Iraq: Il ritorno dei cristiani nella piana di Ninive, ricostruire dopo l’Isis

Testi di Marta Petrosillo, foto ACS |


Estate 2014: centinaia di migliaia di cristiani fuggono da Mosul e dalla piana di Ninive. L’Isis ha iniziato la sua avanzata con distruzioni e massacri. Quando la zona viene liberata più di due anni dopo, molti decidono, con coraggio, di tornare. Vogliono ricostruire una presenza cristiana vecchia di duemila anni. In prima fila a sostegno delle popolazioni le Chiese cristiane.

Ritornare a vivere a casa propria dopo l’Isis, dopo l’orrore, dopo aver visto tanti, familiari e amici, abbandonare per sempre il paese, è possibile. Ce lo dimostrano i cristiani iracheni che, nonostante il dolore e l’incertezza, non si sono arresi a chi voleva cancellare la loro presenza da queste terre e oggi sono tornati in gran numero nella piana di Ninive dalla quale erano dovuti fuggire in massa.

Quando è stata liberata tra fine 2016 e inizio 2017, e quando si sono potute constatare le distruzioni compiute, nessuno sperava in un simile miracolo.

Iraq Ninive area Qaraqosh/Bakhdida – ritorno a casa

Tornare in città distrutte

A Qaraqosh, piccolo centro urbano a circa 30 km a Sud Est di Mosul, nel Nord dell’Iraq, noto per essere la roccaforte della cristianità nel paese, si stima che siano ritornati 25.650 cristiani: il 46 per cento di quanti abitavano la cittadina prima dell’invasione dell’Isis nell’agosto 2014.

Notevoli risultati si sono registrati anche in altri villaggi della piana: a Karemlesh, distante 5 km da Qaraqosh, sono rientrati il 26 per cento dei cristiani fuggiti nel 2014, mentre a Telskuf, 60 km più a Nord, i rientri sono stati ben 5.313, ossia il 73 per cento, la quota più alta della zona. Proprio nel villaggio di Telskuf è stata riconsacrata la prima chiesa della piana di Ninive, quella di San Giorgio, danneggiata e profanata dall’Isis. «Un messaggio di speranza e di vittoria. Lo Stato islamico voleva cancellare la presenza cristiana e invece i jihadisti se ne sono andati, mentre noi siamo tornati», ha detto monsignor Bashar Matti Warda festeggiando la riconsacrazione della chiesa l’8 dicembre 2017.

Le Chiese unite per ricostruire

Il processo di ricostruzione ha visto le Chiese irachene in prima linea. L’opera di ripristino e di riedificazione delle oltre 13mila abitazioni bruciate, distrutte e danneggiate dallo Stato islamico, è stata ed è coordinata, infatti, dal Comitato per la ricostruzione di Ninive (Nrc, Nineveh Reconstruction Committee), istituito il 27 marzo 2017 dalle tre Chiese dell’Iraq: caldea cattolica, siro cattolica e siro ortodossa, con la collaborazione della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre.

Ognuna delle tre Chiese ha due suoi rappresentanti nel comitato. Monsignor Timothaeus Mosa Alshamany, arcivescovo della Chiesa siro ortodossa di Antiochia e priore del monastero di San Matteo, dopo la firma dell’accordo ne ha sottolineato la duplice, storica portata: da un lato lo spirito ecumenico, dall’altro la reale possibilità per migliaia di cristiani di tornare alle loro radici e a una vita dignitosa. «Oggi – ha affermato – siamo una Chiesa davvero unita; unita per la ricostruzione delle case nella piana di Ninive, per infondere fiducia nei cuori delle persone che vivono in quei villaggi e per invitare quelli che li hanno lasciati a tornare».

Iraq, Bartela, 10/09/017, distribuzione di piantine di palma alla chiesa della Vergine Maria della Chiesa ortodossa siriaca. © ACS

Ripristinare la dignità

Molti sacerdoti si sono trasformati in ingegneri, architetti e geometri. Don Georges Jahola è uno di loro: è il sacerdote siro cattolico che ha coordinato la ricostruzione di Qaraqosh. Non appena celebrata la messa, don Jahola smette i paramenti e prende il cellulare per seguire i lavori. Gli abbiamo parlato a fine gennaio scorso: «Dopo 2 anni di occupazione dello Stato islamico, al nostro rientro abbiamo trovato quattro chiese bruciate, due siro cattoliche e due siro ortodosse. Abbiamo trovato una chiesa totalmente distrutta, mentre altre erano gravemente danneggiate. Abbiamo celebrato la messa in chiese bruciate. Ora stiamo costruendo e ristrutturando edifici dove poter svolgere catechesi e altre attività pastorali».

La priorità è quella di ristabilire una presenza cristiana, per fare in modo che anche altre famiglie decidano di tornare. «Vogliamo creare spazi per i bambini e per il tempo libero degli adulti e dei giovani», continua don Jahola che ricorda anche le drammatiche condizioni in cui ha trovato Qaraqosh: «Abbiamo visto una città distrutta. Da un lato a causa di oltre due anni di abbandono, dall’altro per via della furia dell’Isis. Il 35% delle case era stato distrutto. Ci siamo spaventati, ma non ci siamo persi d’animo. Abbiamo mappato tutte le case, le abbiamo fotografate, assegnato loro un codice ed elencato i danni di ciascuna. Qui in Iraq se non ci pensa la Chiesa a far fronte alle necessità di questa povera gente non lo farà nessuno».

Oggi, laddove un tempo sventolavano le bandiere nere dell’Isis, sono tornate le famiglie cristiane. «Quasi tutte le parrocchie hanno riaperto – continua don Jahola -. Soltanto due anni fa era impensabile poter ritornare a Ninive. Ma questo significa per noi riacquistare le nostre radici e poter vivere la nostra fede in unione con quella dei nostri antenati».

«Qui c’è il nostro futuro»

Ritornare a casa non è stato semplice per i cristiani. «È stata una ferita al cuore quando ho visto cosa rimaneva della mia abitazione e della mia città», ci confida Wisam, rientrato a Qaraqosh assieme alla sua famiglia dopo aver vissuto da rifugiato a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, per oltre due anni.

Ad aiutare Wisam e gli altri cristiani desiderosi di tornare a casa vi è anche Amjeed Tareq Hano, un giovane di 28 anni che aiuta il team di 70 ingegneri al lavoro nella sola Qaraqosh. Sulla sua scrivania un’alta pila di richieste. «Per poter ricevere un sostegno i proprietari devono contribuire personalmente alla ricostruzione o al ripristino – spiega il giovane ad Acs -. Soltanto così possiamo contenere i costi e aiutare altre famiglie».

Amjeed sottolinea come il governo iracheno non abbia affatto sostenuto l’opera di ricostruzione. «Sconfiggiamo l’Isis armati di intonaco e mattoni».

Dopo la presa della piana di Ninive da parte dell’Isis, anche Amjeed ha vissuto con la sua famiglia a Erbil. Non ha mai rimpianto la decisione di rimanere nel proprio paese, in Iraq. «Dobbiamo bollire l’acqua, l’elettricità è prodotta dai generatori e le strade sono piene di buche. L’Iraq è tutto fuorché sicuro, ma questa è la nostra casa e qui è il nostro futuro. E la nostra patria ha estremamente bisogno della presenza di noi cristiani».

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, padre Georges Jahola mostra figure e dati del piano di ricostruzione. © ACS

Un nuovo vescovo per i Caldei

Ma se nella piana di Ninive il ritorno dei cristiani dopo la liberazione dallo Stato islamico è stato a dir poco sorprendente, a Mosul, seconda città dell’Iraq, la situazione è ben diversa.

«La nostra più grande sfida è quella di restituire la fiducia ai fedeli, così che possiamo lavorare insieme per costruire il futuro dei cristiani in Iraq», ci dice monsignor Michaeel Najeeb Moussa, domenicano, poco dopo la sua ordinazione episcopale come vescovo dei caldei di Mosul avvenuta il 25 gennaio. Dopo quasi cinque anni da quando lo Stato islamico aveva costretto il suo predecessore monsignor Emil Shimoun Nona a lasciare la città, la comunità caldea di Mosul e della piana di Ninive ha nuovamente un pastore.

Vi sono molti funzionari governativi e anche studenti universitari cristiani che si recano a Mosul ogni giorno, ma nessuno ha il coraggio di rimanere stabilmente a vivervi. Il timore è che permangano in città cellule nascoste di jihadisti e, in ogni caso, che l’Isis possa tornare. In più i cristiani ora faticano a fidarsi anche dei loro ex vicini di casa musulmani che in molti casi hanno aiutato i combattenti islamisti. «Preferiscono percorrere anche 85 chilometri per tornare a dormire nei villaggi della piana di Ninive, perché qui non si sentono al sicuro», ci spiega il presule.

Al momento neanche lui può tornare a risiedere in città: «L’85 per cento delle chiese di Mosul è stato distrutto così come l’arcivescovado». Ma monsignor Najeeb spera di tornarvi presto ed è sicuro che la presenza di un vescovo in città donerà di nuovo speranza anche agli altri. «Credo che il ritorno dei cristiani a Mosul sia possibile, e credo che tutto cambierà quando si tornerà a celebrare stabilmente la messa, come si è fatto per duemila anni, prima dell’arrivo dell’Isis».

Convertirsi, fuggire o morire

Monsignor Najeeb ha avuto un ruolo essenziale nella salvaguardia delle radici cristiane. Quando è fuggito a Erbil, dopo l’arrivo dell’Isis nel 2014, ha salvato decine e decine di manoscritti antichi che catalogava e digitalizzava da decenni per preservare il patrimonio storico del popolo cristiano e di tutti gli iracheni.

Esattamente come il suo predecessore, l’arcivescovo emerito dei caldei di Mosul, Emil Shimoun Nona, anche monsignor Najeeb ha affrontato lo stesso destino dei cristiani di Mosul e della piana di Ninive.

Nella notte tra il 9 e il 10 giugno del 2014, l’Isis ha preso possesso della città, costringendo alla fuga oltre metà della popolazione. Ai pochi cristiani che, nelle prime settimane dopo l’arrivo dell’Isis, sono rimasti a Mosul, è stata imposta inizialmente la jizya, la tassa, cosiddetta «di protezione», riscossa ai non musulmani ai tempi dell’impero ottomano. Ma il piano per trasformare l’Iraq e la Siria in un unico Califfato islamico non poteva prescindere dall’eliminazione delle minoranze religiose. Così a metà luglio i jihadisti hanno marchiato le case cristiane della città con la lettera araba «ن», iniziale della parola nasara: nazareni. Quindi i fondamentalisti hanno obbligato i cristiani rimasti a scegliere se convertirsi, fuggire oppure essere uccisi. Nelle ore seguenti code interminabili di auto e di persone si sono dirette verso il Kurdistan iracheno e la piana di Ninive. Ma chi ha optato per la seconda scelta si è visto costretto a fuggire di nuovo nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014, quando lo Stato islamico ha preso possesso di 13 villaggi cristiani della piana.

In una sola notte, oltre 125mila fedeli hanno dovuto abbandonare le proprie case senza poter prendere nulla. Molti di loro hanno camminato per ore in pigiama prima di giungere a Erbil o alla vicina città di Duhok. Sfuggiti alla crudeltà dei miliziani, gli ultimi cristiani in Iraq hanno dormito per giorni nelle chiese, nelle scuole, all’ombra di palazzi fatiscenti per poi trovare «finalmente» una casa in tende asfissianti in cui le temperature, nella calda estate del 2014, sfioravano i 44 gradi.

Poi, fortunatamente, grazie alle Chiese locali e alla generosità di molti benefattori, le famiglie hanno trovato alloggio in case prefabbricate o in appartamenti in affitto dove hanno vissuto almeno fino alla metà del 2017.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, madre e figli davanti alla loro casa ricostruita a Qaraqosh. © ACS

Una storia di persecuzioni

Quella perpetrata dallo Stato islamico non era tuttavia la prima persecuzione subita dai cristiani iracheni. Il loro numero complessivo nel paese era già diminuito da un milione e 200mila fedeli nel 2003 ai poco più di 300mila del 2014.

L’instabilità del paese, in seguito all’inizio della guerra nel 2003 e alla caduta del regime di Saddam Hussein, ha significato l’inferno per la minoranza cristiana, schiacciata nel fuoco incrociato tra sunniti e sciiti e direttamente perseguitata.

In città come Baghdad, Bassora, Kirkuk, Mosul, tante famiglie cristiane si sono viste recapitare messaggi minatori sull’uscio delle proprie case e, col passare del tempo, hanno dovuto rinunciare alla Messa di Natale nella sera del 24 e a fare l’albero e il presepe se non all’interno delle proprie case. Alcuni cristiani hanno dovuto pagare la jizya, sono stati espropriati delle loro terre e le donne si sono abituate a coprire il capo con un foulard, per confondersi tra le musulmane.

Numerosi rapimenti e uccisioni di fedeli, sacerdoti e perfino vescovi hanno segnato gli ultimi anni della vita dei cristiani in Iraq.

Uccisi in odio alla fede

A Mosul, uno dei simboli del martirio cristiano in Medio Oriente, dopo la caduta di Saddam sono stati uccisi in odio alla fede oltre mille cristiani. La persecuzione non ha risparmiato né l’arcivescovo caldeo monsignor Faraj Rahho, rapito e poi ucciso nel 2008, né il suo segretario, padre Ragheed Ganni.

Padre Ragheed non aveva voluto arrendersi alle minacce di chi gli intimava di chiudere la sua chiesa dello Spirito Santo a Mosul. È stato ucciso il 3 giugno, al termine della Messa. «Ti avevo detto di chiudere la chiesa. Perché non l’hai fatto?», gli ha domandato uno dei suoi assassini. «Come posso chiudere la casa di Dio?», ha risposto lui prima di soccombere al fuoco dei proiettili.

Non vi è dunque da stupirsi se nei lunghi mesi tra il 2014 e il 2017, molti cristiani hanno lasciato il paese in preda allo sconforto e a causa della mancanza di prospettive future.

Poi però con la liberazione della piana di Ninive e la ricostruzione delle case cristiane è avvenuto un vero e proprio miracolo. Lo stesso che oggi si attende a Mosul.

Marta Petrosillo

Iraq, dicembre 2014, bambini al centro “Werenfried” creato per accogliere persone forzate a lasciare le loro case dall’Isis. © ACS


La solidarietà del papa viaggia in Lamborghini

«Ci lasciano increduli e sgomenti le notizie giunte dall’Iraq: migliaia di persone, tra cui tanti cristiani, cacciati dalle loro case in maniera brutale». Così papa Francesco all’Angelus del 10 agosto 2014. Sono passati soltanto tre giorni dalla presa dei villaggi della piana di Ninive, ma il santo padre nomina già come suo inviato speciale nel paese il cardinal Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e già nunzio in Iraq dal 2001 al 2006. È il primo di molti gesti di vicinanza del pontefice ai cristiani iracheni e alle altre minoranze schiacciate dall’Isis.

«Cari fratelli e sorelle, siete nel mio cuore», dirà poi il santo padre in un videomessaggio registrato il 6 dicembre 2014 per i cristiani di Mosul ricordando l’importanza della loro testimonianza di fede, «la vostra resistenza è martirio, rugiada che feconda».

Segni concreti di vicinanza

Sin dall’inizio della tragica avanzata dell’Isis il papa esprime il desiderio di visitare i suoi fedeli iracheni. Le precarie condizioni di sicurezza non rendono possibile la visita, anche se il viaggio del cardinal Parolin in terra irachena, dal 24 al 28 dicembre 2018, fa ben sperare per il futuro.

Tuttavia i cristiani d’Iraq percepiscono forte la vicinanza del pontefice, attraverso le sue parole, la sua preghiera e i suoi gesti concreti.

Già nel 2016 papa Francesco, attraverso la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre, ha finanziato con 100mila euro la Saint Joseph Charity Clinic che a Erbil offre assistenza medica gratuita.

Poi il 15 novembre 2017, Francesco ha deciso di devolvere al progetto Acs per la ricostruzione dei villaggi cristiani della piana di Ninive, parte del ricavato della vendita all’asta della Lamborghini Huracan da lui ricevuta in dono dalla casa automobilistica.

I fondi ricevuti sono stati impiegati nella ricostruzione di due strutture della Chiesa siro cattolica distrutte dalla guerra nel villaggio di Bashiqa: l’asilo intitolato alla Vergine Maria e il centro polivalente dell’omonima parrocchia, che sarà a disposizione di oltre 30mila abitanti di diverse etnie e fedi.

M.P.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018. Cristiani che ricostruiscono le loro case con l’aiuto di ACS. © ACS




Arabia Saudita. Cristiani, ospiti tollerati (ma speranzosi)

Nella veste di responsabile del vicariato apostolico dell’Arabia meridionale, monsignor Paul Hinder conosce le difficoltà di vivere in paesi dove l’islam è religione di stato e la sharia fonte del diritto. Emirati Arabi, Oman e Yemen, quest’ultimo devastato dalla guerra civile, sono i paesi dove il vescovo svizzero si muove. Paesi nei quali l’Arabia Saudita, nazione egemone dell’area, non fa mancare la propria influenza. Con i soldi o con le armi.

Islam, sharia, petrolio, immigrati. Sono alcuni degli elementi che hanno in comune i sette paesi che compongono la penisola arabica. Tutti a parte lo Yemen, che non ha né petrolio né immigrati e che, per di più, da oltre quattro anni è devastato da una cruenta quanto misconosciuta guerra civile.

In quest’area domina l’Arabia Saudita, monarchia oscura (e oscurantista) verso la quale quasi tutti i paesi – in primis, gli Stati Uniti di Donald Trump – mostrano una deferenza spiegabile soltanto con le enormi ricchezze di cui essa può disporre. È Riad che guida la coalizione che combatte in Yemen. È Riad che ha imposto un duro embargo contro il riottoso (ma altrettanto ricco) Qatar. È Riad che ha fatto assassinare il giornalista dissidente Jamal Khashoggi. È Riad che, dietro le quinte, trama nella guerra di Siria e per l’isolamento dell’Iran sciita. Nella penisola arabica, dal 2011 opera monsignor Paul Hinder, vescovo svizzero di 76 anni. Il suo ruolo è quello di vicario apostolico dell’Arabia meridionale, che comprende Emirati Arabi, Oman e Yemen. Lo abbiamo incontrato prima dell’annuncio della visita di papa Francesco negli Emirati (3-5 febbraio 2019).

© Paolo Moiola

Convivere con la sharia

Monsignor Hinder, in quali paesi della penisola arabica lei sta operando?

«Oggi sono vicario apostolico degli Emirati Arabi Uniti (nella cui capitale, Abu Dhabi, risiedo), del sultanato di Oman e della repubblica dello Yemen. Dal 2005 al 2011 ero vicario anche di Arabia Saudita, Bahrein e Qatar. Poi la Santa Sede ha fatto una riorganizzazione territoriale di tutta la penisola per avere una suddivisione più ragionevole».

Come si vive in paesi dove la sharia è la principale fonte del diritto?

«Tutto dipende da come essa è applicata nella pratica. È chiaro che ci sono vari modi di interpretarla e applicarla. La sharia non è soltanto tagliare le mani o la testa. Anche se capita ancora. Per esempio, in Arabia Saudita».

Non si tratta quindi di una esagerazione giornalistica?

«Non lo è, ma questo non significa che sia l’atteggiamento generale. La sharia è tutto quello che noi consideriamo diritto civile, quello che regola le cose della famiglia, della proprietà, eccetera. Anche io sono andato alla “Corte della sharia” per delle firme. Non è una cosa di cui avere paura: è il modo per regolare i rapporti in una società musulmana. Chiaro che, per noi cristiani, ci sono dei limiti nella libertà religiosa che, in questi paesi, non è riconosciuta come una libertà propria della persona. E poi la libertà del culto, di svolgere cioè le liturgie, è limitata. Come in Arabia Saudita dove non esistono chiese, che invece esistono in tutti gli altri stati».

Intende dire che, a tutt’oggi, in?Arabia Saudita non esistono strutture adibite a chiese?

«No, anche dopo la visita del cardinale maronita (nel novembre 2017 il cardinale Bechara Rai, patriarca dei maroniti, ha incontrato re Salman a Riad, ndr). Forse un domani, ma personalmente nutro ancora dubbi. Ci sono – va precisato – delle comunità, formalmente rette dal vescovo incaricato. Informalmente esistevano anche quando ero ancora vescovo io. Ci sono messe celebrate in case private in modo discreto. Questo è tollerato in quanto non disturba altri».

Oman, Emirati Arabi, Yemen sono paesi in cui esistono le chiese intese come costruzioni?

«Esistono ma per esempio senza campanili, senza croci esterne visibili dalla strada. Poi all’interno sono come le chiese di qui, anche se non della stessa qualità estetica e culturale. La chiesa di St. Mary di Dubai ha posto per 2mila fedeli ed è ancora troppo piccola. Quella in Qatar, che avevo costruito io quando ero vescovo, può ospitare 2.700 persone sedute. Nello Yemen, a causa della guerra, le chiese sono in gran parte o parzialmente distrutte. In questo momento inoltre non ci sono sacerdoti, e comunque non sono posti sicuri per i fedeli. Quindi, la vita comunitaria dei pochi cristiani che stanno nello Yemen è sospesa. C’è una comunità di suore di Madre Teresa che continua a lavorare, a dare testimonianza a Sanaa in un modo veramente ammirevole».

Monsignore lei ha accennato allo Yemen, un paese dove è in atto una guerra molto cruenta, anche se ignorata dai media internazionali. Dal suo punto di vista, come può descrivere la situazione del paese?
Il presidente dello Yemen © UN Photo / Cia Pak

«Anch’io non so tutto perché è molto difficile avere delle informazioni affidabili di quella zona. Ovviamente la gente al telefono non parla e anche quelli che vivono nel paese non conoscono bene la realtà. Da una parte c’è la guerra e dall’altra una pace relativa o almeno senza guerra. Dobbiamo considerare che lo Yemen è sempre stato un paese in conflitto in questi ultimi decenni. Ricordo che se ne parlava già quando io ero ragazzo. Il conflitto attuale si è complicato dopo l’intervento del 2015 da parte dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati. Un intervento che ha esteso la guerra e che ha fatto cadere sulle spalle della popolazione yemenita questa contrapposizione con l’Iran, anche se quest’ultimo non è coinvolto nello stesso modo, cioè in maniera diretta.

