Donne e libertà senza frontiere

Una pluralità di sguardi al femminile

Una raccolta di interventi di donne su come far uscire dall’angolo il ruolo femminile nella società. Uno sguardo sulla deriva securitaria e punitiva della nostra democrazia. Un racconto laicale e femminile di missione ad gentes e di famiglia multiculturale tra Kenya e Italia.

Adesso tocca a noi

Mentre scrivo, in Iran le proteste durano già da qualche settimana. Iniziate dopo la morte, il 16 settembre scorso, di Mahsa Amini, una ragazza arrestata dalla «polizia morale» perché non portava correttamente il velo, ancora non si fermano.

Secondo l’Iran human rights, a inizio novembre, sono già morte 277 persone, tra cui 40 minori.

Al grido di «donna, vita, libertà», nel mondo si sono moltiplicate le manifestazioni a sostegno della contestazione.

Mi sembra quindi doveroso segnalare un’uscita recente per Edizioni Terrasanta: Adesso tocca a noi. Donne, leadership e altri misfatti. A curarlo è Chiara Tintori, politologa e saggista che ha svolto attività di ricerca e di docenza in varie università italiane. Fino al 2018 ha lavorato nella redazione della rivista «Aggiornamenti Sociali».

L’Italia non è l’Iran, certo, però anche qui, da anni, il ruolo della donna continua a essere marginale nei processi decisionali.

Adesso tocca a noi non è un libro rivendicativo sulla parità tra uomo e donna, ma porta la testimonianza di donne che, là dove sono, stanno provando a fare la differenza. Quella stessa differenza che, quando è assente, frena lo sviluppo sociale, politico ed economico del paese.

Le voci femminili di questo libro (da Susanna Camusso a Letizia Moratti, da Maura Gangitano a Cristina Simonelli) ci ricordano che riconoscere alle donne ciò che meritano, sulla base di competenze e talenti, è una questione di dignità che riguarda non solo il valore delle persone, ma anche la dimensione etica e culturale della nostra società.

Difficilmente il nostro ritardo verrà colmato dal fatto che oggi il presidente del Consiglio dei ministri in Italia è una donna, se non crescerà la consapevolezza che il «pinkwashing» dietro il quale spesso ci nascondiamo rivela debolezza culturale.

Per comprendere meglio le radici di quanto sta capitando nella regione persiana può essere utile recuperare un libro del 2016, edito da Bompiani: Finché non saremo liberi, del premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, la prima donna musulmana a riceverlo. Con il suo impegno da avvocato per i diritti umani, difendendo soprattutto le donne e i bambini dal brutale regime iraniano, ha ispirato una generazione intera. Per questo il governo ha cercato di ostacolarla, ha intercettato le sue telefonate, ha messo sotto sorveglianza il suo ufficio, l’ha fatta pedinare, ha minacciato lei e i suoi cari con metodi violenti.

Nel libro ripercorre non solo la sua vicenda personale, ma la contestualizza rendendo comprensibile ai nostri occhi la follia alla quale stiamo assistendo in questi giorni.

Il malinteso della vittima

Guardando la questione femminile da un altro punto di vista, segnalo Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva, uscito in settembre per Edizioni Gruppo Abele e scritto dalla sociologa e filosofa del diritto Tamar Pitch.

Il libro è una critica serrata alla deriva securitaria della società che trasforma tutte le persone, e le donne in particolare, in potenziali vittime.

«Il termine “sicurezza” – spiega l’autrice – si è spogliato, ormai da parecchi anni, delle caratteristiche sociali cui era legato (lavoro, salute, diritti): oggi ci si sente al sicuro con condizioni che ci proteggono individualmente dal rischio di diventare “vittime” di comportamenti dannosi. Da qui l’assunto che tutte e tutti siamo vittime potenziali; quindi fenomeni sociali complessi vengono governati con il codice penale e, di fatto, si criminalizza la povertà, la marginalità sociale, l’immigrazione. Ma com’è successo tutto questo? E soprattutto, com’è successo che a questa deriva securitaria aderiscano “movimenti politici il cui obiettivo è la libertà dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalla violenza dei gruppi di cui si fanno portavoce? Perché, in particolare, questo succede in un movimento come quello femminista, che è ri-nato (in Italia, ma non solo) contro la rappresentanza (ognuna parla per sé, a partire da sé), nel contesto delle spinte antiautoritarie degli anni Sessanta?”».

Senza frontiere

L’ultima segnalazione riguarda il volume Senza frontiere. Diario di una missionaria laica in Kenya. Arriva dall’Editrice Ave e porta la firma di Patrizia Manzone, originaria di Monforte d’Alba (Cn), classe 1979. Laureata in Scienze religiose e attiva nella pastorale giovanile e missionaria della diocesi di Alba, nel 2008 è inviata come laica missionaria a Marsabit, diocesi nel Nord del Kenya, legata fin dagli anni Sessanta a quella di Alba.

Trascorre quattordici anni in terra keniana, durante i quali si sposa con Michael, farmacista a Nairobi. Nel 2022, con il marito keniano e i tre figli, intraprende una nuova missione, in Italia, come «Famiglia missionaria a km 0» nella parrocchia di Cherasco, sempre nel cuneese.

«Ricordo il giorno in cui, incontrando il mio viceparroco in oratorio, gli dissi: “A diciotto anni andrò in Africa!” – racconta Patrizia Manzone -. Lui mi chiese stupito: “Per fare cosa?”. Sono rimasta in silenzio: io volevo solo “stare”. Ma stare per fare cosa? Niente di eccezionale, le stesse cose che faccio qui. “Essere cristiana con loro, tra loro”, mi viene da rispondere adesso. Vivere il più vicino possibile alla gente del posto, consapevole che io non sarò mai un’africana (perché ho sempre una garanzia, una casa, una famiglia, un ospedale europei dove posso tornare), e continuare a imparare da loro la libertà e la semplicità dei figli di Dio e dare quello che sono».

In un’intervista a «La Stampa» di qualche tempo fa raccontava: «In questi anni di permanenza in Kenya, abbiamo cercato di aprire gli occhi, abbandonando la nostra zona “comfort” che ci fa sentire giusti, sicuri e protetti, per metterci in ascolto di culture e modi di vivere diversi dal nostro […]. Alla base […] il concetto di scambio, per mettere a frutto le capacità della persona e non un’assistenza caritativa a senso unico, che intrappola e rende dipendenti».

Un piccolo semplice manifesto per un mondo migliore. Dall’Iran fino al Kenya, passando da casa nostra.

Sante Altizio




Le briciole dei ricchi e la giustizia sociale


Sul mercato gli individui non sono tutti eguali. La soluzione non è però il «capitalismo compassionevole». È compito dello stato correggere le distorsioni con l’imposizione fiscale. Soltanto così è possibile perseguire la giustizia sociale.

La generosità è un valore, ma quanto è sano affidare la soluzione dei problemi sociali alla libera generosità dei cittadini? È una domanda che vale la pena porsi perché si fa sempre più marcata la tendenza a trasformare la solidarietà in un optional.

L’optional ci piace, ci dà un senso di libertà che ci imprime leggerezza. Del resto, questo è il sogno che il mercato ci trasmette: i mercanti offrono, i consumatori scelgono. In piena libertà. Se vogliono prendono, altrimenti lasciano. Almeno così va l’adagio. In realtà, c’è anche la situazione in cui si vorrebbe comprare, ma non si può perché non si hanno i soldi per farlo. Questo tipo di impossibilità materiale, al mercato non interessa. Eppure, è proprio questa non libertà, altrimenti chiamata miseria, che dobbiamo prefiggerci di eliminare tramite ciò che Rousseau ha chiamato «Contratto sociale»: la rinuncia da parte di tutti di un frammento di libertà individuale per costruire una libertà collettiva più ampia. La libertà più ampia si chiama «giustizia sociale». Il frammento di libertà individuale ridotta si chiama «imposizione fiscale».

Ricchi e poveri

L’umanità, almeno quella occidentale, ci ha messo qualche millennio per guardare ai poveri come a persone ferite nella loro dignità. Fino a qualche secolo fa eravamo talmente barbari da considerare legittima la schiavitù e la servitù della gleba. Complici le espressioni religiose, compresa quella cristiana, che per vari secoli ha avallato l’ordine costituito comprendente la schiavitù.

È famoso l’invito contenuto nella terza lettera di Paolo ai Colossesi: «Voi, schiavi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni: non servite solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore». Posizioni riprese da importanti esponenti ecclesiastici successivi che invitavano i poveri ad accettare con rassegnazione la propria posizione di sofferenza. Nel contempo, però, si rivolgevano anche ai ricchi affinché sapessero essere caritatevoli.

