Moria è bruciata

testo e foto di Alberto Sachero |


Dopo la devastazione del campo profughi nell’isola di Lesbo, cambierà qualcosa per i migranti?

Il campo di Moria sull’isola di Lesbo, il più grande d’Europa arrivato a contenere circa 20mila persone a inizio 2020, è stato per anni un periferico limbo in cui l’Europa ha parcheggiato i migranti, permettendo solo a pochi di completare l’iter di richiesta di asilo politico.

Moria è andato a fuoco il 9 settembre 2020. Gli abitanti del campo hanno perso il poco che avevano e sono fuggiti per non perdere anche la vita.

Sembra che ad appiccare il fuoco siano stati i migranti stessi. Nel campo erano stati individuati 35 casi di Covid-19, e per questo motivo era ogni giorno più blindato, fino alla completa chiusura.

Alcune persone hanno quindi dato fuoco alle tende, per evitare di essere rinchiusi a tempo indeterminato.

Moria bruciata

Arrivato sull’isola di Lesbo mi reco a vedere cosa resta di Moria (foto 1 – di apertura). Dopo cinque giorni dall’incendio, un forte odore di ulivi carbonizzati e plastica bruciata aleggia ancora nell’aria. Ovunque tende bruciate, letti, biciclette, bottiglie di acqua in plastica e ogni tipo di effetto personale. Tutto andato in fumo.

Incontro alcuni abitanti che ancora riempiono sacchi neri con quello che sono riusciti a salvare dalle fiamme. Poco più avanti, due ragazzi afghani sono saliti su un ulivo e stanno cercando di tagliare dei cavi dell’alta tensione per costruire delle corde per trainare le loro «slitte» con a bordo il poco che gli è rimasto.

L’esodo intrappolato

Fuggendo dal rogo, gran parte dei migranti si è diretta in verso Mytilini, il principale centro dell’isola di Lesbo (foto sopra). La strada però è stata bloccata dalla polizia greca che non voleva che arrivassero in città. Sulla strada che collega Mytilini e Moria, con dei bus messi di traverso, sono stati creati due blocchi, distanti circa 1,5 Km tra di loro, in modo da intrappolare le persone nella strada e non farle muovere. Sono stati chiusi i supermercati, ufficialmente per ragioni di sicurezza, in realtà per mettere in difficoltà i migranti e non permettere loro di acquistare cibo e acqua per sopravvivere.

I fuggiasci da Moria si sono costruiti ripari di fortuna, con teli, rami e paglia. Li hanno piazzati sui marciapiedi della strada, nei parcheggi dei supermercati chiusi, nei boschi adiacenti, sopra i tetti, in resti fatiscenti di vecchie costruzioni e sotto tir parcheggiati (foto qui). Tutto ciò con temperature sopra i 30 gradi.

Il governo greco, col benestare dell’Europa, non ha mosso un dito per assisterli, si è limitato a costruire in fretta e furia un altro campo per rinchiuderli il più velocemente possibile e renderli nuovamente invisibili.

Molte Ong sono così arrivate sull’isola e moltissimi giovani volontari indipendenti hanno portato il loro sostegno da tutta Europa. Mancavano solamente le istituzioni. Osteggiati dalla polizia greca, che spesso non li faceva accedere all’area o li faceva attendere ore al di fuori, hanno portato cibo, acqua, vestiti e medicinali a 13mila migranti. Questi, con una calma incredibile, hanno formato code lunghe più di un chilometro aspettando fino a due ore sotto il sole cocente, per assicurarsi un pasto o qualche bottiglia di acqua (foto 3, qui sotto).

