Tra i molti dati offerti, ci sono quelli che parlano dell’aumento di povertà e diseguaglianze.
Nel 2022, metà delle famiglie più povere possedeva meno dell’8% della ricchezza netta totale del Paese, il 5% delle famiglie italiane più ricche ne deteneva, invece, il 46%. Nel 2010 la quota era del 40%.
Nel 2023, 5,7 milioni di persone (il 9,8% della popolazione) si trovavano in condizioni di povertà assoluta (nel 2015 erano il 7,4%), e 13,4 milioni (il 22,8% della popolazione) erano a rischio di povertà o esclusione sociale.
Lo scenario descritto dalle 210 pagine del documento non è del tutto negativo, ma non è di certo positivo: «Dei 37 obiettivi […], solo 8 sono raggiungibili entro la scadenza del 2030, 22 non lo sono e per altri 7 il risultato è incerto», si legge nel comunicato stampa dell’Alleanza che mette in rete più di 300 organizzazioni senza scopo di lucro, provenienti dalla società civile, impegnate sui temi dello sviluppo sostenibile.
«I dati del Rapporto descrivono con chiarezza l’enorme ritardo dell’Italia nel percorso per raggiungere i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. […] Tra il 2010 e il 2023, il Paese ha registrato peggioramenti per cinque goal: povertà, disuguaglianze, qualità degli ecosistemi terrestri, governance e partnership. Limitati miglioramenti si rilevano per sei goal: cibo, energia pulita, lavoro e crescita economica, città sostenibili, lotta al cambiamento climatico e qualità degli ecosistemi marini. Miglioramenti più consistenti riguardano cinque goal: salute, educazione, uguaglianza di genere, acqua e igiene, innovazione. Unico miglioramento molto consistente interessa l’economia circolare».
Tra gli obiettivi non raggiungibili ci sono quello di ridurre del 20% l’utilizzo di fertilizzanti in agricoltura; quello di dimezzare la disparità occupazionale tra uomini e donne; di raggiungere il 42.5% di energia da fonti rinnovabili; ridurre del 20% i consumi finali di energia; raggiungere il 30% delle aree marine e terrestri protette.
Tra gli obiettivi con andamento altalenante ci sono quello di raddoppiare il traffico merci su ferrovia e quello di azzerare il sovraffollamento nelle carceri.
Tra gli obiettivi raggiungibili nel 2030 ci sono, invece, quello di arrivare al 60% del tasso di riciclaggio dei rifiuti urbani, di garantire a tutte le famiglie la copertura alla rete internet veloce; di ridurre al di sotto del 9% la quota di giovani che non studiano, né lavorano, i cosiddetti Neet.
Nel rapporto si fa anche il confronto del percorso italiano con quello dell’Unione europea: l’evoluzione dei 17 goal dal 2010 a oggi mostra un’Italia sotto alla media.
Dal 28 ottobre e fino al 19 novembre l’Asvis promuove una campagna di diffusione dei dati del rapporto e dei suggerimenti di azioni in esso contenuti: «Un goal al giorno». Ogni giorno viene approfondito, tramite diversi materiali online, semplici da consultare e utilizzare, il punto della situazione dell’Italia rispetto ciascun obiettivo.
di Luca Lorusso
Niger. Creatività al lavoro
Vi ricordate le start up di giovani nigerini di cui avevamo scritto nel marzo 2023? Avevamo incontrato alcuni protagonisti del progetto «Obiettivo lavoro», gestito da due Ong italiane. Le attività sono terminate e li abbiamo contattati per sapere come è andata.
Abbiamo parlato in video chiamata con il coordinatore del progetto Obiettivo lavoro, gestito dalla Ong Cisv in partenariato con Africa 70. Le attività, iniziate a fine 2020, consistevano nell’aiuto a start up di giovani imprenditori e a cooperative.
Moussa Arohalassi Halidou, dottorato in nutrizione, con oltre tredici anni di esperienza nel campo dello sviluppo, pare soddisfatto: «È un progetto fuori dal comune, rispetto a quelli che si trovano oggi in Niger. Gli iniziatori delle micro imprese e i membri delle cooperative sono stati responsabilizzati rispetto all’uso dei fondi, sia per gli investimenti iniziali che per le attività. Sono stati loro a studiare e proporre gli investimenti da fare. Noi, équipe di progetto, abbiamo verificato la fattibilità delle loro idee».
Responsabili della gestione finanziaria, dunque, ma anche della scelta dei fornitori e del rapporto con i clienti.
Soddisfazioni
Per quanto riguarda le micro imprese, l’équipe di progetto ha fatto una selezione delle 36 migliori idee di start up, su circa 500 domande ricevute. È stato quindi dato un appoggio formativo nelle materie della gestione d’impresa e dell’amministrazione. Ogni start up ha poi ottenuto un pacchetto di fondi (tra i 5 e i 6mila euro) per gli investimenti iniziali, ricevuti a rate dopo aver presentato un pano aziendale soggetto ad approvazione.
Quindi, l’équipe del progetto è rimasta al fianco di imprenditrici e imprenditori in una forma permanente di tutoraggio. «Noi siamo stati lì a verificare quello che le micro imprese facevano, per orientarle e dare consigli», continua Moussa, soddisfatto dei risultati. «Il progetto Obiettivo lavoro ha permesso a molte micro imprese di partire. Non esistevano, e il progetto le ha accompagnate a formalizzarsi, e poi a cominciare le loro attività».
Oggi però il progetto è terminato, e il tempo di accompagnamento è scaduto: «Avere a disposizione un periodo più lungo per accompagnare le start up aiuterebbe gli imprenditori a ridurre certe difficoltà che devono affrontare per portare le imprese a realizzare un maggiore volume di affari e quindi creare impiego.
Questo è uno degli obiettivi del progetto: creare lavoro per giovani e donne. Lo abbiamo raggiunto con le cooperative, ma non ancora con le micro imprese. Ogni start up dovrebbe creare dai due ai tre posti. Purtroppo, a fine progetto, non c’erano ancora questi numeri. È qualcosa che si vede sul medio lungo termine: quando una micro impresa decollerà, allora assumerà personale».
Difficoltà
Ma le difficoltà non sono mancate, come ricorda il coordinatore. A partire dal colpo di Stato del 26 luglio dello scorso anno (cfr MCnotizie. Niger. Colpo di stato: i militari padroni del Sahel), e dalle conseguenti sanzioni imposte dalla Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) che hanno bloccato il sistema finanziario nigerino. Ricorda Moussa: «Le sanzioni internazionali hanno reso più complesso l’arrivo dei fondi dall’Italia, ma anche i versamenti delle rate alle singole micro imprese, che poi dovevano realizzare, esse stesse, gli investimenti, ad esempio per l’acquisto di macchinari o di materiali. Tutto questo ha complicato il programma».
Inoltre, occorre ricordare che in tutta l’area del Sahel, imperversano diversi gruppi armati jihadisti, rendendo insicuri vasti territori. «Il Paese non è totalmente stabile e ci sono zone nelle quali sono frequenti gli attacchi da parte di gruppi armati. Le cooperative e le micro imprese nella regione di Tillaberi hanno avuto questo problema, mentre quelle nella capitale Niamey e a Zinder non sono state toccate».
Gli chiediamo come hanno proceduto: «Le nostre équipe non potevano visitare i partner, seguirli e dare loro consigli perché era troppo pericoloso. Per i momenti di formazione e le riunioni facevamo venire i responsabili a Niamey. Inoltre, in alcune zone, le strutture esistenti, come uffici e magazzini, sono state saccheggiate dai gruppi armati. Tutto questo ha penalizzato le start up di quell’area».
Niger Shine Lady’s
Dopo aver sentito Moussa, abbiamo contattato alcuni imprenditori che sono riusciti a partire.
Lei si chiama Leila Barry, e si definisce imprenditrice sociale. Ha 34 anni ed è laureata in comunicazione d’impresa all’Università di Niamey. Ha un buon lavoro nel settore amministrativo, ma non le bastava. «L’idea della creazione della micro impresa Niger shine lady’s mi è venuta perché facevo borse e scarpe in cuoio e desideravo formare alcune ragazze del mio quartiere a produrle perché diventassero autonome sul piano economico. Dopo alcuni anni, quando ero capo progetto per una Ong internazionale che si occupava della salute delle donne, ho notato che le ragazze più povere avevano difficoltà a procurarsi gli assorbenti. Allora mi è venuta l’idea di insegnare loro la confezione di assorbenti igienici riutilizzabili».
Leila ha iniziato con l’ideazione del prodotto, ha poi realizzato qualche piccolo investimento con i propri fondi: «Pensavo ai bisogni delle ragazze che stavo seguendo». In seguito, il progetto le ha permesso di acquisire le macchine da cucire elettriche e le competenze in gestione.
Leila continua appassionata: «Gli obiettivi della mia micro impresa inizialmente erano la confezione di assorbenti riutilizzabili ma anche la fornitura di servizi associati per le ragazze in difficoltà, in tutto il Paese. In secondo luogo, avevo l’idea di creare qualche posto di lavoro, indispensabile per il funzionamento dell’attività. Ovviamente con una gestione rigorosa, per raggiungere la sostenibilità economica nel tempo. Ma sempre con grande attenzione agli aspetti sociali e ambientali».
Leila racconta che ci sono state anche difficoltà di tipo culturale, in quanto il tema è ancora considerato tabù dalla maggior parte della gente in Niger. Oggi però l’impresa funziona e oltre lei vi lavorano la sua assistente, un sarto e un guardiano.
Terra di Adamo
Ismael Hassane Adamou è un ingegnere nigerino di 32 anni. È a capo di un laboratorio che fa test sui materiali dell’edilizia. Qualche tempo fa, ha avuto un’idea: «Si può avere un terreno a Niamey, ma costruire una casa è piuttosto complicato. Allora ho pensato a un’alternativa al mattone in cemento, economica e pure più adattata al nostro clima. Ho scoperto un tipo di mattone di terra compattata con una particolare forma a incastro, che mette insieme economicità e un maggior confort all’interno della casa».
Si tratta di mattoni fabbricati con speciali presse, che compattano ad alta pressione una miscela di terra lateritica (molto diffusa in Niger) con una percentuale di cemento.
Ismael: «Ho chiamato la mia impresa Terre d’Adam (Terra di Adamo). L’obiettivo principale è quello di diffondere la costruzione con la terra, in quanto i suoi vantaggi sono innegabili e, in seconda battuta, di aiutare a risolvere la crisi di alloggi che c’è a Niamey. Oggi, infatti, in questa città è molto complicato trovare una casa in affitto o in acquisto ben costruita.
Questi mattoni sono economici perché usano meno cemento di quelli normali, ma sono comunque molto solidi. Inoltre, la costruzione avviene più rapidamente grazie alla struttura a incastro. Anche questo fa diminuire i costi complessivi».
Ismael, preparato tecnicamente, ha allargato le sue conoscenze grazie al progetto Obiettivo lavoro: «Ho acquisito alcune competenze cruciali, soprattutto in contabilità e in gestione, che mi hanno permesso di strutturare la micro impresa e renderla redditizia».
La start up produce attualmente tra i 120 e i 200 mattoni al giorno, utilizzando una pressa manuale. «Ma con la pressa semi automatica che stiamo per installare, potremo moltiplicare questo numero per 20», riprende soddisfatto Ismael. «Inoltre – continua -, l’appoggio passo passo di Cisv fino dall’apertura dell’impresa è stato fondamentale, perché mi ha permesso di sentirmi aiutato e seguito in tutto il processo. È stato molto importante per me. Mi sono sentito come in famiglia».
Oggi, la start up, è pronta a mettersi sul mercato. Impiega un responsabile della produzione e tre operai.
Cerimonie e compost
«Mi chiamo Rahamatoulaye Alio Sanda Almou, detta Ramatou, ho 27 anni, sono nigerina e ho studiato farmacia all’Università di Niamey. Quando ero studentessa, mi è venuta l’idea di creare una micro impresa. Ho avuto la possibilità di seguire una formazione in gestione d’impresa, e questo mi ha spinto a creare la mia attività. Ho scelto il settore dei servizi igienico sanitari con l’idea di trasformare i rifiuti organici in concime».
L’idea era buona: «Ma non è stato facile. Volevo creare la mia micro impresa, mi sono subito scontrata con i primi problemi: come finanziarla e quindi realizzarla?». Ramatou ha partecipato ad alcuni concorsi per le idee di start up nazionali e regionali. Ne ha vinto uno, e con i fondi ricevuti ha comprato la prima «toilette mobile» che pensava di affittare agli enti locali, con l’obiettivo di migliorare le condizioni igieniche dei quartieri della capitale ma anche di ottenere concime organico.