Una combinazione comportamentale poco comprensibile sul piano sociale, forse con una sua giustificazione escatologica se concepiamo la miseria, e più in generale la sofferenza, come un’opportunità di prova al servizio di un tribunale celeste la cui funzione principale è quella di giudicare l’umanità. Ognuno secondo la propria posizione: i miseri messi alla prova rispetto alla capacità di accettare la sofferenza, i benestanti messi alla prova rispetto alla capacità di attivare sentimenti di pietà. Da cui l’imperativo ai miseri di accettare la propria condizione di sofferenti e ai benestanti di destinare parte delle proprie fortune in beneficienza per sollevare le sorti dei miseri. Impostazione che, nel Medioevo, permise la crescita di ospedali, mense, ricoveri, gestiti dalla Chiesa con i soldi messi a disposizione dalla nascente classe mercantile che aveva incluso la beneficienza nei propri bilanci economici sotto la voce «conto di messer Domeneddio». Primordi di quel capitalismo compassionevole che la tradizione protestante rafforzerà ulteriormente.

È un mondo costruito attorno ai soldi. Foto Pixabay.

L’affermazione dei diritti

L’idea di liberazione totale dalla miseria, e più in generale dalla sofferenza, inizia a farsi strada a fine Settecento quando l’illuminismo introduce il concetto di diritto. Una condizione positiva e inviolabile che deve essere garantita ad ogni essere umano per il fatto stesso di esistere. Un principio che, essendo stato coniato dalla classe borghese, inizialmente era limitato ad alcuni diritti civili: libertà di pensiero, proprietà privata, tutela giuridica. Più tardi, però, i movimenti socialisti riuscirono ad estendere il concetto di diritto anche ad aspetti sociali. E la completezza si raggiunse nel 1948 con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo da parte dell’Onu che all’art. 25 recita: «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

Affermati i diritti, la domanda che dobbiamo porci è chi deve garantirli. Di sicuro, non la solidarietà individuale per sua natura incerta e precaria. I diritti si pretendono dalla comunità, la quale deve farsene carico attraverso un patto di solidarietà collettiva. Esattamente come prevede la nostra Costituzione, che nello stesso articolo, il numero 2, richiama i diritti e istituisce il dovere di solidarietà: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». E poiché viviamo in un sistema basato sul denaro, uno degli strumenti cardine della solidarietà è quello fiscale a cui «tutti devono concorrere in ragione della propria capacità contributiva».

Così afferma l’articolo 53 della Costituzione, che aggiunge: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Un criterio che potrebbe essere riassunto con la massima: quanto più guadagni, tanto più devi essere disponibile a pagare aliquote più alte.

Nel secondo dopoguerra, quando la scena era dominata da un forte movimento operaio, in tutta Europa venne raggiunto un alto livello di welfare finanziato da un sistema fiscale che colpiva in maniera particolare le classi ricche. Perfino negli Stati Uniti nel 1963 l’aliquota oltre i due milioni di dollari (rivalutati ad oggi) era al 91%. In Italia la riforma fiscale del 1974 organizzò l’imposta sui redditi delle persone fisiche (Irpef) su 32 scaglioni con l’ultima aliquota al 72% oltre i 258mila euro. Ma non passò molto tempo che già si cominciò ad attenuare la progressività riducendo gli scaglioni e modificando le aliquote fiscali con innalzamento di quelle sui redditi medio bassi e riduzione su quelli alti.

Patrimoniale? «Sì, grazie»

Ormai stava soffiando un nuovo vento, il vento neoliberista, riassumibile in tre parole chiave: più mercato, più profitti, meno stato. E se nel 1983 gli scaglioni erano già diventati nove, con l’aliquota più bassa al 18% e quella più alta al 65%, nel 2007 gli scaglioni li troviamo a cinque con l’aliquota più bassa al 23% fino a 15mila euro e la più alta al 43% oltre 75mila euro.

La conclusione è che su un reddito di 3 milioni di euro (secondo il valore di oggi) nel 1974 lo stato si sarebbe preso 1 milione e 713mila euro (57,1%), oggi se ne prende solo 1 milione e 283mila (42,7%). Da una ricerca condotta da Cadtm (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi), si apprende che fra il 1983 e il 2017 i favori accordati alle classi ricche hanno procurato allo stato un mancato incasso stimabile in 146 miliardi. Ammanco che ha prodotto due risultati: aumento del debito pubblico e meno diritti.

Ad esempio, nel suo rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) del 2021, l’Istat certifica che «tra il 2010 e il 2018, l’offerta ospedaliera è andata modificandosi, con una riduzione delle strutture e dei posti letto. In particolare, il numero di questi ultimi è diminuito in media dell’1,8% l’anno, fino ad arrivare, nel 2018, a una dotazione di 3,49 posti letto – ordinari e in day hospital – ogni 1.000 abitanti».

A giudicare dall’intensità con cui si raccolgono fondi, la ricerca sembra uno dei settori meno sostenuti dalla mano pubblica. Ogni anno la Rai indice la settimana di raccolta fondi per Telethon, la fondazione che finanzia la ricerca a favore delle malattie rare. Identicamente anche la fondazione Firc-Airc s’inventa ogni sorta di iniziativa per raccogliere fondi a favore della ricerca sul cancro. La rivista Vita che elabora i dati forniti dal ministero dell’Economia e delle Finanze sulle detrazioni e deduzioni per erogazioni liberali, stima che nel 2019 l’insieme delle donazioni versate dagli italiani, ammonti a 5,3 miliardi di euro, che rappresenta quasi il 3% del gettito Irpef incassato dallo stato.

Basterebbe aumentare di qualche punto l’aliquota sui redditi alti e lo stato potrebbe incassare ciò che serve per garantire i fondi ad attività essenziali come la ricerca, il miglioramento della sanità, l’assistenza a fasce fragili oggi lasciate alla benevolenza. E ancora di più potrebbe essere raccolto se si introducesse una patrimoniale, ossia una tassazione sull’insieme della ricchezza posseduta. Che è una proposta fatta nel dicembre 2020 da alcuni parlamentari di Leu e del Pd che prevedeva l’introduzione di quattro scaglioni d’imposta. Partendo da un’aliquota dello 0,2% su un patrimonio complessivo di 500mila euro, l’aliquota sarebbe dovuta salire allo 0,5% al raggiungimento di un milione di euro, per andare all’1% sopra i 5 milioni e finire al 2% oltre i 50 milioni. Percentuali tutto sommato modeste, che però non hanno trovato il consenso del parlamento che ha bocciato l’intera proposta.

Dollari. Foto Rabe-Pixabay.

Paradisi e perdite fiscali

Perfino l’Ocse, l’istituto dei paesi occidentali addetto alle analisi economiche, ammette che disuguaglianze e dissesto sociale sono fenomeni aggravati da un sistema fiscale sempre più accomodante con i ricchi. E cita al riguardo la tassazione dei redditi d’impresa scesa mediamente dal 32,5% nel 2000 al 23,9% nel 2018. Non contente molte imprese globali ricorrono ai paradisi fiscali per occultare i propri guadagni e non avere da pagarci sopra un bel niente. Tax justice network stima che lo spostamento di profitti e ricchezze nei paradisi fiscali abbia provocato agli stati una perdita fiscale di 427 miliardi di dollari nel 2020. E in prima fila, fra i furbetti dell’evasione (tax avoidance, per dirla all’inglese), si trovano i colossi del web, gli stessi che permettono ai propri amministratori delegati di comparire ai primi posti per donazioni: Jeff Bezos patron di Amazon, MacKenzie Scott moglie dello stesso, Jack Dorsie patron di Twitter, Charles Schwa patron di Netflix. Aziende queste che, tra l’altro, non brillano neanche per rispetto dei diritti dei lavoratori.

Strana logica quella di arricchirsi alle spalle dei lavoratori e delle casse pubbliche e poi mostrarsi buoni versando qualche briciola in beneficienza. Strana in una prospettiva morale, ma perfettamente coerente in una prospettiva di potere. Perché, alla fine, di questo si tratta: mostrare un po’ di bontà di facciata con il duplice scopo di ottenere consenso attorno a uno dei peggiori sistemi economici che l’umanità abbia partorito e controllare punti strategici del sistema.

