Giugno, per noi mese della Consolata, si caratterizza per avere tre «giornate mondiali» dedicate ai bambini: il 4 giugno, quella dedicata all’infanzia vittima di violenza, il 12 giugno contro il lavoro minorile e il 16 giugno, la giornata che ricorda i bambini africani. Tutto questo nella cornice di altre giornate mondiali significative: per l’ambiente il 5 giugno, per gli oceani l’8 giugno, quella contro la desertificazione il 17 giugno, poi contro la violenza sessuale nei conflitti il 19 giugno, e la giornata mondiale del rifugiato il 20. Temi tutti di drammatica attualità, come dimostra la terribile guerra in Ucraina e il sempre più grave degrado dell’ambiente di cui è segno, per esempio, la siccità che attanaglia il nostro e tanti altri paesi causando una estesa crisi alimentare.
Fin qui, sembrerebbe non esserci niente di nuovo. Ogni giorno, da mesi ormai, prima per la pandemia, ora per la guerra, siamo martellati da così tante brutte notizie che il dramma dei bambini abusati e sfruttatti passa in secondo piano. Ma non possiamo accettare di vedere solo quanto è lo show del momento. Occorre reagire e rileggere la realtà con occhi nuovi e ascoltarla «con l’orecchio del cuore», come ci diceva papa Francesco per la giornata delle comunicazioni sociali.
Oggi si parla molto di bambini, ma si cerca davvero il loro «bene essere»? Faccio alcuni esempi di realtà che mi interrogano o lasciano perplesso: la polemica sull’utero in affitto da rendere illegale a livello mondiale; le reazioni caustiche contro chi si è permesso di stanziare fondi pubblici per evitare che delle donne siano costrette ad abortire. L’accettazione passiva della denatalità che colpisce drasticamente il nostro paese e la riluttanza della nostra classe dirigente a varare una vera politica di sostegno alle famiglie. Che dire delle polemiche sul doppio cognome e sulla registrazione dei figli di coppie dello stesso sesso? E dell’attaccamento morboso a cani e gatti, trattati come bambini, spesso senza accettarne la vera natura di animali con i loro ritmi e anche la loro libertà? Esempi discutibili, naturalmente, ma dov’è l’interesse e l’amore vero per i bambini?
Due delle giornate che celebriamo questo mese, si focalizzano su due aspetti importanti della vita dei bambini di tutto il mondo: la violenza e lo sfruttamento nel lavoro. Avrei voluto far scrivere questo editoriale a padre Ramón Lázaro che in Messico, ogni giorno, ha a che fare con la violenza sui piccoli: dall’abuso sessuale all’abbandono, dall’uccisione di uno dei genitori all’asservimento lavorativo, dalla mancanza di educazione scolastica alla carenza di cure sanitarie, dai matrimoni combinati in tenera età alla pedofilia. Pesanti i dati sulla diffusione e degenerazione si quest’ultima offerti dall’Associazione Meter Onlus di don Fortunato Di Noto, una depravazione in crescita sui social – sempre più estesa anche agli adolescenti – che travolge anche bambini nei primi anni di vita, abusati perfino dai loro stessi genitori.
Assieme a padre Ramón, molti gli altri missionari e missionarie danno la vita per offrire nuova dignità e amore ai bambini. Penso ad esempio a fratel Domenico Bugatti, 75enne, tornato al centro Gajien per i bambini a Isiro, nel Nord del Congo Rd, zona nella quale i bambini sono usati nelle miniere di coltan e altri minerali, controllate da bande armate in combutta con faccendieri senza scrupoli. Penso al coraggio di padre Franco Sordella nel ricostruire la Faraja house (la casa della Consolazione) in Tanzania, dove non gli mancano certo gli ospiti (vedi a pag. 5). Non posso dimenticare la Familia ya ufariji di Nairobi, dove dal 1994 si accolgono ragazzi di strada. E l’impegno di questi mesi dei nostri confratelli in Polonia per i profughi dell’Ucraina, tra cui tantissimi bambini. Diciamo grazie a questi missionari e ai tanti altri che, senza rumore, stanno facendo meraviglie di amore.
Non c’è niente di più bello al mondo che restituire il sorriso a un bambino e fargli sperimentare la bellezza di essere amato davvero. Non potrò mai dimenticare il sorriso di quella bimba di Loyangallani, in Kenya, quando d’impeto è riuscita a leggere una parola nuova sulla lavagna nella sua classe di esclusi dalla scuola regolare. Apparentemente una cosa da niente, ma per lei era un segno di riscatto e la promessa di una nuova dignità, senza dover essere data sposa a soli dodici anni.
La violenza sui piccoli e lo sfruttamento dei bambini sono purtroppo una realtà drammatica, alimentata anche dal nostro stile di vita, dalla smaterializzazione dei fatti operata dai social, per cui tutto, anche la sofferenza, diventa spettacolo. Le giornate che andremo a celebrare non sono la soluzione a questi problemi, ma certamente diventano l’occasione per conoscere, approfondire, riflettere e vincere la nostra apatia e indifferenza cambiando mentalità e mettendoci all’opera.
Gigi Anataloni
Un rifiuto che suona
testo e foto di Valentina Tamborra |
Una distesa di immondizie tristemente famosa. Donne e bambini che ci fanno il proprio luogo di lavoro. E poi la colla da sniffare, per superare fame e fatica, e il degrado ambientale e sociale. Ma in molti cercano di cambiare questa realtà.
Siamo a Dandora, una località a circa 10 chilometri da Nairobi, capitale del Kenya.
Qui sorge una discarica che «vanta» alcuni infelici primati. Non solo è la pattumiera più grande di tutta l’Africa orientale, ma è stata anche definita da molte organizzazioni il luogo più inquinato del pianeta.
L’immensa discarica a cielo aperto è il luogo dove ogni giorno confluiscono circa duemila tonnellate di rifiuti provenienti dalla capitale.
Uno scenario dantesco: cumuli di rifiuti che formano vere e proprie montagne, vapori dall’odore nauseabondo che sporcano l’aria azzurra che, improvvisamente, ad altezza occhi, diventa nebbiosa.
Sullo sfondo, la città di Nairobi si staglia con i suoi grattacieli e i luoghi del business, che sembrano quanto di più lontano possa esserci dall’inferno che caratterizza luoghi come la discarica e le baraccopoli attigue.
Attorno alla discarica di Dandora, infatti, sono sorti molti slum – baraccopoli appunto – fra cui la famosa Korogocho. Per entrare in questo luogo abbiamo bisogno di una guida e di protezione: quattro uomini ci scortano sicuri attraverso corridoi di rifiuti accatastati gli uni sopra gli altri.
All’interno di Dandora è purtroppo di casa la violenza. Sono luoghi, questi, dove persone disperate farebbero qualsiasi cosa pur di sopravvivere e non è saggio avventurarsi da soli da queste parti.
Persino il taxi che ci ha accompagnati vicino all’entrata della discarica non ha voluto procedere oltre.
La contesa dei rifiuti
Camminando fra i rifiuti non è raro assistere a scene di scontri fra esseri umani e animali. Gli uccelli infatti, enormi marabù simili ad avvoltoi, non di rado si avvicinano ai bambini strappando loro di mano quel poco di cibo trovato scavando nella spazzatura.
La discarica di Dandora, che era già stata dichiarata al limite della capienza nei primi anni 2000, è ormai fuori controllo: i rifiuti ricoprono un dislivello di circa 200 metri.
Nel 2006 era sembrato realizzabile un progetto di bonifica, che però poi è naufragato a causa dell’utilizzo poco chiaro dei fondi stanziati per l’operazione.
Ogni giorno qui a Dandora migliaia di persone lavorano fra i cumuli di immondizia, selezionando il materiale da rivendere, abiti o cibo ancora commestibile. Per molti abitanti degli slum, dunque, la discarica, seppur tossica e pericolosa, resta l’unica forma di guadagno e sostentamento. Per questo motivo, alcune organizzazioni che si battono per il trasferimento della discarica (come, ad esempio, i Missionari comboniani) pongono al governo il problema di garantire che questa fonte di risorse non venga del tutto preclusa alle popolazioni locali.
Queste persone, in larga parte, sono bambini. Poveri, senza cibo né scolarizzazione, si trovano ben presto legati a doppio filo a questo luogo terribile.
Nel loro sangue sono state rinvenute forti concentrazioni di mercurio, cadmio e piombo e i problemi respiratori sono all’ordine del giorno. Respirare i fumi tossici della putrefazione, infatti, causa danni polmonari irreversibili.