«Mi sono scontrata con il problema delle abitudini e degli usi della popolazione. Come portare le persone a utilizzare le toilette?». Nel frattempo, è arrivata la pandemia e tutto si è fermato. «Mi sono detta: devo essere resiliente e riflettere su come rimodulare le attività della micro impresa. Ho quindi orientato l’attività al privato, che mi pareva più recettivo per utilizzare questo servizio. L’idea era quella di fornire servizi a chi organizza eventi privati e cerimonie, come i matrimoni, i battesimi, che coinvolgono molte persone». I servizi si sono ampliati all’affitto di sedie e tendoni per gli eventi, molto utilizzati nel paese.
«Devo dire che la pandemia è stata una difficoltà, ma anche un fattore determinante che mi ha fatto cambiare gli obiettivi della micro impresa. Inoltre mi ha spinta a cercare dei partenariati con progetti come Obiettivo lavoro».
Ramatou ha chiamato la sua start up «Sapta», che in haussa, la lingua più parlata in Niger, significa pulito o pulizia. Selezionata dal progetto di Cisv, ha potuto acquisire le attrezzature che le mancavano. Inoltre, lei e i suoi colleghi, hanno seguito formazioni di marketing, gestione aziendale e contabilità.
Oggi Sapta impiega quattro persone, di cui due permanenti e la altre a cottimo.
Polli che passione
Moumuni Saley ha 31 anni, è sposato e ha una figlia di due anni: «Il mio lavoro è gestire progetti in ambito sanitario, perché ho un master di secondo livello in gestione di progetti e programmi di salute pubblica. Però ho anche alcune certificazioni in fabbricazione di incubatrici per le uova, in orticoltura, in avicoltura moderna e biologica. Inoltre, ho competenze in gestione d’impresa.
La mia idea di micro impresa è nata perché avevo un sogno: creare una fattoria integrata, che comprendesse la piscicoltura, l’orticoltura e l’avicoltura. Era una passione che non avevo potuto seguire con gli studi».
La start up Complex Agro vende polli, pulcini e uova, produce e vende incubatrici, e fornisce assistenza dopo la vendita, consulenze e formazioni.
«Il progetto Obiettivo lavoro mi ha permesso di fare il salto di qualità. Prima facevo tutto questo a casa e in modo informale, in piccole quantità, non avevo i mezzi tecnici e finanziari. Adesso, dopo avere ricevuto tre formazioni sulla gestione d’impresa e una sull’avicoltura biologica, e dopo il finanziamento per le infrastrutture, tecnicamente sono più forte. È come se mi avesse fatto progredire di otto anni di lavoro in uno solo. Sono passato a un livello superiore per realizzare il mio sogno».
Marco Bello, con la collaborazione di Issa Yakouba
Accade nelle Langhe: Le vigne del riscatto
Colline, vigneti, borghi, panorami, cantine. Dal 2014, le Langhe sono patrimonio dell’Unesco. Sono bellezza, lavoro, denaro, fama. Nel caso (unico) dell’«Accademia della vigna», nata esattamente un anno fa, possono significare anche buone pratiche e sostenibilità sociale, riscatto e integrazione.
Il giovane Ousmane viene dalla Guinea Conakry. Ha trovato finalmente un lavoro stabile, e ogni mattina inforca la sua bicicletta e raggiunge l’azienda agricola Mirafiore, dove è stato assunto in qualità di operaio di vigna.
Non ha una storia semplice l’operaio Ousmane, arrivato in Italia su un barcone nel 2017 e ancora richiedente asilo, finito in Francia, passato attraverso varie forme di lavoro sfruttato e poi giunto nelle Langhe dove sta costruendo il suo futuro. «Senza lavoro, non c’è libertà», dice.
Il progetto «Accademia della vigna» si pone dentro questo angolo di mondo, come proposta in grado di valorizzare la dimensione sociale del vino.
L’iniziativa, coordinata dall’impresa sociale We.Co. e promossa con il «Consorzio di tutela Barolo Barbaresco», è attiva da ormai un anno grazie alla collaborazione con diversi enti del territorio (imprese, istituzioni, terzo settore, scuole, sindacati, cittadini). Rappresenta la prima academy a impatto sociale sulla viticoltura: un sistema che facilita il reperimento di nuovi operai formati sulla conduzione del vigneto, tramite un percorso che alterna la formazione con il lavoro in vigna.
Emersione e dignità
Dieci assunzioni regolari, dieci contratti, dieci emersioni dal lavoro irregolare, spesso sfruttato.
Questo è il risultato ottenuto dall’«Accademia della vigna», la prima del settore vitivinicolo italiano. Nata nel settembre 2022, essa si occupa di inserimento di manodopera nelle più prestigiose aziende dell’albese, territorio baciato da Dio dove il lavoro ha trasformato la «malora» raccontata nel 1954 da Beppe Fenoglio in una miniera d’oro a cielo aperto, patrimonio Unesco dal 2014.
È una bella storia, fatta di riscatto e integrazione, ma non solo. Chiunque tenti di limitare il lato oscuro dell’economia attuale è spinto a vedere da vicino, a vivere quasi, gli aspetti che si vorrebbero cambiare o mitigare: è un processo faticoso perché porta a diventare parte di un meccanismo che appare monolitico.
Un (piccolo) esempio per un nuovo inizio
Gli uomini che giungono all’Accademia, in gran parte africani, ma non mancano gli italiani, spesso sono stati vittime di varie forme di caporalato. Grazie a una complessa rete di istituzioni locali, aziende illuminate, il Consorzio di tutela del Barolo e tantissimo lavoro, riescono a trovare un nuovo inizio.
È il cosiddetto «diritto all’aspirazione», teorizzato dall’antropologo Arjun Appadurai, un diritto che spinge tanti a migrare e a esporsi a molti rischi, tra i quali quello di venire sfruttati. Come se l’integrazione dovesse passare prima attraverso delle forche caudine a cui non ci si può sottrarre: tutte le migrazioni hanno questa caratteristica quale parte di un processo doloroso.
Dieci assunzioni sono un grande risultato per l’Accademia della vigna, ma rimangono una goccia nel mare.
Quando sei di fronte a questo fenomeno lillipuziano la questione diventa molto più complessa. In un tempo in cui la denuncia delle ingiustizie è depotenziata dall’assuefazione, raccontare un fatto, una situazione esemplare è lo strumento che rompe lo schema e mostra un’altra realtà possibile, nell’ambito di un ecosistema umano ed economico complicato. Dove non c’è esempio da indicare, e c’è solo denuncia, la realtà rimane immobile.
Frontiere
Le vigne sono bellissime. Le colline appaiono ricamate dai lunghi filari che in ogni stagione portano un colore diverso: il verde intenso della primavera, il bianco innevato dell’inverno e il rosso acceso del periodo della vendemmia. Tanta bellezza, tanto lavoro, tanta fatica.
Siamo abituati al racconto delle frontiere esterne, che spesso raggiungono il (dis)onore della cronaca per la violenza che le caratterizza.
Siano esse nel mare Mediterraneo o lungo la rotta dei Balcani, il loro scopo è quello di selezionare gli esseri umani che vogliono migrare: di fatto ormai entrano solo coloro che possono pagare profumatamente un trafficante. È la «nostra» guerra, che combattiamo con ampio uso di strumenti bellici e milizie.
Ma una volta che i migranti riescono a entrare in Italia, il loro viaggio continua fino a raggiungere le frontiere interne: quelle della burocrazia malata e del lavoro irregolare, in primis.
Per questo una vigna, come una catena di montaggio, può essere una frontiera, e basta un attimo per essere nuovamente fuori. Dentro un sistema di legalità o fuori, dentro un contratto che ti dà la possibilità di affittare una casa, oppure no.
L’Accademia della vigna vuole aiutare i migranti a non sbattere contro queste frontiere e vuole mostrare a tutti le grandi potenzialità offerte da un processo lavorativo senza irregolarità, prima di tutto la possibilità di intercettare i desideri di consumatori sempre più attenti alla sostenibilità ambientale e umana dei prodotti.
Per capire si deve vedere e ascoltare
Per capire si devono vedere questi uomini africani curvi sulle nostre vigne, intenti a zappare, con la schiena che si piega e le braccia forti che lavorano. Le uve più pregiate d’Italia, forse del mondo, sono curate da esseri umani partiti da luoghi lontani che noi consideriamo nemici, persone alle quali chiediamo di fare lavori che noi, per mille ragioni, non vogliamo più fare.
Questi uomini, durante i colloqui di lavoro, non fanno che rispondere «sì», e tu vorresti dire loro che non devono sempre usare quella parola per qualsiasi domanda, che non va bene, che si deve imparare a dire anche «no» nella vita se vuoi sopravvivere, se non vuoi diventare uno schiavo, se vuoi essere un uomo libero.
L’unico sistema che può integrare decentemente le persone migranti è il lavoro legale, fare in modo che le forze anarchiche del mercato siano regolate e mitigate. L’integrazione passa attraverso la fatica e il sacrificio: pensare che in prima istanza vi sia un riconoscimento giuridico è una forzatura ideologica.
Allo stesso tempo, una società che vuole integrare dovrebbe offrire ai migranti alcuni servizi: formazione, regole (lo Stato che le detta e le fa rispettare), imprenditori che capiscano quanto la responsabilità sociale d’impresa sia un valore e non un costo, sindacati.
Nuovi italiani?
Ti guardano, silenziosi, questi uomini. Non sai mai cosa pensino, se siano interessati a quello che gli racconti, o sia solamente un’altra occasione per fare contento il «capo bianco» che parla e parla. Si vede che vorrebbero andare a casa, sempre che ce l’abbiano e non vivano alla Caritas o lungo un fiume.
Dicono sempre sì ai colloqui, ma sono anche quelli che a volte scompaiono senza dare una spiegazione, lasciando un lavoro di formazione a metà, che combinano guai e spesso mentono.
Non so quanti di questi esseri umani si considerino «nuovi italiani»: nonostante la formazione, il lavoro regolare che a piccoli passi viene conquistato e gli avanzamenti economici.
Forse tantissimi vogliono andare via, continuare il viaggio, raggiungere l’agognata Germania, il mitico Nord Europa.
Alcuni però rimangono e cercano un futuro.
Le buone pratiche servono a tutti
Matteo Ascheri è il presidente del Consorzio di tutela Barolo Barbaresco. Commenta: «Il problema dello sfruttamento della manodopera è diffuso in tutta Italia e non solo, riguarda diversi comparti economici ed è radicato da tempo. Le origini sono complesse e toccano aspetti economici, sociali e culturali.
Nelle Langhe, patria di alcuni dei vini più conosciuti al mondo e regione oggetto di turismo sempre crescente, come sistema e come imprenditori abbiamo l’obbligo morale ed etico di affrontare la questione, portarla alla luce e cercare possibili soluzioni. Accademia della vigna è, quindi, un primo progetto a cui abbiamo voluto dare il nostro supporto per rispondere a questo problema e si inserisce all’interno di un percorso ben più complesso e lungo, che ha bisogno di tempo per attecchire e svilupparsi.
Molti nostri produttori hanno già aderito all’iniziativa in quanto fornisce una risposta concreta a un problema che ha due facce: la mancanza di manodopera in vigna da una parte e la poca eticità nel trattamento delle persone, dall’altra. Non parlando solamente di numeri occorre però intervenire su più piani, quello tecnico/economico e quello della presa di coscienza da parte di tutti gli operatori. In quest’ottica è nostro obiettivo sviluppare anche altre soluzioni che ancor meglio possano incontrare le esigenze delle nostre aziende, molto diverse tra loro per dimensioni e natura, e nel contempo tutelare i lavoratori».
Quindi, vi è un tentativo da parte del tessuto economico sociale di far emergere «le buone pratiche» che possono incidere in un settore molto ricco e conosciuto a livello planetario.
L’idea è che una formazione tecnica delle persone – progettata in partnership con le imprese – possa essere lo strumento per ingressi lavorativi che garantiscono alle aziende maggiori competenze e qualità nei processi di lavoro, offrendo ai candidati un contratto di lavoro regolare e di lungo respiro.
L’iniziativa supporta le aziende partner nell’individuazione di candidati interessati all’esperienza, le aziende svolgono i colloqui di lavoro e assumono con contratto diretto il personale di cui necessitano. I nuovi operai vengono quindi inseriti nel percorso formativo organizzato e gestito dal progetto: 150 ore di formazione tecnica, svolta direttamente in vigna, didattica in collaborazione con i migliori agronomi del settore. Le ore di formazione sono distribuite durante dodici mesi in moduli, ciascuno dedicato a una diversa fase di lavoro del vigneto.
Maurizio Pagliassotti Giornalista e scrittore. MC ha presentato nel numero di giugno i suoi due libri dedicati ai migranti.