Cosa fare? Io credo che il problema basilare, a parte i conflitti interni, manca la capacità di arrivare a un compromesso: nella cultura del mondo arabo, o vinci o hai perso. Questa mentalità impedisce molto spesso di incontrarsi a metà strada e così si continua pensando di avere la meglio. Nel caso dello Yemen penso che nessuna delle parti arriverà alla vittoria. Credo che sia necessaria una soluzione che si elabori a livello di Nazioni Unite, se i grandi poteri vogliono. Il problema è che finora è mancata la volontà. Lasciano proseguire la guerra. Mancano le informazioni. I belligeranti non vogliono sia conosciuto troppo bene ciò che capita nel paese. A questo scopo non è consentita l’entrata dei giornalisti. Anche se sappiamo che oggi circa 5 milioni di bambini sono a rischio di morte per fame. Se capitasse che il porto di Al-Hudaydah (il principale porto sul Mar Rosso, ndr) dovesse essere chiuso, questa sarebbe la conseguenza. Poi non possiamo dimenticare le malattie. Le strutture sanitarie sono in parte distrutte. Ci sono rifugiati all’interno del paese, mentre sono relativamente pochi gli yemeniti che riescono a espatriare. Una “fortuna” per l’Europa che di certo non vuole questa gente».

Parliamo di una guerra che riguarda milioni di persone.

«Certo. Lo Yemen non è un piccolo paese: conta circa gli stessi abitanti dell’Arabia Saudita (circa 28 milioni, ndr) che però è molto più grande come superficie».

Monsignore, come mai si parla tantissimo della guerra in Siria e, al contrario, si parla pochissimo di quella in Yemen? C’è una ragione particolare?

«Particolare non lo so. Di sicuro la Siria è culturalmente più vicina a noi. Molti l’hanno conosciuta come turisti. Anch’io, quando ero consigliere generale dei cappuccini, ho frequentato molto la Siria. I poteri inoltre vedono la Siria come una zona di conflitto più importante. Anche se, a lunga scadenza, lo Yemen non sarà da meno».

(Photo by Bandar AL-JALOUD / Saudi Royal Palace / AFP)
Monsignore, torniamo sull’Arabia Saudita, il paese più potente della regione. Ci può dire qualcosa sulla situazione attuale di quel paese? Le aperture democratiche di cui si è parlato sono reali oppure sono soltanto un maquillage pensato dai reali?

«Democratiche non è il termine giusto, perché questa è una monarchia che prende le decisioni in modo assoluto. Ora stanno avvenendo dei cambiamenti, ma – questo è un mio giudizio – sono per la facciata, anche per dare l’impressione, a livello internazionale, di una relativa apertura. Il fatto che le donne possano guidare l’auto è stato considerato in Occidente come un miracolo. E lo è, ma non cambia la vita della società. Ci sono delle donne saudite che lottano per una società più aperta che sono messe in prigione. Una cosa che non possiamo dimenticare è che c’è un matrimonio tra il wahhabismo (che è l’interpretazione più severa dell’islam) e la famiglia Saud. È quasi impossibile che arrivino a un divorzio altrimenti l’Arabia Saudita, nelle forme attuali, avrà grandi problemi. Per questo non penso che il principe ereditario Mohammad bin Salman, che sembra essere l’uomo forte, possa andare avanti troppo veloce. Vedremo cosa capiterà. Piccoli cambiamenti ci sono, che riguardano anche i cristiani. Il potere della polizia religiosa è stato limitato. Non sono più frequenti le sanzioni che c’erano prima. Piccoli passi che rendono un po’ meno problematica la vita dei cristiani. Sarebbe però sbagliato che l’Occidente pensasse che i cambiamenti avverranno presto. Come accaduto ai tempi della primavera araba quando si pensò che, nel giro di qualche mese, ci sarebbe stata la democrazia per tutti. Non è possibile. Diamo il tempo a queste realtà della penisola arabica (come di altre parti del mondo musulmano) di sviluppare a modo loro il sistema politico».

Monarchie inamovibili

La benevolenza degli Stati Uniti di Trump verso l’Arabia Saudita deriva da questioni di business, da questioni geopolitiche, o da che altro secondo lei?

«Alla radice secondo me ci sono due cose principali, una è sicuramente l’economia. Chiaro che essendo il petrolio sotto il suolo dell’Arabia Saudita (e degli altri stati vicini), c’è un interesse economico. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno sempre visto nell’Arabia Saudita un fattore di stabilità, non guardando se il regime garantisce o meno i diritti umani. Quando ci sono di mezzo politica e business, gli stati occidentali non guardano molto alla morale. Non voglio dare un giudizio ma fare una constatazione che vale non soltanto per gli?Stati Uniti ma anche per i paesi europei».

A suo personale giudizio, in questi paesi, il concetto di democrazia nell’accezione che se ne dà in Occidente potrà mai esistere?

«Non direi mai, ma sicuramente non in tempo breve. In questi paesi tutta la struttura, anche tribale, è un impedimento. Senza dimenticare che queste monarchie non vogliono perdere il potere. Ci saranno dei passi verso elementi democratici della Shura, il parlamento islamico, che comunque non rappresenta tutta la popolazione (i migranti ad esempio sono esclusi). Io mi aspetto una condivisione più grande da parte della popolazione indigena e cittadina, questo sì. Non a breve comunque, e come lo faranno non lo so. Non sarà una democrazia come la conosciamo noi. C’è poi un altro elemento da non dimenticare: loro guardano quello che succede negli Stati Uniti e in Europa o in altri posti e non sono necessariamente entusiasti di ripetere quello che ci sta capitando. Forse anche noi in Occidente dobbiamo riscoprire cosa vuol dire essere democratici con responsabilità».

Questo discorso che ha fatto vale per tutti i paesi dell’area arabica o soprattutto per l’Arabia Saudita?

«Direi per tutti gli stati, ricordando che lo Yemen formalmente è una repubblica e non una monarchia. Però abbiamo visto che non funziona se non rispettano certi elementi della tradizione. Dovrebbero trovare il modo di combinare tradizioni antiche con una modernizzazione nella condivisione del potere».

© Werner Bayer

Prove di dialogo con l’islam

Monsignore lei crede che con l’islam sia possibile dialogare?

«Penso di sì e comunque non c’è altra scelta. Quando si arriva ai contenuti delle nostre fedi diverse sicuramente si hanno dei problemi enormi da superare, perché un dialogo comporta le competenze che io per esempio non ho, dato che non sono esperto in islamologia. Sono capace di fare un dialogo umano perché vivo in questa situazione, ho delle persone che conosco che possono discutere su questo, ma non è un approfondimento delle posizioni ideologiche che posso fare. Ci sono dei tentativi. Prima di tutto ci vuole la conoscenza propria e dell’altro.?E poi trovare dei campi dove andare avanti insieme, come la pacificazione in questi paesi che è una preoccupazione di tutti. Ci saranno possibilità sul campo caritativo dove c’è una certa collaborazione e dialogo. Poi c’è la questione di avere rispetto per l’altro, rispettare l’altra religione nella sua qualità malgrado le debolezze che noi notiamo o pensiamo di notare. Sono 15 anni che sono qui e il vedere come vivono, come si forma la vita, mi ha fatto crescere il rispetto verso gli altri, e spero sia viceversa, quando loro vedono come noi viviamo. Ciò può aiutare a superare pregiudizi e anche elementi di conflittualità. Quando io conosco qualcuno nella sua diversità e lo rispetto, c’è meno rischio che ci attacchiamo fisicamente come è successo nel passato».

Sono migranti (non immigrati)

© Andreas Gebert / DPA / dpa Picture-Alliance / AFP

Risponde al vero che la maggioranza dei fedeli cattolici proviene dalle larghissime fila degli immigrati in questi paesi?

«Dobbiamo essere chiari nella terminologia: non sono immigrati nel senso stretto, ma migranti. Ci hanno detto questo gli stessi governi. Non siamo immigrati perché non possiamo rimanere e non possiamo diventare cittadini. Non esiste possibilità di naturalizzazione, neppure per quelli che parlano arabo. Pertanto, si parla di migranti che stanno in questi paesi per un tempo limitato. Tra essi ci sono alcuni di classe media che potranno rimanere praticamente per la vita, ma che non saranno naturalizzati. Possono restare se sono in grado di pagarsi il soggiorno che è concesso per 2 o 3 anni. Se poi qualcuno perde il lavoro, deve andarsene. Anche la Chiesa deve essere molto cauta perché non può promettere ai propri preti di farli restare per tutta la vita. Essere migranti rimane la nostra sorte. Come ho detto tante volte, siamo “una Chiesa di migranti per migranti”. Dal vescovo, fino all’ultimo arrivato a Dubai o ad Abu Dhabi».

Migranti, dunque. Ma da dove provengono?

«Per quanto riguarda gli Emirati, vengono soprattutto dalle Filippine e dall’India, ma anche da altri paesi arabi (Siria, Libano, Palestina) e dall’Africa, sempre di più. E poi dalla Corea e dall’America Latina. Insomma, dal mondo intero. Nella nostra chiesa abbiamo più di 100 nazionalità diverse».

Queste persone che tipo di professionalità hanno?

«C’è un po’ di tutto, ma in particolare si tratta di lavoratori del settore delle costruzioni. Nel 2020 a Dubai ci sarà l’esposizione mondiale, nel 2022 nel Qatar il campionato mondiale di calcio: c’è e ci sarà bisogno di tanti operai per due progetti mastodontici. Vivono in zone residenziali a parte. La mattina sono trasportati con il bus al lavoro per tornare alla sera. Questi non possono partecipare pienamente alla vita parrocchiale anche se facciamo degli sforzi per aiutarli un po’. Per esempio, organizzando il venerdì il trasporto alla chiesa. Poi ci sono le impiegate domestiche che sono legalmente più deboli e meno protette, anche se dipende molto dal datore di lavoro. Ci sono alcuni che portano i loro impiegati alla messa, e poi aspettano per riportarli indietro. Altri invece le trattano come vere e proprie schiave».

Per esempio, un lavoratore dell’edilizia ha uno stipendio adeguato?

«Cosa vuol dire adeguato? Anche qui ci sono leggi sul salario minimo. Sicuramente rispetto a quello che guadagnano o potrebbero guadagnare a casa loro è molto di più. Il grande problema è cosa fare quando non sono pagati o lo sono ma in ritardo di mesi. Qui iniziano i problemi e un giro legale. Un governo dovrebbe controllare di più affinché queste cose non capitino. In questi ultimi 15 anni hanno fatto dei grandi progressi, ma questo rimane un problema serio. Può così accadere che alcuni partano poveri e ritornino ancora più poveri. Altri che hanno visto la loro situazione sbloccarsi quando erano già tornati al loro paese lasciando indietro gli stipendi che per legge gli spettavano. Alle nazioni che esportano manodopera nei paesi del golfo dovremmo dire: non aspettatevi di arrivare in un paradiso. Molto spesso è una vita dura o durissima, anche quando le cose vanno normalmente. Qui si guadagna di più ma questo ha un prezzo umano. Molte famiglie si sfasciano. Per questo cerchiamo di aiutare i nostri fedeli con la pastorale».

Se io sono un migrante, in questi paesi ho diritto all’istruzione, alla sanità, insomma a usufruire dei servizi pubblici?

«Dipende dove sono. Ad esempio, ad Abu Dhabi l’assicurazione sanitaria è obbligatoria. Quindi, un datore di lavoro non può fare un contratto di lavoro senza. Anche noi come Chiesa siamo obbligati. L’accesso alle strutture sanitarie c’è, anche se alcune strutture sono soltanto per i locali. Spesso gli indiani preferiscono andare a casa propria dove la sanità è meno cara ed è buona. Quanto alla scuola, è essenzialmente privata ed è un problema per le famiglie meno abbienti a causa delle rette. Come Vicariato abbiamo scuole aperte a tutti (anche ai musulmani) e a prezzi accessibili. Questa è la nostra missione, perché per i ricchi ci sono scuole sufficienti».

Monsignore, dopo quasi 15 anni nella Penisola Arabica, come giudica questa sua esperienza?

«Io sono andato in?Arabia con una certa reticenza. Avevo paura ad accettare la nomina. Una volta arrivato mi sono dato completamente a questo compito, nonostante tutti i problemi. I fedeli mi hanno dato gioia, vedendo una Chiesa non perfetta ma molto attiva, impegnata, motivata, che mi ha aiutato ad approfondire me stesso e la mia fede. Mi sento felice qui anche se è un mondo diverso che mi rimarrà sempre un po’ straniero, ma ho imparato molto da questa cultura e non vorrei mi mancasse. Forse vent’anni fa avrei risposto diversamente a una simile domanda».

Paolo Moiola

La guerra nello Yemen

(Photo by – / AFP)

Un’arma chiamata indifferenza

Ci sono paesi dove si combattono guerre evidenti e cruente eppure dimenticate da tutti (comunità internazionale, media, opinione pubblica). Lo Yemen è uno di essi.

Sono sempre esistite le cosiddette «guerre dimenticate», conflitti evidenti e cruenti ma che, per una serie di ragioni, non arrivano o arrivano sporadicamente e parzialmente all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. In questa situazione l’indifferenza diventa un’arma micidiale. La guerra civile nello Yemen, paese tra i più poveri del Medio Oriente, rientra a pieno titolo nella categoria. Una guerra civile iniziata sulla fine del 2014 quando gli Huthi – un gruppo islamico sciita (di una variante nota come zaydismo) – prendono gran parte della capitale Sanaa. Nel marzo del 2015 l’Arabia Saudita, a capo di una coalizione di 10 paesi (9 dopo il ritiro del Qatar), interviene nel conflitto a fianco del deposto presidente Hadi, nel frattempo fuggito. Il paese è smembrato: una parte (quella ad Ovest) in mano agli Huthi, una parte nelle mani della coalizione saudita e una parte divisa tra al-Qaeda e Stato islamico. A dicembre 2018 le Nazioni Unite sono finalmente riuscite ad aprire colloqui di pace a Stoccolma.

A oggi la guerra avrebbe già fatto oltre 12mila morti e milioni di profughi, come milioni sarebbero le persone a rischio carestia. In tutto questo s’inserisce anche una storia nella storia che riguarda l’Italia e in generale l’Unione europea. Secondo il New York Times, la Rheinmetall Defence, una industria d’armi di passaporto tedesco ma con stabilimento in Italia (a Domusnovas, in Sardegna), è tra i fornitori di bombe dell’Arabia Saudita. La cosa sarebbe però vietata dalla legge italiana n. 185 del 1990 che vieta l’esportazione di armi verso paesi in conflitto. Senza dire che, nel settembre 2013, l’Italia ha sottoscritto il Trattato internazionale sul commercio delle armi (Arms Trade Treaty, Att) che limita fortemente la compravendita di armi. Nel frattempo, lo scorso 25 ottobre 2018 l’Europarlamento ha approvato una risoluzione che chiede agli stati membri di imporre un embargo sulla fornitura di armi a Riad, dopo l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi (un critico dell’intervento saudita in Yemen). La risoluzione comunitaria non è però vincolante, probabilmente perché Francia e soprattutto la Gran Bretagna sono importanti fornitori d’armi di Riad. Proprio come gli Stati Uniti, di gran lunga in testa nelle vendite all’Arabia Saudita (fonte: Sipri).

Nessun conflitto meriterebbe indifferenza. Visto il coinvolgimento di molti paesi occidentali, la guerra civile in Yemen la merita ancora meno. 

Paolo Moiola

L’assassinio del giornalista saudita

© al-Jazeera

L’affaire Jamal Khashoggi

Forse il coinvolgimento del principe ereditario non sarà mai provato. Tuttavia, l’assassinio del dissidente ha messo in grande imbarazzo Riad. E il presidente Trump.

Il 2 ottobre 2018 il giornalista saudita Jamal Khashoggi entra nel consolato del suo paese a Istanbul per sbrigare una questione burocratica relativa al matrimonio con la sua fidanzata turca. Da quel momento si perdono le sue tracce. Qualche giorno dopo la sua scomparsa si scopre che è stato ucciso da funzionari sauditi e – pare – smembrato. Tutto sembra indicare Mohammed bin Salman (Mbs) come mandante dell’omicidio.

Nato a Medina nel 1958, Khashoggi era un giornalista moderato ma critico verso il proprio paese e in particolare verso il principe ereditario Mbs, da molti (frettolosamente) eletto al ruolo di riformatore della monarchia saudita. Costretto al silenzio, nel 2017 Khashoggi aveva deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove collaborava come opinionista al Washington Post.

Qualsiasi sarà l’evoluzione della vicenda (le accuse della Turchia, della Cia, del senato Usa, ecc.) per il principe ereditario saudita non ci dovrebbero essere conseguenze. Lo si è visto anche al summit del G20 di Buenos Aires, all’inizio di dicembre, quando Mbs?ha stretto mani e dispensato sorrisi. L’assassinio di Khashoggi non potrà certo fermare l’ascesa del giovane e ambizioso rampollo di re Salman.

Paolo Moiola

© al-Jazeera

I sette paesi islamici

La penisola dell’Arabia Saudita

Nella penisola arabica la Chiesa cattolica è presente con due Vicariati, uno retto da mons. Camillo Ballin e uno da mons. Paul Hinder.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Settentrionale: vicario  mons. Camillo Ballin

Arabia Saudita:  monarchia assoluta, dal 1926 governata dalla famiglia al-Saud, il paese più importante della penisola arabica è al centro dell’interesse mondiale per le ricchezze petrolifere, le ambiguità sul terrorismo islamista e l’alleanza con gli Stati Uniti. Da giugno 2017 è attraversata da faide familiari a causa della nomina del giovane Muhammad bin Salman (Mbs) come successore di re Salman. Attualmente capeggia la rivolta contro il Qatar e la guerra in Yemen.

Kuwait: è una monarchia della famiglia al-Sabah; la maggioranza della sua popolazione è immigrata. 

Bahrein: il piccolo arcipelago è una monarchia retta dalla famiglia sunnita al-Khalifa. Da 2011 è teatro di proteste della maggioranza sciita, il cui leader, lo sceicco Ali Salman, è in prigione, condannato a vita nel novembre 2018.

Qatar: monarchia ereditaria della famiglia al-Thani, è una penisola vasta quanto metà della Lombardia, paese ricchissimo e molto attivo sulla scena internazionale (anche con il network mediatico al-Jazeera), dal giugno 2017 subisce l’embargo diplomatico ed economico da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. Il 3 dicembre 2018 ha annunciato l’uscita dall’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio di cui era membro dal 1961.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Meridionale: vicario mons. Paul Hinder

Emirati Arabi: è uno stato federale composto da 7 emirati; i 2 più importanti sono Abu Dhabi e Dubai.

Oman: con meno risorse petrolifere degli altri (Yemen escluso) il sultanato dell’Oman è il più tranquillo tra i paesi della penisola arabica; il sultano Qabus è al potere dal 1970.

Yemen: il paese più povero della regione è in guerra dal settembre del 2014; si fronteggiano i ribelli conosciuti come Huthi (musulmani sciiti legati all’Iran) e una coalizione islamista guidata dall’Arabia Saudita.




Un’India per soli indù.

Il nazionalismo induista contro le minoranze

Dopo dieci anni dagli assalti anticristiani avvenuti nello stato di Orissa,
la situazione non è migliorata. Anzi. L’ideologia nazionalista indù, al potere
dal 2014, sembra voler soffiare sul fuoco. E le minoranze, non solo quella cristiana,
hanno sempre più paura.

Il 23
agosto del 2008, nello stato dell’Orissa, nell’India orientale, scoppiò la
peggiore persecuzione contro i cristiani della storia del paese. Sono passati
più di dieci anni da allora, eppure continua a essere forte la difficoltà
indiana di mantenere l’equilibrio tra il progresso, il particolarismo e i suoi
ideali di convivenza e nonviolenza.

In quei giorni di violenza che costrinsero alla fuga 50mila
individui e provocarono un centinaio di morti, la devastazione delle abitazioni
dei cristiani e dei loro luoghi di preghiera, l’esproprio delle loro terre e la
confisca dei loro beni dimostrarono che le forze di ispirazione religiosa induista,
connesse anche a interessi economici e di potere, erano in grado di operare
nell’impunità. Infatti, non solo mancò un’opera di prevenzione da parte delle
istituzioni, ma ci fu anche un intervento tardivo e parziale delle forze
dell’ordine per fermare le folle di indù che, in diversi casi, provenivano da
altri distretti e persino da altri stati dell’India.

(Photo by DESHAKALYAN CHOWDHURY / AFP)

Impunità e paura

Sul piano della giustizia, l’impunità su ampia scala ha segnato
finora le decine di processi avviati contro presunti esecutori e organizzatori
delle violenze del 2008. La propaganda induista descrive quegli eventi come
reazione spontanea all’uccisione del leader estremista indù Swami Laxmanananda
Saraswati, della quale peraltro si erano da subito dichiarati autori i
guerriglieri maoisti attivi nella regione.

Per gli avvocati e gli attivisti che ancora oggi si occupano di
sostenere le vittime, la maggioranza dei crimini non sarebbe registrata
correttamente dalla polizia e quelli già passati in giudicato si sono risolti
perlopiù in mancate condanne.

Il sistema di tribunali speciali che giudicano con rito abbreviato
ha registrato qualche successo, ma l’isolamento geografico della zona, il clima
di paura diffusa, le intimidazioni e minacce, le manifestazioni organizzate
addirittura all’esterno del tribunale, hanno spinto molti testimoni al silenzio
o a una verità parziale e a un basso profilo giudici e legali.