Tipico quello dei vaccini, su cui la fondazione Bill Gates (ex patron di Microsoft) ha investito somme altissime, e quello delle Nazioni Unite finanziata a piene mani da privati fra cui Ted Turner (cofondatore della Tv globale Cnn). Del resto, il secondo finanziatore dell’Organizzazione mondiale della sanità è proprio la Fondazione Bill Gates che contribuisce per il 10% circa. «Dopo tutto – per dirla con le parole di Nicoletta Dentico, autrice di Ricchi e buoni? (si veda Dietro la bontà del capitalismo, MC gennaio-febbraio) – una mano lava l’altra. La ricchezza delle aziende permette la filantropia, la filantropia apre nuovi mercati alle aziende. Il filantrocapitalismo non ci rimette mai. La democrazia, sì».

Francesco Gesualdi

 




Libri: Superare i Confini

Testp di Chiara Brivio |


Tre volumi scritti con tre stili, metodi, culture di provenienza differenti. Da una giornalista cattolica, un antropologo e un eclettico intellettuale. Tre testi che parlano di confini: quelli attraversabili dei missionari, quelli sempre in fase di assestamento delle comunità in cerca di identità, quelli che vengono di volta in volta aperti e poi ricostruiti dal tiremmolla tra il potere e la libertà.

Ci sono diversi modi di descrivere i «confini»: possono essere fisici, psicologici, emotivi, immaginari o reali. Abitualmente si tracciano per separare un fuori da un dentro, un di là da un di qua, per fermare dall’altra parte quello che non vogliamo con noi, ad esempio quelle persone che preferiamo non avere nella nostra comunità, nel nostro paese.

I tre libri di questo mese affrontano il tema dei «confini» da punti di vista diversi: da quello di una chiesa, quella missionaria, che aspira all’universalità, e per questo i confini li valica; da quello delle nuove «comunità», altrimenti dette community, che sembrano ignorare completamente i confini in un’epoca nella quale stanno rifiorendo le comunità chiuse; infine da quello di chi vede nei confini creati dal potere un ostacolo alla libertà umana e creativa.

Dove solo l’anima arriva

La giornalista Monica Mondo, conduttrice della fortunata trasmissione Soul su Tv2000, ha raccolto 15 interviste a missionari e missionarie che negli anni sono stati ospiti del suo programma. Le testimonianze sembrano convergere su una domanda chiave: «Che cosa vuol dire fare missione oggi, soprattutto in territori dove la chiesa va completamente rifondata?».

Tra essi c’è chi costruisce interi villaggi, come Pedro Paolo Opeka – vincenziano «carpentiere» che è stato visto a fianco di papa Francesco nella sua recente visita ad Antananarivo, capitale del Madagascar -; chi porta avanti una «intifada dei rosari» tra Israele e Cisgiordania, come suor Donatella Lessio; e c’è chi, come il missionario Fabio Mella, ha portato il cantautore Enzo Jannacci a visitare i boat people, persone senza diritti che vivono su imbarcazioni di fortuna nella baia infestata dai liquami di Hong Kong.

Ma ci sono anche intellettuali e teologi – dal domenicano inglese Timothy Radcliffe al neo cardinale e poeta portoghese José Tolentino Mendonça -, a testimonianza del fatto che la missione si può fare sia «stando là», anche a rischio della propria vita, sia stando «qua», cercando di instaurare un dialogo con laici, non credenti e coloro che si sono allontanati dalla chiesa.

Forse la cosa più curiosa che emerge da questi racconti, a tratti coloriti e divertenti, spesso tragici e commoventi, preceduti dalla prefazione di Paolo Ruffini, prefetto del dicastero vaticano per la Comunicazione, è il ruolo del film di Franco Zeffirelli sulla figura di Francesco d’Assisi, simbolo di povertà radicale. Molti degli intervistati hanno, infatti, dichiarato che fu proprio quella pellicola a confermare e rafforzare la loro vocazione.

Quelli raccontati da Monica Mondo sono uomini e donne che costruiscono ponti, superando ogni confine, come dice uno dei protagonisti: «Dobbiamo essere ponti e non muri. Ponti fra popoli, ponti fra chiese, ponti fra culture».

Comunità

Marco Aime è uno degli antropologi più famosi in Italia, nonché uno dei più prolifici. Questo suo breve e agile saggio, pubblicato dalla casa editrice bolognese Il Mulino, esplora il concetto di comunità dal punto di vista sociologico, antropologico e storico, spiegando come si sia passati dalle «antiche» comunità alle community online del nostro tempo.

Se la caduta del muro di Berlino nel 1989, era forse stato l’emblema della dissoluzione dei confini, oggi, con l’avvento dell’epoca dei Trump e dei Salvini con i loro «prima noi» (americani o italiani che siano), c’è stato un pericoloso ritorno alla paura del diverso, dell’altro, all’ansia generata dall’apparente disgregazione di antiche comunità, spesso puramente immaginarie (à la Benedict Anderson).

Aime fa notare che il paradosso odierno risiede proprio nel rafforzamento di quell’idea di «comunità chiuse» nell’era della globalizzazione e della rete, dove i confini sono stati virtualmente cancellati. L’antropologo ne rintraccia le cause nel passaggio dalla società contadina a quella industriale, con l’avvento del capitalismo che ha monetizzato e commodificato il tempo, fino all’arrivo delle società liquide della rete dove la tecnologia ha annullato questo concetto, rendendoci sempre reperibili e contattabili, nonché sempre più soli.

Il problema fondamentale è che non esiste più il luogo «fisico» dell’incontro, anima dell’essere umano come animale sociale, ma spesso solo quello virtuale. Quanto ha influito questo sulle relazioni sociali? Molto, secondo l’antropologo. Il quale teorizza una fine alquanto funesta per le comunità di oggi, se non saranno in grado di rimettere al centro le relazioni umane, a partire dalle famiglie stesse. «Forse sarà proprio dal nostro spirito di sopravvivenza che nasceranno nuove forme di convivenza, capaci di abbattere e superare certi confini», chiosa l’autore. Non abbiamo quindi che da sperare.

Smurare la libertà

Wole Soyinka è un intellettuale nigeriano, drammaturgo, scrittore, poeta e saggista premio Nobel per la letteratura nel 1986. Il suo volume L’uomo è morto? Smurare la libertà, edito da Jaca Book, raccoglie tre dei suoi testi scritti in diversi momenti sul tema della libertà. I primi due sono il discorso dello scrittore al Nobel del 1986 e un saggio del 1988 sul teatro nelle culture tradizionali africane. Entrambi già pubblicati negli anni ’80. Il terzo, invece, è un inedito intitolato Smurare la libertà, inizialmente scritto del 2004 e successivamente rimaneggiato.

Il filo rosso che lega le parti del libro è quello della libertà:

  • la libertà dal razzismo e dall’apartheid nel discorso di Stoccolma, dedicato a Nelson Mandela;
  • la libertà di espressione artistica scevra da ogni «colonizzazione della mente» nel secondo testo sul teatro;
  • la libertà contro il potere nel terzo testo che contiene una forte critica anche alle religioni cristiana e islamica.

In Smurare la libertà, fulcro della riflessione di Soyinka è il rapporto tra Potere e Libertà (entrambi maiuscoli nel testo): «Il Potere ama i confini. Il Potere si manifesta all’interno di confini, viene esercitato nell’ambito di territori in qualche modo delimitati». Un potere che lotta per la conquista di tutti i territori, spirituali, fisici e corporei, secondo una logica di assoggettamento e asservimento, in un chiaro richiamo all’epoca coloniale. Per il drammaturgo nigeriano ci sono state due cadute negli ultimi decenni che simboleggiano la lotta tra potere e libertà: quella del muro di Berlino nel 1989, che ha visto trionfare la libertà, e quella delle torri gemelle nel 2001, che ha visto prevalere il potere facendo ripiombare il mondo nella paura, dividendolo tra «credenti infedeli» e tra «alleati o terroristi», tra i Bin Laden e i Bush dell’epoca.

Come uscire dalla paura? Come liberarsi dal dominio del potere, esercitato con terrore e violenza? Soyinka non ha una risposta, se non quella di continuare a lottare contro il sistema che vuole «riabilitare questa mentalità fanatica […] dell’Altro violento, dell’Altro suprematista, intollerante, fascista, apocalittico».




Riprendiamoci l‘arcobaleno

Ricordate
tanti anni fa, quando la Tv era ancora in bianco e nero? Quando venne la Tv a
colori in certe comunità di missionari ci fu la crisi: «Tv in bianco e nero sì,
Tv a colori no, perché cosa da ricchi! Vergogna sui missionari imborghesiti».
Finché un superiore coi piedi per terra ricordò a tutti che il problema stava
nel perdere tempo davanti alla Tv rubandolo al servizio missionario, non nel
fatto di avere o no la Tv a colori, tanto più che Dio aveva «creato il mondo a
colori, non in bianco e nero».