Nelle società attuali, il baratro della povertà è sempre incombente. Per tutti. Una possibile soluzione sarebbe il reddito universale. Tuttavia…
Nella società del supermercato, la possibilità di sprofondare nella povertà è sempre in agguato. Per tutti. Basta una ristrutturazione, una delocalizzazione, una recessione mondiale e tutto vacilla. In particolare vacillano i posti di lavoro che rappresentano la base della sopravvivenza per la maggior parte della popolazione.
Il discorso è vecchio: da quando l’economia è finita sotto il dominio dei mercanti, che hanno assunto anche il ruolo di produttori, è stato fatto ogni sforzo per espropriare le persone di qualsiasi modo di provvedere a se stesse, in modo da costringerle a non avere altra soluzione se non quella di vendere il proprio lavoro in cambio di un salario. Così è stata costruita la società del supermercato che funziona secondo l’imperativo: «lavora, guadagna, spendi».
Profitti e guerra tra poveri
Le imprese hanno un rapporto di odio con il lavoro perché esso è un diretto antagonista dei profitti. Per questo, fin dal sorgere della rivoluzione industriale le imprese si sono organizzate per abbattere il costo del lavoro, attraverso la doppia strategia dell’eliminazione e della riduzione: l’eliminazione del lavoro umano; la riduzione dei salari. La politica dell’eliminazione passa dallo sviluppo tecnologico con l’obiettivo di avere una predominanza della macchina sull’umano fino a creare linee produttive totalmente gestite da robot. La politica della riduzione salariale è più articolata e arriva fino a comprendere truffe, angherie, eversione contributiva. In questo, l’Italia è maestra: il 10,5% della ricchezza prodotta annualmente è ottenuta in nero.
L’arma prediletta per vincere la partita della riduzione salariale è però l’innesco della guerra tra poveri. Considerandolo una merce al pari di un cavolo o di un cappotto, il sistema pretende che anche il lavoro umano sia sottomesso alla legge della domanda e dell’offerta. Di qui l’interesse affinché il numero di persone che chiede lavoro sia sempre più alto dei posti disponibili. In altre parole, il mercato ha interesse a mantenere cronicamente un alto tasso di disoccupazione. I sindacati lo sanno: quando fuori dalle fabbriche c’è una lunga fila di persone che chiedono di essere assunte, non c’è nessuna speranza di far crescere i salari che anzi scenderanno. E se, fino a ieri, la strategia per creare disoccupazione era l’automazione, con la globalizzazione si è aggiunto
il trasferimento della produzione in altri paesi. Approfittando di un mondo terribilmente disuguale a causa di iniquità secolari, le imprese hanno cominciato a trasferire le produzioni meno qualificate e a più alta intensità di mano d’opera in paesi dove i salari sono dieci, venti, addirittura trenta volte più bassi che nei vecchi paesi industriali. E mentre in Europa, America del Nord, Giappone, si andavano perdendo milioni di posti di lavoro, un nuovo tipo di concorrenza si è impadronita del mondo. È la concorrenza fra lavoratori: i cinesi contro gli indonesiani, i bengalesi contro i cambogiani, gli italiani contro i polacchi, tutti contro tutti in un’assurda corsa al ribasso per accaparrarsi i pochi posti disponibili. Con grande soddisfazione della classe padronale che ora ha buon gioco a ricattare i lavoratori più pretenziosi, tacciandoli addirittura per privilegiati.
Da diritto a privilegio
La trasformazione dei diritti in privilegi è forse la forma più raffinata di manipolazione lessicale attuata dall’1% dell’umanità per soggiogare il restante 99%.
I risultati li conosciamo. Mentre in Italia la disoccupazione è attestata all’8% e quella giovanile attorno al 24%, la stabilità del lavoro non esiste più. Il contratto a tempo indeterminato è diventato un sogno irraggiungibile che in ogni caso deve prima passare per le forche caudine di innumerevoli contratti temporanei che permettono alle imprese di sbarazzarsi di chiunque provi a rivendicare i propri diritti. È tornato il lavoro a cottimo, il lavoro a chiamata, il subappalto, il falso lavoro autonomo che libera le imprese committenti dall’obbligo dei versamenti assicurativi e contributivi. In conclusione, se un tempo i poveri erano essenzialmente i senza lavoro, oggi se ne trovano tanti che, statisticamente parlando, sono classificati come occupati. Sono i cosiddetti «working poors», persone povere nonostante lavorino. Una definizione coniata dall’Organizzazione internazionale del lavoro negli anni Novanta per denunciare il lavoro malpagato nel Sud del mondo, che oggi, però, coinvolge anche il mondo ricco, con tassi preoccupanti.
I criteri di misurazione della povertà tengono conto di vari aspetti, fra cui il salario orario, le ore di lavoro, il carico familiare, per cui fornire un indicatore semplificato di livello di povertà è praticamente impossibile. Tuttavia, un rapporto del ministero del Lavoro, pubblicato nel novembre 2021, informa che, in Italia, un quarto dei lavoratori ha una retribuzione individuale bassa e più di un lavoratore su dieci si trova in situazione di povertà (cioè, vive in un nucleo con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana). A questo va aggiunto che, secondo l’Istat, in Italia 8,8 milioni di individui (14,8% della popolazione) sono classificati come «poveri relativi», cioè hanno un livello di consumo inferiore al 50% della media nazionale. Di questi, oltre la metà (5,6 milioni di individui) sono addirittura «poveri assoluti», ossia non riescono a soddisfare neanche i bisogni fondamentali.
Contro la povertà
Questi dati ci dicono che urgono interventi contro la povertà che, a mio avviso, debbono muoversi su tre piani.
Il primo è quello del «tamponamento»: chi non dispone dei mezzi per vivere deve essere soccorso in maniera appropriata dalla struttura pubblica che deve organizzare l’aiuto in una logica di redistribuzione. Paolo Acciari e altri ricercatori hanno appurato che, in Italia, la quota di ricchezza privata posseduta dal 50% più povero (circa 25 milioni di individui) è retrocessa dall’11,7% nel 1995 al 3,5% nel 2016. Nello stesso periodo la quota dell’1% più ricco è salita dal 16% al 22% con beneficio soprattutto per lo 0,01% posto all’apice della piramide, appena 5mila individui, che hanno visto la propria quota crescere dall’1,8% al 5% del patrimonio totale. Tradotto in termini monetari, ciascuno di loro è titolare di un patrimonio medio pari a 83 milioni di euro, un valore 473 volte più alto della media nazionale.
Uno stato serio tiene l’attenzione costantemente puntata sul livello delle disuguaglianze e interviene tramite il fisco, il sostegno ai più poveri e il rafforzamento dei servizi, per riequilibrare le cose. In Italia le risorse per soccorrere i più poveri ci sono. Bisogna semplicemente avere il coraggio di andarle a prendere dove si trovano, ossia nelle tasche dei ricchi. Molto spesso, invece, si preferiscono fare operazioni stile capitalismo compassionevole che soccorre i poveri tramite l’apertura di nuovo debito pubblico. Esattamente come hanno fatto gli ultimi governi che hanno finanziato il reddito di cittadinanza a debito, ossia buttando il peso finanziario sulle spalle delle generazioni future. Scelta «vigliacca» di chi non vuole inimicarsi nessuno egoverna alla giornata senza un progetto di società di lunga durata. Dopo il soccorso, deve venire il sostegno all’autonomia e se decidiamo che la via dell’autosostentamento è quella del lavoro salariato, allora bisogna intervenire affinché il lavoro sia dignitoso. Non può essere, come succede oggi, che al senza reddito sia imposto l’accettazione di qualsiasi lavoro, qualcunque esso sia, sotto minaccia di sospensione di ogni forma di assistenza. Questa politica non fa altro che perpetuare la povertà. Al senza reddito bisogna offrire delle proposte di lavoro, ma deve trattarsi di lavoro dignitoso. Ecco perché il secondo piano di intervento di lotta alla povertà è l’imposizione alle imprese di nuove regole in materia di assunzione, di licenziamento, di tutela delle libertà sindacali e anche di salario minimo. In Italia abbiamo retribuzioni contrattuali, quindi legali, anche di cinque euro l’ora e chiunque le percepisca è condannato alla povertà, anche se lavora a tempo pieno. Dunque, va fissata per legge una soglia di salario minimo, sufficiente, come dice l’articolo 36 della Costituzione, ad «assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
Contemporaneamente, bisogna intervenire per ridurre, per legge,l’orario di lavoro, in modo da ripartire fra tutti il lavoro esistente. Le macchine stanno espellendo persone dai posti di lavoro e se di lavoro ne serve di meno dobbiamo ridurre la giornata lavorativa in modo da includere tutti. Keynes lo aveva già detto quasi cento anni fa. Tuttavia, sta crescendo anche il movimento di chi vorrebbe ripartire il reddito anziché il lavoro.
Il reddito universale
È la proposta del reddito di base universale: un assegno dello stesso importo staccato a favore di tutti, vita natural durante, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla situazione occupazionale e perfino dalla ricchezza. Una proposta che ha il merito di dichiarare tutti i cittadini uguali perché riconosce a tutti il diritto di ricevere un minimo vitale senza dover fornire nessuna altra giustificazione se non quella di esistere. Positiva anche perché porrebbe fine all’apartheid nei confronti dei lavori domestici e di cura della persona, che oggi non hanno alcuna considerazione sociale. Per di più potrebbe operare miracoli sul piano della qualità della vita, sia per la ritrovata sicurezza nei confronti della precarietà generata dal mercato, sia per la recuperata libertà di poter dedicare del tempo allo studio, al fai da te, alle relazioni affettive e sociali.
Il reddito di base potrebbe però essere letale per le casse pubbliche. È stato calcolato che, per garantire in Italia un reddito universale di 10mila euro all’anno, una cifra di poco superiore alla linea della povertà relativa, non a tutti, ma ai soli maggiorenni, ci vorrebbero 480 miliardi di euro, l’85% delle entrate tributarie. Che significherebbe la scomparsa dello stato come agente economico, col risultato di una società più insicura perché lascerebbe i cittadini soli di fronte ai bisogni fondamentali che non possono essere affrontati individualmente: alloggio, istruzione, sanità, infrastrutture. La conclusione sarebbe che chiederemmo allo stato di immolarsi sull’altare di un’azione redistributiva a esclusivo vantaggio del mercato, perché avremmo cittadini con più capacità di consumo individuale, ma totalmente sprovvisti di solidarietà collettiva, con grande gioia di banche e assicurazioni.
Servizi pubblici gratuiti
Personalmente, piuttosto che inseguire sogni impossibili, preferirei utilizzare le risorse disponibili per rafforzare i servizi pubblici da garantire gratuitamente a tutti. Non solo istruzione e sanità, ma anche acqua, energia, alloggio, trasporti. Una scelta che avrebbe un doppio vantaggio: per la sicurezza delle persone, e per l’occupazione. Per la sicurezza, perché quando si ha la garanzia dei bisogni fondamentali, non serve molto altro denaro per vivere. Per l’occupazione perché per produrre servizi serve personale. Il che smonta lo stereotipo secondo il quale solo le aziende private creano occupazione. In realtà, se la comunità si convincesse che è suo dovere garantire i bisogni fondamentali a tutti, diventerebbe il più importante motore di lavoro. La conclusione è che, se la comunità decidesse di diventare imprenditrice di se stessa per i bisogni fondamentali dei cittadini, libererebbe tutti dalla povertà e offrirebbe a tutti un’occupazione garantita.
Francesco Gesualdi
Per costruire la pace: educazione, lavoro e dialogo
Papa Francesco, nel messaggio per il 1° gennaio, giornata mondiale della pace, indica tre ambiti necessari per costruire una pace duratura: educazione, lavoro e dialogo. Tre spazi d’azione non scelti a caso, ma che richiamano alcuni degli obiettivi di sviluppo sostenibile che le Nazioni Unite si sono proposte di raggiungere entro il 2030, e per i quali nel 2000 hanno anche lanciato il Global Compact per le aziende con dieci obiettivi nel campo dei diritti umani, del lavoro, dell’ambiente e della lotta alla corruzione.
Questi tre ambiti, definiti ovviamente con una terminologia diversa, sono parte integrante del metodo missionario dell’Allamano. Egli ha voluto infatti che i suoi missionari, fin dall’inizio, fossero in dialogo profondo con la gente, imparandone la lingua, conoscendone i costumi, entrando nel cuore della cultura. Allo stesso tempo, da subito ha promosso l’educazione, stimolato anche dal capo kikuyu Karoli, che a Tuthu, in Kenya, nel 1902, volle i missionari soprattutto per iniziare una scuola. E poi, il nostro fondatore, vedeva nel lavoro uno strumento per «elevare l’ambiente», migliorare la vita, vincere la povertà, rendere le persone soggetti della propria storia.