La situazione di rancori e di sospetto e il rischio sempre
presente di nuove violenze rendono l’impegno per la giustizia assai difficile.
D’altra parte, quando su dodici giudizi per omicidio, solo uno si è chiuso con
una condanna, pace e riconciliazione restano obiettivi lontani.

Vecchie e nuove logiche di sottomissione

Come sottolinea John Dayal, attivista cattolico tra i più accesi
nel contrastare l’offensiva dei radicali indù, «l’impegno settario degli
estremisti in Orissa è vecchio di quarant’anni, e il distretto di Kandhamal è
stato da loro scelto per il suo isolamento e per il significato che ha per la
popolazione cristiana.

Obiettivo immediato di quelle violenze era di estendere
l’esperienza di sottomissione del Kandhamal ad altri distretti, quello finale
di rimuovere ogni traccia del cristianesimo tra le comunità indigene per
poterle così del tutto asservire alle vecchie logiche castali e alle nuove
logiche del potere economico e politico».

Nonostante l’attenzione della comunità internazionale e della
Chiesa non siano mai mancate, nulla mostra, a distanza di dieci anni, che la
situazione si sia modificata, se non di facciata.

Ancor più dopo la vittoria dei nazionalisti induisti nel maggio
2014 sotto la guida di Narendra Modi, leader del Bharatitya Janata Party
(Bjp). I nuovi attori istituzionali hanno portato maggiore impunità per gli
estremisti e legittimazione ufficiale a iniziative come la riconversione
all’induismo, la proibizione della commercializzazione e del consumo di carne
bovina, il rafforzamento dei tradizionali consigli di villaggio e altro,
rafforzando il grande progetto di un’India per soli indù.

www.flickr.com/photos/adamcohn/45461015822/

Induità e discriminazioni

La dottrina dell’hinduttva (induità) è al centro degli
interessi e delle azioni della maggioranza politica che guida, da oltre quattro
anni, il governo centrale e sempre più stati e territori dell’immenso paese
asiatico, vasto dieci volte l’Italia e con una popolazione di 1,35 miliardi di
individui all’80 per cento di fede indù.

Dopo decenni di governo pressoché ininterrotto del Partito del
Congresso, ispirato dagli ideali indipendentisti e gandhiani, ora, il partito
confessionale filoinduista Bjp propone una cittadinanza piena ai soli indù,
lasciando alle altre comunità religiose la scelta tra conversione,
discriminazione ed esilio.

Difficile valutare i risultati delle campagne
di conversione che hanno interessato e ancora interessano milioni di indiani.
Per molti di essi si tratta di una «riconversione»: storicamente il
cristianesimo e, in misura minore, l’islam e il buddhismo, sono rifugio di indù
che sfuggono ai limiti e agli abusi del sistema castale, centrale
nell’induismo.

L’induizzazione procede erodendo la
consistenza delle fedi che nei secoli sono nate per scissione dall’induismo,
usando incentivi e pressioni per promuovere l’identità indù, mentre le leggi
anticonversione e la tolleranza verso i gruppi radicali e xenofobi che si
appoggiano all’induismo per ottenere benefici e potere, rendono difficoltose la
pratica e l’esistenza stessa sul territorio indiano delle religioni considerate
«straniere» come l’islam e il cristianesimo.

I discorsi d’odio dei leader

A confermare il ruolo della politica filoinduista in una
situazione di crescente tensione, ci sono i dati diffusi qualche mese fa da New
Delhi Television (Ndtv), dai quali emerge che i responsabili di «discorsi
d’odio» registrati dall’inizio della legislatura che si avvia al termine il
prossimo anno, sono stati per il 77 per cento esponenti del Bjp.

Nessun provvedimento è stato preso nei loro confronti. Ad esempio,
contro la ministra per le Industrie agroalimentari Niranjan Jyoti, già abituata
a proclami sopra le righe, che in una dichiarazione pubblica ha affermato che
gli indù sono da considerarsi discendenti del dio Rama, mentre gli altri –
musulmani, cristiani, sikh, jain, buddhisti, parsi, atei – sarebbero dei «bastardi».

Che dire poi di Yogi Adityanath, ora capo del governo nel più
popoloso stato indiano, l’Uttar Pradesh, secondo il quale per ciascuna donna
indiana sposata a un musulmano e convertita all’islam, gli indù dovrebbero
sposare con la forza cento donne musulmane e convertirle come ritorsione?

© Un photo / Mark Garten

Dal divieto di conversione alle «guerre delle mucche»

Preoccupa che questioni un tempo considerate anacronistiche e
innocue dalle stesse minoranze, siano oggi diventate strumenti di dominio
dell’induismo estremista.

L’accusa di proselitismo nei confronti dei cristiani ha alimentato
l’ondata di provvedimenti legislativi per proibire ogni iniziativa che
incentivi o forzi gli indù a un cambio di fede. Anche l’attività di sacerdoti,
religiosi, pastori nelle chiese è stata limitata fortemente, e addirittura nelle
scuole e nelle istituzioni socioassistenziali avviate o gestite da cristiani.

Pesa invece sui musulmani l’accusa induista di «jihad matrimoniale»,
ovvero di perseguire una strategia di matrimoni con donne indù al fine della
conversione e di avere una prole ampia allo scopo di arrivare al sorpasso
demografico dei musulmani sugli indù.

Soprattutto tra i musulmani si contano le vittime della «guerra
delle mucche» dichiarata dai leader indù contro chi macelli i bovini, animali
legati alla tradizione religiosa indù, ne utilizzi pelli e altre parti e ne
consumi le carni, attività appannaggio nei secoli di islamici, dalit e
cristiani.

Significative le esternazioni di Subramanian Swami, parlamentare
del Bjp, che lo scorso anno ha chiesto una legge per condannare a morte chi
uccida le mucche. Il tentativo non è andato in porto, ma questo non ha fermato
in diversi stati l’approvazione di provvedimenti che vietano la macellazione e
il trasporto di carni bovine. Non senza ricadute cruente, come dimostrano le
aggressioni di gruppo registrate, a volte i linciaggi di musulmani e dalit («esclusi»,
un tempo noti come «intoccabili») motivati dalla loro dipendenza dall’uso
commerciale e alimentare di questi animali.

© Deshakalyan Chowdhury / Afp

I dalit e le prossime elezioni

In questo quadriennio di controllo nazionalista sul paese e di
quasi annichilimento del Partito del Congresso, le violenze ispirate,
ammesse o non sanzionate degli estremisti sono state una realtà preoccupante
per le minoranze. «Siamo ormai al crollo dello stato di diritto. Ogni giorno i
mass media riportano notizie di atrocità compiute contro le minoranze
religiose, i dalit e i tribali», ha sottolineato Jignesh Mewani, leader dalit e
parlamentare nello stato del Gujarat, roccaforte di Narendra Modi.

Lo scorso aprile è stato segnato da scontri tra polizia e
manifestanti dalit: roghi, posti di blocco, coprifuoco, morti e feriti si sono
registrati in varie zone dell’India mettendo in rilievo il disagio profondo di
questi gruppi meno favoriti della comunità indù.

La loro rabbia si è espressa con la dichiarazione di un «Bharat
bandh» (blocco dell’India) dopo che la Corte suprema si era opposta all’arresto
di chi violi la legge vigente sulla tutela della loro dignità. Le tensioni
hanno coinvolto la maggior parte dei grandi stati settentrionali, incluso il
territorio della capitale, che ospitano la maggioranza dei 250 milioni di
dalit. La Legge sulla prevenzione delle atrocità verso le caste e tribù
registrate
è del 1989, e rappresenta uno dei paradossi dell’India odierna,
la cui Costituzione proibisce le caste, già vietate in precedenza dai
colonizzatori britannici.

Per certi aspetti, le tensioni della scorsa primavera hanno
anticipato alcuni temi della campagna elettorale verso il voto per il rinnovo
del parlamento nazionale del maggio 2019. L’opposizione guidata dal Partito
del Congresso
, infatti, ha sostenuto le proteste «di migliaia di fratelli e
sorelle dalit che chiedono la tutela dei loro diritti», mentre il governo
nazionalista, dal canto suo, ha chiesto, da un lato ai partiti di non accentuare
le tensioni sociali, e dall’altro alla Corte suprema di ripensare la sua
posizione. Riguardo a queste ultime, è difficile non rilevare il paradosso del
sostegno ai fuoricasta da parte di un governo che esprime l’ideologia che ha
nei secoli contribuito alla loro subordinazione.

Cristiani perseguitati

La comunità cristiana, che conta circa 30 milioni di fedeli (il
2,3 per cento degli indiani), è pure sotto attacco. Negli ultimi anni si sono
moltiplicati drammaticamente gli assalti a chiese, incontri di preghiera e
istituzioni culturali e caritative. Secondo segnalazioni di attivisti
cristiani, le autorità tendono a ignorare le denunce e a minimizzare i fatti e,
quando arrestano presunti colpevoli, li indicano nei rapporti come «individui
affetti da disturbi mentali».

A documentare questa situazione sono vari studi e rapporti. Tra i
più recenti quello della Commissione statunitense per la Libertà religiosa
internazionale
(Uscirf), che ha messo apertamente sotto accusa il governo
indiano per lo scarso impegno nel prevenire «una pressione diffusa contro le
minoranze religiose e contro i dalit che raggruppano fuoricasta, tribali e
aborigeni e che totalizzano il 20 per cento degli 1,35 miliardi di indiani».

Il rapporto ha registrato che «nel 2017 le condizioni della libertà
religiosa hanno visto proseguire la tendenza al peggioramento» e che «la realtà
di una società multiculturale e multireligiosa come quella indiana è minacciata
da una crescente concezione esclusivista di identità nazionale basata sulla religione».

A confermare un incremento della persecuzione ci sono anche dati
governativi diffusi a febbraio: 111 uccisi e almeno 2.398 feriti in 822 episodi
di violenza settaria nel 2017, contro 86 morti e 2.321 di 703 eventi nel 2016.

Stefano Vecchia




Paesi islamici: Donne e cristiane, due volte nel mirino


Testo di Marta Petrosillo sulla condizione delle donne cristiane nei paesi islamici |


In alcuni paesi a maggioranza islamica, le frange estremiste fanno sentire il loro peso. E le donne cristiane affrontano una condizione di doppia discriminazione: sono donne e sono cristiane. Dalle violenze sessuali alle norme sull’abbigliamento, al diritto famigliare, fino alle situazioni estreme di rapimenti e conversioni forzate le donne rischiano per la loro fedeltà al Vangelo.

Doppiamente discriminate: perché donne e perché cristiane. È la condizione di tante donne che vivono in molti paesi del mondo, in particolare in alcuni dei 50 a maggioranza islamica1.

Anche se, ovviamente, vi sono considerevoli differenze tra un paese musulmano e un altro, possiamo identificare alcuni schemi comuni: disparità di genere, violenze domestiche, stupri, femminicidi, mutilazioni genitali, matrimoni forzati di adolescenti e bambine.

In 12 di essi, la sharia è l’unica fonte del diritto2, mentre in altri – a volte anche paesi in cui l’Islam non è maggioranza -, pur essendoci sistemi legislativi non confessionali, la legge coranica, discriminatoria nei confronti delle donne, è comunque applicata al diritto civile e a questioni di diritto privato, come il matrimonio, il divorzio, l’eredità, la custodia dei figli3. Ciò significa che, ad esempio, la testimonianza di una donna in tribunale vale la metà di quella di un uomo4. Se quanto appena detto si applica a tutte le donne, quindi anche alle musulmane, le fedeli di minoranze religiose devono affrontare il doppio delle ingiustizie e delle discriminazioni.

A queste condizioni ordinarie, si aggiungono poi, sempre più spesso, le violenze da parte dei gruppi estremisti.

@ Jadranko Marjanovic / Fòock.com

La violenza dei gruppi radicali

Le cause delle violenze ai danni delle donne cristiane nel mondo da parte di gruppi islamisti radicali sono numerose. Tra queste: l’odio a sfondo religioso; il desiderio di umiliare, conquistare, intimidire e disonorare gli «infedeli» e le loro comunità; la specifica intenzione di strappare le donne alla loro fede.

Molti gruppi jihadisti considerano lo stupro e la conversione forzata delle donne non musulmane come parte della da’wa, letteralmente «richiamo, appello, propaganda», una forma di proselitismo inteso come un dovere per gli aderenti a questi gruppi.

Interessante, a tal proposito, una sorta di vademecum pubblicato dall’Isis nel dicembre 2014, nel quale si trova, tra gli altri, anche il seguente passaggio: «Non vi è alcun dubbio tra gli studiosi che sia permesso catturare le donne miscredenti, infedeli, quali le appartenenti alla gente del libro o le pagane».

Molte delle molestie e degli abusi sessuali ai danni delle donne appartenenti a minoranze religiose sono istigati da leader fanatici che attraverso le loro accese prediche incitano e/o perdonano le violenze contro gli infedeli.

Nel 2013 un leader del radicalismo salafita giordano, residente a Damasco, Yasir al Ajlawni, ha emesso una fatwa che consentiva a tutti gli oppositori di Bashar al-Assad di «catturare e avere rapporti» con qualsiasi donna non sunnita. Tale fatwa ha di fatto giustificato quanto accaduto qualche tempo dopo a Qusair, città del governatorato di Homs, allora in mano al fronte al-Nusra, dove la quindicenne cristiana Mariam è stata presa dal comandante del battaglione del gruppo jihadista e costretta a contrarre matrimonio islamico con lui. Violentata e ripudiata, è stata poi «passata» ai suoi uomini. L’iter si è ripetuto con quindici uomini in quindici giorni. Dopodiché la giovane, ormai mentalmente instabile a causa dello shock, è stata uccisa5.

Il codice di abbigliamento

Il salafita radicale egiziano Hisham el-Ashry, nel gennaio 2013 ha affermato in tv in prima serata che le donne cristiane dovrebbero coprirsi, ma che «se preferiscono essere stuprate, possono continuare a non portare il velo».

Apparentemente dello stesso avviso è l’imam Sami Abu-Yusu, della moschea salafita Al-Tawhid di Colonia, in Germania, secondo il quale le molestie e gli abusi verificatisi nel capodanno del 2016 nella città tedesca non sono avvenuti per colpa di molestatori e stupratori, quanto delle donne che si trovavano in piazza «seminude e con indosso del profumo provocante»6.

Questi casi ci introducono a un altro problema: il codice d’abbigliamento islamico. Anche se indossare indumenti quali hijab, niqab o abaya non è obbligatorio nella maggior parte degli stati musulmani, a volte le donne che non si attengono al codice di abbigliamento islamico sono insultate, assalite, violentate e perfino uccise perché vestite in maniera «provocante».

In alcuni paesi, invece, il velo è obbligatorio per legge, e anche le donne non musulmane sono costrette a indossarlo in pubblico. Uno di questi è l’Iran, dove l’articolo 102 del Codice penale prevede sanzioni per le donne che si mostrano con il capo scoperto. In Arabia Saudita le donne che non indossano un abaya (lungo vestito nero che copre l’intera figura) e che non coprono il viso e i capelli sono spesso molestate dalla mutawwi’a, la polizia religiosa. In Sudan la legge punisce con un massimo di 40 frustate chiunque «abbia un abbigliamento indecente o immorale». Sono diversi infatti i casi di donne cristiane condannate alla fustigazione o al pagamento di multe salate soltanto per aver indossato i pantaloni o gonne ritenute troppo corte dalla temuta hisbah, la polizia religiosa.

Stupri e rapimenti

Un altro dramma è quello degli stupri e dei rapimenti. Se in genere nel mondo le violenze sessuali sono tra i crimini denunciati con più difficoltà (in media il 10 per cento delle vittime), ciò è ancor più riscontrabile nei paesi a maggioranza islamica. Le donne che sono state stuprate hanno paura di essere rinnegate dalla propria famiglia o di diventare vittime di delitti d’onore. Inoltre, nei paesi in cui la legge punisce l’adulterio, un esempio è il Pakistan, le donne che hanno subito violenza rischiano perfino di essere condannate.

La sharia definisce lo stupro (zina bil-jabr) come una forma imposta di fornicazione o adulterio (zina). In alcuni paesi, tante donne preferiscono tacere perché sanno che se non riusciranno a provare la violenza, verranno accusate di adulterio – provato dalla stessa denuncia di stupro – e incorreranno in punizioni quali arresto, fustigazione o condanna a morte per lapidazione, una pena ancora applicata in Arabia Saudita, Pakistan, Sudan, Yemen, Emirati Arabi Uniti e in dodici stati della Nigeria del Nord.

Se sono molte le donne islamiche che decidono di rimanere in silenzio, sono ancora più numerose le vittime non musulmane che non denunciano la violenza subita. Ciò le rende degli obiettivi facili.

Nel 2003 la Commissione nazionale sullo status delle donne in Pakistan ha riferito come almeno l’88% delle donne pachistane detenute in carcere fossero state arrestate per aver denunciato uno stupro che non avevano potuto provare. Nel paese asiatico numerose braccianti e lavoratrici domestiche cristiane e indù subiscono violenza dai loro datori di lavoro.

Mappa dei paesi a maggioranza islamica

Le conversioni forzate

Un altro fenomeno preoccupante è il rapimento e la conversione forzata di donne, ragazze e perfino bambine, appartenenti a minoranze religiose, poi costrette a contrarre matrimonio islamico con il proprio aggressore. Secondo molte Ong locali, ogni anno in Pakistan almeno mille ragazze indù e cristiane vengono rapite e costrette a convertirsi. Un numero probabilmente inferiore a quello reale, data la difficoltà con cui tali eventi vengono denunciati alle autorità.

Quando la famiglia della vittima sporge denuncia alla polizia locale, l’aggressore sostiene che la ragazza si è convertita spontaneamente e accusa a sua volta la famiglia di cercare di costringerla a riabbracciare il Cristianesimo. La vittima viene dunque invitata a testimoniare, ma sarà costretta a giurare di essersi convertita volontariamente. E come se non bastasse, non è raro che la famiglia della ragazza sia a sua volta minacciata – specie se vi sono altre figlie femmine – e costretta a cambiare città.

Uno degli ultimi casi riguarda Elisha Iqbal, appena 12 anni, violentata e costretta a convertirsi all’Islam. Elisha è stata sequestrata a Pindorian, Islamabad, da un uomo nel febbraio 2018, ma quando suo padre Iqbal e sua madre sono andati a denunciare il fatto, anziché cercare la ragazza, i poliziotti li hanno arrestati per aver formulato false accuse.

Un altro caso drammatico che riguarda un tentativo di conversione forzata in Pakistan è quello di Asma Yaqoob, la venticinquenne cristiana di Sialkot, bruciata viva lo scorso aprile dal suo fidanzato perché si era rifiutata di convertirsi all’Islam.

Il caso di Boko Haram

In Nigeria, la setta islamista Boko Haram (cfr. MC ottobre 2016) ha dichiarato apertamente di considerare il rapimento e la conversione forzata delle donne cristiane come parte di un piano per terrorizzare i cristiani e obbligarli a lasciare il Nord della Nigeria. Una pratica balzata agli occhi del mondo con il rapimento di 276 studentesse avvenuto a Chibok, nello stato di Borno, nella notte tra il 14 e il 15 aprile del 2014. Tante ragazze – l’ultimo caso è del febbraio 2018 – hanno raccontato di essere state rapite e condotte in case di imam e emiri per essere violentate e convertite con la forza.

Roma 24-2-2018 – Aiuto alla chiesa che soffre – Colosseo rosso – le lacrime di Rebecca – foto di Cristian Gennari

Tra loro Rebecca Bitrus, 28 anni, recentemente arrivata in Italia ospite di Aiuto alla Chiesa che Soffre. Era il 21 agosto 2014 quando membri di Boko Haram hanno invaso il suo villaggio nello stato di Borno, al confine tra Ciad e Niger. Rebecca, incinta del terzogenito, fuggiva assieme a suo marito Bitrus e ai loro figli Zachary e Jonathan, all’epoca di tre e un anno. Con i bambini però non riuscivano ad andare abbastanza veloci e, siccome Rebecca sapeva che se i Boko Haram li avessero raggiunti avrebbero ucciso suo marito, ha detto a Bitrus di andare avanti senza di loro.

Non ci è voluto molto prima che i terroristi raggiungessero la donna e i suoi due bambini. Catturati, li hanno condotti in un loro accampamento assieme ad altri prigionieri. È iniziato così un lungo incubo durato due anni, durante il quale Rebecca ha perduto il bimbo che portava nel grembo e il più piccolo degli altri due. «Ricordo ancora le grida delle ragazze violentate davanti ai miei occhi». I jihadisti hanno intimato più volte a Rebecca di convertirsi all’Islam, ma lei ha sempre rifiutato. Così, per punirla, hanno preso il piccolo Jonathan lanciandolo nel fiume e lasciandolo annegare. Rebecca però non si è piegata e i suoi carcerieri l’hanno rinchiusa in una cella senza acqua e cibo per giorni. Quando hanno riaperto la cella, convinti di trovarla morta, hanno scoperto invece che era ancora viva. L’hanno poi venduta come schiava a un membro della setta che ha abusato ripetutamente di lei. Da una di queste violenze è nato in seguito un bambino, a cui è stato dato un nome islamico che lei, una volta libera, ha cambiato in Cristopher, portatore di Cristo. Quando l’esercito nigeriano ha raggiunto l’area in cui era tenuta prigioniera, Rebecca ha approfittato della distrazione dei suoi carcerieri per fuggire assieme ai suoi figli. Ora si è ricongiunta con suo marito, con il quale vive assieme al loro Zachary e al piccolo Christopher.

L’Egitto di al-Sisi

Donna irachena – © ACS

Non troppo diversa la situazione in Egitto, dove sono frequenti i rapimenti e le conversioni forzate di donne cristiane. Tali episodi non rappresentano una novità nel paese, nel quale si riportano casi fin dai tempi della presidenza di Sadat (1970-1981), ma a partire dalle rivolte di Piazza Tahir ha raggiunto livelli preoccupanti. Rapimenti e conversioni forzate non mancano neanche oggi, con l’attuale presidenza del generale al-Sisi, nonostante le promesse governative al riguardo. Un ex rapitore, intervistato dal World Watch Monitor nel 2017, ha infatti rivelato che esiste una rete di salafiti dediti a rapire le ragazze cristiane per convertirle all’Islam. I soldi per finanziare tale network provengono in larga parte dall’Arabia Saudita.