Chokora
C’è un nomignolo che definisce i bimbi di strada, coloro i quali nella spazzatura vivono, o meglio sopravvivono: chokora. Si legge «ciokorà» e in lingua kiswahili significa monello, bambino fastidioso, ma anche rifiuto. In qualche modo, dunque, il destino di questi bimbi viene cucito su di loro, finisce per identificarli.
I bambini vengono dalle vicine baraccopoli, Canaan, Shashamane, Korogocho, e qui passano la giornata cercando di sopravvivere. Si riuniscono in gruppi, spesso sono scappati di casa perché non avevano abbastanza cibo e la vita di strada sembrava un’alternativa allettante in confronto al morire di stenti in una capanna di lamiera.
Nairobi e i suoi slum sono tristemente noti per il fenomeno dei minorenni abbandonati a se stessi, anche se molto piccoli. Nonostante gli sforzi di centinaia di organizzazioni umanitarie il loro numero è aumentato negli ultimi 25 anni.
Una piaga che spesso colpisce questi minori è la tossicodipendenza: già a 6 o 7 anni, infatti, iniziano a sniffare colla. La comprano per pochi spiccioli, soldi guadagnati vendendo ciò che nella spazzatura è ancora utilizzabile. Sniffare aiuta a non sentire la fame, la sete, il freddo, la solitudine.
Se ne vedono ovunque di bimbi definiti «zombie»: l’andatura barcollante, gli occhi vitrei con lo sguardo perso nel vuoto. Spesso si riuniscono in gruppi e diventano purtroppo estremamente pericolosi. Rapinano, feriscono, attaccano, perché questa è l’unica modalità di vita che è stato concesso loro di imparare.
Musica di strada
L’Ong internazionale Amref health Africa opera nella discarica di Dandora per il recupero dell’infanzia. Qui, i suoi operatori umanitari, portano avanti l’iniziativa «Out of the streets».
Il progetto consiste nel recupero dei bambini di strada attraverso lo strumento della musica.
A scendere sul campo e impegnarsi nel lavoro di sostegno e recupero, spesso sono ex ragazzi di strada, proprio come Samuel che ci accompagna nei vicoli dello slum e della discarica.
La prima cosa da fare quando si giunge in luoghi come questi, è guadagnare la fiducia dei bambini che, abituati a ogni sorta di abuso e violenze, diffidano dall’essere avvicinati.
Una colazione insieme, un po’ di tè e chapati (una sorta di pane azzimo tradizionale), una chiacchiera, la promessa di una doccia calda e vestiti puliti. Qualcuno accetta, i più piccoli soprattutto, e decide di seguire Samuel al centro Amref. Qualcun altro, più diffidente, resta a osservare. Il mezzo migliore per far sì che i bimbi continuino ad accettare l’aiuto degli operatori sociali è il passaparola. Saranno infatti i bambini accolti nei centri Amref a essere in qualche modo portavoce della possibilità di riscatto.
Dal primo contatto, dunque, inizia il circolo virtuoso che potrà portare questi ragazzi al recupero di se stessi, alla disintossicazione e alla scoperta della bellezza e di un’alternativa di vita possibile attraverso la scuola, la cultura, la musica.
Musica e canto infatti sono dappertutto nel contesto sociale kenyano, gli stessi chokorà hanno imparato a comporre canzoni e filastrocche con questo loro nome, cercando di farne così una sorta di bandiera che determini un’appartenenza.
All’interno dei centri Amref, i bambini tornano a scoprire il proprio valore e quello di un pezzo di latta, un barattolo, un contenitore, che da immondizia diventa tamburo. Pezzi di plastica con cui costruire un organo e ancora maracas fatte con vecchie bombolette di spray per l’ambiente. Tramite workshop e lezioni dedicate, costruiscono strumenti e li suonano. In questo modo ritrovano – almeno in parte – quel mondo spensierato che era stato loro tolto.
Il riciclo, il riutilizzo, il dare valore a ciò che prima era destinato a scomparire fra le pieghe della società, diventa quindi iconico, è il riscatto per questi ragazzi privati di un diritto fondamentale: l’infanzia.
Una madre
In una baracca grande come uno sgabuzzino, vive la mamma di due dei bimbi aiutati da Amref. I bimbi vanno a scuola grazie al sostegno della Ong.
Un’unica stanza dove dormire, mangiare, studiare. Nessun materasso, solo qualche coperta fra il corpo e il pavimento e come sedie, dei vecchi fusti di vernice. Eppure, in mezzo a questo, notiamo proprio vicino alla finestra un quaderno aperto: la grafia è sottile e fitta. Chiediamo cosa sia: «Preghiere, inni al Signore», ci risponde la donna. Ci racconta che ogni giorno ringrazia Dio per la ricchezza che possiede: i suoi figli, la possibilità per loro di andare a scuola e avere forse un futuro migliore e un tetto sopra la testa. Per essere felice, ci dice, le basta sapere che oggi sta un po’ meglio di ieri e che esiste un futuro possibile.
In una baracca, in mezzo alla polvere, nel caldo soffocante delle baraccopoli di Nairobi, si cela la bellezza che nasce dalla speranza e dalla fede.
Valentina Tamborra
Il progetto
Dal 2001, il progetto «Out of the streets» di Amref healt Africa ha raggiunto circa 26mila minori in stato di vulnerabilità. Nel periodo 2016-2019, 300 minori sono stati sostenuti ogni anno. In questo triennio, infatti, ogni anno Amref ha accolto una media di cento tra ragazzi e ragazze all’interno del centro polifunzionale diurno di Mutuini. Duecento tra ragazzi e ragazze, all’anno, sono stati invece appoggiati nella formazione (istruzione primaria e secondaria e training vocazionali, per capire cosa vorrebbero fare).
Ma non solo di bimbi di strada ci si occupa a Mutuini, all’interno del centro che visitiamo, l’Amref child development centre Dagoretti.
Qui infatti sono presenti anche diverse realtà che hanno come focus la salute e l’emancipazione femminile.
Le donne imparano a leggere, a far di conto, a preservare la propria salute, ad esempio seguendo corsi di educazione sessuale. In Kenya, infatti, l’Hiv è una realtà tristemente estesa.
Attraverso corsi e workshop si parla di eguaglianza di genere, di autonomia.
Un’altra delle attività portate avanti è l’inserimento nel mondo lavorativo e la creazione di opportunità legate ad esso.
L’approccio di questa organizzazione umanitaria resta quello di rafforzare le reti comunitarie esistenti, siano esse previste da una direttiva del governo o siano strutture informali costruite dalle comunità che popolano una determinata zona.
Dalle discariche al palcoscenico di un teatro, dal raccogliere pezzi di vetro e latta per rivenderli, a imparare l’uso di uno strumento musicale e appassionarsi a qualcosa che, forse, li aiuterà ad avere un futuro.
Una seconda opportunità di vita, non più rifiuti dunque, ma esseri umani parte del tessuto sociale.
Caro padre,
le allego il testo, rimaneggiato, che ho scritto su Iqbal Masih ed è stato pubblicato da Avvenire l’anno scorso in occasione dei 25 anni dal suo martirio (il 16 aprile 1995). Lo ripropongo a voi come stimolo al contributo della Chiesa nella mobilitazione contro lo sfruttamento del lavoro minorile in questo anno 2021 che l’Onu dedica all’eliminazione del lavoro minorile nel mondo. Grazie per l’attenzione e per la rivista: una lettura alternativa sulle criticità e speranze mondiali, apprezzata più di altre dal sottoscritto di cultura laica e di orientamento comunista. Cordiali saluti
Giovanni Seclì Lecce, 30/04/2021
Volentieri riporto qui quanto scritto dal sig. Giovanni. La realtà del lavoro minorile – a cui abbiamo dedicato «Cooperando» del mese di aprile – è ancora una piaga aperta. Come Iqbal, altri ragazzi e ragazze di quel paese, e non solo, hanno pagato (e continuano a pagare) con la vita o la prigione, il diritto a un’infanzia senza lavoro schiavo e senza matrimoni precoci, liberi di andare a scuola per una buona educazione e di celebrare la loro fede senza paura di persecuzioni. (Titoletti e note sono nostri).