«Il
mondo a colori», bellissimo nelle immagini poetiche in bianco e nero con la
loro gamma di grigi, fantastico nella varietà di colori che il nostro occhio
può distinguere e godere. Bianco, nero, giallo, rosso, verde, azzurro, blu,
declinati in mille varietà, danno forma al cielo e alla terra, incantano nelle
mani degli artisti, esprimono i sentimenti dei bambini, abbelliscono lo spazio
che viviamo. Che triste una vita senza colori.

Eppure,
di questi tempi, mi sembra di vivere in un mondo in cui mi abbiano rubato i
colori. Al furto classico, vecchio di cent’anni, del nero e del rosso, che ha
accompagnato guerre e genocidi, lager e gulag, sono seguiti altri furti. Il
bianco e l’azzurro (non quello della maglia degli «Azzurri» e neppure quello
del manto della Madonna) sono stati infangati già da tempo. Ma anche il giallo
e il verde sono stati arraffati e insieme fanno un mix preoccupante. Non solo
hanno rubato i colori, hanno usato questo o quel colore per dominare sugli
altri e, spesso, contro gli altri.

Per questo
è urgente riprendersi i colori e ridare libertà all’arcobaleno. Ne va della
bellezza della nostra vita. Non si può accettare un mondo monocolore o con i
colori in lotta gli uni contro gli altri. Il blu del cielo, l’azzurro
dell’acqua, il giallo caldo dorato del sole, il verde dell’erba, il rosso del
sangue, il bianco delle nuvole o della neve, il nero della notte che porta
ristoro alla nostra stanchezza, sono doni per tutti e ciascuno.

Ricordo
un prato della mia infanzia. Che splendore in primavera: mille sfumature di
verde e di bianco, rosso, giallo, azzurro, viola… un tripudio di bellezza. Ho
rivisitato quel prato un anno fa pregustandone l’armonia. Che delusione e
tristezza invece: solo il verde monocolore di un’erbetta tutta uguale risultato
di un diserbo selettivo che ha eliminato ogni altro seme, ogni fiore, ogni
profumo, ogni insetto.

Insieme,
i colori sono inno alla vita, pennellate di bellezza, armonia delle diversità.
Nessun colore può dire «non ho bisogno degli altri». Neppure il bianco, che
pure li contiene tutti, può dire «basto io». Il bianco ha bisogno del nero e il
nero del bianco e mescolandosi generano infinità di sfumature. Sulle pagine
insieme scrivono le nostre memorie, le gioie e le lacrime della vita. E il
bianco è grande quando libera tutti i colori che ha dentro di sé, come
nell’iride.

I colori
sono specchio della nostra umanità. Immaginate se fossimo tutti uguali come i
soldati di Star Wars. Come uomini siamo belli perché diversi, armonici perché
ciascuno è unico, irrepetibile. I bianchi (ammesso che bianchi siamo!) hanno
mille gradazioni di bianco. E così i neri. È incredibile come un colore che ci
sembra unico abbia in realtà sfumature innumerevoli modellate dalla magia della
luce del sole. Anche il nostro colore preferito, perché ognuno ha il suo, non
potrebbe essere tale senza essere collocato nel contesto degli altri.

I
colori hanno poi un’unica sorgente, la luce, così come l’Umanità e tutto
l’universo sono nati dalla Parola d’amore di Dio «Sia». Quella stessa Parola
che per prima ha creato la luce: «“Sia la luce!”. E la luce fu» (Gen 1,3).

All’inizio
di questo nuovo anno liberiamo i colori, riprendiamoci l’arcobaleno, dicendo di
no a chi vuole colorare il mondo di un solo colore. Abbiamo la libertà dei
«figli della Luce»: difendiamola, promuoviamola, curiamola per noi stessi, per
le persone che amiamo, anche per quelle che non amiamo abbastanza, e per tutta
l’Umanità.

Luce, bellezza, amore, fraternità, pace e gioia a tutti in questo 2019.

Osserva l’arcobaleno e benedici colui che l’ha fatto,
è bellissimo nel suo splendore.
Avvolge il cielo con un cerchio di gloria,
l’hanno teso le mani dell’Altissimo. (Siracide 43,12)




I Perdenti 27.

Spartaco e la rivolta degli schiavi


Una delle più grandi rivolte di schiavi che l’antica Roma dovette affrontare fu quella capeggiata da Spartaco. Già due volte nella storia secolare di Roma c’erano state cruente ribellioni da parte degli schiavi, la prima tra il 136 e il 132 a.C., la seconda tra il 102 e il 98 a.C., ambedue in Sicilia dove gli schiavi vivevano in condizioni particolarmente dure lavorando nelle miniere e nei campi.

Queste «guerre servili» erano state represse con estrema durezza dalle autorità romane che consideravano gli schiavi degli oggetti di proprietà del padrone, che era libero di fare di loro quello che voleva. Ma la «terza guerra servile», capeggiata da Spartaco tra il 73 e il 71 a.C. fu la più pericolosa, coinvolse oltre centomila schiavi e indigenti e obbligò l’esercito romano a intervenire con le sue legioni migliori.

Il leader di questa ribellione era uno schiavo che proveniva dalla Tracia, un territorio che corrisponde oggi al Sud della Bulgaria più l’estremità orientale della Grecia e la parte europea della Turchia.

Le poche notizie storicamente certe che abbiamo ci presentano Spartaco arruolato nelle truppe ausiliarie romane, poi ridotto successivamente in schiavitù a seguito di un tentativo di diserzione. Molto dotato fisicamente, venne venduto a un lanista (padrone di gladiatori) di Capua e addestrato per quei giochi mortali nell’arena della città. Si racconta che fosse intelligente, acculturato e possedesse oltre a grandi doti umane anche un notevole acume tattico e una profonda conoscenza delle strategie militari romane, come dimostrato dall’abilità con la quale seppe riunire e guidare il suo esercito di schiavi.

Il suo nome nei secoli è stato un punto di riferimento fondamentale per moltissimi «ribelli»,  per tutti coloro che non accettano di essere ridotti in schiavitù e anelano ad avere un’esistenza dignitosa a misura d’uomo.

Visto che tra i personaggi dell’antichità il tuo nome e la tua storia godono di una immensa considerazione, puoi dirci come ebbe inizio la tua vicenda…

Tutto cominciò nel 73 a.C., a Capua, nei pressi di Napoli, in una scuola di addestramento per gladiatori, dove insieme ad altri schiavi prigionieri anch’io ero recluso. Circa duecento di noi organizzammo un complotto per fuggire, però all’ultimo momento il piano venne scoperto e alla fine riuscimmo a scappare solo in una sessantina.

Come siete riusciti a farla franca e a mimetizzarvi nel bel mezzo della società romana?

Durante la fuga avemmo la fortuna di imbatterci in un convoglio di carri pieni di armi destinate agli spettacoli dei gladiatori, le stesse che avremmo dovuto usare gli uni contro gli altri, e dopo un violento scontro ce ne impadronimmo, mettendo in fuga le guardie che lo accompagnavano, dopo di che ci rifugiammo sui versanti del Vesuvio.

La notizia delle vostre gesta si propagò con una velocità incredibile tra gli schiavi.

Questa fu la fortuna degli esordi, la fama che si creò attorno al piccolo nucleo iniziale di fuggitivi divenne come una calamita che attirò poi, un po’ per volta, schiavi e sbandati di ogni genere, attratti soprattutto dal nostro sistema di dividere «democraticamente», in parti uguali, il bottino che incrementavamo sempre più grazie alle razzie che compivamo in villaggi isolati lontano dalle città e dalle grandi vie imperiali di comunicazione. Tutto questo si svolgeva nell’indifferenza di Roma, che ci considerava né più né meno che una banda di piccoli delinquenti dilettanti che non meritavano poi una grande attenzione.

Ma le cose poi cambiarono…

In seguito a un conflitto con una guarnigione di legionari romani avvenuto quasi per caso, il nostro gruppo, che poteva considerarsi ormai un piccolo esercito, s’impadronì di un grosso quantitativo di armi da battaglia. Con queste sconfiggemmo le legioni di Caio Clodio, giunto sul posto per contrastare quella che – secondo il Senato di Roma – rischiava di diventare una minaccia seria per tutto il territorio della Campania.

Come si svolsero i fatti?