Una ragazza cristiana può valere fino a 2.500 euro. Anche qui, quando le ragazze scompaiono, inizia il calvario delle famiglie, costrette a fare i conti con un sistema discriminatorio.

Il più delle volte anziché registrare il caso come rapimento, gli agenti si limitano a segnalare la sparizione della ragazza.

Un episodio significativo è quello di Nadia, adolescente cristiana rapita a soli 14 anni dalla sua casa nella periferia del Cairo. La famiglia ha sporto denuncia contro un uomo di 48 anni. Ma pochi mesi dopo le autorità hanno deciso di chiudere il caso, quando l’avvocato del rapitore ha fornito loro un certificato di matrimonio tra l’uomo e la sua sposa quindicenne. Tutto regolare dunque, nonostante la legge egiziana affermi che il matrimonio e la conversione di ragazze minorenni sia illegale.

Marta Petrosillo
portavoce di Acs Italia

Note:

1- Due in Europa, 15 in Asia-Pacifico, 19 in Medio Oriente-Nord Africa, 14 in Africa Subsahariana.

2- Mauritania, Somalia, Sudan, Arabia Saudita, Afghanistan, Brunei, Iran, Iraq, Maldive, Pakistan, Qatar, Yemen. Anche nella Provincia di Aceh (Indonesia) e in 12 stati della Nigeria del Nord.

3- Algeria, Isole Comore, Egitto, Etiopia, Libia, Marocco, Gibuti, Bangladesh, Tanzania, Kuwait, Malesia, Oman, Filippine (Minadanao), Siria.

4- Sicuramente in Arabia Saudita e in Pakistan. Secondo alcuni attivisti, anche nelle corti shariatiche inglesi: si legga Flora Bagenal, Britain probes Sharia courts’ treatment of women, upi.com, 28/06/2016.

5- Rape and atrocities on a young Christian in Qusair, Agenzia Fides, 02/07/2013.

6- Katherine Weber, Egyptian preacher suggests christian women wear veils to avoid rape, Christian Post, 10/01/2013.

7- «Violenze di Colonia? Colpa delle donne, indossavano profumo ed erano mezze nude». Il commento di un imam della città tedesca, L’Huffington Post, 21/01/ 2016.


Aiuto alla Chiesa che Soffre

Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) è una Fondazione pontificia nata nel 1947 e attualmente presente in 23 paesi con altrettante sedi nazionali.

Ha una doppia missione.

Da un lato quella di sostenere la Chiesa in tutto il mondo e in particolar modo laddove essa è perseguitata, discriminata o priva di risorse. Sono oltre 5mila i progetti realizzati annualmente in 150 paesi. Recentemente la tragica situazione mediorientale ha spinto Acs ad agire in special modo in quest’area, sostenendo le chiese e le popolazioni locali soprattutto con aiuti emergenziali e umanitari. In Iraq dal giugno 2014, inizio della crisi dell’Isis, al giugno 2017, ha finanziato progetti per oltre 35,7 milioni di euro ed è impegnata nella ricostruzione dei villaggi cristiani della Piana di Ninive distrutti dallo Stato islamico. In Siria dal marzo 2011 al dicembre 2017 la Fondazione è intervenuta con progetti per oltre 20 milioni di euro.

La seconda parte della missione di Acs consiste nel denunciare le violazioni alla libertà religiosa e nel promuovere il rispetto di questo fondamentale diritto. Uno strumento importante è in tal senso il Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo. Nato nel 1999, il rapporto, tradotto in 7 lingue, fotografa la situazione della libertà religiosa in 196 paesi con riferimento a tutte le fedi.

Inoltre la Fondazione pontificia promuove eventi di sensibilizzazione sul dramma dei cristiani perseguitati. L’ultimo è stato il 28 febbraio 2018, quando Acs ha illuminato di rosso il Colosseo in ricordo dei tanti cristiani che ancora oggi versano il loro sangue a causa della propria fede. Prima ancora, la Fondazione aveva illuminato di rosso la fontana di Trevi a Roma, la cattedrale e il palazzo di Westminster a Londra, la basilica del Sacro Cuore a Parigi, il Cristo Redentor a Rio de Janeiro e molti altri monumenti in tutto il mondo.

Acs Italia

Segretariato italiano – P.zza San Calisto, 16
00153 Roma – tel. 06 6989.3911 – fax 06 6989.3923

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Una fede pericolosa: Crescono le persecuzioni anticristiane nel mondo

Testo di Cristian Nani – direttore di Porte Aperte Onlus – Foto Open Doors |


Persecuzioni. Nel mondo un cristiano ogni 12 viene perseguitato: oltre 215 milioni di persone vessate e discriminate a causa della loro fede. Sono stati 3.066 i martiri nel 2017, e migliaia le chiese, le abitazioni, i negozi di cristiani distrutti. Il rapporto World Watch List 2018, pubblicato da Porte Aperte/Open Doors, mostra, in una classifica, le 50 nazioni dove le persecuzioni sono maggiori.

Henry fa il falegname, un’attività che ama e svolge nella sua città, Marawi (Sud delle Filippine). Il 23 maggio 2017 è un normale giorno di lavoro per lui, quando qualcuno bussa alla porta. Aprendo si trova di fronte un gruppo di sconosciuti. Lui domanda chi siano, loro rispondono: «I tuoi assassini».

Il commando fa parte di un gruppo affiliato all’Isis, miliziani di varia estrazione in grado di prendere in ostaggio l’intera città di Marawi per cinque mesi1.

Henry (nome di fantasia, ndr) viene malmenato e incappucciato per essere condotto in una sorta di carcere nel quale è tenuto in ostaggio per vari giorni. Quando verrà liberato dalle forze militari filippine, racconterà di aver visto l’inferno. Persone rapite con lui vengono bendate e decapitate, alcune donne sono violentate: lui e altri sono costretti a guardare.

Nell’agenda di questi gruppi è chiaro l’intento di eliminare la presenza cristiana dalla zona.

Henry è tra le molte vittime di quella che Porte Aperte nel suo rapporto annuale World Watch List 2018 definisce «oppressione islamica», cioè la fonte primaria di persecuzione dei cristiani nel mondo.

Reena, vietato convertirsi

Reena invece è una ragazza di 19 anni che viveva in un villaggio in una zona remota dell’India (per ragioni di sicurezza non citiamo il nome del villaggio, né il vero nome della ragazza, ndr).

Lei e la famiglia sono ex induisti convertiti alla fede cristiana.

In cerca di lavoro come insegnante, nel settembre del 2016 era approdata in una scuola per un colloquio: «Il preside mi ha offerto dei dolcetti tipici, che ho mangiato – ha raccontato -. Da lì in poi non ricordo più nulla». Drogata e privata della libertà per svariati giorni, ancora oggi non ricorda niente di quello che ha subito. I partner locali di Porte Aperte che la seguono nella cura del trauma, pensano che Reena abbia rimosso il ricordo di quei giorni perché troppo doloroso. Quando ha ripreso conoscenza, si è ritrovata in un treno fermo in un luogo a 14 ore di distanza da casa sua.

Oggi Reena sta abbastanza bene, non ha ancora trovato un lavoro, ma nel frattempo è tornata a scuola per continuare gli studi.

Gli aggressori rimangono impuniti, mentre il preside della scuola continua a minacciare la famiglia, ed è per questa ragione che la ragazza si è trasferita da suo fratello in un altro villaggio.

Il numero di aggressioni di questo tipo contro i cristiani in India stanno aumentando.

Reena è una delle vittime della seconda più importante fonte di persecuzione anticristiana nel mondo: il «nazionalismo religioso».

L’ostilità anticristiana

Monitorando oltre 90 paesi, con ricerche che partono anche dal basso (quindi dal campo missionario, grazie alla presenza nel territorio), Porte Aperte fotografa ogni anno la persecuzione anticristiana nel mondo attraverso il rapporto World Watch List.

Per persecuzione s’intende «qualsiasi ostilità subita come conseguenza dell’identificazione dell’individuo o di un intero gruppo con Cristo. Questa può includere atteggiamenti, parole e azioni ostili nei confronti dei cristiani».

Il rapporto evidenzia, in una sorta di classifica, i primi 50 paesi dove maggiormente si perseguitano i cristiani. Nelle posizioni più «basse» si trovano i paesi nei quali si è registrato un livello di persecuzione «alto». Salendo verso i primi posti, si passa attraverso un livello «molto alto» per approdare, nelle prime posizioni, al livello della persecuzione «estrema».

La metodologia adottata per stilare la Wwlist considera ogni sfera della vita dei cristiani (privato, famiglia, comunità, chiesa, vita pubblica e violenza) ed è progettata per monitorare le strutture profonde della persecuzione e non solo gli incidenti violenti.

Il team di ricerca distingue due categorie principali con cui la persecuzione può esprimersi: la prima riguarda le pressioni e le vessazioni subite in ogni aspetto della vita che si manifestano in una quotidiana miscela di soprusi, abusi, marginalizzazione e violazione di diritti fondamentali come l’accesso alle cure, al lavoro, all’istruzione, alla giustizia, e così via. La seconda categoria di persecuzioni, invece, è la violenza, quella di fatto più riportata dai mezzi di comunicazione poiché più d’impatto in termini mediatici. Sebbene la seconda sia quella più visibile e quasi l’unica presente nel dibattito pubblico, è la prima quella più diffusa: la prevaricazione nascosta e costante che devasta la vita di milioni di cristiani a causa della loro fede.

Iraq: campo di sfollati cristiani

Dietro ogni persecuzione c’è un persecutore

Ma chi sono gli attori di questo fenomeno? È chiaro che si tratti di singoli individui, ma anche di gruppi, o addirittura istituzioni, ostili ai cristiani. Ecco un elenco di quelli che nei fatti sono veicoli di odio e intolleranza anticristiana: governi locali e nazionali; leader di gruppi etnici; leader religiosi non cristiani; leader di altre chiese cristiane; movimenti radicali; normali cittadini, incluse le folle istigate in vari modi; le famiglie stesse dei cristiani; i partiti politici; gruppi rivoluzionari o paramilitari; il crimine organizzato; organizzazioni multilaterali.

È importante avere in mente questa varietà di attori poiché fa comprendere come, per esempio in alcune aree rurali della Colombia, sia successo che certi leader di gruppi indigeni, con la connivenza delle autorità locali, abbiano inflitto a membri dello stesso gruppo indigeno convertiti al cristianesimo gravi vessazioni fino all’incarcerazione, tortura, esproprio dei beni ed espulsione dal villaggio. Quando l’attore è uno stato, per fare un altro esempio, la dinamica cambia: le Maldive, dove molti italiani trascorrono le proprie vacanze, sono un paese islamico che ritiene ogni maldiviano necessariamente musulmano. Questo comporta che, quando un maldiviano si converte o è semplicemente interessato al cristianesimo, affronta pressioni dallo stato stesso. Il Pakistan, con la famosa legge contro la blasfemia (emblematico il caso di Asia Bibi), è un altro esempio di stato che prevarica, ma supportato da movimenti radicali che puntano all’eliminazione della presenza cristiana. Mentre in Messico i cartelli della droga possono aggredire le chiese che in qualche modo interferiscono con i loro scopi criminali, in Sri Lanka è accaduto che monaci buddisti abbiano incitato le folle a inveire e aggredire i cristiani locali considerati agenti contaminanti della cultura tradizionale del paese.

Trend della persecuzione

Nigeria: Uno dei sopravvissuti agli attacchi dei Boko Haram

In termini assoluti la persecuzione aumenta. È questo che emerge dalla Wwlist 2018 che prende in considerazione il periodo 1 novembre 2016 – 31 ottobre 2017. Nella classifica delle prime 50 nazioni dove più si perseguitano i cristiani, troviamo ben tre paesi con un punteggio al di sopra di 90 su 100: Corea del Nord, Afghanistan e Somalia (rispettivamente 1°, 2° e 3° posto), con un livello di persecuzione estremo a tal punto da rendere la vita impossibile per i cristiani e da costringerli alla clandestinità.

La Corea del Nord e l’Afghanistan quest’anno hanno un punteggio del tutto simile: solo per poco il regime di Kim Jong-un è al primo posto (per il 15° anno di fila). Essere scoperti in Corea del Nord a partecipare a una riunione di preghiera o in possesso di una Bibbia, può significare la morte o la reclusione nei famigerati campi di rieducazione, veri e propri lager denunciati anche dalle Nazioni Unite. Si stima che tra i 40 e i 70mila cristiani languiscano in questi campi a causa della loro fede. Per quanto riguarda l’Afghanistan, sebbene sia un paese più conosciuto in Italia rispetto alla Corea del Nord, rimane altresì poco noto per le condizioni dei cristiani che vi abitano, costretti a vivere nel terrore di essere scoperti. Convertirsi dall’islam al cristianesimo in Afghanistan significa andare incontro al ripudio della famiglia e della società, fino alla tortura, all’incarcerazione e alla morte.

Nel mondo sono ben 11 le nazioni in cui si registra una persecuzione estrema simile a quella dei paesi appena citati. Tra le regioni del mondo in cui i cristiani vengono perseguitati, l’Africa cresce, avendo alcune sue nazioni nelle prime posizioni (Somalia 3°, Sudan 4°, Eritrea 6°, Libia 7°). In Asia centrale, in paesi come Uzbekistan (16° posto), Turkmenistan (19°), Tagikistan (22°) e Kazakistan (28°), dal dissolvimento dell’Urss, l’islam è cresciuto esponenzialmente, anche nella sua corrente più oppressiva, generando intolleranza nei confronti dei cristiani.

Tra le fonti di persecuzione, il nazionalismo religioso, in particolare legato all’induismo e al buddismo, risulta in forte aumento, soprattutto in seguito all’incremento delle violenze anticristiane in India (11° posto) e delle discriminazioni in paesi buddisti come Laos (20°), Myanmar (24°), Nepal (25°, nuovo ingresso nella classifica) e Buthan (33°).

I numeri della persecuzione

Sono stati 3.066 i martiri cristiani accertati nel 2017, di cui 2.000 solo in Nigeria del Nord, regione interessata dall’estremismo islamico. Oltre 215 milioni sono i cristiani perseguitati nel mondo (1 ogni 12) secondo la Wwlist. Almeno 15.540 attacchi sono avvenuti ai danni di chiese, case e negozi di cristiani: bruciati, saccheggiati o totalmente distrutti. Impressionante è il fenomeno dei matrimoni forzati, particolarmente forte in Pakistan: almeno 1.240 giovani donne cristiane sono state rapite e forzate a sposare uno sconosciuto. Oltre 1.000 sono stati i rapimenti a fine di abuso e violenza carnale. Tutto ciò prefigura chiaramente quella che viene definita la doppia vulnerabilità delle donne cristiane in questi contesti: perseguitate in quanto cristiane e in quanto donne.

Questi dati sono solo la punta dell’iceberg, poiché il sommerso, il non denunciato, è potenzialmente enorme (basti pensare anche solo all’impossibilità, in alcuni contesti, di denunciare un crimine o un abuso a causa della connivenza delle autorità locali).

L’India: la grande democrazia

Vale la pena soffermarsi sul caso dell’India, salita addirittura all’11° posto della Wwlist, con un grado di persecuzione definibile estremo. Il partito Bjp (Bharatiya Janata Party) al governo con il primo ministro Modi, ha una chiara agenda volta a induizzare il paese, facendo forte leva su un nazionalismo religioso che inevitabilmente crea intolleranza nei confronti dei non induisti e decreta un’emarginazione dei cristiani. I fatti dicono che il numero di attacchi contro comunità cristiane (che a volte hanno provocato anche morti) è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni.

L’India, quella che gli europei conoscono come una grande e pacifica democrazia, non esiste più da tempo, e i primi a pagarne il prezzo sono proprio i cristiani.

Quando nei consessi internazionali si addebitano alle autorità indiane violazioni dei diritti fondamentali dei cristiani, esse rispediscono aspramente le accuse al mittente senza alcuna spiegazione.

Una fede pericolosa

È dunque la fede cristiana una fede pericolosa?

Ebbene sì, in molti paesi e per oltre 215 milioni di uomini e donne. Esattamente come era pericoloso essere cristiani ai tempi della chiesa primitiva, quella degli Atti degli apostoli, là dove la fede cristiana ebbe inizio.

Cristian Nani
direttore di Porte Aperte Onlus

Note:

1- Il 23 maggio 2017, Marawi (città di circa 200mila abitanti, capoluogo della provincia di Lanao del Sur, isola di Mindanao) è stata occupata dai jihadisti del gruppo Maute (un clan familiare locale che ha giurato fedeltà allo Stato Islamico) con l’appoggio del gruppo radicale filippino Abu Sayyaf. Lo scopo era quello di creare una sorta di califfato fedele ai principi dell’Isis.

L’esercito regolare di Manila ha messo sotto assedio la città con oltre 7mila militari e bombardamenti aerei. Dopo 148 giorni, a ottobre, i jihadisti sono stati sconfitti. Secondo l’agenzia Fides: «Sono oltre 1.000 le vittime del conflitto: 163 soldati, 822 militanti e 47 civili». Secondo l’Ocha, delle 350mila persone fuggite dall’area durante il conflitto, molte devono ancora rientrare.


Le fonti della persecuzione

  1. Oppressione islamica: l’obiettivo è portare il paese o il mondo sotto la «Casa dell’islam» attraverso azioni violente o meno, che colpiscono i cristiani in modo particolare. Esempi: Pakistan, Iran, Arabia Saudita.
  2. Nazionalismo religioso: lo scopo è imporre la propria religione come elemento caratterizzante della propria nazione (principalmente induismo e buddismo, ma anche altre religioni). Esempi: India, Nepal o Sri Lanka.
  3. Antagonismo etnico: cerca di introdurre con forza l’influenza di norme antiche e tradizioni in un contesto tribale. Spesso si presenta sotto forma di religione tradizionale che si oppone alla presenza di cristiani nella società. Esempi: Yemen, Somalia o Afghanistan.
  4. Protezionismo denominazionale: cerca di mantenere la propria denominazione cristiana come unica espressione legittima o dominante del cristianesimo nel paese e quindi vessa qualsiasi altra denominazione. Esempio: Etiopia.
  5. Oppressione comunista e postcomunista: cerca di mantenere il comunismo come ideologia prescrittiva e/o controlla la chiesa attraverso un sistema di registrazione e di sorveglianza. Esempi: Corea del Nord, Laos o Vietnam.
  6. Intolleranza secolare: ha lo scopo di sradicare la religione dal dominio pubblico e, se possibile, anche dal cuore delle persone, e impone una forma di laicità atea come una nuova ideologia di governo. Esempi: si tratta di una tendenza che diffonde un sentimento anticristiano, ad esempio quando i cristiani difendono principi morali collegati alla propria fede (famiglia e matrimonio tradizionale, ecc.).
  7. Paranoia dittatoriale: siamo di fronte a un dittatore che fa di tutto per mantenere il potere e reprime con forza qualsiasi cosa sembri una minaccia. Esempi: Eritrea, Corea del Nord.
  8. Corruzione e crimine organizzati: l’obiettivo è creare un clima di impunità, anarchia e corruzione al fine di arricchirsi. Esempi: Messico, Colombia.

C.N.


Porte Aperte/Open Doors

Porte Aperte/Open Doors è un’agenzia missionaria attiva da oltre 60 anni nel campo del sostegno ai cristiani perseguitati di ogni denominazione. Nasce dalla visione di un missionario, conosciuto come Fratello Andrea, «Il contrabbandiere di Dio» (dal titolo del best seller che racconta la sua storia).

L’opera missionaria, iniziata nel 1955 portando Bibbie oltre la cortina di ferro, oggi è diventata un’organizzazione attiva e strutturata in oltre 80 paesi. Conosciuta negli ultimi anni soprattutto per il report sulla persecuzione anticristiana nel mondo (World Watch List), oggi opera attraverso molti progetti che spaziano dagli aiuti umanitari di prima necessità al sostegno spirituale e psicologico alle vittime, dalla fornitura di materiale formativo cristiano alla costruzione di infrastrutture utili alle comunità locali. Inoltre opera nei paesi liberi affinché si diffonda nell’opinione pubblica internazionale una sempre maggiore consapevolezza sulla condizione dei cristiani in queste nazioni.

Porte Aperte Onlus
CP 114 – 35057 San Giovanni Lupatoto (VR)
www.porteaperteitalia.orgsito internaz.: www.opendoors.org

 




Cristiani perseguitati nel mondo.

Cresce il loro numero.


Testo di Luca Lorusso


Sono 215 milioni i cristiani perseguitati nel mondo, uno ogni 12. Vivono soprattutto in Asia e Africa. Subiscono una violenza quotidiana che si manifesta in pressioni e vessazioni di ogni tipo, soprusi, abusi, marginalizzazione, fino alla violazione dei diritti fondamentali nei casi di atti di violenza esplicita.

Secondo la World watch list 2018, l’ultimo rapporto di Open Doors pubblicato oggi (www.porteaperteitalia.org), sono stati 3.066 i cristiani uccisi per la loro fede nell’ultimo anno, e 15.540 le chiese, le case e i negozi di cristiani attaccati. I cristiani detenuti senza processo sono stati 1.922, quelli rapiti 1.252, quelli abusati fisicamente e mentalmente 33.255, quelli violentati o abusati sessualmente 1.020.