Agnello pasquale
Nel giorno di Pasqua del 1995 veniva ucciso in Pakistan Iqbal Masih di soli 12 anni. Già era diventato testimone-simbolo mondiale (quando nel 1994 aveva ricevuto il Reebook Human rights award a Boston negli Usa, ndr) della lotta contro lo sfruttamento schiavistico di centinaia di milioni di bambini solo in Asia. La sua uccisione lo ha trasformato in martire: sia per il suo impegno sociale a favore dei bambini dall’«infanzia negata» e contro lo sfruttamento dei lavoratori, sia per il suo essere un cattolico della Chiesa caldea.
Sicuramente la sua appartenenza alal Chiesa, legata alla sua educazione familiare, professata in situazione di emarginazione socioreligiosa (la comunità cristiana è soprattutto composta da persone delle caste inferiori che fanno i lavori più umili), aveva alimentato e sorretto la sua indignazione contro le ingiustizie e la sua eroica lotta per l’emancipazione umana di bambini strumenti-schiavi della produzione. Probabilmente la sua testimonianza cristiana era stata una concausa delle dinamiche che avevano favorito l’assassinio.
In quel giorno di Pasqua di 26 anni fa (16 aprile 1995) mentre in bicicletta andava a messa – così si tramanda (putroppo non esiste una versione coerente di quanto è successo, ndr) – Iqbal è stato strappato dalla terra per risorgere nella memoria e nel cuore di miliardi di esseri umani, rigenerando in essi il messaggio universale di liberazione umana.
Schiavo a 5 anni
La sua condizione di vita sfruttata – a partire dai 5 anni in una fabbrica di mattoni, per proseguire in una di tappeti, venduto dalla famiglia indigente (per un debito di poco più di 7 dollari, ndr) – si era trasformata a 10 anni in denuncia e in testimonianza, smuovendo l’opinione pubblica internazionale e favorendo alcuni provvedimenti politici nel Pakistan (e non solo) di limitazione delle pesanti condizioni di lavoro minorile, a danno soprattutto di schiavi-bambini, secondo una prassi secolare perpetrata da proprietari di laboratori tessili di tappeti e di altri settori di lavoro ancor più duro.
Intolleranza religiosa
Il conseguente risentimento nei suoi confronti probabilmente era stato accentuato dal clima di intolleranza religiosa prevalente in Pakistan (soprattutto con l’introduzione della Sharja nel 1991) verso la minoranza cristiana, presente in particolare nella regione del Punjab; situazione purtroppo perdurante anche nel XXI sec., con il rigurgito di fondamentalismi, risposta perversa anche alla violenta ingerenza politica e militare perpetrata dall’Occidente in diverse regioni soprattutto del terzo mondo.
Testimone e martire?
Il suo martirio si inquadra all’interno di tale contesto; per questo Iqbal Masih va riproposto come testimone di giustizia, di solidarietà, di costruzione di una comunità fraterna, di attuazione del messaggio evangelico all’interno della sua nazione, dalle perduranti drammatiche criticità sociali: miseria e sfruttamento, mancanza dei diritti elementari all’istruzione e alla sanità, conflitti etnici, intolleranza religiosa a danno della minoranza cristiana – riesplosa nella persecuzione di Asia Bibi, per fortuna sottratta alla pena di morte grazie all’impegno internazionale e anche alla resipiscenza della giustizia del Pakistan.
Appello alla Chiesa
Per tali motivi, in occasione dei 25 anni (oggi 26, ndr) del martirio di Iqbal Masih, la Chiesa cattolica deve riproporne un forte e ricco ricordo, rivivificando il suo messaggio: un’onda lunga figlia di una vita breve ma senza tempo. Monito e modello insieme per un cammino di giustizia sociale, da Masih testimoniato in modo coraggioso, consapevole e insieme spontaneo e «ingenuo».
Iqbal Masih aveva compiuto ad appena dodici anni il «miracolo» di trasformare leggi e pratiche ataviche, cause del male sociale dello sfruttamento schiavistico minorile, liberando, almeno in parte, milioni di bambini da una condizione di miseria umana e materiale. Una missione di testimonianza del Vangelo, riproposto anche da lui quale strumento di conversione e di liberazione umana; un messaggio vissuto, importante e profetico non meno di quello di altri martiri, immolati per la confessione dei valori umani e cristiani.
Per la comunità cristiana del Pakistan, dalla tradizione plurisecolare e dalla presenza non esigua, seppur minoritaria, la riscoperta e la valorizzazione del messaggio di Iqbal Masih potrebbe essere uno strumento di promozione di forti valori sociali da essa testimoniati e rappresentare anche un percorso di dialogo tra fedi e culture in quella nazione e civiltà antica, nobile, ma anche lacerata.
Carissimo Direttore,
siamo la comunità delle monache carmelitane scalze di Legnano (Mi) che riceve regolarmente la vostra rivista MC. Complimenti per i contenuti che toccano sempre realtà snobbate dagli altri organi di informazione. Ci permettiamo di segnalare la nuova traduzione della «Vita di Santa Teresa» fatta da noi e da un esperto, lavoro che ci ha viste impegnate per due anni. Siamo coscienti che il nostro non è un libro «prettamente missionario», ma Teresa «era missionaria» e questo può forse essere un requisito per pubblicizzare il libro sulla vostra rivista. Grazie e un caro saluto.
Le sorelle del Carmelo di Legnano, 16/04/2021
Il libro è disponibile nelle librerie o si può richiedere alle Edizioni OCD, Via Vitellia, 14 – 00152 Roma
La mia vita
Una nuova traduzione dell’autobiografia di Teresa di Gesù
L’autobiografia di Teresa è probabilmente il suo libro più conosciuto, e più volte è stata tradotta, studiata, approfondita e pregata. È un libro dove l’autrice non racconta soltanto i fatti accaduti nella sua vita, ma soprattutto ci rende partecipi, in maniera sempre più coinvolgente, della sua storia di amicizia con Dio. Lo fa in modo non convenzionale, lasciando spazio senza censure ai due protagonisti: il Dio paradossalmente misericordioso che ella ha imparato a conoscere, e Teresa stessa, donna pienamente inserita nel suo contesto e spinta costantemente da un’irrefrenabile ansia di libertà e di felicità. Teresa è vivace, esuberante, appassionata; altre volte pacata, riflessiva; altre ancora preoccupata, incerta, dubbiosa. In tutto e per tutto una donna moderna che non si è sottratta al tentativo di dare un senso alla propria vita e che ha trovato questo senso nello sguardo per lei sorprendente con cui Dio, in Gesù, l’ha guardata.
L’autobiografia è il racconto complesso e avvincente di tutta questa avventura. Avventura che non è restata nel confine intimo della sua coscienza, ma che si è tradotta in azione, in un’esperienza contagiosa per molte delle persone che l’hanno incontrata… fino ai nostri giorni.
Per questo più di due anni fa abbiamo iniziato a dare concretezza ad un sogno che avevamo da molto tempo: poter tenere tra le mani una nuova traduzione della Vita di santa Teresa che fosse più fruibile dagli uomini e dalle donne di oggi, riscoprendo Teresa come era all’origine, ripulita dalle inevitabili incrostazioni che la storia aveva aggiunto.
Lettura con ascolto
Quando si legge il testo spagnolo, si ha proprio l’impressione di avere Teresa lì, presente, che sta parlando, perché la sua è una prosa fluente e discorsiva. Qualcuno a volte dice che Teresa scrive come parla. Forse è più corretto dire che parla attraverso i suoi scritti. E proprio questa prospettiva è stata la bussola che ci ha guidato nel lavoro di questi due anni. Ciò si è tradotto nel tentativo di consentire anche al lettore italiano di trasformare l’esperienza della lettura in esperienza di ascolto.
Una scelta di libertà
Sono molti gli aspetti dell’esperienza di Teresa che la rendono a noi vicina, malgrado i secoli che da lei ci separano. Teresa è stata una bambina affascinata dalle cose di Dio. È stata poi un’adolescente inquieta, che con fatica cercava il suo posto nel mondo. Giovane donna, ha deciso di entrare in monastero: una scelta fatta non solo per il desiderio di donarsi a Dio, ma anche per il desiderio di non essere schiava di un uomo, come accadeva a tutte le donne sposate della sua epoca. Ha trascorso i primi venti anni di vita in clausura logorata da un conflitto interiore che è diventato anche malattia del corpo, malattia tanto grave che a un certo punto è rimasta come morta per più giorni, tanto che le hanno preparato la tomba. Quando si è risvegliata ci ha messo anni a esercitare nuovamente il suo corpo anche ai movimenti più elementari: ella stessa ci racconta che all’inizio, per parecchi mesi, riusciva a camminare solo a gattoni.