Di questi tre ambiti, quello che oggi mi tocca di più è il lavoro: guardo, infatti, alla situazione che stiamo vivendo e provo sgomento di fronte alla sua assurdità. Una multinazionale licenzia dipendenti tramite una videoconferenza in Zoom. Un’altra licenzia via mail. Non si contano poi quelle che spostano le loro fabbriche da un paese all’altro per pagare salari da fame ed essere libere da vincoli sindacali, ambientali, fiscali… A Cabo Delgado, in Mozambico, le multinazionali dell’energia e dei minerali preziosi, sostenute da politici corrotti, cacciano pescatori e cercatori di rubini locali per costruire la loro mega «città estrattiva», riducendo la popolazione locale alla fame e disperazione (e fomentando una guerra civile). Lo stesso avviene in Congo, dove, invece di pagare il giusto e le relative tasse, le multinazionali preferiscono finanziare bande armate che garantiscano coltan, legname e quanto altro a prezzi stracciati, lasciando la gente locale nella fame, nell’insicurezza e nell’asservimento più totale che non risparmia i bambini.
Da noi, i giovani faticano a trovare un lavoro stabile, e quello che trovano è sottopagato e frustrante. Allo stesso tempo nascono (e muoiono) pseudo cooperative – che di per sé dovrebbero curare anzitutto il benessere dei propri soci – all’unico scopo di manipolare manodopera a salari da fame, e magari coprire quello che in realtà è caporalato bello e buono. Altro che «eliminare tutte le forme di lavoro forzato e obbligatorio» o «assicurarsi di non essere, seppure indirettamente, complici negli abusi dei diritti umani», come dichiarano due degli obiettivi del Global Compact.
Aggiungi poi i dati offerti dal World inequality report 2022, pubblicati il 7 dicembre, con i quali si documenta che la diseguaglianza tra ricchi e poveri è aumentata ancora: il 50% della popolazione mondiale (i poveri) possiede il 2% della ricchezza totale; il 40% (la classe media) il 22%; il 10% (i ricchi) il 76% di tutto, con il 38% concentrato nelle mani dell’1% (i super ricchi). Questo è reso possibile e accelerato, tra l’altro, dalla pandemia del Covid-19, ma pure da «una concorrenza all’ultimo sangue tra le multinazionali, giocata anche attraverso il trasferimento della produzione in quei paesi dove la miseria è così acuta da indurre la gente a lavorare per salari miseri e senza alcuna tutela» (Francesco Gesualdi, Avvenire 8/12/2021).
Qualcuno dirà che questi non sono fatti che riguardano una rivista missionaria. Tutt’altro.
I nostri confratelli sono inseriti nelle zone più calde del mondo, interpellati quotidianamente dalla sofferenza della gente con cui condividono vita, sogni, dolori e speranze. Dall’Etiopia al Congo, dalle foreste dell’Amazzonia alle immense pianure della Mongolia, dalle periferie urbane di quattro continenti (Europa compresa) ai campi minati dell’Angola. Lì sono e lì rimangono, radicati in Colui che sulla croce, donando la sua vita, ha reso possibile un mondo nuovo che mette al centro l’uomo nella sua integralità.
Guardando Lui, in questo nuovo anno, diventiamo insieme inguaribili costruttori di pace.
Lavoro, globalizzazione e un salario senza dignità
La competizione esasperata tra multinazionali costringe a ridurre i prezzi di merci e servizi. Per mantenere i profitti, i datori di lavoro diminuiscono i salari. Ecco perché i lavoratori sono sempre più vittime del sistema. In Italia, si stima che gli occupati poveri siano 5,2 milioni.
Da qualche tempo anche in Italia si parla della necessità di istituire il salario minimo legale, una soglia salariale fissata per legge al di sotto della quale nessun rapporto di lavoro può scendere (1). L’esigenza nasce dalla constatazione che ormai anche da noi i rapporti di lavoro sono diventati una giungla dove ognuno fa ciò che vuole. O meglio dove i forti, ossia i datori di lavoro, possono imporre le condizioni che vogliono.
La cronaca riporta casi limite di operai pagati anche due euro l’ora come è stato scoperto presso la Venus Ark, un’impresa di confezioni di Prato, i cui titolari sono stati arrestati per sfruttamento nel settembre 2021. Ma senza arrivare ai casi di totale illegalità, più vicini alla schiavitù che allo sfruttamento, si possono prendere come riferimento le paghe dei rider(2) che, secondo una ricerca della Banca d’Italia del 2018, si aggirano attorno ai 6 euro l’ora.
Sempre meno tutele
In Italia, come nel resto d’Europa, il numero di lavoratori con un alto tasso di tutele si sta assottigliando sempre di più. A cominciare dal tipo di assunzione. Negli anni Ottanta del secolo scorso, l’assunzione abituale era a tempo indeterminato senza possibilità di licenziamento in assenza di giusta causa determinata dalla legge. Tutto ha cominciato a sgretolarsi con la globalizzazione, quel processo avviato negli anni Novanta teso a trasformare il mondo intero in un unico grande mercato nel quale merci e capitali possono spostarsi da una nazione all’altra senza vincoli o limitazioni di sorta. Un traguardo fortemente voluto dalle multinazionali che, per le dimensioni raggiunte, non potevano più accontentarsi di rimanere confinate nelle loro nazioni di origine.
La prima grande vittoria l’hanno ottenuta nel 1995 con l’istituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio, una sorta di super governo mondiale che regola i rapporti commerciali fra paesi tenendo conto dei soli interessi delle grandi imprese. Tuttavia, proprio quando la globalizzazione ha cominciato a diventare realtà, le multinazionali hanno scoperto che il grande mercato mondiale che sognavano non esiste. Semplicemente perché le persone capaci di comprare i loro prodotti non vanno oltre il 30-40% della popolazione mondiale. Tutti gli altri sono solo zavorra, persone che a causa della loro povertà non entrano mai in un supermercato.
Così, tante multinazionali (all’incirca un milione) si stanno contendendo un mercato, tutto sommato, limitato che non ha possibilità di espansione immediata. Ne è venuta fuori una concorrenza all’ultimo sangue giocata essenzialmente sulla diminuzione dei prezzi. Ma ogni volta che questi vengono ritoccati, bisogna trovare il modo di ridurre anche i costi di produzione, altrimenti i profitti soffrono. Ecco perché, nell’epoca della globalizzazione, il lavoro è finito sotto assedio. Finché le economie erano organizzate su base nazionale, la via classica di riduzione del costo del lavoro era l’automazione, ma, in un sistema totalmente aperto, le imprese hanno scoperto anche la via della delocalizzazione, il trasferimento delle attività produttive in paesi dove la povertà morde così tanto da rendere i lavoratori disponibili a svolgere le stesse mansioni dei loro colleghi europei o nordamericani per salari anche trenta volte più bassi.
Il lavoro secondo l’Ocse
Nessuno sa quanti posti di lavoro siano stati persi nei paesi di prima industrializzazione, a causa dei trasferimenti produttivi nei paesi a bassi salari. Ma è un fatto che molti settori continuano a perdere addetti. I recenti casi di Gkn e Whirpool in Italia lo testimoniano. Già nel 1994, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il centro studi dei paesi industrializzati incaricato di elaborare strategie economiche, suonò il campanello d’allarme con la pubblicazione del Jobs study, un rapporto sullo stato dell’occupazione nei paesi industrializzati. Fin dalle prime righe non faceva mistero della gravità del problema: «La disoccupazione è il fenomeno del nostro tempo che mette più paura. Ci sono 35 milioni di disoccupati nei paesi aderenti all’Ocse, mentre altri 15 hanno smesso di cercare lavoro oppure hanno accettato, contro la loro volontà, un lavoro part time. Almeno un terzo dei giovani è senza lavoro». Ma lungi dal voler rimettere in discussione la globalizzazione, la ricetta dell’Ocse si chiamava riforma del lavoro. Il ragionamento era semplice. I paesi di nuova industrializzazione attirano le imprese perché offrono costi di produzione più bassi. Dunque, se vuole fare tornare le imprese in casa propria, il Nord deve creare condizioni altrettanto allettanti. È la legge della competitività, bellezza. Ed ecco i suggerimenti: ridurre le tasse sui profitti, ridurre il peso per oneri sociali, rendere il lavoro più flessibile, ossia più disponibile ad adattarsi alle esigenze della produzione.
Lavoratori vulnerabili
Ancora oggi tutti i governi, siano essi di destra o di sinistra, usano queste misure come stella polare. E per farle digerire ai cittadini, la mettono sempre sul piano del meno peggio: «Preferite essere disoccupati che non guadagnano niente o sottoccupati che almeno 500 euro al mese li prendono?». E ponendoci sempre di fronte al dilemma della sopravvivenza, alla fine ottengono non solo il consenso dei cittadini, ma anche i loro ringraziamenti.
Secondo i calcoli dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil), i lavoratori «vulnerabili», ossia precari, malpagati e in situazioni a rischio, nel mondo sono quasi un miliardo e mezzo, il 42% di tutti gli occupati. La metà di loro sono definiti working poors, lavoratori poveri, perché percepiscono compensi al di sotto dei tre dollari al giorno, la soglia limite della povertà.
Lavoratori, ma poveri
La novità è che ora i working poors abitano anche fra noi. I loro tratti distintivi sono paghe basse, discontinuità lavorativa, scarse ore di lavoro. A seconda che si prenda in considerazione un solo criterio o la combinazione di più elementi, si ottengono risultati diversi sul numero dei working poors di casa nostra. Prendendo a riferimento la sola paga oraria, l’Istat preferisce parlare di sperequazione retributiva piuttosto che di povertà. Posta la mediana nazionale a 11,21 euro l’ora, l’Istat definisce a bassa paga chiunque riceva meno di 7,47 euro l’ora, che corrispondono a due terzi della media nazionale. Il Cnel stima che i lavoratori a bassa paga siano oltre tre milioni, il 17,9% di tutti i lavoratori dipendenti, principalmente lavoratori domestici, dell’agricoltura, delle costruzioni. Ma anche della piccola industria considerato che in settori come l’abbigliamento si applicano contratti collettivi di comodo che, per le categorie più basse, prevedono salari orari al di sotto dei 7 euro.
Un caso è rappresentato dal contratto 2015-2018 firmato fra Fedimprese e Snapel per le aziende façon (operanti per conto terzi). Un settore a prevalente presenza femminile che conferma come l’ingiustizia retributiva colpisca soprattutto le donne.
Se moltiplichiamo la paga oraria per le ore lavorate, otteniamo i compensi mensili e annuali che ci danno un’idea più compiuta delle disponibilità monetarie dei lavoratori e quindi della loro condizione economica. Ed è proprio il reddito annuale il parametro utilizzato per stabilire chi sono i lavoratori poveri, ricorrendo ancora una volta al confronto, piuttosto che ai concetti assoluti. Il valore preso a riferimento è il reddito familiare mediano che, in Italia, corrisponde a 25mila euro. Per convenzione, si definisce lavoratore povero chiunque guadagni meno del 60% di tale importo, ossia meno di 15mila euro l’anno. Quanti siano con esattezza è difficile dirlo. Secondo il Cnel (anno 2018) sono 5 milioni e 247mila, il 31% di tutti gli occupati.
Costituzione italiana e dichiarazione
Ora, però, il gioco al ribasso si sta mostrando pericoloso per il sistema stesso, e la politica, da sempre al servizio dell’economia, sta cercando un exit strategy. Ed ecco il salario minimo come via d’uscita, che però è vera soluzione solo se rispetta certi criteri. Altrimenti si trasforma in farsa come succede in molti paesi dove è fissato addirittura sotto la soglia della povertà assoluta. Valgano come esempio Haiti o il Burkina Faso dove esso si trova a meno di 50 centesimi di euro l’ora. E non va certo meglio in alcuni paesi dell’Unione europea, come la Romania dove è fissato a 2,8 euro l’ora o la Bulgaria dove si trova a 2 euro l’ora. Per contro in Germania è fissato a 9,50 euro l’ora, mentre in Lussemburgo varia dai 9,50 euro per gli apprendisti ai 15,27 per gli specializzati. Il punto è che il salario minimo non è un elemento neutro: a seconda di dove viene posizionato avvantaggia i lavoratori o le imprese, riduce le disuguaglianze o le acuisce, colma le lacune sociali o le aggrava. E poiché anche nelle democrazie, il potere è detenuto dalle classi agiate piuttosto che da quelle umili, difficilmente il salario minimo è definito secondo criteri di dignità e rispetto. Piuttosto è concepito come strumento di contenimento dell’esasperazione sociale. Prova ne sia che anche nell’Unione europea l’orientamento dominante è di fissarlo al 60% del salario mediano nazionale che è la linea di confine del lavoro in povertà.