In questo scenario generale, Open Doors stila una classifica dei luoghi più pericolosi: una lista di 50 paesi nei quali i livelli di persecuzione verso i cristiani sono alti, molto alti o estremi. Per il 16° anno di fila è la Corea del Nord il paese più persecutorio. Gli altri dieci nei quali la Wwl segnala livelli estremi di persecuzione sono (in ordine) Afghanistan, Somalia, Sudan, Pakistan, Eritrea, Libia, Iraq, Yemen, Iran e India. Tra questi 11 paesi, Libia e India sono le nazioni che hanno fatto registrare l’aumento più forte di persecuzioni rispetto all’anno scorso. In India – dove i cristiani aggrediti tra il 1° novembre 2016 e il 31 ottobre 2017 (il periodo preso in esame dalla Wwl 2018) sono stati 24.000 – l’intolleranza anti-cristiana cresce di pari passo con il nazionalismo induista che ha tra i suoi rappresentati più potenti il primo ministro Narendra Modi. Non è un caso forse che nel 2014, l’anno in cui Modi è stato eletto, l’India era al 28° posto e che negli ultimi tre anni è salito nella classifica fino all’11°.

Tra le molte informazioni, per la gran parte preoccupanti, messe a disposizione da Open Doors si registrano però anche alcune buone notizie: l’organizzazione fondata nel 1955 dall’olandese Andrew van der Bijl, segnala l’uscita della Tanzania dalla sua lista per il miglioramento della situazione dei cristiani nel paese e il leggero miglioramento in Kenya ed Etiopia. Anche per la Siria, paese che continua a essere sconvolto dalla guerra, viene registrato un miglioramento grazie all’arretramento dell’Isis che ha ridotto la violenza diretta sui cristiani.

Video di presentazione della WWL 2018: https://www.youtube.com/watch?v=igf2udrmu1s

La cartina interattiva: https://www.porteaperteitalia.org/persecuzione/




Esportare la libertà religiosa


Testo di Luca Lorusso |


Gli Usa pensano di avere una missione da compiere nel mondo. È l’eccezionalismo americano che si manifesta con la politica estera statunitense.
Anche la libertà religiosa ne è strumento e fine. Altri – come l’Ue – ne hanno seguito l’esempio. Ma dopo anni di ascesa del modello Usa di tutela della
libertà religiosa, oggi si registra un declino. Ne abbiamo parlato con Pasquale Annicchino, ricercatore presso l’European University Institute di Fiesole.

Sono le 12 di venerdì 24 novembre 2017. Una bomba esplode dentro una moschea uccidendo decine di persone. I fedeli sufi scappano, ma fuori ci sono miliziani del Daesh che sparano sulla folla. Rimangono a terra 305 corpi, tra cui 27 di bambini.

Il sufismo è la via mistica dell’Islam, considerato dagli islamisti come un’eresia da combattere. La moschea al-Rawdah si trova a Bir al-Abed, nel Nord del Sinai.

È la strage più sanguinosa degli ultimi anni in Egitto, è uno dei troppi esempi di violenza nel mondo contro chi professa un credo religioso.

Non passa giorno, infatti, senza che il diritto di libertà religiosa subisca violazioni in Medio Oriente come in Asia, in Africa come in Europa o in America. Si parla dei Rohingya del Myanmar, musulmani apolidi perseguitati in un paese buddista. Si è parlato dei Copti in Egitto, dei Testimoni di Geova in Russia, delle politiche restrittive di paesi come la Cina o la Corea del Nord o il Pakistan.

In questo scenario il diritto di libertà religiosa è diventato un fine e, più spesso, uno strumento di vere e proprie strategie di politica estera. In primis da parte degli Usa, ma anche dell’Ue e, con accenti piuttosto differenti, di altri paesi non appartenenti al blocco occidentale come la Russia o quelli riuniti nell’organizzazione della Conferenza islamica.

Ne abbiamo parlato con Pasquale Annicchino, ricercatore dell’European University Institute di Fiesole, autore del volume Esportare la libertà religiosa, edito dal Mulino nel 2015 e ora in lingua inglese dalla britannica Routlege.

Prof. Annicchino, sembra che il pericolo per la libertà religiosa nel mondo aumenti. Anche lei ha questa impressione?

«È più di una percezione. Abbiamo dati scientifici a tal proposito dai quali non possiamo prescindere. Faccio riferimento soprattutto ai report del Pew Forum. I loro dati indicano che nel mondo sono aumentate le restrizioni alla libertà religiosa mediante gli interventi legislativi dei diversi stati e che sono ugualmente aumentate le ostilità sociali a sfondo religioso.

Per quanto riguarda le norme che restringono la portata delle attività dei gruppi religiosi o del singolo fedele possiamo fare diversi esempi: le restrizioni volute dal partito comunista cinese, non solo rispetto al tema delle nomine dei vescovi cattolici che devono essere per forza approvate dal Pcc; le leggi anticonversione indiane (a dimostrazione del fatto che questo non è un problema legato ai soli paesi islamici, come spesso si tende a credere); la messa al bando, in Russia, di interi gruppi religiosi come ad esempio i testimoni di Geova, quasi in nome della sicurezza nazionale».

Il suo libro propone una tesi di fondo: negli ultimi 20 anni gli Usa hanno messo il tema della libertà religiosa come punto focale della loro politica estera.

«Tenuto conto del mio profilo scientifico concentro la mia analisi sull’International religious freedom act (Irfa), la legge approvata dal Congresso degli Usa nel 1998 che riguarda proprio la tutela e la promozione del diritto di libertà religiosa nel mondo. Nel mio studio provo a mostrare come quel modello, nel bene e nel male, abbia avuto una sua diffusione. Tanto è vero che altri paesi, soprattutto occidentali, tra cui Canada, Ue, Inghilterra, Olanda, hanno provato a fare qualcosa di simile segnalando che la libertà religiosa è importante.

Anche il governo italiano lo ha fatto: ricordiamo il caso di Mariam Ibrahim che, in Sudan, era stata incarcerata e fatta partorire in carcere, perché accusata di essersi convertita dall’islam al cristianesimo. Ora vive negli Usa anche grazie all’Italia.

Ovviamente, non sostengo che il modello americano abbia sempre funzionato, anzi, nel libro faccio esempi di palesi doppi standard di applicazione da parte degli Usa: ci sono paesi che violano il diritto di libertà religiosa che, per ragioni di real politik, non vengono sanzionati.

Io penso, però, che non si possa pretendere che i paesi privilegino la libertà religiosa in qualsiasi loro azione nei confronti di altri paesi. Privilegiarla sempre potrebbe anche portare a delle reazioni che sul lungo periodo danneggerebbero la libertà religiosa stessa. Se uno stato sta sempre col dito puntato sulla Cina, o altri paesi, dicendo: “Noi non facciamo nulla con voi fin quando voi non garantite il nostro stesso livello di tutela della libertà religiosa”, io credo che si possa bloccare un processo di dialogo.

Bisogna guardare a questi temi nell’ottica di un processo e non di un singolo atto».

Nel suo libro, lei lega questa azione degli Usa all’eccezionalismo statunitense.

«Gli Stati Uniti hanno una precisa autorappresentazione di se stessi: si vedono come un modello di comportamento per gli altri paesi del mondo. Ed essendo un paese in cui la narrazione del valore della libertà religiosa è importante, un paese fondato da dissidenti religiosi, il dibattito interno sul tema ha sempre avuto una sua centralità. Gli Usa hanno vissuto un processo lungo e travagliato per garantire la tutela della libertà religiosa internamente. Poi hanno recuperato il tema anche in chiave di politica estera, dicendo: “Questo è per noi uno dei diritti fondamentali e pensiamo che anche altri paesi possano far assurgere questo diritto a elemento centrale delle loro politiche”.

Per gli Usa la libertà religiosa non è un diritto tra molti, ma il fondamento di tutti gli altri, tanto è vero che F. D. Roosevelt, quando viene approvata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel ‘48, identifica nella libertà religiosa una delle quattro libertà fondamentali (libertà di espressione, di culto, libertà dal bisogno e dalla paura, ndr)».

Quali sono gli strumenti che si sono dati gli Usa con la legge del ‘98 per tutelare la libertà religiosa nel mondo?

«L’Irfa è una legge molto complessa. Ci sono due tipologie di strumenti fondamentali: la prima è quella diplomatica classica, con tutta un’attività di comunicazione del Dipartimento di stato su altri paesi, affinché vengano garantiti alcuni diritti, e con le sanzioni vere e proprie, cioè il riconoscimento di status economici più o meno vantaggiosi. La seconda è quella delle sanzioni su singoli individui violatori del diritto di libertà religiosa. Un esempio è quello di Narendra Modi: ai tempi in cui era governatore dello stato indiano del Gujarat, ci furono violenze contro la minoranza musulmana e fu accertata dal governo degli Usa la sua responsabilità. A Modi fu interdetto l’ingresso negli Usa. Sanzione su singolo individuo che fu revocata quando Modi fu eletto primo ministro dell’India».

Ci sono dei risultati positivi di questa politica estera?

«Gli esperti hanno una doppia valutazione: da una parte è vero che su singoli casi è stato possibile salvare delle persone, dall’altra però, come tendenza generale, questa azione non ha garantito un abbassamento dei livelli di violazione del diritto alla libertà religiosa. Secondo me anche perché, rispetto al ‘98, viviamo in un mondo molto diverso, nel quale sono aumentate soprattutto le ostilità sociali rispetto alle minoranze religiose. Nel ‘98, ad esempio, non avevamo il dibattito che abbiamo oggi sui populismi e il ritorno degli identitarismi nazionali. Quello che gli scienziati sociali misuravano nel ‘98 è molto diverso da quello che misuriamo oggi. Nel ‘98 la chiesa ortodossa russa non aveva il ruolo centrale nella costruzione dell’identità nazionale che ha oggi in Russia. Nel ‘98 l’induismo indiano non era al governo e non premeva per la produzione di norme contrarie ai diritti delle altre minoranze religiose, e così via».

© European Union 2015 – European Parliament | Pietro Naj-Oleari

La politica degli Usa sulla libertà religiosa nel mondo è stata imitata da vari paesi, tra cui l’Ue. In cosa si è distinta dagli Usa?

«Si è distinta a livello burocratico. L’Ue ha approvato delle linee guida per un’azione di soft law, cioè senza la creazione di grandi apparati burocratici, ma inserendo la libertà religiosa nella politica estera già esistente dell’Ue. Negli Usa, con l’Irfa si è creata una vera e propria commissione specializzata che fa solo quello, la Uscirf, si è creato tutto un meccanismo all’interno del Dipartimento di stato, si sono previsti due rapporti annuali sulla libertà religiosa nel mondo, si prevedono dei meccanismi per indicare quali sono i paesi che violano seriamente il diritto di libertà religiosa… Anche nell’Ue si è creato pochi anni fa un intergruppo parlamentare per la libertà religiosa che produce un suo rapporto annuale (Forb, ndr), ma sono storie diverse, anche dal punto di vista della narrazione ideale. Il dibattito sulla libertà religiosa e sulla religione in quanto tale non ha, a livello istituzionale nell’Ue, la stessa centralità che ha all’interno dell’impianto costituzionale Usa, dove il diritto di libertà religiosa è garantito addirittura dal primo emendamento costituzionale (1791), quindi è il diritto che viene, almeno descrittivamente, prima degli altri».

L’arrivo di Trump ha cambiato qualcosa?

«Parzialmente. Obama, soprattutto durante il periodo in cui Hillary Clinton era segretario di Stato, non premeva molto per la tutela del diritto di libertà religiosa. Trump, essendo stato portato alla presidenza anche da tantissimi voti di gruppi religiosi, soprattutto evangelici, ha premuto molto su questo tasto e sono previsti nuovi fondi a favore del Dipartimento di stato per la tutela di questo diritto».

Sembra però che la grande attenzione degli Usa per la libertà religiosa sia più rivolta all’estero che all’interno.

«Da un punto di vista formale, questo è il mandato che l’Irfa dà al Dipartimento di stato. Non è prevista un’indagine interna sullo stato della libertà religiosa negli Usa. È prevista solo un’azione esterna. Questa è una delle obiezioni classiche: “Voi guardate solo fuori e non guardate dentro”. Però qui parliamo di una politica concepita come politica estera. Per l’interno ci sono altri dipartimenti, altri ministeri e altre istituzioni.

Un’altra obiezione che viene fatta, soprattutto dai russi e dai paesi musulmani, suona così: “Voi pretendete di vagliare con i vostri standard occidentali il modo in cui viene rispettata la libertà religiosa in altri paesi che non hanno i vostri standard o, addirittura, non hanno i vostri valori”. Questo porta alcuni studiosi a parlare di “impossibilità della libertà religiosa”. Qui sorge a mio modo di vedere un problema di relativismo. “Ogni paese ha i suoi valori e quindi è difficile avere un discorso universale sul diritto di libertà religiosa”. Ma se una persona viene incarcerata perché si converte, qualsiasi sia la sua fede, io credo che sia possibile essere universalmente d’accordo che è ingiusto. A livello di tutele minime credo che sia necessario un discorso globale su questi temi, e credo che sia legittima l’attività di pressione da parte di alcuni stati per garantire, appunto, almeno le tutele minime. Non credo che si possa essere accusati di imperialismo perché si salva una persona che altrimenti viene costretta a partorire in carcere a causa della sua conversione».

AFP PHOTO / THOMAS SAMSON

I paesi islamici e la Russia ortodossa criticano questo approccio degli Usa perché hanno un’idea di libertà religiosa differente. Ci può spiegare quali sono i distinguo fondamentali?

«Uno dei problemi principali con i paesi islamici (non con l’islam) è sicuramente quello relativo alla facoltà di conversione. In alcuni paesi ci sono addirittura delle norme penali che prevedono l’incarcerazione.

In Russia invece c’è una problematica che riguarda la tutela delle minoranze religiose e la loro facoltà di operare, soprattutto dal punto di vista del proselitismo. Ad esempio verso i testimoni di Geova c’è stata una notevole azione dei servizi di sicurezza della federazione russa. Queste azioni portano a rendere inoperative le minoranze religiose. Tutto ciò dipende anche da una certa evoluzione teologica interna alla chiesa ortodossa russa che è maggioritaria, territoriale e nazionale e che influenza le politiche legislative dello stato. Venuto meno il collante dell’ideologia comunista, infatti, tantissima parte della costruzione del dibattito pubblico nella federazione russa si basa oggi, a mio modo di vedere, solo su questa pseudo identità collettiva ortodossa».

A volte la libertà religiosa non viene osteggiata in quanto tale, ma presa e utilizzata per un uso contrario. Pensiamo all’esempio del Pakistan che per difendere le sue leggi sulla blasfemia ricorre al concetto di tutela della religione.

«Anche qui c’è un problema teorico. In questo caso, come in altri casi di paesi musulmani, il diritto umano alla libertà religiosa viene inteso come diritto della religione in quanto tale ad essere tutelata. Ma questo non risponde agli standard internazionali di tutela che prevedono che i diritti umani siano diritti degli individui, non delle idee. L’idea in quanto tale non gode di protezione, soprattutto in un’ottica di tutela della libertà di espressione. Se si legittimano sanzioni penali per la blasfemia, questo può portare a punire anche casi in cui non vi siano offese della religione, ma soltanto descrizioni ritenute non veritiere dal detentore del sapere teologico».

Sempre sull’utilizzo della libertà religiosa a fini politici, nel suo libro fa l’esempio della guerra in Siria nella quale la Russia dice di sostenere il regime anche per tutelare la libertà religiosa delle minoranze cristiane protette da Bashar al-Assad.

«Anche lì la dinamica è la stessa. La cosa interessante è che, mentre spesso la Russia critica gli Stati Uniti perché nei rapporti statunitensi viene indicata come paese particolarmente problematico, in questo caso ha una identica veduta d’insieme per quel che riguarda le violazioni anticristiane. C’è una scelta politica che non mi sorprende, essendo la Russia il primo alleato del regime siriano, essa trova nell’istanza della tutela delle minoranze religiose un altro argomento a supporto della sua posizione».

Stringer – Anadolu Agency

Il sottotitolo dell’edizione inglese del suo libro è «ascesa e declino del modello Usa». C’è una fase di «ritirata» della libertà religiosa dall’agenda globale?

«Quello che è cambiato, soprattutto dal punto di vista del dibattito interno Usa, è che non c’è più la stessa visione sul ruolo della libertà religiosa all’interno e all’estero. La legge del ‘98 è stata approvata sostanzialmente all’unanimità dal congresso, nonostante fosse passato pochissimo tempo dall’impeachment di Bill Clinton. Cioè, un congresso profondamente diviso come solo nel caso di un’impeachment può esserlo, è riuscito ad approvare quella legge quasi all’unanimità. Questo vuol dire che il sentimento rispetto alla libertà religiosa era profondamente condiviso. C’era una sua centralità. Oggi non è più così, perché la libertà religiosa viene etichettata come un tema repubblicano o di destra, mentre la tutela di altri diritti, soprattutto i diritti delle minoranze Lgbt, sono associate a istanze più progressiste. Questo rappresenta uno dei segnali più evidenti della polarizzazione che oggi vive il sistema democratico statunitense, ma anche tante democrazie occidentali. Il fatto che la libertà religiosa, da un’istanza condivisa sia trasformata in un’istanza partitica o addirittura identitaria, come alcune esternazioni di Trump lasciano presagire, ne provoca un declino. E poi c’è sempre il problema dei doppi standard, come avviene con l’Arabia saudita, che a lungo andare sottrae credibilità».

A questo punto l’ultima domanda: quale futuro per questo tema a livello internazionale?

«A livello internazionale sicuramente il dibattito non scemerà, anzi, io credo che sia destinato a rimanere centrale, anche grazie al fatto che le nostre società diventano sempre più complesse e sempre più, quindi, realiste, perché dovranno confrontarsi sepre più con diverse istanze religiose. Nel caso italiano basta pensare alle problematiche che pone la presenza oramai di quasi due milioni di fedeli musulmani i quali hanno spesso rapporti molto forti con i loro paesi d’origine.

Mi auguro che i paesi occidentali riescano ad affrontare il tema con un minimo di coerenza. Uno dei principi anche giuridici dell’impianto del diritto dell’Ue è quello della coerenza tra politica interna e politica estera: non si può essere credibili fuori se noi non garantiamo i diritti dentro. E poi spero che ci sia un dibattito anche a livello di organismi internazionali, le Nazioni Unite piuttosto che altri, devono riuscire a coinvolgere quanti più paesi possibile nonostante la diversità di vedute si stia inasprendo.

Luca Lorusso




Kurdistan: Orgoglio Kurdo


È uno stato

Introduzione

a) La carta d’identità

FAMIGLIA LINGUISTICA – Ramo iranico delle lingue indoeuropea, con rilevanti affinità con il persiano parlato in Iran. La lingua kurda si divide a sua volta in due varianti, Sorani e Kurmanji, con notevoli varietà dialettali.

DOVE SONO – Nord dell’Iraq, al confine con Siria, Turchia e Iran, zone anch’esse abitate dai Kurdi. I territori indicati dalla Costituzione irachena del 2005 come Regione autonoma del Kurdistan sono inferiori rispetto all’area occupata dai Kurdi, oggi contesa fra Baghdad ed Erbil (il capoluogo della regione).

CAPOLUOGO – La città di Erbil.

POPOLAZIONE – 5-8 milioni, a seconda delle stime.

RIFUGIATI E SFOLLATI – Si trovano oggi in Kurdistan circa 2 milioni di rifugiati e sfollati, la larga parte dei quali giunti negli ultimi tre anni in seguito all’avanzata dello Stato islamico (Isis-Daesh).

ORGANIZZAZIONE POLITICA – I Kurdi in Iraq vivono, con un’ampia autonomia politica ed economica, all’interno della Regione autonoma del Kurdistan, sancita, dopo la caduta di Saddam, dalla costituzione irachena del 2005. I territori in essa inclusi sono però di molto inferiori rispetto a quelli effettivamente controllati dai Kurdi, il che provoca frequenti diatribe con Baghdad.

RELIGIONE – Circa il 94% degli abitanti del Kurdistan iracheno sono musulmani sunniti.

MINORANZE – Siriaci, armeni, turkmeni e arabi. Da un punto di vista religioso, si trovano inoltre musulmani sciiti, cristiani, zoroastriani, yazidi, ebrei, shabaki, kakai, mandei e bahai.

MONETA – Dinaro iracheno.

BANDIERA – Un tricolore a bande orizzontali rossa bianca e verde, con un sole al centro. La bandiera fu per la prima volta introdotta dai leader Kurdi presenti alla conferenza di pace di Parigi del 1919-20, quando la nascita di uno stato chiamato Kurdistan sembrava imminente. Oggi questa bandiera è bandita in Turchia, in quanto ritenuta simbolo delle aspirazioni kurde all’indipendenza, mentre è assai diffusa nel Kurdistan iracheno.

PETROLIO – Con una riserva stimata attorno ai 45 miliardi di barili, il petrolio rappresenta una voce fondamentale dell’economia del Kurdistan, oltre che un elemento di attrito continuo con Baghdad.

b) Le date principali

  • 1918: con la sconfitta dell’Impero ottomano nel primo conflitto mondiale, il territorio dell’attuale Kurdistan iracheno diventa parte del dominio della corona britannica.
  • 1919: creazione ex novo dello stato iracheno, che finisce sotto mandato britannico.
  • 1920: il trattato di pace di Sèvres, firmato dall’Impero ottomano, prevede la nascita di uno stato kurdo, cui avrebbero potuto unirsi – tramite referendum – anche i Kurdi dell’ex governatorato ottomano di Mosul.
  • 1922: Mahmud Barzinji, sheikh di un’importante confraternita sufi, si autoproclama sovrano del Kurdistan in un’area che include la città di Sulaymaniyah e il territorio adiacente. Gli inglesi rispondono dispiegando la loro aviazione e schiacciando la rivolta.
  • 1923: il trattato di Losanna dà il colpo di grazia alle aspirazioni nazionalistiche dei Kurdi.
  • 1943: Mustafa Barzani, padre dell’attuale presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, guida una rivolta che riesce a strappare per breve tempo al governo centrale i territori adiacenti ad Erbil e a Badinan.
  • 1946: nasce un’effimera, ma importante, Repubblica di Mahabad, entità statale kurda nel Nord Ovest dell’Iran che durerà meno di un anno.
  • 1980-88: la guerra Iran-Iraq causa migliaia di morti, persecuzioni e divisioni politiche all’interno del Kurdistan iracheno.
  • 1986-89: campagna di al-Anfal compiuta da Saddam Hussein contro i Kurdi, che porterà alla morte di migliaia di persone.
  • 1988: attacco chimico di Halabja compiuto dalle forze irachene contro i Kurdi.
  • 1991: i Kurdi riescono finalmente, dopo una sollevazione, a liberarsi dal giogo del regime di Saddam Hussein. Una autonomia, quella della regione del Kurdistan, resa effettiva anche grazie alla no flight zone americana.
  • 2005: la nuova costituzione irachena, promulgata in seguito all’occupazione americana dell’Iraq, riconosce l’autonomia kurda nel Nord del paese.
  • 2014: l’Isis avanza in Iraq, compiendo un genocidio contro gli Yazidi e costringendo i Kurdi siriani e iracheni a una strenua resistenza. La regione diviene approdo, in breve tempo, di centinaia di migliaia di profughi e sfollati.