L’incontro con Gesù
Poi, dopo anni passati in questa situazione di lento recupero, finalmente è avvenuto l’incontro nuovo con Gesù, da cui scaturisce la vita nuova di Teresa. E davvero è stata un’altra vita quella che Teresa ha vissuto da lì in poi. Non solo perché lentamente ha trovato un nuovo equilibrio interiore, un nuovo rapporto con sé stessa, con gli altri e con Dio. Quell’esperienza, infatti, si è trasformata in un modo nuovo di vivere nella storia, quella quotidiana del monastero e quella «grande» della Spagna del suo tempo.
Un progetto alternativo
Un po’ per volta ha preso forma il desiderio di fondare una comunità diversa da tutte quelle già esistenti: poche monache di clausura, che in spazi che fossero a misura d’uomo, coltivassero intensamente la amicizia con Dio e fra di loro. Potrebbe apparire poca cosa ai nostri occhi, ma letto nel contesto e nell’atmosfera di allora è stato invece un progetto altamente alternativo. Il piccolo numero è sinonimo di familiarità. La clausura è strumento di libertà, perché al di là delle grate nessun uomo comanda, e le monache possono essere le registe della loro vita.
Uno stile missionario
L’orizzonte spirituale che ha nutrito quell’esperienza era quello duplice dell’Europa di allora: da un lato c’era la lacerazione della Chiesa che stava vivendo lo scisma della Riforma luterana. Teresa ha risposto senza lanciare scomuniche, ma impegnandosi in un progetto di unità e amicizia all’interno delle mura del monastero. Dall’altro c’era lo slancio missionario della Chiesa del XVI secolo, orientato soprattutto all’America latina, con tutte le contraddizioni che ciò comportava. Teresa ne era ben consapevole e portava nel cuore le lacerazioni che quell’opera di evangelizzazione, spesso accompagnata dalla violenza della guerra, produceva nei popoli indigeni.
Dottore della Chiesa
Cinquantuno anni fa, nel 1970, papa Paolo VI conferì a Teresa il titolo di Dottore della Chiesa. Fu la prima donna a riceverlo, la prima donna, nella storia della Chiesa, alla quale fu riconosciuta ufficialmente una dottrina autorevole, meritevole di essere ascoltata da ogni cristiano e soprattutto interessante per la vita di ciascuno di noi. L’autobiografia è il primo tassello di quell’eredità che ella ci consegna. I tempi duri in cui viviamo mettono anche noi di fronte a sfide inedite che a volte ci sorprendono e forse rischiano di paralizzarci un po’. Crediamo che Teresa possa essere una buona compagna di cammino in questa incessante ricerca di senso che riguarda ogni uomo. Per questo siamo molto felici di poter contribuire con questa nuova traduzione dell’opera.
Il Carmelo di Legnano
Ospitiamo ben volentieri questa presentazione, anche perché santa Teresa d’Avila, con santa Teresa di Lisieux, era particolarmente cara al nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che l’ha proposta ai suoi missionari e missionarie come modello di vita apostolica e di santità.
Padre Francesco Pavese, nel suo libro «Scegliendo fior da fiore» (Edizioni Missioni Consolata, Torino 2014), ha raccolto le note dell’Allamano sui suoi santi preferiti. Di santaTeresa d’Avila l’Allamano sottolineava tre aspetti in particolare: • l’amore verso Dio, • la capacità di ricominciare («nunc coepi», ora comincio) senza scoraggiarsi mai, • il prendere come modello di vita «san Paolo che non poteva fare a meno di aver sempre sulla bocca il nome di Gesù».
Il lavoro minorile
testo di Chiara Giovetti |
Il 2021 è l’anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile, fenomeno che interessa 152 milioni di bambini sul pianeta e di cui le Nazioni Unite auspicano l’eradicazione totale entro il 2025. Ma, ai tassi attuali, l’obiettivo non sarà raggiunto, anche a causa della pandemia che sta minacciando di vanificare i risultati raggiunti finora.
Secondo il più recente rapporto@ dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil, o Ilo nell’acronimo inglese), il lavoro minorile interessa 152 milioni di bambini e adolescenti fra i 5 e i 17 anni, uno ogni dieci bambini che vivono sul pianeta. Nella metà dei casi, pari a circa 73 milioni, le vittime svolgono lavori pericolosi che ne mettono a rischio «la salute, la sicurezza e la moralità»: lavorare di notte o troppo a lungo, essere esposti ad abusi fisici, psicologici o sessuali, lavorare sottoterra, sott’acqua, ad altezze pericolose o in spazi ristretti sono alcuni degli elementi che qualificano un lavoro come pericoloso.
Circa metà dei bambini vittime di lavoro minorile ha dai 5 agli 11 anni, oltre un quarto ha dai 12 ai 14 anni e la restante parte ha dai 15 ai 17 anni. I maschi sono 88 milioni, le femmine 64 milioni.
Il quadro normativo internazionale di riferimento su questo tema si fonda sulla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 20 novembre 1989, e su diversi altri documenti internazionali tra cui le due Convenzioni dell’Oil, la 138 del 1973 e 182 del 1999. Queste, fra le altre cose, fissano il limite di età per essere ammessi all’impiego a 15 anni (13 se si tratta di lavori leggeri) e a 18 per i lavori pericolosi, codificano le caratteristiche delle peggiori forme di lavoro minorile e sanciscono l’applicazione del termine «bambino» a ogni persona con meno di 18 anni. Le persone fra i 15 e i 17 anni incluse nelle statistiche Oil sul lavoro minorile, quindi, non lo sono per l’età, ma perché il lavoro che svolgono può essere dannoso per la loro salute e il loro benessere psico-fisico.
La definizione e la tendenza
Il lavoro minorile, che con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile il mondo si è impegnato a eliminare entro il 2025, chiarisce l’Oil, è quello che «priva i bambini della loro infanzia, del loro potenziale e della loro dignità e che nuoce al loro sviluppo mentale e fisico»; un lavoro «mentalmente, fisicamente, socialmente e moralmente pericoloso e nocivo», che priva i bambini della possibilità di andare a scuola, o li costringe ad abbandonarla prematuramente o a combinare l’impegno scolastico con un lavoro eccessivamente lungo e pesante@. Le cose sono migliorate molto nel periodo fra il 2000 e il 2016, nel corso del quale i minori costretti a lavorare sono passati da 245 milioni agli attuali 152, con una riduzione pari al 38%. Tuttavia, gli anni fra il 2012 e il 2016 hanno visto una diminuzione più lenta rispetto ai quadrienni precedenti. Mantenendo quel ritmo, nel 2025 ci saranno ancora 121 milioni di bambini lavoratori. Per raggiungere l’obiettivo di sviluppo sostenibile 8.7 – che riguarda appunto l’eliminazione di tutte le forme di lavoro minorile e dà il nome all’alleanza internazionale di enti governativi, agenzie Onu e altre organizzazioni, nata per contrastarlo (Alliance 8.7@) – è necessario un deciso cambio di passo.
I Paesi e i settori del lavoro minorile
Nove bambini su dieci tra quelli costretti a lavorare vivono in Africa (72 milioni) e nella regione dell’Asia Pacifico@ (62 milioni). L’Africa è al primo posto anche per la percentuale di bambini lavoratori, che sono quasi il 20%, cioè uno su cinque, mentre in Asia Pacifico la quota è del 7%.
La restante popolazione colpita è suddivisa tra Americhe (11 milioni in termini assoluti, pari al 5% dei bambini), Europa e Asia centrale (6 milioni, 4%) e stati arabi (1 milione, 3%).
L’Africa, sottolinea il rapporto Oil, ha visto un aumento del lavoro minorile pari all’1% nel quadriennio 2012-2016, in controtendenza rispetto alle altre regioni del mondo – che hanno tutte registrato dei cali – e nonostante le politiche che i governi africani hanno messo in atto per ridurre il fenomeno. I motivi di questo incremento non erano ancora chiari quando il rapporto Oil è stato elaborato; è possibile che il prossimo rapporto, atteso quest’anno, e relativo al quadriennio 2016-2020, includa qualche spiegazione. Intanto, però, è già chiaro che una grossa parte del risultato finale, a livello globale, dipende dalla capacità di invertire la tendenza in Africa.
Quanto ai settori economici, l’agricoltura è quello più interessato con 108 milioni di bambini impiegati, pari al 71% del totale, mentre il 12% dei bambini lavora nell’industria e il 17% nei servizi.