L’alternativa è prendere sul serio l’articolo 36 della Costituzione italiana che recita: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Affermazione che fa il paio con l’articolo 23 della Dichiarazione universale dei Diritti umani, secondo il quale il lavoratore «ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale».
Il salario «vivibile»
È proprio a partire da questi principi che sta avanzando l’idea di un salario minimo inteso come salario vivibile. Un salario, cioè, che con 40 ore di lavoro settimanale permetta al singolo lavoratore e ai suoi familiari di far fronte ai bisogni di base individuati in cibo, alloggio, vestiario, sanità, energia, trasporti, istruzione. Un conteggio sicuramente non facile perché, oltre alla composizione del nucleo familiare, la vivibilità del salario dipende anche dal tipo di clima in cui si vive, dal livello degli affitti, dalla quantità di servizi gratuiti offerti dallo stato. Tuttavia, alcune organizzazioni, fra cui la Clean clothes campaign, rappresentata in Italia dalla «Campagna abiti puliti», stanno mettendo a punto dei metodi di calcolo di salario vivibile che, pur nella loro parzialità, offrono buoni livelli di affidabilità.
Per l’Italia i calcoli sono ancora in corso, ma si profilano cifre ben al di sopra degli attuali minimi contrattuali, almeno in alcuni settori. Del resto i contratti non sono il frutto di ciò che è giusto, ma di ciò che è possibile in base alla forza di cui si dispone. E in un momento in cui la forza sindacale è in calo a causa di alti tassi di disoccupazione e di una legislazione accomodante per le imprese, sarebbe estremamente utile per i sindacati poter contare su un salario minimo legale fissato secondo criteri di vivibilità. Non tutti, però, la pensano così, e anzi c’è chi interpreta l’intervento del legislatore come un’indebita intromissione in un ambito di esclusiva competenza sindacale. E forse hanno ragione, ma nella storia bisogna anche saper rivedere le proprie strategie in base al mutare dei rapporti di forza: dove non possono la morale e l’etica, sono i fallimenti a indicare la strada più giusta da intraprendere.
In un quartiere malfamato della capitale un giovane musicista ha un’idea geniale. Crea uno spazio per lottare contro il degrado dando lavoro ai giovani. Qui la plastica trova una seconda vita, e gli ortaggi fioriscono in bottiglie e scarpe vecchie.
Un bambino a torso nudo fa rotolare abilmente il cerchio della ruota di una bicicletta su un sentiero di spazzatura senza farlo cadere. Corre su un pianoro di rifiuti compatti, schivando taniche rotte, cumuli di stracci, galline e mucche che pascolano alla ricerca di scarti alimentari. Otto anni fa, questo luogo era per metà una palude e per l’altra un parco giochi per i bambini di Kwamokya (uno degli slum più grandi di Kampala, la capitale dell’Uganda). Il ghetto, come lo chiamano gli stessi abitanti del quartiere, si trova incastonato tra le colline della città, all’ombra di lussuosi grattacieli e supermarket, come l’Acacia Mall.
«Ogni volta che alziamo lo sguardo, ci ricordiamo da dove veniamo», commenta Patrick Mujuzi, il fondatore di Ghetto research lab (Grl). L’uomo indossa degli stivali di plastica bianchi sporchi di fango, e un cappello di lana rossa che non riesce a trattenere tutti i suoi dreadlocks. È musicista, produttore musicale e professore di storia e religione. Mi racconta come Kwamokya sia diventato famoso nel paese negli ultimi anni poiché vi è cresciuto Robert Kyagulanyi (conosciuto come Bobi Wine), 39 anni, musicista reggae e principale oppositore dell’attuale presidente Yoweri Museveni (al potere da 36 anni, oggi al sesto mandato) alle elezioni presidenziali del gennaio 2021. Prima delle votazioni, i caccia volavano bassi, vicini alle case, per spaventare i moltissimi sostenitori del «presidente del ghetto», e la polizia reprimeva violentemente qualsiasi manifestazione di protesta. A Kwamokya, attaccare volantini di Museveni sulle case, anche se si era oppositori, era diventata una strategia per proteggersi quando la polizia faceva irruzione.
Arriva la polizia
Nel gennaio 2021, la polizia è andata anche al Ghetto research lab per cercare i sostenitori di Bobi Wine. Patrick ricorda bene quella sera. Fuori dal cancello i poliziotti avevano trovato un ragazzo che fumava marijuana e quello era diventato il pretesto principale della loro visita. «Ci hanno fatti uscire tutti dalla sede e hanno chiesto chi fosse il capo. Mi hanno indicato. Noi eravamo una quindicina e loro il doppio, tutti armati di bastoni e pistole. Mi hanno strappato due dreadlocks e poi mi hanno picchiato, calciandomi tra le gambe e sulla testa. Poi mi hanno trascinato di peso fino alla sede della polizia. Sono rimasto tre giorni all’ospedale. Fortunatamente ho delle conoscenze politiche. Alcuni parlamentari hanno chiamato i poliziotti che avevano organizzato l’attacco e hanno ordinato loro di liberarmi immediatamente. Mi hanno rilasciato, ma per quei fatti nessuno è stato condannato».
L’impunità della polizia è una storia ben conosciuta agli abitanti del ghetto. Quasi ogni sera, i poliziotti si muovono in gruppo per il quartiere con il warrag (l’alcol) in una mano e la pistola nell’altra. Picchiano chiunque attraversi il loro cammino, a meno che non ricevano dei soldi. A quel punto ti ringraziano.
«Per fare una perquisizione dovrebbero avere un mandato. Io conosco la legge. Mica sono tutti stupidi nel ghetto, dicevo loro. Ma più parlavo, più mi picchiavano».
Dopo quell’episodio, una volta uscito dalla clinica, Patrick per sicurezza, non si è fatto vedere nel quartiere per qualche giorno.
Ora, il bambino a torso nudo corre con la ruota sotto il braccio per scampare al temporale torrenziale che si è aperto sopra di noi senza preavviso.
Ci dirigiamo verso la sede in bambù di Ghetto research lab, che sorge su un angolo della discarica. In questa zona, il governo non permette di costruire strutture permanenti per via della vicinanza alla linea dell’elettricità che arriva da Jinja, la città che sorge presso le sorgenti del fiume Nilo. Nonostante la terra appartenga al governo, Grl paga un affitto di 9 milioni di scellini ugandesi (2.108 euro) all’anno a un uomo che si ritiene il padrone della zona.
Il capannone in bambù è circondato da piante di papaya, banana, seneci nel pieno della fioritura che traboccano da scarpe bucate appese alle pareti e vecchi pneumatici, di misure diverse, impilati e pieni di terra. In questi ultimi crescono pomodori, fragole, spinaci.
All’interno della sede, l’ambiente è fresco e ventilato. Anatre e galline scorrazzano libere tra le macchine da cucito, che vengono utilizzate per insegnare il mestiere ai giovani del quartiere, e tra le gambe della gente. C’è chi, spaparanzato sulla poltrona, guarda un film sul televisore comune, chi lava i vestiti a mano. Per una decina di persone, Grl è diventata la propria casa.
Patrick si mette a preparare la colazione a base di cipolla, pomodori, avocado e zenzero per tutti. Nel 2008, una volta finita l’università, aveva deciso di raggiungere il fratello a Kwamokya per dargli una mano con lo studio di registrazione e ne era diventato il manager. «Attraverso quel lavoro, sono entrato in contatto con moltissime persone del quartiere e ho capito, tramite loro, cosa vuol dire vivere nel ghetto. Non riuscivo a fare pranzo perché sapevo che loro non avevano mangiato. Tanti ragazzi rubavano i cellulari, mentre le ragazze si prostituivano perché avevano fame. Erano guidati dalla disperazione. I miei amici mi davano pochissimi soldi per registrare le canzoni, molti erano senza lavoro. Piano piano ho capito che dovevo creare un posto dove poter connettere le idee e realizzare dei progetti per dare lavoro ai giovani. Così, mi sono messo a pensare, e nei rifiuti del ghetto ho visto la soluzione per dare il pranzo ai miei amici».
Imparare sbagliando
È il 2013 quando Patrick crea un gruppo con i ragazzi che frequentano lo studio di registrazione. Sono in 24. L’obiettivo è quello di promuovere la propria musica e, allo stesso tempo, trovare delle soluzioni per risolvere i problemi dello slum, come la disoccupazione giovanile e la degradazione ambientale, attraverso l’idea che «si impara facendo e sbagliando».
Per sfamare i suoi amici, Patrick decide inizialmente di occuparsi di agricoltura urbana. Lui sperimenta e, se le tecniche funzionano, le trasmette ai ragazzi. «Raccoglievamo buste di plastica e vecchi sacchi. Li riempivamo di terra e vi coltivavamo piante o fiori. Per esempio, riempivamo di terra un sacco di 50 kg e lo bucavamo su tutta la lungehzza per infilarvi semi di cipolle e pomodori. Facevano inoltre in modo che l’acqua bagnasse anche le piante che crescevano in fondo». Patrick e il gruppo realizzano concime naturale con gli scarti vegetali, saponi naturali e sistemi di acqua ponica (un sistema di coltivazione in assenza di terreno, unito all’allevamento dei pesci). Ben presto, alcuni giornali locali si interessano a quelle attività alternative che vengono portate avanti nel ghetto.
Grazie alla visibilità ricevuta, il gruppo partecipa a delle esibizioni artistiche ed esegue la pianificazione dei giardini urbani per alcuni privati. Ma l’indipendenza economica è ancora lontana perché le entrate non sono stabili.
Nel frattempo, Patrick organizza anche giornate di pulizia del ghetto. «All’inizio raccoglievamo la plastica e la bruciavamo perché, all’epoca, non avevamo altre idee. Ci mettevamo a bordo strada con le casse e i microfoni e raccontavamo alle persone che passavano quello che stavamo facendo. Ma poi ho capito che bruciare la plastica impattava lo strato d’ozono. Dovevamo trovarne un uso alternativo intelligente».
Bagni di plastica
Mentre si salta da una sponda a un’altra dei canali che scandiscono i vicoli angusti tra le case, non bisogna lasciarsi ingannare dalla solidità apparente del terreno. Nascosti sotto sottili strati di terra mista a plastiche varie, rimangono acquattate le cosiddette «flying toilets», i sacchetti di plastica in cui la gente chiude i propri bisogni, lasciati per strada, al riparo da occhi indiscreti. Patrick sa che l’igiene è una delle sfide più grandi di Kwamokya.
Dopo due anni, finalmente, il gruppo trova una soluzione economica e soddisfacente per ridurre l’inquinamento da plastica nel ghetto: i bottle bricks, mattonelle derivate dalla fusione delle bottiglie. «Mi ci è voluto del tempo per arrivarci. Dopo aver trovato l’idea giusta, ho scoperto che in Asia c’erano tante case costruite con i mattoni di plastica, ma dentro c’era la terra, non altra plastica». Intanto, nel 2016, Patrick e i suoi amici si registrano ufficialmente come Ghetto research lab, un’organizzazione non profit che ha l’obiettivo di formare i giovani su pratiche sostenibili, e aiutarli a diventare economicamente indipendenti. Poi, nel 2018, la Lupererial foundation, una fondazione gestita da un ricco indiano, proprietario di moltissimi lodges turistici in Uganda, dona 15 milioni di scellini ugandesi a Grl, raccolti tramite una «goat race» (gara di capre, tipica di certi gruppi etnici, ndr), per costruire due bagni pubblici. Vengono coinvolte decine di madri single che abitano nelle baracche attorno alla discarica. Le donne raccolgono e riempiono 35mila bottigliette con sacchetti di plastica. «Il governo voleva chiudere una scuola di Kwamokya perché non aveva le latrine per gli studenti. Grazie a questo progetto, quei bambini possono continuare a studiare».
Attualmente, però, la fusione delle bottiglie di plastica per la creazione delle mattonelle è in sospeso, per via dei fumi neri e tossici che vengono emanati nel processo. Il gruppo sta cercando di costruire delle macchine che non producano emissioni. A ogni modo, da ogni fallimento nascono nuove idee. Infatti Grl impara a realizzare le compost toilet da un’organizzazione americana, Give Love. «Avevano costruito delle compost toilet nella regione del Karamoja, nel Nord Est dell’Uganda, ma il progetto era fallito, perché la gente non le usava. Un amico che lavorava con loro me li ha fatti conoscere, convinto che, grazie a me, in Kwamokya quel progetto sarebbe decollato». Grl costruisce, quindi, delle compost toilet per un gruppo di 40 disabili di Kwamokya. «Per loro, andare in bagno era un grosso problema. Le latrine erano lontane ed era complicato raggiungerle. Ciascuno, adesso, ha un bagno in casa. Noi andiamo da loro una volta a settimana per raccogliere il loro «oro», e gli diamo il cesto pulito indietro. Dopo un anno, possiamo vendere il concime a cinquemila scellini al chilo».