Condizioni disumane

Mi dirigo verso la zona a circa due chilometri a Nord della città di Mytilini con Sia, una volontaria greca che deve portare dei farmaci a una donna afghana. La polizia non ci permette di entrare. Dobbiamo fare un lungo giro sulla collina per aggirare gli altri due posti di blocco e finalmente, dopo un’ora di cammino, giungiamo sul posto. L’impatto visivo è molto forte: migliaia di persone sistemate in accampamenti di fortuna, buttate per terra in condizioni disumane; interminabili code per il cibo; uomini, donne, qualche anziano e migliaia di bambini ovunque. Si stima che siano circa 13mila persone di cui 4mila sotto i 18 anni, tantissimi molto piccoli o addirittura neonati (foto 4, qui sotto).

Protezione negata

Inizio a parlare con la gente. Un ragazzo mi dice che circa l’80% di loro proviene dall’Afghanistan, un paese distrutto dalla guerra, dai Talebani, dai Daesh, dall’intervento statunitense, dai continui attentati. Mi dice in perfetto inglese: «Sono scappato, non avevo altra scelta, e ora devo arrivare in Europa, indietro non posso tornare, mi ucciderebbero». Ci sono anche Iraniani, Iracheni, Somali, Yemeniti, tutte persone che fuggono da guerra persecuzione o povertà, che avrebbero il sacrosanto diritto di chiedere protezione e accoglienza.

Una madre, con in braccio due bimbi, mi dice: «Uno è mio, ha dodici giorni. È nato qui, e dopo cinque giorni di vita siamo scappati dal campo in fiamme. L’altro ha cinque mesi, è di una mia amica in ospedale a Mytilini con grossi problemi di salute, l’ho adottato, almeno per il momento, poi si vedrà».

I bambini tengono allegra la drammatica situazione sulla strada, con i loro sorrisi e la loro spensieratezza. Sono purtroppo abituati a vivere in guerra e povertà, ma la loro voglia di ridere e di giocare vince quasi sempre sulla tristezza e dà agli adulti un motivo di speranza per un futuro migliore.

Indietro non si torna

La sera vado in un locale indicatomi da alcuni volontari, in cui ci sono parecchie persone da tutta Europa. Lì mi vengono segnalati altri locali di «destra», in cui i volontari non sono ben accetti. Il governo greco è di destra, e l’isola di Lesbo è piena di fascisti che fanno ronde. Ci sono stati moltissimi episodi di aggressioni a profughi, volontari e anche giornalisti e fotografi. Le bandiere nere sono numerose e ben visibili sulle strade isolane.

Il secondo giorno mi reco da solo nella zona in cui sono bloccate le persone. La polizia mi ferma di nuovo. Rientro in paese, incontro un gruppo di afghani che fanno la spesa e che tornano al loro rifugio. Mascherina, occhiali da sole e borse della spesa mi permettono di superare il posto di blocco. La famiglia afghana che mi ha aiutato a entrare, mi ospita. «Come Alberto, this is our house». Padre, madre e due figli. Mi offrono del cibo, anche se ne hanno poco. Ringrazio e cerco di dire che ne hanno più bisogno loro. Mi meraviglia la loro dignità, presenza e pulizia. Non so come fanno, buttati a terra in quel modo con poco cibo e scarse possibilità di lavarsi. Io che dormo in una camera con bagno privato sono molto meno presentabile.

Il figlio maggiore mi racconta che vivevano in una zona di Kabul. Da una parte i Talebani, dall’altra il Daesh. Non riusciva ad andare a scuola per le continue sparatorie, il padre lavorava saltuariamente. Hanno quindi deciso di partire per l’Europa. In due anni sono arrivati a Lesbo, dopo aver lavorato per pochissimo denaro ed essere stati rinchiusi nei campi turchi. «Non abbiamo scelta, indietro non possiamo tornare».

«No Photo, no photo»

Il terzo giorno, dopo esser nuovamente «rimbalzato» al posto di blocco, riesco ad entrare grazie ai ragazzi, tutti molto giovani e pieni di voglia di fare, di una Ong. Mi consigliano di «infilarmi» tra di loro nel momento in cui la polizia concede alla Ong di entrare nella zona. Così accade, dopo circa due ore, con il capo dei poliziotti che raccomanda ai volontari «No photo, no photo». I governi europei non vogliono che si mostri quel che sta succedendo a 13mila persone bloccate in strada dalla polizia in tenuta antisommossa e tenute in condizioni disumane, senza cibo, riparo, servizi e assistenza. La sopravvivenza di questa gente è stata garantita esclusivamente dal lavoro straordinario svolto dalle Ong e dai volontari, che si sono fatti in quattro per portare viveri, acqua e beni di prima necessità.