Il console Caio Clodio fece l’errore di attestare i suoi soldati all’imbocco dell’unica strada che discendeva lungo il Vesuvio. Noi riuscimmo a colpire le legioni romane prendendole alle spalle con un’azione di sorpresa, ovvero calando di notte giù per il declivio più scosceso un buon numero di combattenti legati con delle corde. Questa fu la prima azione eclatante del nostro esercito formato da pochi mesi, in quella occasione riuscimmo persino ad impadronirci di un certo numero di cavalli e delle insegne dei fasci littori della loro guarnigione, cose, queste ultime, ritenute quasi sacre dall’esercito romano.

Se ben capisco, c’erano ormai tutte le caratteristiche per una guerra vera e propria tra voi e la più grande potenza militare di allora…

Dici bene, in breve tempo la rivolta si estese in gran parte del Sud della penisola italica, gli scontri coinvolsero la Campania, la Lucania e l’Apulia. Altri schiavi in diverse parti dell’impero romano si ribellarono massacrando indiscriminatamente i loro padroni, crimini ed efferatezze gratuite che io stesso tentai inutilmente di bloccare.

In seguito a questi avvenimenti tu concepisti un piano per sfruttare al meglio la libertà conquistata…

Il piano che cominciavo a intravedere era quello di risalire la penisola e oltrepassare le Alpi, in modo da rendere la libertà agli schiavi che si erano uniti a noi. Purtroppo non tutti erano d’accordo con me, per esempio gli schiavi originari dalla Gallia decisero di separarsi da noi.

E questo perché?

Loro intendevano combattere Roma a viso aperto, piuttosto che fuggire oltralpe, io invece avevo delle vedute più realistiche, se vuoi più modeste, ero infatti convinto che noi – sia per numero come per preparazione militare – non avevamo nessuna possibilità di vittoria in uno scontro frontale con il formidabile e preparatissimo esercito di Roma.

Non tutti però la pensavano come te…

Purtroppo mi accorsi che l’enorme massa di uomini che mi aveva seguito ragionava più da gladiatore che da soldato, la gran parte di loro infatti voleva vendicarsi dando una sonora lezione ai romani per pareggiare il conto delle umiliazioni e delle angherie patite durante gli anni della schiavitù.

In ogni caso ci furono degli scontri con le legioni romane.

Sì, nel nostro peregrinare nella penisola ci scontrammo diverse volte con truppe dell’esercito di Roma e alcune battaglie sul campo le vincemmo noi, tant’è vero che alla fine di ogni scontro si radunavano nel nostro accampamento molti mercanti pronti ad acquistare il bottino che avevamo conquistato, ma io proibii di ricevere in cambio oro e argento: i miei uomini dovevano accettare solo ferro e rame, metalli necessari per forgiare nuove armi.

Roma non poteva tollerare ulteriormente che un piccolo per quanto agguerrito esercito di schiavi e fuoriusciti dalla società potesse esistere e ingrandirsi senza nessuna conseguenza, eravate come un tumore che bisognava estirpare ad ogni costo.

Per sottrarmi alle legioni romane che mi davano la caccia decisi di riparare in Cilicia (odierna parte Sud della Turchia), ma non riuscii a realizzare il mio piano a causa del tradimento dei pirati con cui mi ero incontrato e che, all’ultimo momento, ci rifiutarono le navi necessarie.

Con quel tradimento tu con i tuoi uomini sei rimasto intrappolato sulla punta estrema della penisola italiana.

Il peggio è che Crasso, sopraggiunto alle mie spalle ebbe l’idea di sfruttare la conformazione del Bruzio (la Calabria appunto) per toglierci ogni via di fuga: fece costruire una palizzata dalla costa ionica a quella tirrenica, lunga 300 stadi pari a 55 km dei vostri. Ma nell’inverno del 72-71 a.C., dopo ripetuti tentativi di forzare il passaggio, ci riuscimmo attraverso un vallone in una notte di tempesta.

Poi che successe?

Crasso richiese altri aiuti dal Senato, che gli inviò Pompeo con le sue legioni appena rientrato dalla Spagna, mentre dalla Macedonia, sbarcando a Brindisi, sarebbe accorso Marco Licinio Lucullo al comando delle sue legioni. Il cerchio si stringeva attorno a noi, a questo punto decisi di dirigermi verso Brindisi, nel tentativo di attraversare l’Adriatico.

Riusciste nell’impresa?

Purtroppo un buon numero di schiavi galli e germani durante la notte disertò, indebolendo decisivamente le nostre forze. Messo al corrente dell’imminente arrivo di Lucullo a Brindisi, decisi di tornare indietro e mi diressi ad Apulia con i miei compagni verso le truppe di Pompeo, in quella terra ebbe luogo la battaglia finale, dove fummo non solo sconfitti ma sbaragliati e annientati completamente.

 

La morte di Spartaco, crocifisso lungo la via Appia (secondo una tradizione non accolta però dagli storici romani), marmo bianco di Louis-Ernest Barrias, 1871, ora a Parigi, Giardino delle Tuileries.

L’ultimo atto della guerra contro Spartaco, lo schiavo che osò ribellarsi a Roma, fu un’autentica carneficina, rimasero uccisi sul campo di battaglia migliaia di schiavi tra i quali lo stesso Spartaco, il cui corpo comunque non fu mai ritrovato. I romani persero solo mille uomini e fecero seimila prigionieri, che Crasso fece crocifiggere lungo la via Appia (che da Capua porta a Roma). Altri reparti dell’esercito di Spartaco, circa cinquemila uomini, tentarono la fuga verso Nord, ma vennero raggiunti e annientati da Pompeo. Terminava così in un bagno di sangue la rivolta di Spartaco.

Quello che è certo è che la ribellione degli schiavi scosse profondamente il popolo romano, che «a causa della grande paura cominciò a trattare i propri schiavi meno duramente di prima». Anche la condizione legale e i diritti degli schiavi romani iniziarono a mutare.

Le idee di Spartaco, a distanza di secoli, entrarono a far parte del pensiero politico moderno, personaggi come Carlo Marx e Rosa Luxembourg lo presero a modello nei loro programmi di emancipazione come simbolo della rivolta delle classi servili (cioè gli operai) contro quelle padronali.

Il mito di Spartaco si staglia nei secoli più nitido che mai.

Don Mario Bandera




I Perdenti 26. Anita Garibaldi


Anita nacque in Brasile, a Morrinhos nello stato di Santa Catarina, il 20 agosto 1821. Il suo nome completo era: Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, figlia del gaucho (mandriano) Bento Ribeiro da Silva e di Maria Antonia de Jesus Antunes che ebbero tre figlie e tre figli. Battezzata Ana, era chiamata in famiglia Aninha, diminutivo di Ana in portoghese. Sarà in seguito Garibaldi ad attribuirle il diminutivo spagnolo di Anita, con il quale noi la conosciamo. Negli splendidi panorami della sua terra e nelle ampie distese della pampa imparò presto a cavalcare e sin dalla sua adolescenza dimostrò di avere un carattere forte e deciso. Nel 1834 la sua famiglia si trasferì nella cittadina di Laguna, sempre nello stato di Santa Catarina, dove purtroppo pochi anni dopo trovarono la morte il padre e i tre fratellini a causa di una epidemia di tifo. Un suo zio, al quale dopo la morte del padre si era molto affezionata, la iniziò agli ideali di giustizia sociale, in un paese governato con il pugno di ferro dai governatori dell’impero luso-brasiliano.

Nel 1835 scoppiò la rivolta dei farroupilha, ossia la rivolta degli straccioni. La sommossa popolare segnò profondamente l’animo di Anita, che guardava con ammirazione i ribelli, sognando di poter un giorno compiere le loro stesse gesta. Il 22 luglio 1839, i rivoltosi conquistarono la città, e gran parte degli abitanti di Laguna si recarono in chiesa per intonare un Te Deum di ringraziamento al Signore, tra loro c’era Anita. Fu in quell’occasione che vide per la prima volta Giuseppe Garibaldi, presente insieme agli altri protagonisti della rivoluzione. Il giorno seguente i due si incontrarono di nuovo, lui la fissò intensamente e le disse: «Tu devi essere mia». Da quel momento Anita sarebbe diventata la compagna fidata di tutte le battaglie di Garibaldi e la madre dei suoi figli.

Anita, sembra quasi che sin dalla più tenera età tu fossi destinata ad avere un ruolo da protagonista sia nella storia del Brasile e dell’Uruguay come nella storia del Risorgimento italiano…

Il merito va tutto a mio zio Antonio, che dopo la morte del mio povero babbo mi prese sotto la sua protezione, insegnandomi fin da bambina ideali di libertà e giustizia. Egli seppe trasmettermi il suo atteggiamento responsabile di fronte ai problemi sociali che andavano delineandosi, facendomi capire che non si poteva rimanere neutrali di fronte ai soprusi che venivano compiuti dai prepotenti di turno.