Un’università dove sporcarsi le mani
La conversazione con Patrick viene interrotta per l’ennesima volta da un nuovo visitatore. Manu, un rifugiato congolese, saluta Patrick, che ricambia il saluto col pugno chiuso. Poi si allontana col prototipo di sacco solare che purifica l’acqua in quattro ore, ricavato da bottiglie di plastica. Al Grl, le idee e le sinergie sono molte e la voglia di offrire maggiori opportunità di lavoro ai giovani è il sogno più grande di Patrick. «Vorrei che il Grl diventasse un’università, ma non come quelle che conosciamo tutti. Vorrei che fosse un posto per tutti, anche per chi non ha soldi, nel quale sono necessarie solo la curiosità e la voglia di sporcarsi le mani. Un professore universitario, che poco tempo fa è morto di Covid, mi ha donato dieci ettari di terreno da utilizzare per dieci anni. Questo è il secondo anno che non lo uso. Il mio sogno è di implementare su scala maggiore quello che facciamo qui, creare un centro di ricerca più grande dove insegnare la pratica agli studenti che imparano solo la teoria, le “Muzungu things” (cose da bianchi, nda)».
La mamma di Patrick viene ad avvertirci che il pranzo è pronto. Si è sistemata con le pentole e i tavoli dentro il Grl perché l’affitto di un locale (tipo ristorante di strada) è troppo caro per lei. Nella pentola fumante sta cucinando il matoke, il frutto del platano, avvolto nelle sue foglie. Di fianco a lei, svetta una pianta di marijuana rigogliosa e il contrasto è immediato. Quasi leggendomi nella mente, Patrick risponde al mio sguardo divertito. «Sono un lavoratore sociale, ho a che fare con i giovani del ghetto. Questa è la ragione per cui fumo e per cui ho i dreadlocks. Solo diventando come loro, i giovani si avvicinano e ti ascoltano. Solo così si è in grado di cambiarli. Io spiego loro che si può lavorare anche fumando».
D’un tratto, vediamo i ragazzi accalcarsi attorno al televisore e commentare le scene con tono indignato. Il telegiornale mostra le immagini appena riprese dell’attentato contro il ministro del Lavoro e dei trasporti. Katumba è sopravvissuto all’attacco, ma gli assassini hanno ucciso la figlia e l’autista. Patrick scuote la testa amareggiato. «Sento che devo entrare in politica, questo sentimento cresce ogni giorno dentro di me. Tra qualche anno chiamerò i media per dire che sto arrivando. Bobi Wine mi ha ispirato, ma non è quella la mia motivazione principale. Io so che qui in Uganda entrare in politica equivale a morire. Non voglio abbandonare i miei figli (si riferisce ai giovani del centro, ndr). Ma mi stanno provocando. E sento che le persone voterebbero per me, anche se non sono un uomo ricco, ma la gente mi conosce. Se Bobi Wine non vince nei prossimi anni, allora quando questo presidente morirà, ci proverò».
Amarilli Varesio
Cassa integrazione, un’àncora di salvezza
testo di Francesco Gesualdi |
Il coronavirus ha travolto l’economia. Mai come in questo caso l’intervento della Cassa integrazione è stato ed è essenziale. Vediamo come funziona e cosa andrebbe fatto per migliorare lo strumento.
Riavvolgiamo il nastro della memoria. L’Italia scopre di essere stata raggiunta dal coronavirus lo scorso 21 febbraio. Quel giorno, un trentottenne di nome Mattia si presenta al pronto soccorso dell’ospedale di Codogno con febbre e sintomi respiratori. Di professione ricercatore, fino a pochi giorni prima valido maratoneta, ha cominciato con i classici disturbi influenzali che però si sono complicati con difficoltà respiratorie costringendolo al ricovero ospedaliero. Mattia è definito il paziente coronavirus numero uno, ma ulteriori ricerche appureranno poi che, in Lombardia, il virus circolava già dal dicembre 2019. Da uno, i casi diventano quattro, dieci, cento. Soltanto un mese dopo se ne contano già sessantamila, ma a rimarcare la gravità dell’epidemia sono i tremila ricoverati in terapia intensiva e i cinquemila morti che non hanno resistito all’infezione. Intanto l’11 marzo, l’Organizzazione mondiale della sanità dichiara lo stato di pandemia a livello mondiale e il governo italiano si convince che la priorità del paese è fermare il contagio con una chiusura totale. Con un decreto del 22 marzo, il presidente del Consiglio proibisce gli spostamenti fuori dal proprio comune, decreta la chiusura di tutte le scuole, ordina la sospensione di tutte le attività produttive industriali e commerciali non essenziali. Provvedimenti validi per tutto il territorio nazionale. È l’inizio del cosiddetto lockdown.
Le misure si dimostrano appropriate: pur con grande lentezza e dopo migliaia di morti, il contagio frena, ma i contraccolpi per le famiglie sono gravissimi. Su tutti i piani: relazionale, scolastico, economico.
In altri tempi, probabilmente, sarebbe stata la catastrofe sociale, ma dopo l’insoddisfazione popolare per l’austerità, questa volta la classe politica non pare avere dubbi sul da farsi. In particolare, pare aver chiaro che non può assumere come criterio guida il rigore finanziario: davanti a una simile emergenza fare nuovo debito è indispensabile. Tra il marzo e il luglio 2020, il governo Conte stanzia una cinquantina di miliardi di euro per misure d’emergenza a favore di famiglie ed imprese. Fra essi, 20 miliardi per potenziare il sistema della cassa integrazione. Con tale termine si intende l’insieme dei fondi attraverso i quali l’Inps, l’Istituto nazionale della previdenza sociale, garantisce la copertura salariale a tutti quei lavoratori occupati in imprese che navigano in cattive acque.
Nascita della cassa
La prima pietra della cassa integrazione venne posta in epoca fascista e non per iniziativa del legislatore, ma delle corporazioni sindacali. Del resto al tempo del fascismo potevano esistere solo i sindacati ammessi dal regime e a conferma di come essi operassero in nome e per conto del governo, era stato stabilito che i contratti stipulati con le controparti padronali avessero valore erga omnes, ossia nei confronti di tutti, come se fossero leggi. Nel 1940 l’Italia entrò in guerra e molti stabilimenti industriali si trovarono in grave difficoltà a causa del crollo del mercato e della scarsa reperibilità delle materie prime. Molti di loro funzionavano a singhiozzo riducendo drasticamente gli orari e quindi le paghe dei lavoratori. Per porvi rimedio, nel 1941 venne inserita una nuova tutela previdenziale nei contratti di lavoro dell’industria: la cassa integrazione guadagni finalizzata a compensare la paga dei lavoratori occupati nelle aziende incapaci di lavorare a pieno regime. E anche se lo scopo principale del nuovo istituto era quello di attenuare gli effetti negativi degli eventi bellici sui lavoratori, l’associazione degli industriali aveva accettato di buon grado la proposta per evitare l’esodo delle maestranze dalle industrie civili in crisi, verso quelle belliche ben più prospere. Con la caduta del fascismo, crollò anche l’impalcatura corporativa e, assieme a essa, i contratti di lavoro aventi valore di legge. Perciò nell’immediato dopoguerra vennero emanati vari provvedimenti legislativi tesi a non disperdere le più importanti tutele dei lavoratori incluse nei contratti di lavoro. Fra esse, anche la Cassa integrazione guadagni che venne recepita dalla legislazione con un decreto luogotenenziale del 9 novembre 1945.
Quanto dura
Inizialmente la tutela era accordata solo agli operai dipendenti da imprese industriali e prevedeva un’integrazione fino al 75% della retribuzione. A finanziarla sarebbero state le imprese con un contributo pari al 5% delle retribuzioni lorde corrisposte agli operai. Lo stato sarebbe intervenuto con un contributo di pari importo a quello versato dai datori di lavoro. Il fondo sarebbe stato istituito presso l’Inps e si sarebbe chiamato «Cassa per l’integrazione dei guadagni degli operai dell’industria». Inoltre era previsto che il pagamento dell’integrazione fosse effettuato dal datore di lavoro che in seguito sarebbe stato rimborsato dall’Inps tramite conguaglio fra prestazioni corrisposte e contributi complessivi dovuti.
Nel corso degli anni, la legge è tornata varie volte sull’argomento, ma sostanzialmente l’impostazione è rimasta la stessa. Di diverso oggi c’è che i settori coperti non sono solo quelli dell’industria, ma anche dell’edilizia e delle attività estrattive. Inoltre, è stata estesa anche agli impiegati. Quanto all’ammontare, copre fino all’80% del salario ed è fruibile per un massimo di 13 settimane continuative e in ogni caso non più di 52 settimane nello stesso biennio. Il tutto è finanziato con contributi delle aziende che, a seconda del settore, versano dall’1,7 al 4,7% delle retribuzioni lorde. Lo stato interviene con una sua parte.
Chi dentro, chi fuori
Uno dei limiti più seri della cassa integrazione, imbastita in epoca fascista e tramandata ai nostri giorni, è che copre una platea di lavoratori piuttosto ristretta: circa 4 milioni di salariati su un totale di 17 milioni. Ad esempio, esclude tutti gli addetti ai servizi e al commercio che oggi rappresentano la parte più ampia degli occupati.
La cosa più saggia per porre fine a questa anomalia sarebbe la creazione di una nuova cassa integrazione estesa a tutti i lavoratori. Ma invece di imboccare la strada della riforma, si è preferito procedere per aggiunte, e oggi il sistema della cassa integrazione è diventata una giungla di sigle e casse, nella quale è difficile districarsi.
Ad esempio, nel 1972 venne istituita la cassa integrazione per i dipendenti agricoli, ma solo quelli a tempo indeterminato. Inoltre, a partire dal 1996, la legge ha come riesumato l’esperienza fascista del 1941 consentendo a sindacati e associazioni padronali di creare, tramite contrattazione collettiva, dei fondi specifici con funzione di integrazione salariale.
Oggi di tali fondi ne esistono una decina. Fra i più importanti quello a favore dei lavoratori postali, del credito, del trasporto aereo. Sono denominati Fondi di solidarietà, sono costituiti presso l’Inps, hanno gestione autonoma e sono finanziati con contributi aziendali.
Ma esiste un altro fondo ancora, denominato Fis (Fondo di integrazione salariale), istituito dalla legge stessa nel 2015, a cui debbono partecipare, in forma praticamente obbligatoria, tutti i datori di lavoro che occupano mediamente più di cinque dipendenti, che non partecipano ad alcun fondo di solidarietà e che non rientrano nel campo di applicazione della cassa integrazione guadagni. Il Fondo è finanziato con contributi aziendali pari allo 0,65% delle retribuzioni lorde, ha obbligo di bilancio in pareggio e non può erogare prestazioni in carenza di disponibilità.
Purtroppo, le complicazioni non finiscono qui. Ne vanno citate almeno altre due.
Tipologie di cassa
La prima è collegata alle crisi e alle ristrutturazioni aziendali che negli ultimi decenni si sono fatte sempre più numerose a causa della tecnologia e della globalizzazione. Basti dire che solo negli anni della crisi, 2008 e 2009, il numero di imprese cessate ha sfiorato le 630 mila unità. Al novembre 2019, presso il ministero dello Sviluppo, erano ancora aperti 150 tavoli di trattative per trovare la soluzione alla crisi di altrettante aziende che avevano annunciato di voler chiudere.
Fin dai primi anni successivi alla Seconda guerra mondiale si è cominciato ad avvertire il problema di imprese costrette a ridimensionare il proprio personale a causa delle innovazioni tecnologiche e, già nel 1968, venne emanata una legge per garantire la continuità del salario, almeno per qualche tempo, ai lavoratori colpiti dalle ristrutturazioni. A tale scopo venne introdotta una nuova erogazione da parte dell’Inps, denominata Cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs). Erogazione che purtroppo nasceva con le stesse anomalie della sorella maggiore che, nel frattempo, era stata battezzata Cassa integrazione guadagni ordinaria (Cigo), tanto per tenerla distinta.
Ancora una volta l’anomalia principale era la copertura di un numero limitato di settori. Per cui tutte le casse istituite successivamente per garantire l’integrazione salariale anche ai lavoratori dei settori non industriali, sono nate con un doppio incarico. Da una parte, quello così detto ordinario, teso ad integrare il salario nei casi di riduzione di orario di lavoro dovuto a momentanee difficoltà di mercato. Dall’altra, quello così detto straordinario, finalizzato a garantire il salario nei casi di sospensione del lavoro per ristrutturazioni, ridimensionamenti o addirittura chiusure aziendali indotte da calcoli di mercato.