Il nuovo campo prigione

Tutto quello che ha fatto l’Europa è stato di dare soldi alla Grecia per costruire un nuovo campo (foto 6, sopra).

I migranti sono poi stati lasciati privi di cibo e riparo per una settimana, per costringerli a entrare nel nuovo campo. In quei giorni ho assistito personalmente a dialoghi tra funzionari greci e migranti in cui i primi esortano i secondi a prepararsi per entrare nel nuovo campo. Ma questi ultimi rispondono di no, che non volgliono essere rinchiusi in un nuovo campo prigione.

Tutte le mattine ci sono manifestazioni, con in testa centinaia di bambini, che fanno la spola tra un blocco e l’altro della polizia, urlando «Asadi» (libertà in lingua farsi), «We don’t go in the new camp» e «Freedom» (foto 7, qui).

Davanti al rifiuto della gente, i funzionari cercano di convincerla che solo nel nuovo campo di Kara Tepe troverà ristoro, tende, farmaci e WiFi. Dai migranti ancora risposta negativa. Alla seconda risposta negativa, dato che i migranti mostrano di fidarsi più dei volontari e dei giornalisti che dei poliziotti e funzionari greci, questi provano a convincerli che il governo vuole solo il loro bene, mentre Ong e giornali vogliono solo usarli.

Infine, visto che con le buone non ottengono niente, iniziano a minacciare: «O entrate nel campo o la vostra richiesta di asilo non verrà processata».

Il giorno successivo, dopo aver sigillato l’area tenendo fuori tutti, in primis i giornalisti, viene messo in atto un vero e proprio rastrellamento. Ingenti forze di polizia in tenuta anti sommossa armate fino ai denti, passano lentamente intimando ai migranti di recarsi nel nuovo campo. Le persone a questo punto cedono e formano code interminabili per la registrazione. È vietato accedere con cinture, accendini e qualsiasi tipo di oggetto appuntito, come in galera.

Il nuovo campo di Kara Tepe viene riempito da circa 10mila «ospiti». Sorge in un’area in riva al mare, già zona militare contaminata da residui bellici e pallottole inesplose, certo luogo non ideale per le migliaia di bimbi che in quella terra giocano. L’area è nota per essere molto fredda e piovosa nella brutta stagione.

Le famiglie sono ammassate in grossi tendoni in plastica, caldi in estate e freddi in inverno. Duecento in ogni tenda su letti a castello, contro ogni regola anti Covid. I bagni sono in tutto venti.

L’unica buona notizia è che gli abitanti potranno uscire dalle 8.00 alle 20.00, con obbligo di rientro. Almeno per ora.

Spero di sbagliarmi ma il mio presentimento è che con gli inevitabili casi di Covid positivi, il campo sarà presto sigillato.

Rientrato in Italia, il 23 settembre apprendo alla radio che è stata approvata la bozza per il nuovo «Patto di solidarietà» sul tema migranti: verranno stanziati dall’Europa più soldi per i paesi periferici come Italia e Grecia e saranno finanziati e agevolati i rimpatri forzati.

Solidarietà tra i paesi europei nel cacciare i poveracci, non solidarietà verso gli esseri umani.

Alcuni amici afghani mi informano che, come era prevedibile, le prime piogge autunnali hanno completamente inondato il campo e le tende, che il cibo è scarso e di pessima qualità, e che si fanno code in continuazione, per mangiare, per uscire e rientrare al campo, per andare in bagno.

Moria è bruciata, cambierà qualcosa per i migranti?