Il lavoro minorile nel settore agricolo riguarda principalmente l’agricoltura di sussistenza e commerciale e l’allevamento del bestiame, ma si estende anche alla pesca, alla silvicoltura e all’acquacoltura. «Il peso relativo dell’agricoltura», si legge ancora nel rapporto, «è aumentato in modo significativo dal 2012, quando il settore rappresentava il 59% di tutto il lavoro minorile: un cambiamento che probabilmente riflette lo spostamento della distribuzione regionale della popolazione lavorativa minorile verso l’Africa, dove predomina il lavoro minorile agricolo».
Lavoro in famiglia e lavoro domestico
Più di due terzi di tutti i bambini coinvolti nel lavoro minorile sono collaboratori nell’attività della propria famiglia, mentre il lavoro retribuito e il lavoro in proprio rappresentano rispettivamente il 27% e il 4%.
Questi numeri, continua il rapporto, sottolineano un aspetto importante: non è necessario un datore di lavoro terzo perché i bambini siano coinvolti nel lavoro e ne subiscano le conseguenze. Quelli impiegati da datori terzi sono l’eccezione, la maggior parte dei bambini è impiegato nelle fattorie e nelle imprese di famiglia. Comprendere e affrontare i motivi per cui le famiglie sono così dipendenti dal lavoro minorile è quindi fondamentale per eliminarlo, indipendentemente dal fatto che il lavoro sia svolto come parte delle catene di fornitura locali, nazionali o globali, o per la sola sussistenza familiare.
Un tema a sé è poi quello del lavoro domestico, cioè quello svolto «per e all’interno della propria famiglia: prendersi cura di fratelli o membri della famiglia malati, infermi, disabili o anziani, pulire e fare piccole riparazioni, preparare e servire i pasti, lavare e stirare i vestiti», e attività simili. Queste attività sono una forma di produzione «non economica» che le Nazioni Unite non includono fra gli indicatori concordati a livello internazionale per misurare l’attività economica nazionale. Secondo le stime del 2016, tuttavia, almeno 800 milioni di bambini sono in qualche misura coinvolti nelle faccende domestiche. Per 47 milioni di bambini l’impegno in casa occupa fra le 21 e le 42 ore settimanali, mentre per 7 milioni di loro supera le 43 ore. In entrambi i casi, è sulle bambine che ricade il maggior peso: due terzi dei bambini che partecipano al lavoro domestico sono femmine.
Le cause
I motivi che costringono bambini e adolescenti a lavorare sono vari, si legge sul sito ufficiale della campagna delle Nazioni Unite@: i bambini lavorano perché la loro sopravvivenza dipende da questo, perché i loro genitori non hanno accesso a un lavoro dignitoso, perché i sistemi nazionali di istruzione e protezione sociale sono deboli e perché gli adulti approfittano della loro vulnerabilità. A volte sono credenze radicate a favorire il fenomeno, ad esempio l’idea che il lavoro aiuti a formare il carattere e sviluppare le proprie abilità, o la convinzione che sia giusto per loro seguire le orme dei genitori e quindi impararne il mestiere molto presto.
Alcune situazioni, inoltre, spingono le famiglie povere a indebitarsi e a ripagare il debito con il lavoro dei propri figli. In alcuni casi il lavoro minorile si aggiunge al lavoro forzato: secondo un rapporto Oil del 2017 sulla schiavitù moderna, su quasi 25 milioni di persone costrette al lavoro forzato, circa 4,3 milioni erano bambini con meno di 18 anni. Fra questi, un milione di bambini era vittima di sfruttamento sessuale, tre milioni di altre forme di sfruttamento lavorativo e trecentomila erano in lavori forzati imposti dalle autorità statali.
Altre forme di lavoro forzato minorile coinvolgono i bambini i cui genitori sono in una condizione di schiavitù. «Un esempio comune», prosegue il rapporto, «è il lavoro minorile nel contesto del lavoro agricolo familiare. I genitori sono schiavi del debito con un proprietario terriero e i figli devono lavorare con loro».
Gli effetti della pandemia
La pandemia da nuovo coronavirus sta rischiando di annullare molti dei progressi fatti nell’ultimo ventennio: «In tempi di crisi», ha detto lo scorso giugno Henrietta Fore, direttore esecutivo dell’Unicef, «il lavoro minorile diventa una strategia di adattamento per molte famiglie. Con l’aumento della povertà, la chiusura delle scuole e la diminuzione della disponibilità dei servizi sociali, sempre più bambini vengono spinti nel mondo del lavoro»@. Secondo le proiezioni dell’Unicef riportate lo scorso settembre dal New York Times@, 24 milioni di bambini abbandoneranno la scuola a causa del Covid-19.
Molti stanno già svolgendo lavori inadatti alla loro età e spesso pericolosi: in Kenya, riporta il quotidiano newyorkese, i bambini di 10 anni stanno lavorando nell’estrazione della sabbia; i loro coetanei in Africa Occidentale tagliano le erbacce nelle piantagioni di cacao. In Indonesia, bambine e bambini di otto anni vengono dipinti d’argento e messi a fare le statue viventi che chiedono la carità.
Fra le storie riportate dal New York Times quella di Rahul, undicenne di Tumakuru, nell’India meridionale, mostra come la pandemia stia minacciando di togliere definitivamente ai bambini la possibilità di sviluppare il loro potenziale e di usarlo per uscire dalla povertà: «Rahul è un bravo studente», dice di lui il suo maestro. «La sua capacità di apprendimento è molto buona e ha notevole proprietà di linguaggio. Ha un quoziente intellettivo alto, dice che vorrebbe diventare un medico e potrebbe farcela». Ma da quando le scuole in India hanno chiuso, lo scorso marzo, Rahul aiuta il padre a rovistare nei mucchi di immondizia in cerca di plastica riciclabile in cambio di qualche centesimo all’ora.
Il lavoro minorile, si legge nell’articolo, «è solo una parte di un imminente disastro globale: la malnutrizione grave sta perseguitando i bambini dall’Afghanistan al Sud Sudan. Secondo i funzionari delle Nazioni Unite, i matrimoni forzati per le ragazze sono in aumento in Africa e in Asia, così come il traffico di bambini. I dati dell’Uganda hanno mostrato che le gravidanze delle adolescenti sono aumentate durante le chiusure scolastiche legate alla pandemia. Gli operatori umanitari in Kenya hanno riportato che molte famiglie mandavano le loro ragazze adolescenti a prostituirsi per sfamare la famiglia».
Molti bambini potrebbero non tornare più a scuola anche dopo le riaperture perché una volta che cominciano a guadagnare è molto difficile per le loro famiglie rinunciare a quella fonte di reddito: «Ho paura che, anche se la scuola riapre, dovrò continuare a fare questo lavoro per via dei debiti della mia famiglia», confessa al New York Times Mumtaz, dodicenne di Gaya, in India orientale. Dalla chiusura delle scuole lavora in un cantiere insieme al fratello Shahnawaz, di dieci anni, trasportando sul capo secchi pieni di ghiaia. «Ho mal di testa», dice Shahnawaz, «la notte non riesco a dormire. Tutto il mio corpo trema».
Nel paese asiatico i cristiani sono il 2 per cento della popolazione. Spesso i più poveri e disprezzati. Le discriminazioni quotidiane, per molti, diventano vera e propria persecuzione che condanna a una vita di paura e stenti.
L’invito alla preghiera del muezzin sovrasta la voce del sacerdote durante la preghiera del mattino. È questa la prima immagine che abbiamo del Pakistan. Un’immagine altamente significativa di quella che è la realtà vissuta dai cristiani pachistani: cittadini di seconda classe, ospiti nella loro stessa patria.
La loro non è la semplice condizione di minoranza in un paese musulmano. Perché qui i meccanismi di una società a maggioranza islamica, di per sé discriminanti nei confronti delle minoranze religiose, incontrano il sistema castale indiano che emargina le caste inferiori, cui spesso i cristiani appartengono. Il tutto si traduce in miseria ed emarginazione in un contesto in cui la fede cristiana diviene un marchio a vita.
Visitando il Pakistan con una delegazione di Aiuto alla Chiesa che soffre Italia, abbiamo avuto modo di conoscere dal vivo la realtà di questa piccola comunità – le stime ufficiali parlano di circa il 2% di cristiani a fronte di un 97% di musulmani – che, pur incontrando difficoltà quotidiane, conserva una fede incrollabile.