Simone Zoppellaro


Kurdistan: uno, tanti, nessuno

Storia della regione kurda dell’Iraq

Nel mondo si stimano esistere tra i 20 e i 40 milioni di Kurdi. Costituiscono la più grande nazione senza uno stato (riconosciuto dalla comunità internazionale). Il nostro collaboratore è andato a vedere cosa succede nel Kurdistan iracheno, che un tempo era la mitica Mesopotamia, mentre oggi è l’unica entità territoriale kurda vicina alle caratteristiche di un vero e proprio stato indipendente.  

Quello del Kurdistan è un nome divenuto ormai noto a tutti in questi ultimi anni, seppure si riferisca a una realtà per molti aspetti sfuggente, dai tratti incerti e in parte persino misteriosi. Non sarà un caso: costretta a cavallo dei confini di diversi stati – Turchia, Siria, Iran, Iraq e Armenia, con una notevole presenza diasporica in Europa – quella dei Kurdi rappresenta oggi la più grande nazione al mondo senza uno stato. Una frattura difficile da sanare causa di numerose altre ferite: non solo le persecuzioni e le discriminazioni subite periodicamente nei diversi contesti, ma anche le divisioni politiche, talora fratricide, che hanno segnato il destino di questa gente pur legata da una cultura salda e antica. Il risultato è che oggi non esiste un solo Kurdistan, ne esistono diversi o, almeno da un punto di vista del riconoscimento internazionale, non ne esiste ancora nessuno. Eppure, situato com’è nel cuore del Medio Oriente, forte di una popolazione complessiva stimata (ma i dati sono assai dibattuti) fra i 20 e i 40 milioni di persone, il Kurdistan è uno dei luoghi del mondo tra i più caldi e cruciali dal punto di vista geopolitico, strategico e delle risorse. E questo non certo da oggi.

Un tempo era la Mesopotamia

Troppe volte in passato questa splendida terra, fertile e dai paesaggi rigogliosi, è stata contesa da potenze straniere e dai loro eserciti. Limitandosi al solo Kurdistan iracheno – che tratteremo in modo esclusivo in questo nostro lavoro – si parla di una regione che ha radici antichissime, che arrivano fino agli albori stessi della civiltà. In questo spazio si trovava infatti parte della Mesopotamia propriamente detta. Nella piana di Ninive, gli storici ritengono sia avvenuto lo scontro decisivo fra Alessandro Magno e i persiani. Ci riferiamo alla battaglia di Gaugamela, snodo fondamentale per la storia antica nel determinare le fortune del Macedone e il tramonto, almeno temporaneo, dell’impero di Persia.

In epoca più recente, quello che oggi chiamiamo Kurdistan iracheno è stato soggetto alla dominazione ottomana. Proprio sotto questa dominazione, fra battaglie e rivolte represse nel sangue, va forgiandosi e definendosi l’identità kurda di questa popolazione di origine iranica. Nel 1918, con la sconfitta della Sublime Porta nel primo conflitto mondiale, questo territorio passa a essere dominio della Corona britannica. Dell’anno successivo è invece la creazione dello stato iracheno, che finisce sotto mandato britannico. Un’entità statale, come diverse altre in Africa e in Asia, che è in ultima analisi solo una creazione realizzata a tavolino dalle potenze coloniali, senza alcun riscontro storico preciso. È così che una porzione di Kurdistan diviene parte di uno stato che un secolo dopo, a dispetto dei tanti mutamenti, esiste ancora. Il risultato di tale disegno, concepito su esclusivo interesse di capitali lontane anziché sui bisogni delle popolazioni locali, è sotto gli occhi della comunità internazionale ancora nel 2017. Una delle caratteristiche dell’esperienza coloniale è che essa è durata ben oltre la fine del colonialismo stesso.

La svolta: il trattato di Sèvres

La mancata nascita di uno stato kurdo viene vissuta da questa minoranza, nel frattempo galvanizzata da aspirazioni nazionaliste e irredentiste, come un tradimento. Il trattato di pace di Sèvres del 1920, firmato tra le potenze alleate della Prima guerra mondiale e l’Impero Ottomano, prevede infatti di dare voce ai Kurdi dell’ex governatorato ottomano di Mosul sul loro destino. Questi dovrebbero poter decidere, tramite un referendum, se unirsi a un nascente stato kurdo previsto più a Nord, che dovrebbe includere città dell’attuale Kurdistan turco quali Diyarbakir. Ma né l’una né l’altra ipotesi diventano realtà, e i territori a maggioranza kurda – complice anche la nascita della Turchia kemalista – vengono spartiti senza che i loro abitanti possano esprimersi in alcun modo sul loro futuro. Da questo passaggio storico fondamentale avranno origine una serie di rivolte espressione delle rivendicazioni nazionaliste dei Kurdi.

Barzani e i Peshmerga

Nel 1922 Mahmud Barzinji, sheikh di un’importante confraternita sufi, si autoproclama sovrano del Kurdistan in un’area che include la città di Sulaymaniyah e il territorio a essa adiacente. Gli inglesi rispondono dispiegando la Royal Air Force, l’aviazione. Una serie di bombardamenti aerei colpiscono Barzinji e i suoi uomini per circa un anno fra il 1923 e il 1924, fino alla resa finale. Il primo tentativo di realizzare uno stato kurdo finisce quindi in un bagno di sangue.

Barzinji, che è stato protagonista di una rivolta già in precedenza, nel 1919, si ritirerà in seguito sui monti, dove tenterà inutilmente di fare esplodere di nuovo la scintilla dell’irredentismo kurdo. Valente guerriero, il suo ricordo si imprimerà nella memoria delle successive generazioni di Kurdi, quale simbolo di libertà e rivalsa nei confronti del giogo coloniale. Nel frattempo il trattato di Losanna, firmato nel 1923, dà il colpo di grazia alle aspirazioni nazionalistiche dei Kurdi.

Nel 1932 un’ulteriore rivolta segna l’inclusione dell’Iraq nella Lega delle Nazioni, evento che ha luogo ignorando ancora una volta le ambizioni e le richieste politiche dei Kurdi. Proprio il Kurdistan iracheno dà i natali a quello che è probabilmente il maggior leader kurdo del secolo scorso, Mustafa Barzani (1903-1979). Proveniente anche lui, come Barzinji, da una famiglia di importante tradizione sufica, Barzani sarà per mezzo secolo una spina nel fianco di Baghdad, nonché simbolo vivente della lotta per l’indipendenza dei Kurdi. Barzani, padre dell’attuale presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, guida nel 1943 un’ennesima rivolta che riesce a strappare al governo centrale i territori adiacenti ad Erbil e a Badinan. Nel 1946 si afferma come comandante della Repubblica di Mahabad, nel Nord Ovest dell’Iran. A Barzani si deve infine anche la fondazione del «Partito democratico del Kurdistan» (riquadro pagina seguente), che rimane fino ad oggi il maggior partito politico kurdo dell’Iraq.

Dopo la fine dell’esperienza di Mahabad nel 1947 (riquadro in alto), Barzani si rifugia nell’Azerbaigian sovietico, dove rimane fino alla rivoluzione irachena del 1958. Dopo il ritorno e un fallito accordo con il governo di Baghdad, nel 1960 si rifugia in montagna, da dove guida per oltre un decennio i suoi uomini, i Peshmerga, alla resistenza contro le forze irachene. Muore in esilio negli Stati Uniti nel 1979, dopo essere stato infine sconfitto militarmente dal regime di Saddam Hussein, con la complicità dello scià iraniano. E proprio gli anni di governo del dittatore si dimostreranno i più duri per i Kurdi iracheni.

Sotto Saddam Hussein

La repressione inizia in sordina negli anni Settanta con una campagna di arabizzazione della regione, che mira a sopprimere l’identità kurda insieme a quella delle altre minoranze etniche e religiose.

Le cose precipitano in seguito con la guerra fra Iran e Iraq, combattuta fra il 1980 e il 1988. I due maggiori partiti politici kurdi si dividono, e quello di Barzani appoggia apertamente l’Iran, voltando le spalle a Baghdad. Una volta che inizierà a profilarsi la fine del conflitto, arriverà puntuale la vendetta di Saddam con la campagna di al-Anfal. Secondo i Kurdi (e non solo), un genocidio che costerà la vita a decine di migliaia di persone, con centinaia di migliaia di profughi costretti a fuggire. Altre migliaia di vittime costerà l’attacco chimico nella città di Halabjah, nei pressi del confine iraniano. Crimini poco noti al grande pubblico, ma fra i più efferati commessi negli ultimi decenni nell’intero Medio Oriente.

Nel 1991, dopo una sollevazione, i Kurdi riescono finalmente a liberarsi dal giogo del regime di Saddam Hussein. Una autonomia resa possibile anche grazie alla no-flight zone americana dello stesso anno, che permette ai Kurdi di tirare il fiato dopo anni terribili in cui i baathisti al potere a Baghdad avevano commesso contro di loro i crimini più atroci.

Il Kurdistan oggi

Questa regione dalla storia travagliata è stata negli ultimi trent’anni teatro di massacri e genocidi. Nonostante ciò, il Kurdistan iracheno è riuscito a conoscere uno sviluppo economico e urbanistico senza precedenti che, seppure non scevro da gravi contraddizioni quali speculazione, corruzione e disuguaglianze, ha permesso ai Kurdi di raggiungere una notevole autonomia politica ed economica, e di sognare l’indipendenza. Un passo avanti di portata storica per questa gente che, a dispetto delle reiterate promesse di un riconoscimento statuale da parte delle ex potenze coloniali, non aveva mai fino ad ora potuto godere di una così ampia libertà di determinare il proprio destino.

Oggi molti Kurdi dei paesi vicini guardano a questa regione autonoma dell’Iraq con grande attenzione e partecipazione. Ricordo come un ragazzo, uno studente kurdo iraniano conosciuto a Teheran, mi raccontasse trasognato la sua scelta di studiare a Sulaymaniyah, città del Kurdistan iracheno. Il semplice fatto di poter studiare e parlare nella propria lingua madre, il kurdo, rappresentava per quel giovane – come per molti altri Kurdi dei paesi confinanti – un vero sogno, la realizzazione di oltre un secolo di aspirazioni, lotte e persecuzioni.

Benché già in essere dal 1991, l’autonomia kurda diviene una realtà con la nuova Costituzione irachena del 2005, promulgata in seguito all’occupazione americana dell’Iraq. Da qui, come detto, ha inizio una stagione di grande sviluppo che entrerà in crisi solo negli ultimissimi anni con l’avanzata dell’Isis. E così ai crimini già ricordati si aggiungerà anche il genocidio della minoranza yazida iniziato nel 2014 e tuttora in corso (si veda MC marzo 2017). La presenza di centinaia di migliaia di profughi e sfollati è un altro prodotto importante di questa nuova crisi, che è divenuta anche economica.

Tra Erbil e Baghdad

In questa situazione complessa e delicata, sono ancora una volta i contorni stessi del Kurdistan a essere in questione. Se sono solo quattro in totale i governatorati riconosciuti ufficialmente parte di questa regione (Duhok, Erbil, Sulaymaniyah e Halabja), assai più ampia è però l’area controllata dai Peshmerga kurdi, che rivendicano un territorio ancora più vasto. Emblematico a tal proposito il casodi Kirkuk, città contesa da Baghdad e Erbil. In questo caso come in altri, non si tratta di un caso di facile soluzione: come capita spesso in Medio Oriente e nel Caucaso, si tratta di territori tutt’altro che omogenei da un punto di vista etnico e religioso, cosa che dà adito a infinite manovre e giochi di potere che, inevitabilmente, finiscono per essere pagati dalle fasce più deboli della popolazione e, in primis, dalle minoranze. Difficile anche stabilire con esattezza il numero di abitanti della regione autonoma del Kurdistan. Se le autorità di Erbil parlano di oltre cinque milioni di abitanti, secondo Baghdad si tratterebbe invece di un milione di meno.

Kurdistan turco e Kurdistan siriano

Numeri e politica a parte, l’importanza del Kurdistan iracheno è enorme anche solo da un punto di vista umano e culturale. Mentre la morsa del presidente turco Erdogan si fa sempre più stretta sui Kurdi di Turchia, e perdura la guerra nel Kurdistan siriano (noto come Rojava), costata infinite sofferenze, la relativa stabilità del Kurdistan iracheno è un approdo sempre più insostituibile per i Kurdi della regione. Un ruolo prominente attribuitogli anche dalla collocazione geografica, oltre che dall’evoluzione storica recente: situata com’è al centro della regione, la porzione irachena mette in comunicazione le altre parti del mondo kurdo separate nelle diverse nazioni. Un dato positivo, senza dubbio, che finisce però per produrre numerosi contraccolpi, scaricando su questa regione tutte le tensioni che investono i Kurdi nei paesi limitrofi.

Simone Zoppellaro


I Kurdi e il dna linguistico

Lingua, cultura, identità

Essendo distribuite su vari paesi (Iraq, Turchia,?Siria, Iran), le popolazioni kurde possono avere caratteri culturali molto diversi. Ma sono unificate da un unico idioma (che è una lingua indoeuropea), pur con tutte le sue varianti.

Il Kurdistan iracheno è un territorio ricco di storia e cultura, cosa che si evince anche dalla grande diversità linguistica, religiosa e culturale che vi si incontra. I Kurdi stessi che lo abitano, ben lungi dall’essere un monolite, hanno partiti politici, usi, costumi e idee molto diversi dai loro omologhi turchi e siriani, e proprio qui in Iraq hanno sviluppato un tassello fondamentale – per quanto tuttora incompiuto – nella loro lunga marcia verso l’autonomia e l’indipendenza. Ma non sono solo il passato e la tradizione a colpire il viaggiatore. Città come Erbil e Dohuk appaiono moderne e completamente rinnovate negli ultimissimi anni, per quanto nel loro tessuto sia facile scorgere edifici costruiti a metà, basi militari e campi profughi, cicatrici dovute a quello spartiacque che è stato l’ascesa dello Stato islamico ai confini di questa regione.

In questo articolo cercheremo di fornire al lettore di Missioni Consolata un quadro il più possibile aggiornato della società kurdo-irachena di oggi, muovendoci dalla lingua alla cultura, dall’economia alla politica, facendo anche tesoro di un viaggio appena concluso in questa regione.

Una lingua indoeuropea

Scrive il linguista e politologo Noam Chomsky: «Una lingua non è fatta solo di parola. È una cultura, una tradizione, il collante di una comunità, una storia intera che determina ciò che una comunità rappresenta. E tutto ciò è incarnato in una lingua». E proprio questo aspetto, quello linguistico, è il principale che determina ieri come oggi l’identità dei Kurdi, in contrapposizione ai vicini sia arabi che turchi, entrambi in maggioranza di fede musulmana, ma che usano idiomi molto lontani, riconducibili a famiglie linguistiche assai diverse. Il kurdo, invece, nelle sue diverse varianti appartiene alle lingue iraniche, come il persiano, parte della comune famiglia indoeuropea. E proprio con la lingua parlata in Iran si scoprono punti di contatto sorprendenti. Per limitarci a un solo esempio, che ho rilevato di persona parlando io persiano, prendiamo il caso dei numeri. Una cosa, questa, che mi ha permesso facilmente di dire molte cose in kurdo, senza aver fatto neppure una lezione o aperto una grammatica. Non mi era mai capitato di imbattermi in due lingue che avessero le medesime parole, perlopiù con variazioni minime di alcune vocali, per indicare tutti i numeri. Eppure, è esattamente quello che succede fra persiano e kurdo, lingue che hanno un legame profondo e antico.

Una lingua, tanti alfabeti

Tornando al kurdo, è giusto ricordare che non si tratta di una lingua unificata: esistono almeno due tipologie linguistiche del kurdo, chiamate Kurmanji e Sorani, presenti entrambe in Iraq. Queste sopravvivono senza che una sia riuscita a prendere il sopravvento sull’altra, tanto nella lingua parlata che in quella scritta e nella letteratura. Non ancora standardizzato è anche il modo in cui si trascrive questa lingua. Accanto al kurdo in caratteri arabi – egemone e preponderante in Iraq, dai cartelli stradali, ai libri e alle scuole – sopravvive ancora l’uso di trascrivere la lingua in caratteri latini. Non si deve dimenticare, infine, come il kurdo sia stato usato, anche da un punto di vista letterario, in un terzo alfabeto: quello cirillico, usato soprattutto quando esisteva ancora l’Unione Sovietica. Per un breve periodo, infine, negli anni venti, fu usato anche nell’alfabeto armeno, sempre nell’Urss. Una grande varietà che è, certo, conseguenza della storica mancanza di uno stato, di un centro di riferimento che sia in grado di imporre un canone, ma anche segno di una commistione culturale e linguistica che ha prodotto notevoli frutti.

Erbil e le università italiane

Se gli albori letterari della lingua kurda risalgono alla prima fioritura poetica del XVI secolo, le radici di questo popolo e di questa terra, come detto, sono però assai più antiche. A testimonianza di ciò è la cittadella di Erbil, patrimonio dell’Unesco, la cui vista che domina e sovrasta il centro della capitale della Regione autonoma del Kurdistan. Una presenza tanto più importante, in quanto sia la furia iconoclasta dell’Isis che il boom edilizio degli ultimi decenni hanno cancellato molte delle tracce storiche di questa terra in rapida evoluzione. E proprio la cittadella è al centro di un progetto di studio e valorizzazione promosso dalle autorità kurde insieme con la «Missione archeologica italiana nel Kurdistan iracheno» (Maiki: www.maiki.it), portata avanti da ormai molti anni dall’Università la Sapienza di Roma.

L’eccezionalità di questa altura artificiale, simile a quella che domina il centro di Aleppo in Siria, sta nella sua capacità di raccontare come un libro aperto migliaia di anni di storia racchiusi nei vari strati di sedimentazione di cui è composta. I reperti più antichi trovati in essa risalgono, infatti, addirittura al Paleolitico. Su questa altura sorgeva un tempo di Ishtar, ed oggi, racchiusa fra la possente cinta muraria, si trovano case storiche d’epoca ottomana, oltre che una moschea. Un altro importante lavoro archeologico, sempre italiano, è quello dell’Università di Udine, impegnata a investigare e valorizzare la piana di Ninive. Un progetto, questo, che ha individuato oltre centocinquanta insediamenti che coprono un arco cronologico che parte dalla preistoria per giungere fino all’epoca ottomana. Grande attenzione è poi riservata alla cultura assira, un altro importante tassello della storia di questa regione. Infine, come detto, proprio qui potrebbe aver avuto luogo una delle battaglie più importanti della storia antica. Come si legge in un articolo apparso di recente sul bimestrale Archeologia Viva:

«Le indagini degli archeologi udinesi hanno confermato che la storica battaglia di Gaugamela, vinta da Alessandro Magno contro il persiano Dario III nel 331 a.C., si svolse probabilmente nella grande piana di Navkur, al cui centro si trova il sito di Tell Gomel. Grazie a una precisa ricognizione delle fonti testuali, unita a un’esplorazione topografica, è stato accertato che la zona ha le caratteristiche presenti nelle antiche descrizioni».

Uno sviluppo convulso

Meno suggestivo è invece il lato moderno, del tutto preponderante, delle città kurde irachene di oggi, che è però anch’esso parte integrante della vita di questa regione, nient’affatto statica o persa in un suo lontano passato. Certo è che le maggiori città, quali Erbil e Dohuk, appaiono edificate in fretta e furia negli ultimi decenni, lasciando forse poco spazio sia alla memoria che all’immaginazione. Uno sviluppo convulso e, soprattutto nella capitale, per molti aspetti fuori controllo, ma che, esattamente come nell’Italia del dopoguerra, ha rappresentato per i Kurdi il simbolo liberatorio di una rivalsa nei confronti di un passato di repressione e sofferenze. Un panorama urbano, quello contemporaneo, dove a dominare sono anonimi quartieri sorti dal nulla e centri commerciali, e dove la disuguaglianza segna purtroppo in modo netto la differenza fra un’élite assai esigua e la larga maggioranza della popolazione molto lontana dagli standard dei primi.

A rendere ancora più stridente questo contrasto è la massiccia presenza, percepibile non appena si esce fuori dalle città, dei campi di profughi e sfollati. Si stima infatti che siano più di due milioni i rifugiati e sfollati interni presenti nel Kurdistan iracheno. Secondo il governo regionale del Kurdistan, questi rappresenterebbero oggi il 28% della popolazione totale della regione. Cifre importanti, che dovrebbero far riflettere chi oggi parla con troppa leggerezza di un’invasione in Italia o in Europa. Campi, quelli che ho visitato, dove manca di tutto: dall’elettricità alle cure mediche, alle terapie di recupero per i molti profughi che hanno subito violenze indescrivibili da parte dell’Isis e non solo.

Indipendenza da Baghdad?

Il tema politico più importante dibattuto in questi mesi dai Kurdi iracheni è quello di un possibile referendum sull’indipendenza da Baghdad, più volte annunciato, e sempre con maggior insistenza, ma finora non ancora messo in atto. Secondo gli interpreti più smaliziati, si tratterebbe solo di un escamotage per strappare ulteriori concessioni all’Iraq. Ma è pur vero che non va sottovalutata la portata simbolica dell’evento, il cui richiamo andrebbe a travalicare i confini della regione. Per i Kurdi, dopo un secolo di lotte, una simile opportunità rappresenterebbe un’occasione storica forse irripetibile. Certo è che a Erbil, a Dohuk e in altre città è assai raro vedere una bandiera irachena, mentre il tricolore kurdo, con il sole al centro, sventola con orgoglio ad ogni angolo e in ogni occasione.