Ma il tuo non fu un atteggiamento di semplice simpatia e di sostegno solo teorico verso i più deboli…

Una volta assunta la causa degli oppressi, passai subito nelle truppe degli insorti e insieme ad altre donne del popolo combattemmo al fianco dei nostri uomini. Il compito a cui più spesso ero assegnata era quello di difendere le casse di munizioni, sia durante gli attacchi navali che negli scontri a fuoco che si susseguivano a terra.

Ma il 12 di gennaio del 1840, nella battaglia di Curitibanos, fosti fatta prigioniera dalle truppe imperiali luso-brasiliane…

Già, ma il comandante commise un errore fatale, in quanto mi concesse di dare sepoltura ai cadaveri dei miei compagni rimasti sul campo di battaglia. Io, approfittando di un momento di distrazione delle guardie, afferrai un cavallo e riuscii a fuggire.

Quell’anno fu particolarmente importante per te e per il tuo Giuseppe, che voi chiamavate Josè.

Direi proprio di sì. Il 16 settembre 1840 nacque il nostro primo figlio al quale demmo il nome di Domenico. Sarebbe stato chiamato Menotti per tutta la sua vita, in onore del patriota modenese Ciro Menotti.

Poche settimane dopo il parto, tu Anita riuscisti a sfuggire avventurosamente a una nuova cattura.

I soldati imperiali avevano circondato la nostra casa e ucciso gli uomini lasciati da Garibaldi per la difesa, cercando di farmi prigioniera, ma io, con mio figlio in braccio, saltai da una finestra, montai a cavallo e fuggii nel bosco. Rimasi nascosta nel fitto della boscaglia per quattro giorni, con il neonato al petto, finché Garibaldi e i suoi mi ritrovarono. Dovevi vedere con che tenerezza il mio Josè portava il piccolo Menotti in un foulard a tracolla riscaldandolo con il calore del suo corpo durante la ritirata nella sierra.

Però gli avvenimenti si susseguivano implacabili: nel 1841, essendo divenuta ormai insostenibile la situazione militare della rivoluzione brasiliana, tu e Garibaldi prendeste congedo da quella guerra e vi trasferiste a Montevideo, capitale dell’Uruguay.

Quella che doveva essere una tappa passeggera della nostra vita si trasformò in un’avventura che segnò non poco le nostre esistenze. In Uruguay restammo sette anni, durante i quali Garibaldi si guadagnò da vivere per mantenere la nostra famiglia impartendo lezioni di francese e di matematica.

A Montevideo coronaste anche religiosamente il vostro legame di vita.

È vero, il 26 marzo 1842 ci sposammo nella parrocchia di San Francesco d’Assisi. Nel 1843 nacque Rosita, che purtroppo morì a soli 2 anni, nel 1845 Teresita e nel 1847 Ricciotti quarto e ultimo figlio.

Al di là delle vostre vicissitudini familiari, pensi che l’esperienza latinoamericana, vissuta in modo così intenso da Garibaldi, vi abbia preparato a vivere il Risorgimento italiano?

Penso proprio di sì. Le vicende vissute dal mio Josè in Sud America hanno dell’incredibile. La sua epopea latinoamericana durò una dozzina d’anni di cui sette in Uruguay e cinque in Brasile. In Uruguay erano gli anni della guerra civile (1840-1852), che vide il Blancos (sostenuti dall’Argentina) e Colorados (sostenuti da francesi e inglesi) combattere sanguinose battaglie. Garibaldì formò e comandò la legione italiana schierata con i Colorados. Tutto questo senza mai rinunciare alla tenerezza reciproca, all’affetto della famiglia e alla nostra love story.

È per l’impegno profuso in quegli anni che poi Garibaldi si guadagnò la nomea di «Eroe dei due mondi».

Sì, si può dire che Garibaldi, in Brasile prima e in Uruguay poi, fu un condottiero muy valiente. Le sue vittorie militari si realizzarono per terra (tra scontri campali e ardite azioni di guerriglia) e per mare (fu ufficiale della marina uruguaiana sul Rio de la Plata e nei fiumi che lo generano). Era ai nostri occhi un vero libertador di stampo sudamericano, casualmente nato a Nizza.

Però nel 1848, alla notizia delle prime rivoluzioni europee, il tuo Josè nonostante le lusinghe che gli facevano i governanti uruguayani affinché rimanesse, ti imbarcò con i figli su una nave diretta a Genova con destinazione finale Nizza dove fosti ospitata da sua mamma, mentre lui si fermò per sistemare le ultime cose e vi raggiunse con un altro bastimento qualche mese più tardi.

L’accoglienza che ci riservò la mamma di Josè fu straordinaria, l’abbraccio che diede a me e ai suoi nipoti era carico di amore e tenerezza. Ospitati nella sua casa attendemmo di settimana in settimana l’arrivo di Garibaldi, ma quando lui giunse, accompagnato da un sessantina dei suoi legionari, si fermò poco tempo. Infatti avevano portato la notizia che il 9 febbraio 1849 a Roma era stata proclamata la Repubblica Romana, ed egli voleva raggiungere la città eterna con un corpo di volontari che erano subito accorsi per mettersi ai suoi ordini.

E tu lo seguisti?

Qualche tempo dopo decisi di raggiungerlo. Arrivai a Roma in tempo per assistere alla sconfitta che i volontari romani guidati da Garibaldi fecero subire ai francesi. Purtroppo in quella battaglia restarono sul terreno centinaia di morti. A seguito di quello scontro venne stabilita dalle due parti una tregua con scadenza il 3 giugno. In realtà i francesi stavano preparando una trappola per guadagnare tempo e fare arrivare altri rinforzi.

Quindi che successe dopo?

Quando ripresero i combattimenti, la superiorità francese era evidente a tutti e, nonostante la strenua resistenza dei volontari italiani sul Gianicolo, a poco a poco le forze della Repubblica Romana persero terreno, finché il 4 luglio 1849, venne decisa la resa.

Garibaldi però non si arrende e decide di andare con tutti coloro che intendevano seguirlo a Venezia che ancora resiste agli austriaci. Sebbene inseguito dai corpi di spedizione di quattro eserciti inviati dalla Francia, dalla Spagna, dall’Austria e dal Regno delle due Sicilie, Garibaldi riesce a condurre in salvo i suoi uomini nel territorio straniero di San Marino dove scioglie la sua brigata di volontari. Anita in quei giorni è febbricitante e, sebbene incinta, segue il marito a cavallo. Lo segue anche nella cavalcata verso Cesenatico. Quando vi giunge è letteralmente consumata dalla febbre. Garibaldi con duecento seguaci cerca di raggiungere Venezia con delle imbarcazioni da pesca. Ma le navi austriache che controllano il litorale adriatico impediscono di proseguire. Alcune barche si arrendono, altre si avvicinano a terra. Tra queste quella di Garibaldi e Anita, che cercano di sfuggire agli austriaci che li cercano. I garibaldini si sparpagliano su strade diverse per sfuggire alla caccia dei soldati austriaci e dei gendarmi pontifici.

Garibaldi rimane solo con Anita e con il fedelissimo Capitano Leggero. Nelle valli di Comacchio i fatti precipitano. La donna perde conoscenza. Pur braccati dai nemici, Garibaldi e Leggero con l’aiuto di amici fidati caricano Anita su una piccola barca e poi, su un vecchio materasso, la trasportano nella fattoria Guiccioli in località Mandriole di Ravenna, dove cercano disperatamente di rintracciare un medico, il quale accorre immediatamente ma può solo constatare che Anita è spirata: è il 4 agosto 1849. Anita non ha ancora ventotto anni. La sua avventura umana, storica e sentimentale accanto a Giuseppe Garibaldi è durata appena undici anni.

Don Mario Bandera


Errata-corrige: la foto a pagina 72 MC non rappresenta Garibaldi e Anita, ma Garibaldi con la seconda moglie, Francesca Armosino, che gli diede tre figli.




Perdenti 19: Jan Palach


FO00101939Il 16 gennaio 1969 Jan Palach, giovane studente della facoltà di filosofia dell’Università di Praga, si diede fuoco nella centralissima Piazza San Venceslao per protestare contro l’occupazione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia che pose fine alla Primavera di Praga di Alexander Dub?ek, ovvero al tentativo di rendere più umano il socialismo imposto dai sovietici dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Un mese dopo, un altro studente, Jan Zajíc, seguì il suo esempio, anche lui in Piazza San Venceslao. Nel mese di aprile a darsi fuoco fu Evel Plocek, nella cittadina di Jihlava. In quei mesi almeno una decina di giovani cecoslovacchi fecero altrettanto. La ferrea censura comunista impedì alla stampa internazionale di accedere ai luoghi ove erano avvenuti i loro sacrifici. Ricordarli significa onorare la memoria di giovani martiri che offrirono la vita per la libertà del loro paese.