No, anzi, sì. Sarà ancora più duro per loro richiedere asilo ad una «fortezza» Europa sempre più arroccata e solidale solo con i propri interessi economici e con la protezione dei propri confini.

Alberto Sachero




Vita e speranze a Moria,

l’hotspot di Lesbo

Testo e foto su Lesbo di VALENTINA TAMBORRA |


L’isola greca di Lesbo è a pochi chilometri dalle coste turche. È diventata passaggio naturale della rotta balcanica dei migranti. Primo lembo di terra dell’Unione europea verso il Medio Oriente. Qui è stato creato un centro di identificazione, il «campo» di Moria, dentro e fuori il quale i profughi cercano di sopravvivere. Siamo andati a raccogliere alcune delle loro storie.

Lesbo. «This is not Europe» è la frase che si sente ripetere incessantemente a Moria. Solo 8,6 km separano il campo di Moria dal resto dell’Europa. E il resto dell’Europa, sull’isola di Lesbo, inizia a Mytilini. È da qui, infatti, che partono i traghetti che collegano l’isola al continente, ad Atene.

Il porto di Mytilini è il fulcro commerciale del luogo. Negozi di souvenir, ristoranti, bar alla moda, musica ad alto volume sparata tutto il giorno dagli altoparlanti sul lungomare. Uno scenario che difficilmente riesci a spiegarti: due mondi paralleli sono divisi da un muro invisibile, quello fra il campo (ufficialmente hotspot) di Moria e il resto dell’isola. È qualcosa che si fa fatica a comprendere, a tollerare.

Moria, centro di accoglienza e identificazione, luogo adatto a ospitare non più di 2.000 persone, ad oggi, marzo 2018, ne contiene o, sarebbe meglio dire, ne trattiene quasi 6.000. Afghanistan, Siria, Iraq sono i luoghi di origine per la maggior parte degli ospiti.

L’attesa per essere ricollocati o rimpatriati può durare mesi, a volte anni.

Una vita al limite

Qui le condizioni di vita sono disperate: mancano servizi igienici adeguati, acqua calda, abiti, generi di prima necessità. Le donne indossano pannolini per non essere costrette a recarsi alle latrine dove manca la luce e dove spesso, purtroppo, si verificano aggressioni sessuali.

Mancano inoltre alloggi adeguati, migliaia di persone vivono accampate in piccole tende nel campo o subito all’esterno, nell’uliveto denominato Olive Grove che è diventato, a tutti gli effetti, un’estensione del campo profughi. Sulla nuda terra vengono piantate tende instabili e traballanti, inadatte alla pioggia, al vento e al clima rigido dell’inverno. Nel 2016 sono morte cinque persone per via del freddo. L’elettricità viene fornita con cavi da interno, che passano sul terreno mettendo così a rischio l’incolumità delle persone. Camminando nell’accampamento non è raro vedere i bambini (che qui sono quasi il 40% dei migranti) giocare con tutto ciò che trovano a terra, vetro, cocci, spazzatura e, appunto, cavi elettrici.

Per scaldarsi si brucia quello che si trova, plastica compresa.

E ancora, non esiste un servizio medico adeguato, né un supporto psicologico, e neppure mediatori culturali a sufficienza.

La tigre Tamil

Ed è proprio per questo motivo che Parathi, la prima persona di cui ho raccolto la testimonianza, è bloccato sull’isola da 23 mesi. Per mancanza di persone che possano occuparsi di raccogliere la sua storia, di comunicare la sua richiesta d’asilo al governo greco.