Tutti conoscono Asia Bibi, la donna condannata a morte per blasfemia che ha finalmente riacquistato la propria libertà dopo essere stata assolta. E molti hanno sentito parlare della cosiddetta legge antiblasfemia, che prevede l’ergastolo per chi profana il Corano, e la pena capitale per chi, come nel caso di Asia, è accusato di aver offeso il profeta Maometto. Ma è soltanto la punta di un iceberg. Perché la vita dei cristiani in Pakistan è fatta di discriminazioni quotidiane, di ingiustizia, di opportunità negate.
Autosegregazione
A Karachi, metropoli di oltre 20 milioni di abitanti, molti cristiani vivono in quartieri come quello di Essanagrì, che significa «quartiere di Cristo». Più di mille famiglie cattoliche abitano in case fatiscenti in vicoli al cui lato scorre una fognatura a cielo aperto.
I bambini giocano a piedi nudi nella sporcizia fino a quando non sono costretti a iniziare a lavorare anche a soli 10 anni. Nella piccola scuola elementare St. Mary gli alunni sono costretti a bere l’acqua sporca semplicemente filtrata, con un logico proliferare di malattie.
Come molti altri quartieri cristiani, Essanagrì è un vero e proprio ghetto. Ma per i cristiani spesso l’autosegregazione è una scelta obbligata.
La locale comunità è stata costretta a costruire un muro che separa il quartiere dal vicino insediamento musulmano. «Non è raro che i cristiani vengano attaccati – spiega il parroco, don Joseph Saleem -. Recentemente in questo quartiere sono stati uccisi cinque ragazzi cristiani».
Eppure i cristiani mostrano apertamente e orgogliosamente la propria fede. Su ogni porta è dipinta una croce e la domenica la piccola e spoglia chiesa di Santa Maria è gremita al punto che molti fedeli devono ascoltare la messa dalle viuzze attigue. «Ogni domenica vi sono due messe, ma partecipano talmente in tanti che molti riescono a malapena a sentire le parole del sacerdote».
Nessun Dio all’infuori di Allah
«Non c’è nessun Dio all’infuori di Allah». Cartelloni come questo si trovano in tutta Karachi e ve n’è uno anche all’ingresso di Kuda ki basti (una basti è l’equivalente della nostra borgata), un quartiere che si sta sviluppando nell’area Nord della metropoli pachistana, oggi in rapida crescita.
Tra le strade del quartiere ancora in costruzione, i mega poster con il volto di Khadim Hussain Rizvi, invitano a unirsi alle fila del Tlp, il partito islamista Tehreek-e-Labbaik Pakistan da lui fondato.
Don Augustine Soares, parroco di San Giuda, ci mostra un piccolo lotto di terra dove spera possa sorgere al più presto la chiesa di San Barnaba. «La presenza di una chiesa in un quartiere è essenziale per i cristiani – ci spiega – se c’è una chiesa, i cristiani sanno che non verranno facilmente cacciati dalle loro case. Per loro è una garanzia».
Per il momento le messe sono celebrate in una piccola sala parrocchiale, altrimenti la chiesa più vicina è quella di San Giuda che – come abbiamo potuto verificare – si trova a oltre tre quarti d’ora di macchina.
Persecuzioni quotidiane
La presenza islamica si fa ancora più evidente quando raggiungiamo la parrocchia di San Giuda. In questo quartiere fino a 10-15 anni fa vivevano perlopiù famiglie cattoliche. Ma da quando queste sono andate via, soprattutto per motivi di sicurezza, l’area si è popolata di immigrati afghani.
Anche questa chiesa ha avuto la sua dose di persecuzione. Nel 1989 è stata profanata da giovani musulmani, mentre nel 2004 è stata incendiata. Infine nel 2009 alcuni talebani hanno attaccato sei abitazioni cristiane, uccidendo il piccolo Irfan Masih, di appena 11 anni.
Non è purtroppo l’unico caso in cui sono stati attaccati dei cristiani che vivevano in quartieri musulmani. Nel nostro soggiorno a Karachi, ad esempio, abbiamo incontrato Vikhram John, 25 anni, che nel settembre 2017 si è trasferito assieme alla sua famiglia nel quartiere K.D.A. Mahmoudabad di Karachi. Quella di Vikhram era l’unica famiglia cristiana dell’intero vicinato e non ci è voluto molto prima che fosse presa di mira. «Inizialmente ci dicevano che facevamo troppo rumore quando pregavamo – ci racconta il ragazzo cattolico -, poi hanno iniziato a lanciare sassi contro la nostra casa». Le intimidazioni, gli insulti e le angherie si sono fatte sempre più insistenti. Poi alcuni musulmani hanno minacciato di voler rapire e convertire forzatamente all’islam la sorella, obbligandola a sposare uno di loro. Il giovane cattolico ha fronteggiato quanti avevano espresso la minaccia, ma è stato picchiato al punto da perdere la vista all’occhio sinistro. «Oggi la famiglia di Vikhram è costretta a nascondersi – ci riferisce l’avvocatessa cattolica Tabassum Yousaf che assiste il giovane – mentre l’uomo arrestato per la sua aggressione è già fuori su cauzione».
Conversioni forzate
La stessa avvocatessa ci racconta quanto sia estesa la piaga dei rapimenti e delle conversioni forzate all’islam di giovani cristiane. «In questi giorni – riferisce in una telefonata al nostro rientro in Italia – sto seguendo il caso di Neha, una ragazza cristiana di appena 15 anni che vive a Itihad, un piccolo centro vicino Karachi». Il 28 aprile scorso, sua zia Sundas, convertitasi all’islam qualche anno fa, ha chiesto ai genitori di Neha il permesso di portare la ragazza all’ospedale dove era ricoverato suo figlio. I genitori si sono fidati della donna, ma era una trappola. La piccola Neha è stata costretta a convertirsi e a sposare un uomo di 45 anni, già sposato, il cognato della zia, che le ha usato violenza. Neha è riuscita a scappare soltanto giorni dopo grazie a una delle figlie del marito.
«Quella delle conversioni forzate è purtroppo una piaga che colpisce numerose famiglie – ci racconta la Yousaf che ha da poco costituito, assieme ad altri attivisti, un comitato interreligioso atto a denunciare e a gestire tali casi -. Ogni anno in Pakistan almeno mille ragazze cristiane e indù vengono sequestrate, violentate e costrette a contrarre matrimonio islamico con il proprio stupratore. Il più delle volte la famiglia sa bene chi ha rapito la propria figlia, ma le ragazze vengono costrette con la forza a dichiarare che si sono convertite volontariamente. E quando ciò accade la polizia chiude il caso.
Molto spesso i familiari non sporgono neanche denuncia, perché gli aggressori musulmani li minacciano di accusarli di blasfemia. Dicono loro: “Se non smettete di cercare vostra figlia, strappiamo delle pagine del Corano, le mettiamo davanti casa vostra e diciamo che avete profanato il libro sacro. Così per voi sarà la fine”».
Ingiustizie sociali e giudiziarie
Essere cristiani in Pakistan, significa infatti anche avere meno difese rispetto a quanti appartengono alla religione di maggioranza. A livello sociale, ma anche giudiziario.
Lo ha imparato a sue spese la famiglia di Sawan Masih, uno dei 25 cristiani che si trovano attualmente in carcere perché accusati di blasfemia. Sawan è stato accusato di aver offeso Maometto nel 2013 da un conoscente musulmano.
In seguito all’accusa, una folla ha dato fuoco all’intero quartiere cristiano in cui Sawan viveva, Joseph Colony a Lahore, distruggendo 200 case di cristiani e due chiese. Ma mentre gli 83 responsabili dell’attacco al quartiere sono stati tutti liberati su cauzione, Sawan è stato condannato a morte in primo grado nel 2014, e ancora attende il processo d’appello. Il processo viene infatti costantemente rimandato perché «il giudice incaricato è sempre impegnato in altre cause», come ci spiega l’avvocato del giovane cristiano, Tahir Bashir, che incontriamo a Lahore assieme alla moglie di Sawan, Sabia, che cresce da sola i loro tre figli.
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La schiavitù dei mattoni
Eppure Sawan è fortunato, perché, come ci riferisce Cecil Chaudhry, direttore esecutivo della Commissione nazionale di Giustizia e Pace del Pakistan – organismo della Conferenza episcopale locale -, dal 1990 al 2017, ben 23 cristiani sono stati uccisi perché accusati di blasfemia, ancora prima di essere processati.
Tra loro Shama e Shahzad Masih, arsi vivi in una fornace di mattoni, assieme al bimbo che lei portava in grembo, il 4 novembre 2014.
Shama era stata accusata ingiustamente di aver bruciato alcune pagine del Corano. Così una folla di 400 persone li ha gettati tra le fiamme.