Jan, sono in difficoltà con questa intervista perché tu e i tuoi compagni rappresentate un esempio di amore, non solo per la patria, ma per la libertà. Un amore che vi ha spinti a sacrificare la vita per la vostra terra e il vostro popolo.

Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 entrarono i carri armati sovietici nella capitale del mio paese mettendo fine alla cosiddetta «Primavera di Praga», ovvero al tentativo di Alexander Dub?ek, capo del governo, di avviare una timida, ma innovativa, transizione dal socialismo reale a una forma più partecipativa della gestione pubblica. L’Unione Sovietica, come aveva fatto in precedenza in Ungheria (1956), intervenne a troncare l’esperimento per paura che contagiasse altri paesi satelliti.

Ci puoi spiegare perché hai scelto di sacrificarti in quel modo?

Volevo scuotere la coscienza del mio popolo per spezzare il clima di rassegnazione che imprigionava la gente in una resistenza puramente morale, intima, con il tempo destinata ad assuefarsi e a riassorbirsi nella routine quotidiana e nei suoi compromessi inevitabili.

Il tuo gesto estremo, quindi, è stato dettato dalla situazione stagnante che rischiava di addormentare la coscienza collettiva di un’intera comunità. Il tuo non era un suicidio per disperazione, non era una resa alla dittatura, era piuttosto un’eclatante azione offensiva, non è forse così?

Certamente è così. La gente della Boemia, della Moravia, della Slovacchia, col passare del tempo non sperava più che qualcuno venisse dal di fuori a liberarli dal giogo sovietico, in una certa misura maturava a livello collettivo la presa di coscienza che, per riacquistare la libertà perduta, ci si dovesse in qualche modo ribellare.

Nessuno cercò di dissuaderti?

Un tranviere fu il testimone diretto della mia immolazione: egli mi guardava mentre inzuppavo gli abiti di benzina. Appena accesi il fiammifero e il fuoco divampò verso il cielo, egli si tolse il cappotto e me lo gettò addosso nel tentativo di spegnere le fiamme.

Il tuo può essere considerato il gesto estremo di un soldato che si sacrifica per gli altri esortandoli a battersi fino alle estreme conseguenze, come del resto riconobbe lo stesso presidente Ludvík Svoboda.

L’opinione pubblica, sia quella nazionale che quella internazionale, non vide nel mio gesto un atto disperato, anzi molti lessero quello che io avevo fatto come il tentativo di riportare la mia terra nell’alveo dei paesi democratici. L’aver combattuto contro l’occupazione nazista e l’aver riconquistato e riassaporato la libertà non poteva avere un epilogo così triste come quello di entrare a far parte dei paesi satelliti dell’Urss.

Non fu neppure una rinuncia a quel dono immenso di Dio che è la vita, come riconobbe anche il Vaticano con un articolo apparso sull’Osservatore Romano.

Del resto le piccole nazioni, come sempre avviene, devono sottostare alla logica della real politik delle grandi potenze.

Verissimo! La storia si ripete senza fantasia, nel 1938 le super potenze dell’Occidente avevano abbandonato la Cecoslovacchia alla Germania nazista e, dopo aver lottato contro l’occupazione tedesca, accogliendo con sincera gratitudine l’Armata Rossa che era entrata nella mia terra per liberarla dal giogo nazista, si trovava catapultata dalla padella alla brace.

Eppure la Cecoslovacchia faceva parte di quel mondo culturale mitteleuropeo che aveva saputo dare nei secoli un’impronta originale alla storia del nostro continente.

Con gli accordi di Yalta, nella spartizione del mondo, le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale collocarono la Cecoslovacchia tra i paesi gravitanti nell’orbita dell’Urss. La cortina di ferro, da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, divideva in due l’Europa.

All’ospedale, mentre ti prestavano le prime cure riservate ai grandi ustionati, trovarono una lettera tutta bruciacchiata, ma abbastanza leggibile, ove erano evidenziati i motivi del tuo gesto, cosa avevi scritto?

Su dei fogli di un quaderno a righe avevo scritto: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari pronti a immolarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero uno, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni un’altra torcia si infiammerà».

In quel periodo anche parecchi monaci buddisti si erano dati fuoco per protestare contro l’interminabile guerra del Vietnam. Il loro esempio ti ha ispirato?

Sì, è vero, all’interno dell’Università Carlo IV di Praga parecchi miei coetanei non erano rimasti insensibili al loro martirio. Se i monaci buddisti si sacrificavano dandosi fuoco per richiamare l’attenzione del mondo sulla tragedia che il loro paese stava vivendo, in un certo qual modo bisognava che pure qualcuno in Europa si sacrificasse per richiamare l’attenzione su quello che la dittatura sovietica stava facendo al mio paese.

Il tuo sacrificio molti lo accostano al suicidio di Jan Masaryk, figlio del fondatore della Repubblica, trovato morto ai piedi della finestra da cui si era gettato (o era stato scaraventato?).

Purtroppo la storia del mio paese è ricca di tragedie simili, dalle defenestrazioni di Praga contro gli hussiti, a quella del 1618 che scatenò la Guerra dei Trent’anni, a quella dell’epoca modea, messa in atto contro Jan Masaryk nel 1948, alla vigilia del colpo di stato attuato dai comunisti per impadronirsi del potere.

Come te, altri giovani si immolarono per la libertà, ma l’implacabile macchina di occupazione sovietica non si fermò di fronte a queste tragedie.

I sovietici furono molto abili nel presentarsi come normalizzatori dello status quo ricordando al mondo intero che le decisioni prese dai grandi alla conferenza di Yalta non potevano essere messe in discussione. Doveva prevalere la dottrina delle due superpotenze che controllavano le loro rispettive aree mondiali di influenza.

 

I funerali di Jan Palach, nonostante gli impedimenti messi in atto dal regime cecoslovacco e dalle truppe sovietiche, furono una grande manifestazione di dolore per tutto il paese. La salma del giovane studente di Praga fu esposta all’Università Carlo IV, dove per due giorni ininterrottamente convenne una folla sterminata proveniente da tutte le province. La bara fu portata al cimitero, lì il decano della facoltà di filosofia pronunciò un fermo discorso davanti al feretro: «La Cecoslovacchia sarà un paese democratico soltanto quando il sacrificio di un suo figlio non sarà più necessario». Sulla facciata di un teatro, ove passò il corteo funebre, venne scritta a grandi lettere la famosissima frase di Bertold Brecht: «Infelice quel popolo che ha bisogno di eroi». Al funerale partecipò una folla immensa di persone, studenti, operai, il corpo accademico universitario al completo, gente umile e semplice giunta nella capitale per vivere da protagonista – nel ricordo del sacrificio di Jan Palach – una giornata memorabile della storia del loro paese.

Don Mario Bandera




Eleazar Ben Yair eroe masada


Masada è il nome di uno sperone roccioso al cui culmine c’è un ampio pianoro che si innalza a quasi 400 metri sul livello della costa Sud Ovest del Mar Morto nello scenario arido e selvaggio tipico di quella zona. Masada, nei secoli prima di Cristo, era utilizzata come una roccaforte difensiva, ma fu Erode il Grande a fae una fortezza militare di prim’ordine. La sua superficie pianeggiante, ampia una decina di ettari, fu munita lungo tutto il suo perimetro di una doppia cinta di mura e a intervalli regolari furono ricavati circa un centinaio di depositi che, oltre ad arsenale e magazzini per ogni evenienza, servivano anche da abitazione per gli occupanti del luogo.Furono costruiti anche una sinagoga, grandi ripostigli, laboratori e numerose cistee per la raccolta dell’acqua piovana. In questa località che aveva tutti i presupposti per resistere ad un lungo assedio, si consumò nell’anno 74 la tragedia finale delle guerre giudaiche; di questo fatto parliamo con il comandante della fortezza di Masada, Eleazar Ben Yair.

Il racconto della tragedia di Masada ci è giunto attraverso gli scritti dello storico giudaico Giuseppe Flavio, un ebreo che simpatizzava per i romani fino a diventare lo scrivano della famiglia Flavia. Egli descrive il dramma che coinvolse Masada 5 o 6 anni dopo i fatti narrati. Anche se la sua narrazione è un po’ troppo di parte, c’è da dire che i fatti che espone corrispondono abbastanza a ciò che successe realmente.

Per far capire bene l’intera vicenda, puoi narrare come si svolsero i fatti?