Per una cassa universale
La legge stabilisce limiti ben precisi ai tempi di assistenza, sia quelli forniti dalla Cassa integrazione ordinaria che da quella straordinaria. Ma talvolta tali tempi non sono sufficienti a risolvere le crisi. Perciò è data la possibilità alle regioni o al ministero del Lavoro, a seconda delle dimensioni dell’azienda in questione, di decretare un prolungamento del sostegno, in deroga a ciò che prevede la legge. La stessa procedura può essere utilizzata anche per permettere ad aziende normalmente escluse da qualsiasi tipo di sostegno, di richiedere assistenza. Tali trattamenti eccezionali assumono il nome di cassa integrazione guadagni in deroga e rappresentano il secondo elemento di complicazione.
Sotto questo titolo è andato anche il decreto legge del 17 marzo 2020 che ha stanziato cinque miliardi di euro per garantire nove settimane di cassa integrazione a tutti i lavoratori occupati in aziende che hanno dovuto chiudere a causa del coronavirus. E non è stato che il primo dei provvedimenti assunti. Il decreto legge di agosto 2020 è intervenuto ancora per prorogare la cassa.
Nei primi sette mesi del 2020, le ore autorizzate di cassa sono state 2,7 miliardi con un aumento dell’881% sull’intero anno precedente (dati Inps).
Ora che abbiamo capito quanto sia importante dare sicurezza a tutti i lavoratori, sarebbe bene approfittare dell’occasione per varare una riforma radicale del sistema, in modo da rendere la cassa più lineare, più razionale e soprattutto universale.
Francesco Gesualdi
Turismo e Covid-19, un’estate in salita
testo di Chiara Giovetti | foto simboliche del Kenya da AfMC |
La pandemia ha colpito molto duramente il settore del turismo e dei viaggi, in tutto il mondo. Mentre molti si chiedono se e come sarà possibile una ripresa e come cambierà il nostro modo di viaggiare, qualcuno insiste sull’importanza di usare questo momento per ripensare il turismo e renderlo più sostenibile.
Lo scorso giugno l’Organizzazione mondiale del Turismo (Unwto) ha pubblicato i dati sul turismo internazionale relativi ai mesi da gennaio ad aprile del 2020: rispetto all’anno precedente, i viaggi internazionali sono stati 180 milioni in meno, pari a un calo del 44 per cento in termini percentuali nel primo quadrimestre dell’anno.
Il dato più negativo si è registrato in aprile: meno 97 per cento. La perdita complessiva rispetto al 2019 negli introiti derivanti dal turismo – voce che rientra nelle esportazioni per il paese che riceve i turisti – è stata di 195 miliardi di dollari, con la regione Asia Pacifico capofila delle zone del pianeta più duramente colpite dalla diminuzione degli arrivi – meno 51 per cento -, seguita dall’Europa con il 44 per cento degli arrivi in meno, dal Medio Oriente (-40 per cento), dalle Americhe (-36 per cento) e dall’Africa (-35 per cento).
Alcuni timidi segnali di ripresa hanno cominciato a emergere a giugno, sempre a detta della Unwto, con l’avviarsi dell’emisfero Nord verso l’apice della stagione estiva e in seguito alla rimozione in diversi paesi delle limitazioni agli spostamenti e alla ripresa di voli internazionali@.
Occorrerà ovviamente aspettare la fine dell’anno per tracciare un quadro più solido, ma appare già piuttosto chiaro che si è interrotta l’espansione del settore turistico che da qualche anno sembrava inarrestabile – solo a gennaio le stime davano probabile una crescita del 3-4 per cento anche per il 2020 – e che secondo quanto riportato dal forum britannico World travel and tourism council (Wttc) aveva generato nel 2019 esportazioni per 1.700 miliardi di dollari e contribuito al Pil mondiale per il 10,3 per cento, pari a quasi novemila miliardi@.
La perdita di posti di lavoro
L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), agenzia delle Nazioni unite con sede a Ginevra, ha quantificato in 305 milioni i lavoratori di tutti i settori che potrebbero perdere il proprio impiego a causa della pandemia@.
Di questi, molti sono proprio nel settore turistico, dal quale nel 2019 dipendevano 330 milioni di posti di lavoro, uno ogni dieci a livello mondiale: per ogni lavoro creato direttamente, il turismo ne generava quasi uno e mezzo in modo indiretto o nell’indotto. I sotto settori dell’ospitalità e dei servizi di ristorazione da soli impiegavano 144 milioni di lavoratori a livello mondiale, di cui 44 milioni erano lavoratori in proprio.
A fornire una stima più precisa sul numero di posti di lavoro a rischio è ancora il Wttc, che ha identificato lo scorso giugno tre possibili scenari@ a seconda della durata dei divieti di spostamento:
nello scenario peggiore, che ipotizza restrizioni per i viaggi a corto, medio e lungo raggio prolungate rispettivamente fino a settembre, ottobre e novembre, gli impieghi persi nel settore del turismo e dei viaggi arriverebbero a 197,5 milioni, con una diminuzione del Pil mondiale di 5.543 miliardi e un calo del 73 per cento negli arrivi internazionali.
Lo scenario base, che anticipa di tre mesi la rimozione delle restrizioni, stima invece in 121 milioni i lavoratori che perderebbero il posto, con una riduzione del Pil mondiale pari a 3.435 miliardi di dollari, oltre la metà degli arrivi internazionali in meno e arrivi nazionali ridotti di un terzo.
Lo scenario migliore, ipotizzando spostamenti possibili con un ulteriore mese di anticipo rispetto allo scenario base, parla di una perdita negli impieghi pari a 98 milioni, con 2.686 miliardi di dollari di Pil mondiale in meno, arrivi internazionali diminuiti del 41 per cento e arrivi nazionali ridotti di un quarto.
La maggior parte delle aziende turistiche, si legge ancora nel rapporto dell’Oil, sono micro, piccole e medie imprese con meno di cinquanta dipendenti; un terzo della forza lavoro totale è attivo in aziende che hanno fra i 2 e i 9 dipendenti, e tre aziende su cinque, attive nell’ospitalità o nei servizi di ristorazione, sono microimprese o addirittura singoli lavoratori in proprio.
Pur avendo un ruolo fondamentale nel creare impiego, in particolare nei paesi a medio e basso reddito, le piccole imprese hanno spesso difficoltà ad accedere al credito, hanno scarse risorse per far fronte a eventuali perdite e faticano a beneficiare di eventuali incentivi se questi non sono mirati a esse e congegnati per raggiungerle.
La situazione nei Paesi meno sviluppati
All’inizio di luglio, i 47 paesi meno sviluppati secondo la classificazione delle Nazioni unite, contavano circa 280mila casi di Covid-19. Il paese più colpito era il Bangladesh, con oltre 155mila contagi e quasi 2mila decessi, mentre il Laos chiudeva la lista con 19 casi e nessuna vittima@.
Come riporta l’Enhanced integrated framework (Eif), programma di sviluppo globale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per i paesi meno sviluppati, il turismo rappresenta il 7 per cento delle esportazioni di questi stati.
Il ruolo del settore turistico è stato decisivo in passato per permettere a Capo Verde, Maldive e Samoa di migliorare le proprie condizioni al punto da uscire dal gruppo dei paesi meno sviluppati e unirsi a quelli con un grado di sviluppo più elevato.
L’Eif analizza la situazione zona per zona, e segnala per quanto riguarda il Pacifico che a complicare le cose si è aggiunto anche il ciclone Harold. Un paese come Vuanatu, in cui il turismo rappresenta un terzo del Pil, rischia di vedere la propria economia contrarsi del 13,5 per cento.
Quanto all’Africa, dove si trovano 33 dei 47 paesi presi in esame, il settore turistico e dei viaggi potrebbe perdere almeno 50 miliardi di dollari e almeno due milioni di posti di lavoro. La diminuzione dei viaggi aerei, inoltre, ha avuto un impatto anche sull’esportazione di prodotti, come i fiori recisi, che dipendono dallo spazio destinato al trasporto merci sui voli passeggeri.
Il Gambia, continua Eif, aveva perso di recente molti turisti a causa del fallimento del gruppo britannico Thomas Cook, mentre la Sierra Leone e l’Uganda stavano ancora affrontando le conseguenze dell’ebola. L’arrivo della pandemia in questi paesi già in difficoltà ha aggravato le cose.
Nel caso del Ruanda, dove il turismo – specialmente le attività legate al trekking e all’osservazione dei gorilla – rappresenta il 30 per cento dei ricavi delle esportazioni, il governo ha dovuto includere la chiusura dei parchi nazionali@ fra le misure adottate lo scorso marzo per limitare la diffusione del virus. I parchi hanno riaperto solo a metà giugno.
Prima adattarsi e poi ripartire
Aziende e operatori del settore turistico hanno dovuto immediatamente tentare di adattarsi alla nuova situazione e spesso lo hanno fatto riorientando su altri servizi le proprie competenze e attrezzature.
In Gambia, ad esempio, l’ente nazionale per il turismo ha collaborato con i gruppi di giovani che lavoravano come guide turistiche convertendoli in guide anti Covid e incaricandoli di percorrere i quartieri delle loro città per sensibilizzare i loro connazionali sui comportamenti da tenere per limitare la diffusione del contagio@.
A New York un’agenzia turistica gestita da un cittadino di origine cinese, Zhan Di, impegnata nel facilitare i viaggi dalla Cina agli Usa, ha utilizzato la propria piccola flotta di minibus turistici per il trasporto e la consegna dei prodotti venduti da Amazon@.
A Roma, Roberta d’Onofrio, che gestisce case vacanze attraverso la piattaforma Airbnb, ha proposto gli alloggi a persone in lavoro agile che avevano bisogno di un posto diverso sia dall’ufficio che dalla propria abitazione per lavorare durante i mesi delle restrizioni@.
Queste sono alcune delle strategie che hanno aiutato gli operatori del settore turistico a tenersi a galla, ma ora si pone la necessità di immaginare nuove configurazioni del modo di viaggiare e di alloggiare anche alla luce dei problemi causati dal turismo di massa che la pandemia ha messo in pausa ma che erano comunque lontani dall’essere risolti.
Solo danneggiati o anche danneggiatori?
Lo scorso maggio, riporta il giornalista Christopher de Bellaigue sul Guardian, la Unwto ha avvertito che la crisi legata al coronavirus rischia di danneggiare il settore al punto che i progressi verso una maggior sostenibilità dei flussi turistici potrebbero non solo arrestarsi ma fare passi indietro. Dall’inizio della pandemia, ricorda il giornalista inglese, le compagnie aeree e quelle che vendono crociere hanno fatto una massiccia attività di lobbying chiedendo ai propri governi di concedere loro sgravi fiscali e di sacrificare le misure di tutela dell’ambiente a vantaggio di una più rapida e massiccia ripresa della mobilità@.
I danni del turismo di massa o comunque non sostenibile erano noti: «Dal carburante e particolati vomitati dalle moto d’acqua ai pesticidi che inzuppano i campi da golf, le innocenti evasioni dei vacanzieri somigliano all’ennesima botta inferta a questo povero vecchio pianeta. Ci sono poi il cibo abbandonato in frigo e gli agenti chimici usati per lavare le lenzuola dopo ogni singola nottata passata da un ospite in uno nei 7 milioni di alloggi Airbnb e il carburante cancerogeno bruciato dalle navi da crociera».
E, ancora, le emissioni di anidride carbonica, che – secondo uno studio del Nature climate change, la sezione della rivista Nature dedicata al cambiamento climatico -, sono aumentate fino a rappresentare circa l’8 per cento dell’impronta di carbonio a livello mondiale. Il grosso è dovuto ai viaggi aerei.
La crescita del settore turistico prima della pandemia stava rapidamente controbilanciando e superando gli effetti degli sforzi di decarbonizzare le proprie tecnologie.
Molti osservatori e operatori stanno constatando che la pandemia ci ha costretti a immaginare un turismo più sostenibile anche perché più locale.
Paesi come il Kenya, il cui turismo è legato ai parchi naturali e agli animali selvatici dipendono in maniera quasi esclusiva da ricchi visitatori occidentali. Tali paesi hanno toccato con mano come l’interruzione dei viaggi metta a repentaglio non solo i posti di lavoro nel settore ma anche le aree protette e la loro fauna, che dagli introiti provenienti dal turismo dipendono per essere difesi dagli attacchi dei cacciatori di frodo e anche dal rischio che le riserve siano convertite in terreni agricoli.
In aprile, il ministro keniano del turismo Najib Balala invocava un cambio di paradigma che favorisca il turismo interno al Kenya e panafricano: «Non possiamo più permetterci di aspettare che arrivino i turisti internazionali. Se cominciamo ora, in cinque anni riusciremo a diventare resilienti rispetto a qualunque shock, compresi i disincentivi agli spostamenti imposti dai paesi occidentali».