Legata a doppio filo alla politica è l’economia del Kurdistan iracheno, marcata da diseguaglianze feroci, anche se, almeno per gli standard mediorientali, la povertà non è a livelli fuori controllo.

Una triste realtà di questa regione è poi la corruzione, come mi racconta un’antropologa sociale che ho intervistato a Dohuk, e che mi ha chiesto di rimanere anonima. Un argomento tabù, difficile e pericoloso da trattare per i media locali, che pure hanno conosciuto negli ultimi anni (si pensi al caso della televisione satellitare Rudaw, vedi foto a lato) un successo internazionale senza precedenti. Oltre al settore delle costruzioni, e al notevole sostegno finanziario ricevuto dai creditori internazionali, a fare la differenza nell’economia locale è la presenza del petrolio. Causa di frizione fra i Kurdi e Baghdad, una parte dei proventi di questa importante risorsa ha sostenuto lo sviluppo economico della regione, attirando l’attenzione di due potenze regionali come la Turchia, dove giunge la pipeline Kirkuk-Ceyhan da cui passa il petrolio kurdo, e l’Iran, che punta a sviluppare nuovi progetti.

Piccole e grandi frontiere

Se non mancano le basi storiche, economiche e sociali per un futuro prospero e democratico che superi le tante problematiche del presente, vi è però un ostacolo fondamentale da superare: la guerra, che insanguina da tanti, troppi decenni il Kurdistan iracheno. Se il germe del radicalismo non ha attecchito in una società in buona parte laica come questa, il contesto geopolitico incandescente ha lasciato però poca scelta alla società kurda, che vive in uno stato di perenne militarizzazione. Ed ecco allora che una delle presenze più evidenti, che scandiscono continuamente i panorami mozzafiato di questa regione, è quello dei check point militari. Piccole frontiere che moltiplicano le grandi frontiere e le rafforzano, lacerazioni del passato e del presente di questa terra.

Simone Zoppellaro


Dalla tolleranza ai drammi del presente

I cristiani e le altre minoranze religiose

Per cristiani dell’Iraq – passati da 1,4 milioni a soltanto 250 mila persone – il presente è drammatico. E tuttavia almeno nel Kurdistan la tolleranza religiosa resiste.

Circa il 94% dei kurdi iracheni sono musulmani, con una netta prevalenza di sunniti e una minoranza sciita nella zona di Khanaqin, nei pressi del confine con l’Iran. Il sufismo ha una ruolo importante nella regione, come si evince dal fatto che i maggiori leader kurdi siano affiliati a questa corrente.

Dall’avvento dell’islam in avanti, e ancora fino a un’epoca assai recente, il Medio Oriente non ha mai smesso di essere patria di una pluralità religiosa sorprendente, inimmaginabile nell’Europa preilluministica. Una realtà storica diametralmente opposta a quella prevalente nell’immaginario comune e nei media, che tendono a rappresentare la religione islamica come unicamente fanatica, intollerante e spietata nei confronti delle altre fedi. In realtà, ebrei, cristiani e zoroastriani – fra gli altri – hanno goduto per secoli sotto la mezzaluna di una libertà inconcepibile in Occidente, giungendo in moltissimi casi ai massimi vertici della vita politica, culturale ed economica dei territori dell’ecumene musulmana. Un patrimonio religioso, sempre declinato al plurale, che neppure la cieca violenza del fondamentalismo islamista è riuscita a sradicare del tutto.

Una tolleranza che affonda peraltro le sue radici nel dettato coranico stesso, che riconosce e tutela – accanto alla nuova fede di Muhammad – le altre religioni monoteistiche preesistenti, garantendo loro buoni margini di autogoverno per molti aspetti della vita privata e religiosa delle comunità minoritarie. Alle «genti del Libro», come le definisce il Corano alludendo alla Bibbia, come alla Torà e all’Avesta, va così garantita protezione da parte della maggioranza musulmana, a patto di un versamento di un’imposta personale chiamata jizya. A testimonianza ulteriore di una relativa apertura, come dimostrano gli studi più recenti in questo campo, anche l’estrema lentezza con cui la conversione all’islam si affermò nei territori via via conquistati nell’impero nato con la nuova fede del profeta Muhammad.

Caso esemplare a tal proposito è quello dell’epoca mongola, fra XIII e XIV secolo, quando la presenza di cristiani ed ebrei nelle corti del Medio Oriente e dell’Asia Centrale divenne così forte da minacciare la stessa egemonia culturale e religiosa dei musulmani. Questo grazie alla presenza di numerosi cristiani fra le fila dei mongoli stessi, fra cui generali di primo piano e persino alcune regine.

Il Kurdistan, esempio di pluralità di fedi

In tutto questo, i territori facenti oggi parte del Kurdistan iracheno – con la loro storia millenaria – rappresentano un caso positivo esemplare, che si distingue in modo netto dalla persecuzione che afflige le minoranze nelle zone fuori della regione. Anche il viaggiatore più distratto non potrà fare a meno di notare la sorprendente presenza di una pluralità di fedi, una accanto all’altra, i cui segni sono assai diffusamente presenti, nonostante le brutali persecuzioni degli ultimi anni. Nel territorio della Piana di Ninive, ad esempio, affiorano spesso nel paesaggio urbano e nelle campagne i profili di chiese e croci, oppure i bianchi tempietti della minoranza yazida con il loro caratteristico profilo conico. Oltre a ciò, armeni e siriaci – nonostante la drammatica crisi del cristianesimo iracheno dopo l’invasione americana del 2003 – continuano a trasmettere di generazione in generazione non solo la loro fede e il loro patrimonio culturale e liturgico, ma anche le loro lingue, diverse da quelle della maggioranza kurda e araba. In queste lingue si canta, si prega e si tengono le funzioni religiose nelle chiese, spesso estremamente suggestive. In diverse scuole e nelle parrocchie si studiano e si coltivano così il neo-aramaico, un’evoluzione moderna della lingua parlata da Gesù, e l’armeno, ognuna con i rispettivi alfabeti usati spesso anche nelle insegne e nei negozi. Lettere che si fanno simbolo di un’identità rivendicata con orgoglio nello spazio pubblico, di un’appartenenza che sfida apertamente l’insorgere del fondamentalismo in tutto il Medio Oriente, da cui per fortuna – oggi come ieri – il Kurdistan è ancora in larga parte immune.

Ma non solo i luoghi di culto e le insegne a marcare la presenza delle minoranze religiose nel territorio. Nel villaggio cristiano di Alqosh, ad esempio, sventola con orgoglio su molte case la bandiera siriaca, mentre nel villaggio di Havresk, allo stesso modo, non manca appeso alle finestre il tricolore armeno. Piccoli segni che però non possono lasciare indifferenti, dato il contesto in cui si trovano: quest’ultimo villaggio, ad esempio, è ad appena a una trentina di chilometri dalla diga di Mosul, città ancora contesa fra lo Stato islamico e Baghdad. E proprio in molti di questi villaggi e insediamenti cristiani e yazidi si incontrano di continuo sfollati interni sfuggiti dalla furia omicida dell’Isis. Un gruppo, quest’ultimo, che con la assurda pretesa di richiamarsi ai fondamenti del credo islamico rinnega invece oltre un millennio di storia che, pur fra eccezioni e contraddizioni a volte violente, va ascritto sotto il segno benevolo della tolleranza religiosa. Un’eredità portata avanti invece dai kurdi, una società dai tratti in larga parte secolare, almeno per gli standard vigenti oggi nel Medio Oriente.

La paura

Oggi, purtroppo, la paura è il sentimento dominante fra le minoranze, che non possono dimenticare i genocidi, le stragi, la resa in schiavitù e i continui soprusi che ancora avvengono nei loro confronti a poche decini dei chilometri da qui. Questa gente non parla d’alto, e non potrebbe essere altrimenti. Un timore tanto più grande, ripetono i cristiani di qui, proprio perché non limitato ad alcuni gruppi terroristici, ma anche alle zone grigie, alle complicità e ai fiancheggiamenti dimostrati da tanta gente comune, soprattutto nei centri a maggioranza araba e sunnita. La paura la fa da padrona, dicevamo, ma insieme dominano anche l’amarezza e la solitudine. La domanda che ricorre forse più di frequente nelle persone che ho intervistato – a volte esplicitata, altre semplicemente implicita, ma sempre presente – è perché l’Europa e l’Occidente si ostinino a voltarsi dall’altra parte di fronte al perpetuarsi delle orribili violenze dell’Isis, e non solo, nei confronti delle minoranze. Una frustrazione che si alterna però di continuo al sogno (perché di ciò soltanto si tratta) di una salvezza che giungerà presto da Occidente, dando finalmente sicurezza e autonomia alle minoranze dell’Iraq. Difficile dire se ci credano davvero, in un Medio Oriente dominato in modo sempre più esclusivo dai semplici interessi economici e dallo sfruttamento. Certo è che la speranza, anche in questi luoghi che traboccano di sofferenze, trova sempre la sua via nella mente e nei cuori degli uomini. Non sarà un caso: troppo il bagaglio di orrore che questa gente porta sulle spalle ogni giorno da anni.

La sparizione dei cristiani

Per quel che riguarda i cristiani in Iraq, la situazione è particolarmente drammatica. Si è passati da 1,4 milione di cristiani, prima del 2003, a meno di 250.000 persone. Il rischio concreto, come denuncia il recente rapporto «No Way Home: Iraq’s Minorities on the Verge of Disappearance», da cui riprendiamo questi dati, è quello di una definitiva scomparsa di questa e delle altre minoranze dal paese. Siamo dunque sull’orlo di un baratro, dopo oltre un millennio di convivenza. «Tredici anni di guerra hanno avuto conseguenze devastanti di lungo termine per la società irachena», ha dichiarato Mark Lattimer, direttore esecutivo di Minority Rights Group International. «L’impatto sulle minoranze è stato catastrofico. Saddam era terribile, ma la situazione da allora è peggiorata. Decine di migliaia di persone appartenenti a minoranze etniche e religiose sono state uccise e in milioni sono fuggiti per avere salva la vita».

Forse ancora più drammatica, rispetto ai cristiani, è la situazione dell’altra minoranza religiosa più importante del Kurdistan iracheno, quella yazida (cui abbiamo dedicato un dossier su Missioni Consolata di marzo 2017). Il tutto è avveuto con la complicità di molti arabi sunniti, i quali, vedendosi spodestati dal loro ruolo egemone con la caduta di Saddam, e sentendosi discriminati a loro volta dai governi succedutisi negli ultimi anni a Baghdad, hanno almeno in parte appoggiato l’ascesa dell’Isis sperando in una rivalsa sociale ed economica.

Piccoli segni di speranza

In questa situazione tragica non mancano però alcuni segni positivi che ho riscontrato nel mio viaggio. Ora più che mai, è giusto dare voce anche ai casi positivi, se non altro per non dare adito al messaggio nichilista – spesso del tutto egemone, ma falso – che la violenza sia una situazione invariabile e immutabile nel mondo musulmano. Non lo è oggi, come non lo è mai stata. Gli uomini sono liberi di scegliere il loro destino, come non lo siamo di scegliere se voltarci dall’altra parte o se invece di impegnarci per scongiurare guerre e catastrofi. Nella città di Dohuk, ad esempio, il sacerdote armeno locale mi ha raccontato come la chiesa, da poco costruita e il centro culturale Ararat ad essa adiacente – usato per matrimoni e feste – siano state costruite con il sostegno pubblico della regione kurda. O ancora, ho avuto occasione di intervistare Hussein Hasun, yazida, consigliere speciale del primo ministro del Kurdistan per i procedimenti legali legati ai genocidi. Una parola che usa al plurale: le autorità kurde, infatti, nonostante la scarsa collaborazione di Baghdad, stanno raccogliendo testimonianze ed ogni genere di prove per dimostrare che le violenze subite dalle minoranze religiose in questi anni siano casi di genocidio. No

n mancano infine contatti e incontri fra le diverse comunità religiose, e il rispetto reciproco è ancora alla base della convivenza fra i cittadini di diverse fedi, nonostante le ferite del presente.

Da segnalare infine come sia stato da poco inaugurato un tempio zoroastriano a Sulaymaniyah, oltre al progetto di edificare una sinagoga ad Ebril, dove lo scorso anno si è tenuta per la prima volta una commemorazione dell’Olocausto ebraico insieme alla piccola comunità ebraica locale. Piccoli segni, forse, ma che testimoniano che è una sfida che si può e si deve vincere, quella per la sopravvivenza dei cristiani e delle minoranze tutte, almeno qui in Kurdistan iracheno. Una sfida tanto più importante, proprio perché unica, preziosa e antica è l’eredità religiosa di cui è depositaria questa terra. E mentre Baghdad e la Siria sono allo sbando, potrebbe essere proprio da qui – dai kurdi, essi stessi vittime di tante persecuzioni nell’ultimo secolo – che la convivenza potrà rinascere appieno, scongiurando il rischio che il cristianesimo e lo yazidismo in Medio Oriente divengano solo un ricordo, cancellati per sempre, come in una tabula rasa.

Simone Zoppellaro

Schede


Lotte interne e strane alleanze

La scena politica e militare del Kurdistan iracheno di oggi appare dominata in modo pressoché esclusivo da due partiti storici, conosciuti con due acronimi, il Pdk e l’Upk. Il primo, il «Partito democratico del Kurdistan», affonda le sue radici nella Repubblica di Mahabad, dove è nato, e nella figura carismatica del suo leader combattente, Mustafa Barzani. Una storia importante, raccolta non a caso dal figlio di questi, Masud Barzani, l’attuale presidente della regione kurda. Più recente è invece il Upk, l’«Unione patriottica del Kurdistan», partito fondato a metà degli anni settanta e guidato oggi dall’ex presidente iracheno Jalal Talabani. Anche il suo successore alla guida del paese, Fuad Masum, è fra i fondatori del partito, nato da una costola del Pdk, critica nei confronti della leadership dopo la sconfitta dei Kurdi nella rivolta del 1974-1975. I due partiti, in seguito, sono arrivati più volte a scontrarsi, fino a giungere a una vera e propria guerra civile negli anni Novanta.

Il presidente dell’Iraq Jalal Talabani (AP Photo/Hadi Mizban, File)

Se comune a entrambi è una storia di lotte per la causa kurda, e l’ambizione dell’indipendenza da Baghdad, a distinguere oggi i due partiti è anche un diverso orientamento geopolitico: se il Pdk di Barzani è particolarmente vicino alla Turchia, prima sostenitrice del Kurdistan iracheno, l’Udk guarda invece più a Oriente, all’Iran. Due potenze regionali che hanno un’influenza enorme sulla vita politica ed economica del Kurdistan iracheno. E così, per un amaro paradosso, Erbil finisce per essere legata a doppio filo ad Ankara, ovvero con il nemico più acerrimo dei kurdi turchi e siriani. Un legame, questo, che produce una grave frattura all’interno del mondo kurdo. A tal proposito, non va trascurata infine la presenza politica e militare del Pkk, il «Partito kurdo dei lavoratori» di Ocalan, per quanto i suoi supporter vengano tenuti ai margini dai vertici politici ed economici di Erbil. Una presenza che ha prodotto, anche di recente, frizioni e persino scontri aperti con gli altri partiti kurdi.

Si. Zo.


Terra?adorata

Ricordiamo una poesia del poeta kurdo Hemin Mukriyani (1921-1986), uno degli eroi della breve esperienza della Repubblica di Mahabad, stroncata nel sangue:

«Terra adorata, mia terra,
amore che ho perduto
se tu fossi remota
in un cielo inaccessibile
o su una vetta ai limiti del mondo
saprei correre da te
anche con scarpe di ferro.
Ma ti separa da me un tratto sottile.
L’invasore lo chiama confine».

Dal volume «Canti d’amore e di libertà del popolo kurdo», a cura di Laura Schrader (Newton, 1993).



I domenicani Garzoni e Campanile

I primissimi studi europei sulla lingua e la cultura dei kurdi sono opera di due missionari italiani, veri e propri pionieri in questo campo: i padri domenicani Maurizio Garzoni (1734-1804) e Giuseppe Campanile (1762-1835). Il primo raggiunge Mosul nel 1762, per poi stabilirsi nella vicina Amadiya, città ieri come oggi a maggioranza kurda. Qui studia e raccoglie materiali per la sua opera, la «Grammatica e vocabolario della lingua kurda», la prima in assoluto nel suo genere, pubblicata a Roma nel 1787. Pochi decenni più tardi toccherà invece al suo successore, Giuseppe Campanile, eletto nel 1800 Prefetto apostolico nella Mesopotamia e il Kurdistan, un altro primato: quello di aver pubblicato, con la sua «Storia della Regione del Kurdistan» pubblicata a Napoli nel 1818, il primo resoconto organico su questa parte del mondo. Un lavoro ulteriormente arricchito dalle esperienze personali dell’autore. Entrambe le opere, al di là del primato temporale, rappresentano ancora oggi fonti preziose ed uniche nel ricostruire la storia, la lingua e la cultura dei kurdi nel loro tempo. A un missionario di Basilea, Gottlieb Christian Hörnle (1804-82), spetterà invece la prima versione biblica in questa lingua, con la traduzione del Vangelo di Giovanni nel dialetto kurdo di Mokri.

Si.Zo.


Rabban Ormisda

«Stavo riflettendo da tempo su una iniziativa simbolica per educare la gente alla pace e al dialogo». Con queste parole il patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphael I Sako, ha lanciato ad aprile la Marcia Interreligiosa della Pace, che ha coinvolto nella settimana santa pellegrini di varie nazionalità, oltre a molti abitanti della Piana di Ninive appartenenti alle diverse religioni. Punto di arrivo di questa marcia, luogo per nulla casuale, quello che è forse il luogo più suggestivo dell’intero Kurdistan iracheno: il monastero di Rabban Ormisda, situato nei pressi del villaggio cristiano di Alqosh.

Fondato nel VII secolo, porta il nome del monaco che lo fondò: Rabban Ormisda. Si tratta di un capolavoro nell’interazione fra architettura e paesaggio. Scavato nella roccia sulla parete di un monte affacciata sulla Piana di Ninive, il monastero è un angolo di tranquillità e pace in una terra che continua ad essere segnata dalla guerra. Da qui si può vedere l’orizzonte per chilometri, in un paesaggio mozzafiato, il tutto con una doppia funzione: difensiva ed estetica. Per alcuni secoli, fu sede dei patriarchi nestoriani, a testimonianza dell’importanza rivestita. Più volte distrutto e ricostruito, l’ultima volta a metà ottocento con il supporto del Vaticano, questo monastero e il vicino villaggio rappresentano un simbolo di pace e convivenza, dato che per secoli furono sede di pellegrinaggio non solo per i cristiani, ma anche per ebrei e musulmani.

Si.Zo.


Infodossier

Autore e curatore di questo dossier:

  • Simone Zoppellaro – Nato a Ferrara, è giornalista freelance. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato i reportage su Nagorno Karabahk (agosto 2016), Armenia (ottobre 2016) e il dossier sugli Yazidi (marzo 2017).
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.



Libertà religiosa: molte critiche e poche azioni


Nel 74% dei paesi del mondo avvengono violazioni del diritto di libertà religiosa. Sono note le vicende del Medio Oriente, un po’ meno forse quelle di altri paesi come l’India e la Cina. L’Unione europea e gli Usa alzano la voce perché nel mondo venga garantita la libertà di culto, ma alle analisi e dichiarazioni seguono azioni poco efficaci. In più non sempre Usa e Ue sono coerenti al loro interno con ciò che chiedono agli altri.

Non è difficile, soprattutto nel corso degli ultimi anni, imbattersi in notizie che raccontano di continue violazioni dei diritti delle minoranze religiose in diversi paesi del globo. Se si prendesse un mappamondo, lo si facesse girare in uno dei due sensi, lo si fermasse e si puntasse il dito a caso, si avrebbe il 74% di possibilità di indicare un territorio, uno stato, nel quale avvengono serie violazioni del diritto di libertà religiosa. Secondo i dati del Pew Research Centre on Religion & Public Life è questa la percentuale di paesi nei quali si registrano restrizioni particolarmente significative sulla religione.

Fino al genocidio

Tali limitazioni al dispiegamento dell’attività religiosa nella sfera pubblica possono essere determinate da molteplici fattori. Per i ricercatori del Pew Research Centre, sono due quelli principali: le norme che disciplinano le attività dei gruppi di fedeli delle diverse religioni e, in secondo luogo, le ostilità dovute a elementi culturali in una data società nei confronti dei membri dei vari credo. Appartengono alla prima categoria, ad esempio, tutti quei paesi che hanno emanato leggi particolarmente severe nei confronti delle attività dei missionari e delle conversioni. Le ostilità sociali si riscontrano soprattutto in quei paesi nei quali il tasso di applicazione della legge e la tutela dei diritti civili sono molto bassi e nei quali quindi è difficile sanzionare e disincentivare comportamenti discriminatori.

Vi sono poi alcuni casi gravissimi per i quali si può addirittura parlare di vero e proprio genocidio. È quanto ha ad esempio affermato nel giungo 2016 la United Nations Independent Inteational Commission a riguardo delle violenze commesse in Siria e Iraq dai militanti dello Stato islamico nei confronti delle minoranze yazide e cristiane costrette ad abbandonare le loro case, a trovare rifugi di fortuna o a fuggire all’estero. La commissione ha formalmente riconosciuto il genocidio perpetrato ai loro danni chiedendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite di «riportare con urgenza la situazione in Siria di fronte alla Corte penale internazionale o di stabilire un tribunale ad hoc con un’ampia giurisdizione geografica e temporale».