Dopo la caduta di Gerusalemme, nel 70, un gruppo di giudei, appartenenti in particolare alle due sette più bellicose, quella dei «Sicari» e quella degli «Zeloti», che non volevano assolutamente arrendersi ai Romani, si rifugiarono a Masada e su quello sperone roccioso si organizzarono per resistere per lungo tempo all’assedio dei Romani.

Giuseppe Flavio narra come il generale romano Flavio Silva ponendo l’assedio a Masada, circondò alla base la roccaforte con un muro che la racchiudeva tutta, creando otto accampamenti con i 7000 legionari che aveva a disposizione.

Coloro che si erano rifugiati a Masada potevano resistere per un tempo indeterminato, perché il luogo aveva un solo stretto accesso, avevano a disposizione l’acqua piovana che veniva raccolta con grande cura nelle numerose cistee, dalla terra ricavavano verdura e cereali che insieme a qualche animale domestico dava il necessario per vivere, per cui l’assedio non li avrebbe mai costretti ad arrendersi per fame o sete.

Perciò occorreva conquistare Masada in altro modo?

Il sentirnero (detto «del serpente») che portava alla fortezza, lungo più di 5 km, era facilmente difendibile perché non consentiva a due persone di camminare appaiate. Era così stretto e tortuoso che anche se si fossero lanciati centinaia di soldati all’attacco, poteva essere difeso senza difficoltà da pochi uomini.

I Romani non erano certamente gente da arrendersi, per cui progettarono di costruire una rampa che dalla piana arrivasse all’altezza del costone più basso di Masada, rampa sulla quale si sarebbero lanciati per conquistare la sommità della fortezza.

Le cose andarono proprio così. In poco più di un mese, grazie al lavoro continuativo di migliaia di schiavi, l’enorme rampa venne portata fin quasi a raggiungere le mura. Su di essa costruirono poi una enorme torre tutta ricoperta di ferro e munita di catapulte, con le quali cominciarono a demolire le mura e «bombardare» i difensori.

Gli Zelori e i Sicari, vedendo il progresso inesorabile della potente macchina da guerra romana, quando anche la torre fu completata e una breccia fu fatta nelle mura, consci di non avere alcuna possibilità di vittoria di fronte alla schiacciante superiorità numerica degli avversari, la notte prima dell’assalto finale decisero di ricorrere a un’estrema soluzione piuttosto che arrendersi.

La decisione presa era terribile in quanto gli uomini, disubbidendo alle Sacre Scritture, decisero ognuno di passare a fil di spada i propri familiari, cominciando dalle mogli per poi sacrificare i figli e per ultimi i più piccoli.

E tra di loro come si sono comportati?

Estraendo a sorte, un ebreo avrebbe ucciso con la spada dieci suoi compagni fino a quando ne sarebbe rimasto solo uno e questi si sarebbe suicidato.

Quando i Romani, completata la rampa, misero piede sul pianoro di Masada, furono presi da grande stupore nel vedere che non incontravano alcuna resistenza e il luogo era completamente deserto.

I Romani, mettendo piede sulla piana della fortezza, rimasero sorpresi dal silenzio e dall’assoluta mancanza di ogni tipo di resistenza. Infatti non c’era più alcuno che potesse combattere contro di loro perché gli assediati, pur di non arrendersi, avevano compiuto quello che il mondo ebraico non considerava per nulla un atto di valore, cioè il suicidio.

Come fecero i Romani a capire cosa era successo?

I Romani, trovandosi di fronte a un luogo apparentemente abbandonato e con le case e i magazzini in fiamme, alzarono alte grida per vedere se si faceva vivo qualcuno. Le loro urla furono udite dalle uniche due donne superstiti che, uscite dal loro nascondiglio, raccontarono ai Romani tutti i particolari dell’accaduto.

Poi cosa successe?

Increduli dinnanzi al racconto delle donne, i Romani cercarono di domare gli incendi appiccati ovunque, ma quando entrarono nel palazzo reale e videro sul pavimento una distesa di cadaveri non provarono esultanza per aver vinto una battaglia e annientato il nemico, ma piuttosto tanta ammirazione per quello che venne considerato dai vincitori come un nobile gesto.

Con la conquista di Masada finiva la prima rivolta dei Giudei contro i Romani.

I vincitori lasciarono una guaigione a Masada mentre il grosso dell’esercito toò a Cesarea Marittima ove risiedeva Erode. In tutta la zona non rimaneva più alcun focolaio di resistenza, tutta la Giudea, così come la Galilea e la Samaria, era stata di nuovo sottomessa all’Impero di Roma.

Masada si sacrificò per non arrendersi, ma ugualmente venne conquistata dai Romani, la notizia di quello che successe si diffuse rapidamente per tutto l’Impero.

Sì, tanto che le comunità ebraiche sparpagliate lungo le coste del Mediterraneo vennero sospettate come potenziali focolai di ribellione. Vennero quindi sorvegliate e tenute d’occhio con un’attenzione particolare da parte delle legioni romane.

Sul popolo ebraico, che effetto ebbe?

Ne rimase un vivo ricordo per molti secoli, ma poi la storia di Masada cadde nell’oblio. Anche la sua esistenza fu dimenticata. La fortezza fu riscoperta nel solo 1834 e venne riportata alla luce dagli scavi del 1963 a opera di Yigael Yadin. È dalla prima metà del secolo scorso che è partito un processo di riscoperta e valorizzazione di quell’epopea, fonte di orgoglio identitario per l’Israele di oggi.

Quindi oggi Masada, dal moderno stato d’Israele, viene ricordata positivamente?

Per far capire quanto Masada sia profondamente radicata ancora oggi nel popolo di Israele, basti pensare che tutte le reclute che entrano a far parte dell’Esercito, della Marina o dell’Aviazione giurano sulla spianata di Masada con questa formula: «Masada non cadrà mai più, lo giurate voi?» e le reclute alzando il braccio destro rispondono all’unisono gridando: «Lo giuro!».

Questo fatto ci aiuta a capire come passato e presente siano strettamente intrecciati nella memoria del popolo di Israele, quello che anticamente fu un sacrificio collettivo e in definitiva una sconfitta della guaigione giudaica di fronte all’Impero Romano, si trasforma in un atto fondamentale nella vita dei giovani dell’Israele dei nostri giorni quando pronunciano un giuramento così impegnativo per loro stessi e per il loro paese.

Don Mario Bandera, Missio Novara

 


Nota

Entrata nell’oblio dopo la conquista araba, la fortezza di Masada (oggi «patrimonio dell’Umanità» protetto dall’Unesco) toò alla luce nel 1834, mentre la storia dei suoi difensori entrò nella leggenda soprattutto dopo la seconda guerra mondiale con il crescere del sionismo, diventando funzionale a una visione eroica del nascente stato di Israele. Il racconto di Giuseppe Flavio (uno storico ebreo, spesso accusato di essere partigiano perché asservito ai Romani) è molto sobrio e si conclude con un giudizio molto negativo sul suicidio collettivo che, pur avendo suscitato una notevole ammirazione nei conquistatori, non poteva essere accettato dalla visione religiosa del popolo d’Israele.
Ai primi scavi degli anni 1963-64, ne seguirono altri, accompagnati da studi più approfonditi di storiografia comparata a opera delle stesse università israeliane. Tali studi hanno evidenziato come i difensori di Masada fossero stati membri del solo gruppo dei «Sicari», noti per il loro fanatismo e l’uso indiscriminato dell’assassinio come mezzo di lotta politica. Tale gruppo era stato cacciato per la sua eccessiva violenza da Gerusalemme dal popolo stesso, capeggiato dagli «Zeloti», subito dopo le prime fasi della rivolta contro i Romani. Fuggiti dalla città, nel 66 i «Sicari» avevano occupato Masada e, per rifoirsi di cibo, avevano razziato alcuni dei villaggi vicini massacrandone tutti gli abitanti, donne e bambini compresi.
Dalle tracce archeologiche risulta inoltre come non abbiano offerto molta resistenza ai Romani, i quali, dopo aver prima sistematicamente eliminato, dopo battaglie feroci, altre fortezze dove i fuggiaschi da Gerusalemme si erano rifugiati, da ultimo presero Masada quasi senza colpo ferire dopo alcuni mesi di assedio. Il suicidio collettivo, cui sopravvissero solo due donne e quattro bambini, colpì profondamente i Romani, che lo consideravano un atto di grande onore.
Si veda in proposito l’ebook «Masada Myth: Collective Memory and mythmaking in Israel», di Nachman Ben-Yehuda, distribuito in Italia da Feltrinelli.