Parathi viene dallo Sri Lanka, è una «tigre Tamil», ovvero un uomo che ha combattuto per 13 anni per la liberazione della propria terra. Fuggito perché perseguitato, si trova bloccato a Moria senza un interprete. Parathi, chiamato da tutti «Maradona» (per la sua abilità nel gioco del calcio, una delle poche attività ludiche previste per dare sostegno ai migranti), non parla infatti un buon inglese. Avrebbe bisogno di un traduttore tamil ma a Moria non se ne vedono. L’unico in grado di tradurre la testimonianza è un Tamil residente nel Nord Europa. L’Easo (Ufficio Europeo di Sostegno per la richiesta d’asilo) deve avere evidentemente dei problemi nel reperirlo, in quanto in 23 mesi Parathi è riuscito a parlarci una sola volta e la sua domanda d’asilo è stata poi rigettata: si ritiene infatti, a livello internazionale, che in Sri Lanka non esistano più discriminazioni razziali o conflitti interni.

Ma basta fare una semplice ricerca per capire che ciò non corrisponde a verità: il Nord Est dello Sri Lanka è ancora militarizzato e come da dichiarazione dell’arcivescovo di Mannar, monsignor Emmanuel Fernando, dal 2009 mancano 146.679 persone all’appello. Scomparsi, uccisi forse, in quello che è un vero e proprio genocidio di cui non si parla.

Parathi sorride, nonostante tutto. Con il poco cibo che gli viene dato da chi gestisce il campo, mi offre il pranzo. Siamo seduti su una panca in legno tutta traballante: l’ha costruita lui, con la legna trovata nell’Olive Grove. Mi prepara un piatto di riso, pollo e pomodoro, qualcosa che, dice: «Mi ricorda casa».

Casa, dove ha lasciato due figlie, Supidisha, 7 anni, e Karshika, 5. Mi mostra la foto sul cellulare: è orgoglioso delle sue bambine, come ogni papà. È in quel momento che mi dice «sono 23 mesi che non le vedo». La mano trema un po’. Gli occhi si fanno lucidi.

Insieme a lui, nel grande tendone posto al centro dell’Olive Grove, altri quattro Tamil: Hari, Yoga, Danesh e Kayu. Anche loro aspettano una risposta, sono qui da meno tempo di Parathi, ma comunque da più di un anno. L’unico spazio «privato» per loro, è un letto a castello con delle coperte vecchie e logore appese a fare da separé. Nel tendone infatti, ci sono più di 200 persone.

Quando li saluto, mi sorridono «We miss you, write us mam», e da allora, da quando ci siamo salutati il 1 gennaio del 2018, non passa giorno che Parathi non mi mandi con un WhatsApp la buonanotte e il buongiorno.

Il vecchio e il nipote

Il nonno ha 70 anni. Per dirmelo me lo indica con le mani, come quando, da bambini, iniziamo a contare. «Doctor, doctor», ha imparato questa parola perché è ciò di cui ha più bisogno. Seduto sul ciglio di una piccola tenda canadese, mi chiama così, pensando di aver trovato ciò che più gli serve.

Mohamed è arrivato dall’Afghanistan insieme a suo nipote adolescente. È un «caso vulnerabile»: alla sua età non potrebbe essere altrimenti. La sua condizione è scritta, in greco e in inglese, sul certificato che mi mostra. Lui non capisce né l’una né l’altra lingua ma sa, in qualche modo, cosa significa quel timbro.

Sa che gli darebbe diritto a cure mediche, a un giaciglio asciutto e caldo, a cibo che possa masticare, senza che le mascelle gli dolgano, senza far fatica. Quando mi avvicino si toglie il cappellino di lana vecchia, infeltrita. Mi mostra delle cicatrici, mi prende una mano e me la porta alla sua testa, vuole che le tocchi, cerca di farmi capire dove sente dolore.

Gli mostro la mia macchina fotografica, mimo il gesto di scattare una foto. Non c’è nessun mediatore culturale con me in quel momento, non so spiegarglielo chi sono, non so dirgli che non posso fare niente per lui. Prima di andare, gli mostro ancora la macchina fotografica, lo indico, mi indico. Questa volta sì, gli sto chiedendo il permesso. Lui mi guarda, si raddrizza sostenendosi con un bastone ricavato da un ramo d’albero, si porta la mano al cuore e annuisce: scatto una foto, due, tre mentre mi allontano.