Qualcuno, conclude de Bellaigue sul Guardian, ha già iniziato: il consiglio comunale di Barcellona, ad esempio, si è riappropriato di alcune parti della città prima abbandonate al turismo selvaggio, mentre il governatore di East Nusa Tenggara (Isole della Sonda), in Indonesia, aveva almeno tentato di limitare i flussi turistici alzando i prezzi per l’accesso al parco naturale dove vivono i draghi di Komodo, decimati dalla presenza massiccia di turisti che disturbava l’accoppiamento dei rettili, dalla caccia di frodo che privava gli animali della loro fonte di cibo e dal disboscamento che aveva distrutto il loro habitat.
La pressione delle compagnie che organizzano immersioni subacquee, degli hotel e dei ristoranti dell’area aveva spinto il governo a scavalcare la decisione del governatore e ripristinare l’accesso di massa al parco naturale. Ora la pandemia, in seguito alla quale entrare nell’area protetta è vietato a tutti tranne che alle comunità di pescatori che vivono nella zona, ha paradossalmente rimesso la palla al centro.
Chiara Giovetti
Lavoro o malattia: un dilemma inaccettabile
testo di Francesco Gesualdi |
Per anni dai camini e dai depositi dell’Ilva di Taranto sono uscite tonnellate di sostanze inquinanti e cancerogene: diossido di azoto, anidride solforosa, metalli pesanti, diossine. A parte le vicende economiche, politiche e giudiziarie attorno alla fabbrica, il vero conflitto è tra diritto al lavoro e diritto alla salute. Un conflitto che nelle acciaierie di Linz (Austria) a Duisburg (Germania) è stato risolto.
Il 7 novembre 2019, quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte andò a Taranto per approfondire il caso ex Ilva, si trovò difronte a due città: quella rappresentata dai lavoratori che chiedevano la difesa a oltranza dell’acciaieria e quello delle mamme che ne chiedevano la chiusura. Gli uni in nome del lavoro, le altre in nome della salute. Molte delle mamme venivano dal quartiere Tamburi, il rione sorto a ridosso della fabbrica Ilva in cui vivono 18mila persone. Il quartiere dove bisogna «pulire due tre volte al giorno se non vogliamo pattinare sulla polvere», spiega una di loro. «E nei giorni di vento la troviamo anche nel frigorifero». La polvere è quella del ferro e del carbone, in parte proveniente dai depositi, in parte dai camini, in ogni caso piena di sostanze che oltre a sporcare pavimenti e biancheria, fanno ammalare.
Emissioni e complicità
Negli anni prima che intervenisse la magistratura, le emissioni erano quantificate nell’ordine delle migliaia di tonnellate. I rilievi relativi al 2010 parlano di oltre 4mila tonnellate di polveri, 11 mila tonnellate di diossido di azoto, 11.300 tonnellate di anidride solforosa oltre a quantità variabili di metalli pesanti e diossine. Polveri respirate da persone con i balconi a pochi metri dal muro di cinta della fabbrica che durante i pasti avevano come panorama i camini fumiganti degli altiforni. Polveri che si mescolavano con l’aria che respiravano e con i cibi che inghiottivano procurando tumori in ogni parte del corpo.
Nell’agosto 2016 il Centro ambiente e salute, finanziato dalla regione Puglia, ha pubblicato
il rapporto conclusivo sulla morbosità e mortalità della popolazione residente a Taranto. Lo studio, condotto dal 1998 al 2014 su un totale di 321mila persone residenti nei comuni di Taranto, Massafra e Statte, ha accertato 36.580 decessi collegabili alle emissioni dell’ex Ilva. Del resto già lo studio epidemiologico commissionato dall’Istituto nazionale di sanità e pubblicato nel 2012, aveva accertato che, nei territori circostanti lo stabilimento Ilva, c’era un eccesso di tumori femminili del 20%; un eccesso di tumori maschili del 30% e, quel che è peggio, un aumento dell’incidenza di tumori infantili del 54% e un aumento della mortalità infantile dell’11% rispetto alla media regionale.
Si poteva evitare? Sembrerebbe di sì a giudicare dalle buone prassi attuate da altre acciaierie. Un esempio in tal senso viene dall’acciaieria di Linz in Austria, per molti versi comparabile a quella di Taranto: entrambe con la stessa capacità produttiva, entrambe con le stesse fasi produttive, entrambe a ridosso della città, entrambe gestite da privati. Quella di Taranto è stata trascinata in tribunale per disastro ambientale, quella di Linz è portata come esempio di compatibilità ambientale. E, alla fine, si scopre che, nel caso specifico della produzione di acciaio, le vere minacce per la salute e per l’ambiente sono avidità e negligenza, quest’ultima non solo da parte dei proprietari delle imprese, ma anche di chi ricopre ruoli istituzionali. Di sicuro a Taranto lo scempio si è compiuto con la complicità di molti: c’è chi ha inquinato, chi ha chiuso gli occhi, chi ha provato a nascondere la polvere sotto un tappeto ormai ridotto a brandelli, chi non ha deciso, chi ha scelto di non decidere, chi ha guardato solo agli interessi economici di breve termine. Per molti, troppi anni.
Passaggi di proprietà
La prima pietra dell’acciaieria di Taranto venne posata il 9 luglio 1960 da parte dell’Iri, cassaforte dello stato italiano, e partì subito male: per far posto allo stabilimento si estirparono migliaia di piante di olivo. Nel 1964, prima ancora che lo stabilimento fosse completato, l’ufficiale sanitario di Taranto, il medico Alessandro Leccese, aveva messo in guardia contro il possibile inquinamento da benzo(a)pirene, berillio, e molto altro. Ma ottenne solo ingiurie, isolamento e denunce da cui dovette difendersi in tribunale. Nel luglio 1971 la rivista «Taranto oggi domani» denunciò l’alto grado d’inquinamento atmosferico e marino, e localizzò nel quartiere Tamburi la massima concentrazione di sostanze velenose. In quel quartiere si svolsero molte inchieste, sollecitate dalla popolazione e dalle donne in particolare, che non ne potevano più della polvere nera che si infilava dappertutto. Tanto più che, negli anni a seguire, venne deciso il raddoppio della capacità produttiva. Scelta sciagurata non solo per la salute dei tarantini, ma anche per la stabilità finanziaria dello stabilimento, considerato che di lì a poco il mercato dell’acciaio avrebbe registrato una certa saturazione. Fatto sta che nel 1995 lo stato vendette lo stabilimento alla famiglia Riva che diede il colpo di grazia alla salute dei tarantini. Fra il 1997 e il 2003 molti lavoratori anziani sindacalizzati andarono in pensione, la fabbrica rimase senza vigilanza interna e la famiglia Riva ne approfittò per trascurare gli investimenti necessari al miglioramento ambientale e della sicurezza. E a dimostrazione delle sue responsabilità, in quegli stessi anni un’altra acciaieria, quella di Duisburg in Germania, investiva pesantemente per rispettare la normativa europea in materia ambientale che, nel frattempo, aveva cominciato a muovere i primi passi. Venivano interamente sostituiti i forni a coke, mentre l’intera lavorazione del carbone veniva allontanata dal centro abitato. Un’operazione che alla ThyssenKrupp costò circa ottocento milioni di euro, ma che mise in sicurezza cittadini e lavoratori. Così, mentre a Duisburg il problema del benzo(a)pirene – uno dei cancerogeni più temibili – veniva sostanzialmente risolto, a Taranto continuava a rimanere al di sopra dei limiti sanciti dalla legislazione europea. Complice la politica: nel 2010 Stefania Prestigiacomo, ministro dell’ambiente del governo Berlusconi, con un decreto legge, spostò dal 1999 al 2013 l’entrata in vigore del valore obiettivo di 1 ng/m3 (nanogrammi per metro cubo) per il benzo(a)pirene. Quanto alla regione Puglia, vietò il pascolo nelle zone contaminate ma non fece nulla per imporre all’azienda di ridurre le emissioni. Il toro per le corna venne infine preso dalla magistratura di Taranto che il 26 luglio 2012 ordinò il blocco della produzione e l’arresto di otto vertici aziendali tra cui Emilio Riva e il figlio Nicola. Ma il governo si mise di traverso e nel dicembre dello stesso anno emanò un decreto legge che autorizzava la prosecuzione della produzione. Così si mise in moto un braccio di ferro fra giudici e governo, una sorta di Kramer contro Kramer, dove la magistratura imponeva divieti a difesa della salute e il governo li smontava a difesa della produzione. Quanto alla famiglia Riva, vista la montagna di guai giudiziari accumulati, optò per il basso profilo e se da un parte accettò di consegnare, a parziale indennizzo, una parte del tesoretto che aveva rifugiato in Svizzera (1,2 miliardi), dall’altra dichiarò fallimento. Così lo stabilimento di Taranto passò sotto gestione commissariale con l’intento di proseguire la produzione nonostante le problematicità esistenti. Il tutto in attesa di trovare una realtà industriale disposta a rilevarlo. Nel 2017 la gara di assegnazione venne vinta da Arcelor Mittal che però di lì a poco si accorse di avere fatto male i conti, e nel novembre 2019, accampando come pretesto il mutato contesto legislativo, annunciava di voler recedere dal contratto. Di nuovo senza proprietario, attorno allo stabilimento si è riaperta la vecchia contesa: approfittare della vacanza gestionale per fermare tutto e mettere finalmente la città in sicurezza o trovare in fretta un nuovo proprietario per mandare avanti la produzione? In altre parole, privilegiare la salute o il lavoro?
Prevenire, vigilare, rimediare
Il dilemma è talmente assurdo e scandaloso che va rifiutato. Il lavoro è un diritto perché serve per vivere, ma se porta morte che lavoro è? In altri termini non può esistere lavoro, se non esiste salute. Per cui è compito della Repubblica creare le condizioni affinché non si ponga mai, nel paese, questo tipo di contrapposizione. E deve farlo attraverso tre strategie: prevenire, vigilare, rimediare.
Prevenire significa vietare la produzione di beni dannosi sia per chi li produce che per chi li usa. Tipico l’esempio dell’amianto che ha provocato migliaia di casi di tumore al polmone, sia nei lavoratori che nei cittadini. Molti altri prodotti andrebbero rimessi in discussione. Valgano come esempio i pesticidi e le sementi geneticamente modificate di cui non conosciamo tutte le ripercussioni sugli ecosistemi, né gli effetti nel lungo periodo. È responsabilità di ogni collettività fissare il limite di rischio accettabile e, nel dubbio, utilizzare come criterio il principio di precauzione.
Vigilare significa verificare che le aziende attuino tutte le misure che servono per portare le emissioni legate ai cicli produttivi al di sotto del limite di dannosità per la collettività e garantire ai lavoratori condizioni di sicurezza. E non importa se ciò comporta un aumento dei prezzi finali. La salute e la tutela ambientale vanno considerati costi da includere nei prezzi finali al pari dell’energia o delle materie prime. Se lo avessimo fatto da sempre, forse avremmo evitato un consumismo sgangherato che ha portato a fenomeni di grave degrado del pianeta.
Rimediare significa correggere le situazioni malsane, tutelando al tempo stesso la salute e i posti di lavoro. Ogni volta con strategie appropriate alla situazione. Rispetto a Taranto, per esempio, la prima domanda da porsi è se la produzione di acciaio va mantenuta o abbandonata tenendo conto della sostenibilità economica e ambientale del paese.
Lo stato e i lavoratori
Ci serve produrre acciaio? E in che quantità? Per farne cosa? A quale prezzo rispetto ai cambiamenti climatici? E se la conclusione dovesse essere affermativa, dovremmo comunque accettare che prima di fare ripartire la produzione, lo stabilimento sia rimesso a norma. Con spese a carico di chiunque lo rilevi. E se dovesse succedere che nessun privato si fa avanti, lo dovrebbe fare lo stato, nazionalizzando lo stabilimento. Il tutto senza fare subire contraccolpi alle maestranze che, durante il periodo di chiusura, dovrebbero comunque ricevere uno stipendio. Che non significa automaticamente una cassa integrazione in cambio di niente, ma in cambio di lavori socialmente utili. Se invece dovessimo giungere alla conclusione che lo stabilimento di Taranto non ci serve più, allora deve essere creata occupazione alternativa per tutti i lavoratori coinvolti. Nell’immediato, tramite il soddisfacimento dei bisogni ambientali e sociali, primo fra tutti la bonifica del territorio e dei corsi d’acqua. Più in prospettiva, tramite la produzione di beni e servizi che possono generare reddito utilizzando correttamente ciò che il territorio è in grado di mettere a disposizione sotto il profilo naturale, culturale, professionale. Con un forte ruolo da parte dello stato, che solo per motivi ideologici lo si vuole escluso dall’attività produttiva ed economica. Però, quando si dice stato, si dice comunità. È tempo che la comunità torni protagonista della propria economia.