Il rapporto usa parole particolarmente forti per descrivere le azioni poste in essere dai militanti islamisti: «L’Isis ha cercato di cancellare gli yazidi attraverso gli omicidi, la schiavitù sessuale, la schiavitù, la tortura e i trattamenti inumani e degradanti e i trasferimenti forzati, causando seri danni fisici e mentali; sono state inflitte condizioni di vita che conducono a una morte lenta; l’imposizione di misure per prevenire la nascita dei bambini yazidi, anche tramite le conversioni forzate degli adulti, la separazione degli uomini yazidi dalle loro donne e i traumi mentali arrecati; i bambini yazidi trasferiti dalle loro famiglie per essere affiancati ai combattenti dell’Isis, separandoli dalle loro credenze e dalla loro comunità religiosa».

L’estremismo islamista non è il solo

Sono stati numerosi i leader religiosi che hanno espresso preoccupazione per le sempre più frequenti violenze nei confronti delle minoranze religiose. Papa Francesco ha ripetutamente sottolineato quanto la situazione che numerose comunità cristiane si trovano ad affrontare sia una delle più tragiche e difficili nell’intera storia del cristianesimo. Di recente è stato il patriarca russo Kirill a esprimere forte preoccupazione per le persecuzioni nei confronti delle minoranze cristiane, soprattutto in Medio Oriente: «Siamo molto preoccupati per la situazione dei cristiani, semplicemente spazzati via dagli islamisti radicali, sono nostri fratelli e viviamo la loro tragedia come nostra».

Ma non sono solo i paesi nei quali si diffonde l’estremismo islamista l’oggetto della preoccupazione di molti. Ad esempio nel 2008 nello stato indiano dell’Orissa si sono perpetrati dei veri e propri massacri anticristiani: oltre cento morti, case e chiese distrutte e migliaia di sfollati. Secondo il rapporto pubblicato dal Catholic Secular Forum, un’organizzazione della società civile indiana, molte delle violenze verificatesi negli ultimi anni ai danni dei cristiani e delle altre minoranze religiose sarebbero da attribuirsi alla crescente influenza dell’ideologia Hindutva («induità») che non tollera la presenza di altre religioni in India. Questa ideologia sarebbe quindi il propellente per la diffusione di campagne d’odio, diffamazione e violenza ai danni delle minoranze.

Riguardo allo scottante dossier relativo alla Cina e ai suoi rapporti con i gruppi religiosi, basti ricordare che la leadership del partito comunista cinese si è ormai resa conto di come il tasso di conversioni (soprattutto al cristianesimo) abbia già ora la capacità di incidere in maniera sostanziale sul futuro politico (e religioso) del paese. Per questo, oltre a cercare a volte il dialogo con esponenti dei vari gruppi, la Cina mette in atto delle politiche centralizzatrici per porre in mano alla burocrazia ministeriale il controllo delle leadership religiose. Controllo che è ovviamente rigettato dalle comunità che vedono nella loro autonomia un principio da proteggere al fine di evitare eccessivi interventismi statali vissuti come veri e propri tentativi di strumentalizzazione della fede per fini politici.

L’Unione europea che fa?

I casi fin qui elencati sono soltanto alcuni: le violazioni gravi del diritto di libertà religiosa si susseguono giorno dopo giorno e il numero di vite mutilate a causa della fede aumenta. I rapporti delle organizzazioni inteazionali e di quelle non governative sono ormai molto specializzati e un’analisi attenta di questi testi permette di scoprire uno scenario che, purtroppo, è a tinte molto fosche.

Ci si potrebbe chiedere se vi siano stati dei tentativi di reazione utili a prevenire lo sviluppo di tali azioni da parte di stati o movimenti politici che ledono profondamente quello che dovrebbe essere un diritto garantito e riconosciuto a livello universale.

La protezione internazionale del diritto di libertà religiosa ha una lunga storia politica e istituzionale. Di recente anche le istituzioni europee hanno cominciato a interessarsi al tema, sia mediante l’azione del servizio europeo per le relazioni estee che fa capo all’Alto Commissario per la politica estera Federica Mogherini, sia tramite la creazione di un intergruppo parlamentare denominato European Parliament Intergroup on Freedom of Religion or Belief and Religious Tolerance.

Nel giugno 2016 l’intergruppo parlamentare ha reso pubblico un rapporto annuale sullo stato della libertà religiosa nel mondo che offre significativi spunti di riflessione al fine di ricostruire la posizione europea sul tema. Si lamenta innanzitutto l’assenza di coerenza tra i numerosi proclami delle istituzioni europee e le politiche e le azioni effettivamente intraprese, e inoltre l’ancora scarsa consapevolezza, da parte dei funzionari che si occupano della politica estera dell’Unione europea, della priorità che il tema della libertà religiosa dovrebbe avere nel contesto delle sue azioni.

Le critiche rivolte alle istituzioni di Bruxelles non devono sorprendere. Spesso infatti ci si limita alla pubblicazione di generici proclami di condanna delle violenze perpetrate ai danni delle minoranze religiose senza intraprendere delle vere e proprie azioni politiche (come ad esempio delle sanzioni commerciali) che possano segnalare concretamente il valore attribuito alla tutela del diritto di libertà religiosa.

La scelta è ovviamente discutibile: da una parte si vorrebbe che le sanzioni potessero scattare immediatamente per creare degli incentivi per quei paesi che utilizzano sistematicamente politiche discriminatorie ai danni delle minoranze religiose. Dall’altro un’azione diplomatica incisiva richiede spesso più tempo e un’azione che non sia necessariamente pubblica ed esplicitamente critica. È tuttavia da registrare, appena un mese prima la pubblicazione del report, la nomina di Jan Figel, ex primo ministro slovacco, a inviato speciale per la promozione della libertà religiosa e di coscienza. Figel ha già promesso iniziative concrete sul tema e sarà quindi da valutare nei prossimi mesi quali saranno i risultati che la sua azione raggiungerà.

E gli Usa che fanno?

A questi sviluppi europei deve associarsi quanto avviene negli Stati Uniti avvolti in un clima da campagna elettorale permanente che ha visto proprio il tema della libertà religiosa occupare una centralità nel dibattito per le elezioni presidenziali che non si registrava da anni. La proposta di Donald Trump, relativa al divieto di ingresso temporaneo negli Stati Uniti per i fedeli di religione musulmana, ha infatti generato molteplici reazioni e commenti particolarmente critici. Vi è innanzitutto da sottolineare il fatto che un paese come gli Stati Uniti che ha nella sua narrazione storica una posizione privilegiata per il diritto di libertà religiosa ha particolari difficoltà a recepire una proposta come quella avanzata da Trump. Tanto è vero che anche elettori tradizionalmente leali al partito Repubblicano, come i fedeli della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Gioi (i mormoni), hanno criticato con veemenza tale proposta, memori delle persecuzioni subite nel corso della loro storia proprio a causa della loro affiliazione religiosa. Tale proposta andrebbe poi ad aggiungere ulteriori elementi di incoerenza alla politica statunitense di promozione del diritto di libertà religiosa perseguita da Washington da molti anni.

Anna Su, in un recente volume pubblicato per Harvard University Press (Exporting Freedom. Religious Liberty and American Power), ha ricordato come il governo statunitense abbia sempre posto una particolare attenzione alla tutela di tale diritto, soprattutto nella prospettiva della tutela dei missionari cristiani. Ma come sarebbe possibile giustificare, quantomeno retoricamente, l’ergersi a paladini del diritto di libertà religiosa nel mondo, quando i propri leader politici, allo stesso tempo, propongono il divieto di ingresso nel proprio paese per i fedeli musulmani?

Le incoerenze non aiutano

Altre incoerenze restano comunque presenti nella politica degli Stati Uniti d’America. Tra queste è doveroso segnalare l’ambigua politica nei confronti del governo dell’Arabia Saudita resosi protagonista, anche di recente, di episodi di discriminazioni e violenze ai danni di alcune minoranze e che attua, da sempre, una politica profondamente discriminatoria nei confronti delle donne e della condizione femminile in generale. Anche nei paesi in cui non si riscontrano gravi violazioni, o vere e proprie persecuzioni religiose, permangono oggettive difficoltà rispetto a una piena tutela del diritto di libertà religiosa. Queste possono concretizzarsi in ostacoli all’apertura dei luoghi di culto o all’ottenimento della registrazione governativa al fine di regolarizzare la propria posizione o alla possibilità di fare propaganda del proprio culto.

Se tali difficoltà riguardanti le minoranze religiose si riscontrano all’interno dei paesi che intendono farsi paladini della tutela del diritto di libertà religiosa anche in altre parti del mondo (come avviene per l’Europa e gli Stati Uniti) nasce un problema di credibilità. Certo le difficoltà poste da un paese come, ad esempio, l’Italia, all’apertura di un luogo di culto non sono lontanamente paragonabili alla pianificazione dell’eliminazione sistematica di una minoranza. Ma cosa si sentiranno rispondere i governi occidentali quando andranno a chiedere più diritti per le minoranze religiose in paesi fortemente egemonizzati da una sola religione, sia essa l’induismo o l’islam?

Saremo noi europei, noi occidentali, in grado di dimostrare che la libertà religiosa è davvero un diritto di tutti e per tutti? La domanda che ci assilla, e alla quale saremo chiamati a dare un risposta anche in un futuro abbastanza vicino, è: «Crediamo davvero nella libertà religiosa?».

Dalla risposta concreta a questa domanda dipenderà il futuro di molti fedeli.

Pasquale Annicchino*

* Pasquale Annicchino, Adjunct Professor  of Law St. John’s Law School, New York, Research Fellow European University Institute, San Domenico di Fiesole. Autore del volume Esportare la Libertà Religiosa. Il Modello Americano nell’Arena Globale, Il Mulino, Bologna, 2015.




Italia moschee negate


In Italia la questione dei luoghi di culto musulmani è all’ordine del giorno. Diverse regioni e città vi si confrontano. È impossibile passare sotto silenzio l’ormai stabile radicamento di circa due milioni di fedeli musulmani. E questo porta con sé la necessità di affrontare anche la questione della loro libertà religiosa. Partendo da una delle esigenze più essenziali: la disponibilità di luoghi in cui svolgere e celebrare in forma collettiva la preghiera, le festività e le altre attività e pratiche essenziali per la loro vita comunitaria.

L’apertura di un luogo di culto è sempre materia simbolica e, non di rado, delicata. Simbolica perché il luogo di culto rende evidente nello spazio pubblico l’esistenza di una comunità che si riunisce intorno a principi e valori non necessariamente condivisi da tutti. Delicata perché interpella le altre componenti sociali: dalla società civile alle istituzioni pubbliche alle altre comunità religiose, a partire, nel contesto italiano, dalla chiesa cattolica.

Non «se», ma «quali» luoghi di culto

A seconda delle vicende che accompagnano la sua apertura, il luogo di culto (in questo caso musulmano) può divenire strumento di integrazione culturale, sociale e civile, oppure di ghettizzazione, di chiusura, emarginazione e isolamento. In Italia i luoghi di culto musulmani rischiano di vivere più la seconda esperienza negativa che la prima positiva. Questo perché alla quantità dei luoghi musulmani presenti sul territorio, non ne corrisponde una uguale qualità. Infatti, dei circa 800 censiti, soltanto sei (Segrate, Brescia, Colle Val d’Elsa, Roma, Ravenna e Catania), o poco più, possono essere identificati come vere e proprie moschee. Gli altri sono semplici «sale di preghiera» collocate in capannoni, garage, seminterrati, magazzini e palestre. Luoghi riadattati e, non di rado, in condizioni poco dignitose e disagiate.

La questione, dunque, non è se aprire luoghi di culto musulmano in Italia (perché ci sono già), ma quali luoghi di culto musulmani vuole avere l’Italia: per l’esclusione o per l’integrazione?

Il carattere laico dello stato

La Costituzione, nell’interpretazione costante e sempre più approfondita della Corte Costituzionale, impone una scelta precisa: il luogo di culto è espressione del diritto di libertà religiosa. Lo stato centrale (dettando le norme fondamentali), e le regioni (predisponendo la legislazione di dettaglio), hanno il dovere di garantire a tutti i gruppi religiosi questo diritto, mostrando non indifferenza, ma adoperandosi per rendee concrete le possibilità di esercizio. In altre parole, l’apertura dei luoghi di culto è espressione non solo dello specifico diritto di libertà religiosa, ma, più in generale, del carattere laico (pluralista e non indifferente) della Repubblica italiana chiamata a valorizzare e integrare, su un piano di uguale libertà, tutte le formazioni sociali, anche quelle religiosamente connotate.

Le regioni fanno il bello e il cattivo tempo

Lo stato è intervenuto in materia facendo rientrare gli edifici di culto tra le opere di urbanizzazione secondaria, e dunque tra gli spazi pubblici di interesse comune. Le municipalità dovranno quindi pianificare i propri territori prevedendo la presenza di luoghi di culto, e disponendo per essi anche la possibilità di appositi finanziamenti pubblici.

Fissata questa regola essenziale, lo stato centrale non ha emanato alcuna disciplina organica di settore, lasciando l’attuazione del dettato costituzionale ai diversi legislatori regionali. Ed è qui che si sono incontrate le prime difficoltà. Infatti le varie leggi regionali in materia di edilizia di culto, in alcuni casi hanno portato a un’esplicita discriminazione contraria alla costituzione. Larga parte della legislazione regionale in materia mostra in particolare tre caratteristiche:

  1. la grande discrezionalità lasciata alle pubbliche amministrazioni nella valutazione delle istanze avanzate dai diversi gruppi religiosi;
  2. la ricorrente differenza di trattamento riservato alla chiesa cattolica rispetto agli altri gruppi;
  3. la tendenza a considerare come interlocutori soltanto le comunità religiose istituzionalmente organizzate e numerose, riservando minore attenzione ai gruppi più fluidi (non solo i musulmani, ma anche, ad esempio, gli evangelici), meno numerosi e, di fatto, più distanti dal «sentire» della maggioranza.

Da queste tre tendenze, alcune regioni (l’Abruzzo e, soprattutto, per ben due volte, la Lombardia) hanno fatto derivare l’esclusione delle confessioni religiose prive di Intesa con lo stato1 dai contributi pubblici per l’edilizia di culto (Abruzzo), o dalle ordinarie procedure per l’assegnazione degli spazi, sostituite da altre più onerose (Lombardia).

La Corte costituzionale ha reagito contro questa tendenza dichiarando incostituzionali le leggi in materia edilizia della regione Abruzzo (1993) e Lombardia (2002 e 2016). Tali leggi non riconoscevano che il diritto a disporre di un luogo di culto discende direttamente dall’art. 19 della Costituzione e, dunque, costituisce un elemento essenziale del diritto di libertà religiosa indipendentemente dalla stipulazione di un’Intesa con lo stato.

Nonostante il loro peso, gli interventi della Corte costituzionale tuttavia non sembrano diventati un patrimonio comune dei legislatori regionali e delle amministrazioni comunali che si trovano a governare collettività multiculturali e religiosamente differenziate.

La «questione musulmana»

All’interno di questo quadro, la «questione musulmana» ha costituito la cartina di tornasole per verificare la capacità del ceto politico-istituzionale italiano di dare corpo alla libertà religiosa e alla laicità dello stato. L’islam, infatti, porta con sé tutti gli ingredienti capaci di mettere in crisi una gestione statica degli spazi pubblici.

Non solo i musulmani ben si prestano a rappresentare lo stereotipo dell’incolmabile alterità, ma essi sono pure frammentati, privi di rappresentanza unitaria, etnicamente e culturalmente differenziati, diversificati anche per scuole e tradizioni religiose, nonché per i legami con i paesi di provenienza che perdurano, spesso con scorno delle nuove generazioni, anche molti anni dopo l’insediamento in Italia.

L’11 settembre e le altre tragiche date che ne sono seguite, fino agli ultimi attentati di Bruxelles, hanno favorito l’inquadramento dei musulmani sub specie securitatis, incentivando paure e logiche differenzialiste – ispirate all’eccezionalismo – anche nel godimento del diritto di libertà religiosa e di culto. Di fatto, il legittimo godimento di luoghi di culto per i musulmani è divenuto, oggi, assai problematico.

Si spiegano così le 800 «sale di preghiera» allestite in luoghi inadatti e disagiati, e le pochissime «moschee» presenti nel nostro paese.

Un circolo vizioso da rompere

Peraltro, ad aggravare la situazione concorre la circostanza che nessuno dei loro luoghi di culto è formalmente classificato e, dunque, trattato come tale. Qualche lacuna del diritto e l’indisponibilità politica producono da troppo tempo un circolo vizioso che deve essere interrotto. Nei confronti dei gruppi religiosi ancora privi di intesa con lo stato italiano, infatti, il nostro paese non dispone di una legge generale sulla libertà religiosa e si serve ancora della legislazione sui «culti ammessi» del 1929-1930. Questa normativa lascia grandi spazi alla discrezionalità politica, e le comunità musulmane, per loro ignoranza o sfiducia, o per rifiuti e ostilità subiti, non sono ancora riuscite a ottenere il riconoscimento quali «enti di culto». L’unico ente musulmano capace di ottenere tale riconoscimento è stata la Moschea di Roma nel lontano 1974. La data è importante: si era in piena crisi petrolifera ed era obiettivo della politica estera dei tempi avere buoni rapporti con il mondo arabo incarnato, appunto, da una moschea che non rappresentava tanto i «musulmani italiani», quanto gli stati a maggioranza musulmana. Nel suo consiglio di amministrazione siedono, infatti, gli ambasciatori dei «paesi musulmani» accreditati presso la Repubblica e la Santa Sede.

Per gli altri gruppi, fino a ora, la via di questo riconoscimento è stata interdetta. Come pure è stata interdetta (molto discutibilmente) dal Consiglio di Stato la possibilità di ottenere una personalità giuridica di diritto privato ricorrendo al codice civile: per il giudice amministrativo, infatti, quando la finalità religiosa è prevalente l’unica via per il riconoscimento della personalità giuridica è quella prevista dalla legislazione del 1929-1930.

Ma così si torna al punto di partenza. I musulmani sono stati indotti allora a optare per il mimetismo, organizzandosi attraverso associazioni no profit, onlus, associazioni di promozione sociale. Tutte forme idonee per l’esercizio di molte delle attività non cultuali delle comunità religiose, ma inidonee per lo svolgimento delle attività con fine di religione e di culto. Per questo le comunità vengono poi a scontrarsi con i dinieghi comunali – e regionali – nel momento in cui vogliano, attraverso dette associazioni, aprire e gestire un luogo di culto.

Due percorsi da intraprendere

È evidente che i percorsi per superare questa impasse sono fondamentalmente due:

  1. varare una nuova legge sulla libertà religiosa che superi definitivamente la legislazione dell’epoca fascista dettando nuove norme sull’associazionismo religioso nonché i principi fondamentali in materia di edilizia di culto;
  2. in attesa di tale intervento, favorire l’organizzazione delle comunità musulmane secondo un modello duale già sperimentato con successo in altri paesi: da una parte, l’associazione di culto (allo stato attuale, una semplice associazione privata non riconosciuta) quale rappresentante degli interessi religiosi dei fedeli musulmani residenti in un determinato territorio; dall’altra, tutte le forme associative previste dall’ordinamento italiano per l’esercizio delle attività non cultuali.

In questo modo, attraverso un dialogo aperto e trasparente, le amministrazioni comunali ben potrebbero rapportarsi con le «associazioni religiose» in vista dell’assegnazione di aree o edifici per il culto, anche con l’accompagnamento di specifiche convenzioni in cui fissare rispettivi oneri, obblighi e contributi pubblici di sostegno.

Leggi ostili generano esclusione e insicurezza

Purtroppo, il percorso più seguito è più spesso un altro: quello dell’interdizione e della chiusura.

Ne è stato un recente esempio la legge regionale lombarda n. 62 del 27 gennaio 2015. In base a questa normativa l’apertura di un luogo di culto da parte dei gruppi religiosi privi di intesa (leggi: i musulmani) finiva per essere condizionata da controlli e oneri particolarmente pesanti e totalmente discrezionali. Si evocava poi il ricorso a invasive misure di sorveglianza che esorbitavano dalle competenze regionali.

Il 24 marzo scorso è stata resa nota la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionali parti importanti della legge lombarda. Ma l’azione dei giudici non è sufficiente.

Le nuove misure approvate il 5 aprile scorso dal Consiglio regionale del Veneto si collocano, pur se con maggior prudenza, sulla stessa direttrice tracciata dal legislatore lombardo. Il luogo di culto come eccezione da definire e circoscrivere (anche spazialmente) più che come diritto fondamentale da regolare. Si evoca, ma a fini apparentemente descrittivi, evitando le conseguenze costituzionalmente illegittime, la distinzione tra chiesa cattolica, confessioni con intesa e confessioni senza intesa; si evoca il referendum e si introduce la possibilità di richiedere l’utilizzo della lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto. Una norma che esorbita dalle competenze in materia urbanistica proprie del legislatore regionale e potenzialmente suscettibile di essere discrezionalmente strumentalizzata dai comuni, in occasione della stipula – e dell’esecuzione – delle convenzioni, contro l’apertura dei luoghi di culto delle comunità composte per la maggior parte da stranieri.

L’ostilità nei confronti dei luoghi di culto musulmani trascura la realtà (essi esistono già e vanno, piuttosto, ben regolati); offende la Costituzione; produce esclusione e insicurezza e, non da ultimo, contribuisce a erodere la comprensione del diritto di libertà religiosa che rischia di essere meno tutelato, per tutti.

Alessandro Ferrari*

* Alessandro Ferrari insegna diritto ecclesiastico e diritto canonico presso l’Università degli Studi dell’Insubria (Como-Varese). Autore di numerose pubblicazioni è membro del Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano istituito presso il ministero dell’Inteo.

Note:

1- Per approfondire il tema delle intese e della legge generale sulla libertà religiosa in Italia, si vedano gli articoli di questa rubrica in Mc 1-2/2015 (pp. 78-82), 3/2015 (pp. 66-69), 4/2015 (pp. 72-75) e 5/2015 (pp. 69-72).