Lo guardo, fermo così, una mano sul bastone, un sorriso appena accennato, mi saluta a suo modo. Spero abbia capito. Spero, soprattutto, sia servito a qualcosa.

Sarà un altro uomo, afghano anche lui, a raccontarmi del vecchio Mohamed e di suo nipote. A dirmi di come quel ragazzo si prende cura ogni giorno del nonno: la coda per il cibo, tre volte al giorno, può durare anche due ore. È solo per quello che suo nipote si allontana, per il resto è sempre con suo nonno. L’unica famiglia che gli è rimasta.

Una nuova lingua

Khder ha 60 anni e sta imparando una nuova lingua. Le prime parole che mi dice sono queste: coperta, freddo. Non «Ciao, come stai? come ti chiami? quanti anni hai?». E a seguire: malato, scarpe.

Perché qui, a Moria, a nessuno importa di come ti chiami, da dove vieni, da cosa scappi. A Moria conta l’essenziale, a quello si deve badare e devi saperlo chiedere o potrebbe non arrivare mai.

Khder è il più anziano di una famiglia «allargata»: in tutto, divisi in tre tende canadesi, ci sono dodici persone. Rahema sua moglie, la loro bambina di nove anni, Bahar, la sorella più grande, Barham. E poi ancora Jasm, Kherea, Sema, Soma, Adonea, Aland, Mhabad e Kazm. Sono curdi, vengono dal Kurdistan iracheno.

Kazm, per la sua patria, ha combattuto: era un peshmerga, e la battaglia gli è costata quasi una gamba. Ha poco più di quaranta anni e per muoversi deve sostenersi con un bastone. Zoppica vistosamente: anche lui, come il «nonno» afghano, è un caso vulnerabile. E poi ci sono i bambini, la più grande ha nove anni, la più piccola poco più di uno. Nessuno di loro parla inglese, ed è per questo che passiamo un pomeriggio e una sera raggomitolati in una delle tende, a cercare di insegnare loro qualche parola. Il vecchio Khder ha trovato un quaderno con la copertina verde, consunta, le pagine ingiallite. Deve essere un rimasuglio, magari una donazione, chissà. Lì sopra scriviamo tutte le parole che possono essergli utili. Coperta, freddo, malato, scarpe. Imparare tutto da capo a sessant’anni, non comprendere nulla di tutto ciò che ti sta intorno. Un alfabeto diverso, incomprensibile, un luogo dove sembra che a nessuno importi della tua sorte. Perché poi per i curdi è anche peggio che per tutti gli altri: iracheni e afghani e siriani con loro non parlano. Un ragazzo, quando gli chiedo di aiutarmi con quella famiglia, dicendogli che ho bisogno di qualcuno che traduca, mi risponde: «Curdi?» e sputa per terra, indicandomi il fango. Fuggire da casa propria, dove sei odiato, e piombare in un altro inferno, dove ugualmente sei messo da parte, ghettizzato o in alternativa, ignorato.

È solo grazie a un mediatore culturale della clinica mobile di Medici senza frontiere che riesco a trovare il modo di aiutare questa famiglia: Mayhar, diciannove anni, rifugiato afghano, arrivato su un gommone due anni fa, oggi è un membro dello staff dell’Ong internazionale. È lui che ci fa da tramite. Riusciamo così a portare i bimbi alla clinica mobile, scopriamo che Soma è affetta da anemia. Se ne prenderanno cura qui.

La clinica ogni sera va smontata e portata via, perché provare a dare una mano assume a volte contorni inquietanti. I proprietari delle terre adiacenti infatti, per lo più contadini che qui hanno i loro uliveti, temevano che la struttura potesse trasformarsi in un altro accampamento. Non è vero, ovviamente, la clinica funziona solo di giorno e il grande tendone centrale, accanto ai camion che contengono gli studi medici, serve solo come sala d’aspetto. Alcune panchine, una saletta appartata per le donne che allattano e dei giochi, per intrattenere i bambini. Medici senza frontiere per poter continuare a operare, ha preso accordi con i proprietari delle terre limitrofe. Così ogni sera e ogni mattina, in poco più di mezz’ora, la clinica viene allestita e poi smontata.