La tragica morte della coppia – che ha lasciato tre figli – ha messo in luce un’altra grave problematica: la schiavitù delle fabbriche di mattoni che colpisce anche numerosi cristiani.
Normalmente il processo di schiavizzazione ha inizio con un prestito elargito dal proprietario della fabbrica. Per ripagare il debito, spesso l’equivalente di due o trecento euro, necessari a dar da mangiare ai propri figli, intere famiglie lavorano per generazioni. Il debito non si estingue mai, in parte per la paga irrisoria percepita e, in parte, perché i proprietari delle fabbriche spesso ingannano i cristiani, nella quasi totalità dei casi analfabeti, dicendo loro che non hanno ancora restituito il dovuto quando invece è stato ampiamente saldato.
E poi sopraggiungono le malattie, la necessità di trovare i soldi per le doti delle figlie femmine, e così un circolo vizioso senza uscita.
Sono tra i due e i tre milioni i pachistani impiegati in questo settore redditizio soltanto per i proprietari delle fabbriche.
Tra i lavoratori, un alto numero di cristiani finisce in trappola, soprattutto a causa della discriminazione incontrata in ambito lavorativo.
Catene da spezzare
Abbiamo visitato una fabbrica di mattoni che si trova nella periferia di Lahore. La zona è quella di Karoul, nell’area Nord della città. Il viaggio in macchina è stato di circa un’ora, eppure sembra di essere tornati indietro di almeno un paio di secoli.
C’è odore di fumo, di immondizia bruciata, e il terreno è un misto di fango e sporcizia.
I lavoratori e le loro famiglie vivono in piccole stanze senza neanche il tetto, né servizi igienici. Molti di loro contraggono malattie, si feriscono gravemente sul lavoro, soffrono di gravi problemi respiratori a causa del fumo della fornace, mentre alcuni perdono addirittura la vita predisponendo il forno in cui vengono cotti i mattoni.
«In questi mattoni c’è realmente il mio sangue e il mio sudore», ci racconta Asif Masih, 30 anni, mentre ci mostra come realizza i pezzi disponendo il fango in una forma rettangolare adagiata su di una tavoletta che imprime su ogni mattone il logo della fabbrica.
Gli operai guadagnano una rupia per mattone e sono quindi necessari 160 mattoni perfettamente integri, per riuscire a guadagnare un solo euro. Inoltre se qualche pezzo si rompe o è imperfetto non viene conteggiato. I mattoni sono composti semplicemente da acqua e terra e disposti in lunghe file ad asciugare al sole prima di essere trasportate al forno. Durante l’inverno la pioggia scioglie tutti i mattoni, vanificando intere giornate di lavoro.
Assieme ad Asif lavorano anche la moglie Reema e Yousaf, 13 anni, il primo dei quattro figli della coppia. Molte famiglie, per riuscire a guadagnare un po’ di più, arruolano i figli già in tenerissima età. Gli altri tre figli di Asif e Reema, i piccoli Almas, 8 anni, Danish, 5, e Akas, 18 mesi, giocano poco distante con le pietre e il fango. Sembra un gioco, ma per loro, come per tanti altri, quel fango molliccio si trasformerà in catene impossibili da spezzare.
Marta Petrosillo portavoce di Acs Italia
Congo RD: Denis Mukwege, il medico che ripara le donne
Testo di Mario Ghirardi |
È un medico africano, come tanti altri. Ma lui decide di restare nella sua terra, il Kivu, e di curare le donne vittime di violenze inaudite. Diventa il massimo esperto mondiale in materia. Rischia in prima persona, perde amici e stretti collaboratori in attentati. Si guadagna il soprannome di «medico che ripara le donne».
Denis Mukwege parla con ritmo cadenzato e con toni di voce pacati. Racconta della Repubblica Democratica del Congo (Congo Rd), di golpe militari, di mercenari senza scrupoli, di stupri elevati a sistematica arma di guerra, di minerali insanguinati, di coltan, di un’Europa spesso alla finestra, di bambini che muoiono in miniera perché noi possiamo lavorare o trastullarci con il telefonino. Mi viene voglia di scagliare lontano lo smartphone che pure in questo momento è il mio strumento di lavoro per registrare e fotografare. Ma sarebbe inutile e forse anche dannoso, visto che i telefonini andrebbero smaltiti ben diversamente.
Per capire l’accorato appello del dott. Mukwege, dobbiamo partire dal suo passato: laureato in medicina in Francia, è tornato in Africa, nella sua regione natale, il Kivu, attorno ai Grandi Laghi, per combattere una battaglia che è poi diventata bandiera di chi vuole scuotere l’opinione pubblica mondiale di fronte a un massacro che ha già coinvolto milioni di vite umane e che in quei luoghi, a cavallo dell’equatore, dura da decenni.
L’ostinazione premiata
La scintilla dell’impegno sociale a 360 gradi di questo cortese professionista, diventato oggi punto di riferimento anche politico, scattò quando si trovò, stesa sul tavolo operatorio del reparto di ginecologia dell’ospedale da campo da lui creato a Panzi, ai confini orientali della Congo Rd, una ragazza che aveva fatto nascere egli stesso una dozzina d’anni prima. Era stata orrendamente stuprata come centinaia di altre sue coetanee. Nel 1989 fece il suo primo tentativo di dare corpo a un reparto ospedaliero di maternità a Lemera. Distrutto dalla guerra. Ne fece un altro a Bukavu, sua città natale. Distrutto anch’esso. Infine ne mise in piedi uno a Panzi, dove dal 1999 ha curato ben 50mila donne. Un numero enorme, vittime di stupri e di violenze sessuali di ogni genere, la gran parte con ferite di arma da fuoco ai genitali.
«Identifico ognuna di loro con mia moglie», commenta. In questo trova la forza morale di proseguire nella sua opera, anche oggi che ha compiuto il giro di boa dei 60 anni.
Ormai il dottor Mukwege, soprannominato «l’uomo che ripara le donne», è riconosciuto come uno dei più grandi esperti a livello internazionale nel trattamento dei danni patologici e psicosociali provocati dalla violenza sessuale praticata in Congo Rd in modo sistematico. Un’arma di guerra per colpire le donne nell’intimo del loro essere, distruggere simbolicamente il futuro mutilando gli organi genitali con ogni tipo di oggetti inseriti nella vagina, anche di bimbe di pochi mesi, e praticando tagli ai seni. Squartare donne incinte e seppellirle ancora vive è un altro atto ricorrente durante le incursioni delle bande armate. Tanta crudeltà ha lo scopo preciso e immediato di annientare sul nascere qualsiasi tentativo di ribellione dei villaggi, facendo sprofondare anche gli uomini in uno stato di sudditanza.
Impunità totale
Pochissimi denunciano le violenze, non solo per la paura delle ritorsioni e dello stigma sociale, ma anche perché i casi in cui i tribunali hanno fatto giustizia sono sinora rari, visto che queste soldataglie senza volto aggrediscono i villaggi sconfinando dagli stati vicini e si spostano senza sosta. Un dato: a fronte di 15mila accuse formali, le condanne sono state 12. «Il silenzio è alleato degli stupratori – afferma Mukwege -. La vittima tace per vergogna e per paura di essere discriminata. Io devo combattere al loro fianco perché le donne sono forti, sono capaci di vivere per gli altri. Ho curato 50mila donne, ma pensiamo sempre che dietro a un numero c’è un essere umano, è questa consapevolezza che deve farci reagire. Avevo un successore, Gildo Byamungu Magaju, direttore dell’ospedale di Kasenga, l’hanno assassinato a fine aprile dell’anno scorso. Tuttavia non mi fermerò».
Oltre la medicina
Con mariti e figli traumatizzati, le donne, che in Africa continuano a essere il perno su cui ruota la vita sociale, sono costrette ad abbandonare famiglia e lavoro, portando con sé quelle profonde ferite che soltanto un personaggio come Mukwege è in grado di lenire.
