesiale la tutela dell’ambiente, il rispetto del creato, i danni (spesso irreparabili) che ricadono su popolazioni inermi e incolpevoli.

E poi c’è la pandemia. Anch’essa è stata, per l’autore di Preti verdi un elemento nodale. «A noi interessa un’ipotesi di lavoro, che affiora anche in questo viaggio: forse c’è un nesso causa-effetto tra inquinamento della terra e coronavirus. Forse. Non è questa la sede per discuterne. Preme sottolineare che la dicotomia “salute e lavoro” che caratterizza il libro ha attraversato anche l’anno del Covid-19. Viene prima la borsa o la vita?».


L’Africa riscoperta

Cambiamo genere. Passiamo alle inchieste giornalistiche di un grande reporter che, purtroppo, il 28 marzo del 2020 ci ha lasciato: Raffaele Masto.

Raffaele è stato uno dei più attenti cronisti di «cose africane».

Come responsabile esteri della storica emittente milanese Radio Popolare, per oltre 20 anni, ha percorso l’Africa da Nord a Sud, e ne ha raccontato la vita, la sofferenza, le speranze puntualmente tradite. Ha scritto una dozzina di libri sul continente, alcuni tradotti in mezzo mondo.

I racconti di Raffa, come lo chiamavano gli amici, aveva un particolare marchio di fabbrica: non esprimevano amore per i potenti. La sua Africa era sempre letta attraverso gli occhi di un profugo che ha perso tutto, di una donna che prende l’acqua al pozzo, di un bambino che ha perso le gambe scambiando una mina per un giocattolo, di un autista di taxi, di un contadino in attesa della pioggia che non arriva mai.

A 12 mesi dalla scomparsa di Masto, i colleghi e gli amici di una vita hanno pubblicato, a firma di Raffaele, L’Africa riscoperta. Memorie di un reporter, una raccolta di alcuni dei suoi reportage più belli arricchita con una serie di post tratti dal suo blog «Buongiorno Africa!».

Quello che offre questo «libro di libri» è un diario di viaggio potentissimo. Chi ha letto qualcosa di Ryszard Kapuściński, tra queste pagine si sentirà a casa.

Raffaele Masto è stato un giornalista di razza, che lasciava la scrivania e andava a lavorare sul campo. Soprattutto girava al largo dai luoghi comuni.

Pochi mezzi, pochi soldi, ma idee chiare e un obiettivo ben definito: vedere con i propri occhi, se possibile, cercare di capire, e poi raccontare.

Esiste un sito dedicato a Masto, www.amicidiraffa.it. È nata anche un’associazione, è stato istituito un premio che porta il suo nome, e creato un centro di
documentazione. Il lavoro di Raffaele, la sua testimonianza, non devono andare perduti.

Sante Altizio