Un hammam miraggio

A Moria la solidarietà pare non esistere. Almeno, non da parte di chi dovrebbe garantirla. Sono piuttosto le persone comuni, o alcune Ong, che lavorano fuori dal campo. Non appoggiando le politiche adottate dal governo greco, che cercano di tamponare come e dove possono.

Barham, la sorella della piccola Bahar, mi mostra le sue foto di quando viveva in Kurdistan. Ventitré anni, gli occhi grandi e i capelli neri, folti: è bella questa ragazza, bellissima. «Moria no good», questo sa dirmi in inglese, e gli occhi le si velano. A gesti mi fa capire che non riesce a lavarsi da settimane. Procuro loro delle salviette umidificate e dello shampoo secco.

Facendo domande, scopro però che a Mytilini una donna, una spagnola che lavora per Sao Association, una Ong tedesca, ha tentato una grossa impresa: ha messo in piedi un hammam gratuito per le donne che vivono a Moria. Si chiama «Bashira» e offre la possibilità alle donne di avere un bagno tutto per sé per trenta minuti.

Ogni giorno la coda fuori da Bashira è lunghissima: si snoda lungo la stretta via che dal mare porta a questo vicolo incuneato fra le vecchie case del porto di Mytilini. Un vociare allegro, mariti che tengono per mano i bimbi in attesa che la loro moglie possa concedersi un attimo di pace. Per poterselo permettere però, devono prenotarsi perché nel campo di Moria la voce si è sparsa e le donne continuano ad affluire numerose. Così capita, magari, che a Bashira ci si riesca a andare una volta al mese, o due se sei fortunata. Non è cattiva volontà, anzi: questa Ong è nata proprio per garantire una piccola oasi di normalità alle donne. Non è facile resistere, ma per ora l’hammam resta in piedi. Difficile garantire un posto a tutte, servirebbero più spazio e più bagni, ma il progetto Bashira a oggi è l’unica realtà che consente un po’ di intimità, uno spazio sicuro alle donne che vivono fra tende e container.

Progetto di speranza

Incontro i coniugi Kempson con il loro progetto «The Hope Project». Sono marito, moglie e una figlia ventenne ritirati a Lesbo per vivere lontano da Londra, da una metropoli dura e difficile. Il primo sbarco se lo ricordano bene: hanno sentito urlare dalla spiaggia davanti casa. Sono usciti e hanno fatto quello che chiunque dovrebbe fare. Hanno aiutato. Hanno preso per mano donne, vecchi, uomini, bambini e li hanno asciugati, rincuorati.

«The Hope Project» nasce per far fronte alle esigenze più basilari dei profughi: abiti, scarpe, pannolini per bimbi, assorbenti per le donne, sapone, shampoo. I coniugi Kempson, grazie alle donazioni ricevute da privati, sono riusciti a creare dei magazzini non lontano da Moria. Ogni giorno distribuiscono gratuitamente beni di prima necessità. Il flusso di uomini, donne e bambini dai magazzini è incessante.

Dalla Siria, bloccati a Lesbo

La solidarietà, a Moria, arriva dalle piccole realtà. Il governo greco infatti, che ha preso ufficialmente in mano la gestione dell’hotspot, pare non sia in grado di garantire una situazione almeno dignitosa a queste seimila persone che vivono in attesa di una risposta alla richiesta d’asilo. Certo non deve essere una questione di danaro: l’Unione europea non ha mai smesso di sovvenzionare il governo greco. Il problema, come sempre, è capire dove finiscono queste sovvenzioni. Perché se fossero correttamente utilizzate, non si avrebbe bisogno di Ong che garantiscano assistenza medica e psicologica a persone che, in alternativa, sarebbero abbandonate.

«Assad ci ammazzava con il gas, voi con il freddo». Mohamed, 36 anni. Siriano. A casa ha lasciato moglie e figlia. È fuggito da solo, pensando di trovare una casa e un luogo sicuro dove farsi raggiungere. Ma l’intervista per la richiesta d’asilo gli è stata fissata per l’ottobre del 2019.

Mohamed mi mostra le foto di quella che era la casa del fratello, completamente distrutta dai bombardamenti. Distrutte anche le vite della sua famiglia: il nipote, il fratello, la cognata sono morti così, fra le macerie di casa.

«So che non si dice davanti a una donna, ma se sento un rumore forte di notte, mi faccio la pipì addosso». Mi racconta anche che ogni notte piange nel sonno, ha incubi, e mentre me lo dice, non riesce a trattenere le lacrime. Moglie e figlia cerca di sentirle ogni giorno, sperando che la data del colloquio venga rivista, non ce la fa, mi dice, non può aspettare un anno: «E se la mia bimba non dovesse più riconoscermi?».

Mohamed condivide la tenda con Abd: anche lui siriano. Entrambi musulmani, ma la moglie di Abd, che è ancora in Siria, è cattolica. Abd mi mostra la piccola Bibbia che tiene accanto al Corano: «È sempre Dio no? Ha solo un nome diverso».

Mi mostra il braccialetto che porta al polso: una fila di grani neri e una croce. È di sua moglie, vuole che lo prenda io: «Così ti ricordi di me».

Scritte

Mentre mi allontano da Moria noto una scritta su un muro. È quasi sbiadita ma riconosco i versi iniziali di una famosa poesia: «No one leaves home, unless home is the mouth of a shark», nessuno lascia la propria casa a meno che casa sua non siano la bocca di uno squalo. Sono i versi di Warsan Shire (scrittrice britannica di origini keniane-somale, ndr). Parole bellissime, piene di significato ma che qui, scritte sul muro, sembrano quasi una presa in giro.

Moria è un limbo, non un rifugio. Sono molto più reali le parole scritte sopra un altro muro, quello sormontato dal filo spinato, proprio all’ingresso del campo «Welcome to prison», benvenuti in prigione.

Chi lascia le fauci di uno squalo non dovrebbe finire nel ventre di una balena.

Una realtà da nascondere

C’è una frase che mi torna prepotentemente alla memoria ogni volta che penso a Moria, sono parole di Martin Luther King: «Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti». Di questo luogo infatti, è difficile parlare. Eppure, siamo in Europa, a pochi chilometri dall’Italia, un’isola conosciuta in tutto il mondo non solo per la sua bellezza ma anche per aver dato i natali a Saffo, poetessa del sesto secolo a.C. Siamo in Grecia, culla della cultura, luogo che è sinonimo di democrazia, perché è qui che nasce questa forma di governo, creata per far sì che ogni singolo individuo abbia la possibilità di esprimersi, di far valere i propri diritti.

Nei giorni trascorsi a Lesbo però, questi diritti non mi sono parsi così scontati: fotografi e giornalisti se ne vedono, ma all’interno del campo è proibito loro di entrare, e fuori dal campo non è comunque così agevole muoversi. La polizia vigila, non solo sui migranti. Moria è una realtà scomoda, meglio dunque che non venga raccontata.

Valentina Tamborra

Classe 1983, milanese. Si occupa di reportage e ritratto e nel suo lavoro mescola narrazione e immagine. Ha collaborato con alcune Ong come Amref, Medici senza frontiere e Albero della vita. I suoi progetti sono stati oggetto di mostre a Milano, Roma e Napoli, in luoghi come il Teatro Franco Parenti (Milano) e il Maxxi (Roma). Ha fatto numerose pubblicazioni sui media nazionali. Il suo lavoro «Doppia Luce» è stato oggetto di un ciclo di conferenze in Nuova accademia di belle arti.

www.valentinatamborra.com