Il suo aiuto oggi sta andando persino oltre, affiancandole nella ricerca di nuove competenze lavorative, offrendo l’opportunità alle più giovani di tornare a scuola e dando loro appoggio se intendono rivolgersi alla giustizia. Scelte pagate letteralmente sulla propria pelle. Mukwege è stato vittima di attentati, tra cui quello in cui è stata assassinata la sua guardia del corpo, e amico, Joseph Bizimana, e di irruzioni armate nella sua casa con minacce di morte e il rapimento della figlia. Costretto a fuggire in Scandinavia, è ritornato a Panzi non appena un gruppo di donne, che peraltro vivono con meno di un dollaro al giorno, hanno racimolato con una colletta i soldi per pagargli il viaggio aereo. È questo un comportamento che gli è valso il «Premio Sacharov per la libertà di pensiero», voluto trent’anni fa dall’Unione europea per celebrare il ricordo del fisico nucleare russo e assegnato ogni anno in riconoscimento di chi combatte la sua personale battaglia a favore dei diritti dell’uomo. E non è un caso se il primo a riceverlo fu Nelson Mandela.
Radici storiche
Il motivo fondamentale per cui il Congo Rd è squassato da tanta violenza lo ha denunciato lo stesso Mukwege durante il suo discorso alle Nazioni Unite già nel 2012, poco prima dell’attentato: lo sfruttamento delle sue risorse minerarie. Fenomeno che risale almeno alla metà dell’800, quando il Congo fu acquisito come proprietà personale dal re del Belgio Leopoldo II. Sfruttamento che è costato almeno dieci milioni di morti. «Se il Congo è ormai da 25 anni una polveriera – commenta l’antropologo Luca Jourdan che abbiamo incontrato a fianco di Mukwege durante un suo tour italiano di sensibilizzazione dell’opinione pubblica organizzato dal torinese Centro di Studi Africani (Csa) – le cause risalgono proprio all’epoca coloniale, quando prima i traffici di schiavi e avorio, e poi quelli della gomma favorirono gli interessi sfrenati dei signori della guerra, che già allora terrorizzavano i villaggi mozzando le mani a chi non produceva i quantitativi stabiliti, come punizione e monito». I belgi non portarono civiltà. «I primi ammutinamenti dell’esercito – prosegue Jourdan – produssero il tentativo di secessione della regione del Katanga, poi la presa del potere da parte di Mobutu nel ’65, con l’esercito che fornisce quadri e ministri, ma senza che il dittatore si fidi dei suoi generali perché non li controlla. Oggi è il tempo di Joseph Kabila, delle elezioni promesse ma rinviate (la presidenza di Kabila è scaduta il 19 dicembre 2016, ma lui resta capo di stato)». L’esercito congolese è in realtà un attore della crisi, poiché non esiste una sola catena di comando. È un esercito integrato con le fazioni ribelli, però i gruppi non si mescolano, ognuno risponde ad un proprio capo. Il risultato è che i «warlords» spadroneggiano ognuno nel suo ambito, controllando, in accordo col governo, l’estrazione del coltan e degli altri minerali indispensabili all’industria dell’elettronica, che costano alla popolazione le violenze combattute da Mukwege.
Mario Ghirardi
Miniere, eserciti e interessi globali
Stupri, figli del coltan
In Congo Rd permane una situazione di grande instabilità. In uno dei paesi con il sottosuolo più riccho al mondo, il 60% della popolazione vive nell’indigenza. Mentre nell’Est le milizie usano la violenza sulle donne come arma di guerra.
La regione congolese dei Grandi Laghi vive un conflitto internazionale tra i più complessi dell’Africa, aggravato dal precipitare della situazione nel confinante Burundi nel 2015, dai massacri nelle regioni del Kasai nel 2017 e dalla permanenza al potere in Congo Rd del presidente Joseph Kabila, ancora oggi, nonostante il suo mandato presidenziale sia scaduto nel 2016. La presa di posizione del dittatore nel far slittare le elezioni è tesa a voler accedere al suo terzo mandato presidenziale contro i dettami della Costituzione vigente che ha fatto saltare nell’anno anche la preannunciata visita di papa Francesco. Le ondate di profughi hanno alimentato ulteriori tensioni e conflitti tra gruppi armati ribelli per il controllo delle miniere superficiali. In esse uomini e bambini sono ridotti in schiavitù per l’estrazione del coltan, preziosissimo materiale, straordinariamente resistente al calore, senza il quale gli smartphone non potrebbero esistere e che qui si trova nelle maggiori concentrazioni al mondo (cfr. MC luglio 2015 e giugno 2016).
Il coltan, fondamentale anche per l’industria aerospaziale, fa gola a tutti, con i cinesi in prima linea alla ricerca di accordi commerciali, insieme a Stati Uniti ed Europa, per accaparrarsi quelli che sono ormai conosciuti come i «minerali insanguinati». La posta in gioco è altissima e nessuno vuole farsela scappare, ma il prezzo da pagare in termini di diritti umani è pure enorme, con vittime principali le donne e i bimbi anche di pochi mesi. Il Congo Rd ha arrestato la sua crescita economica, ma non demografica. È uno dei paesi più povero del pianeta con oltre 6 persone su 10 che vivono sotto la soglia di indigenza assoluta. I delitti sono in costante aumento, il numero di donne violentate supera il mezzo milione, con gli stupri usati come strumento per far nascere i figli dei vincitori oppure al contrario per rendere impossibile la nascita di una successiva generazione delle etnie sottomesse. Una situazione terribile attorno alla quale resta moltissimo da fare anche in termini di consapevolezza dell’opinione pubblica occidentale. Lo stupro di guerra come quello praticato in Kivu è stato riconosciuto infatti ufficialmente come crimine contro l’umanità e concausa di genocidio soltanto nel 2008, elaborando a livello legislativo con un ritardo smisurato quanto successe nel 1992, a danno dei bosniaci musulmani nell’allora Jugoslavia.
Chi estrae il coltan non gode di alcun diritto in cambio di un lavoro massacrante retribuito con spiccioli di dollaro. Bambini e uomini trasportano i secchi sulla testa sotto il sole a picco o sotto le piogge torrenziali, come schiavi di una società che non offre alcuna alternativa di sopravvivenza e nemmeno possibilità di scolarizzazione. I livelli di sicurezza sul lavoro sono infimi e si muore con facilità in quelle voragini della montagna, che diventano tombe, da cui i signori della guerra non si degnano nemmeno di portare alla luce i cadaveri per restituirli alle famiglie. La beffa sono i cartelli pubblicitari nei villaggi confinanti che promettono l’accesso gratuito a Facebook per tutti.
La tracciabilità dei materiali potrebbe essere un primo modo per limitare gli abusi. L’Unione europea nell’aprile scorso ha finalmente approvato un regolamento comunitario in questo senso, che però non sarà applicato prima del 2021. La normativa obbligherà tutti gli importatori europei di stagno, tungsteno, tantalio e oro a dichiarare le loro fonti di approvvigionamento con l’istituzione di un apposito registro e sistematici controlli sul rispetto degli obblighi di responsabilità, la cosiddetta «due diligence», in modo da mantenere elevati standard e garantire che non ci siano punti di contatto tra l’origine dei minerali e le bande armate. Dal patto però Bruxelles sembra aver escluso i minerali di cobalto, nonché il divieto di importazione di prodotti finiti che contengano il minerale, lasciando aperta la strada ai telefonini cinesi. Intanto contemporaneamente il presidente Usa Trump smantella il Dodd-Frank Act, un provvedimento per una volta in sintonia con quello adottato dalla Ue e promulgato dal predecessore Barack Obama nel 2010.
Da Dianra, nel Nord Ovest, dove i missionari lavorano per sanità e dialogo, a Grand Zattry e Sago, nel Sud Ovest, dove cercano di ampliare una scuola. Passando per Soubré, dove è in costruzione una grande diga, terminando con San Pedro e Abidjan, dove tonnellate di cacao rischiano di marcire sui camion all’entrata dei porti.
A Dianra, come a Marandallah, il dialogo interreligioso permea di sé tutta l’attività dei missionari. Questo implica un procedere lento, graduale, rispettoso delle differenze e capace di fare emergere ciò che accomuna. «È anche per questo», spiega padre Matteo Pettinari, «che prima di costruire una case de santé (piccolo centro sanitario) contattiamo le autorità di ciascun villaggio e organizziamo un incontro pubblico che coinvolga tutta la comunità. Durante l’incontro chiariamo che queste strutture fanno parte di un programma che le autorità locali della sanità pubblica hanno affidato al nostro centro di Dianra Village. Non si tratta, quindi, di costruire “la casa dei cristiani” ma di portare l’assistenza sanitaria al villaggio attraverso le regolari visite della nostra equipe mobile. Non solo: nell’incontro si cerca di ottenere dagli abitanti del villaggio l’impegno a collaborare con il nostro personale in modo che questo servizio rechi davvero beneficio».
In quel contesto rurale la gente tende a rimandare il momento in cui ricorrere alle cure mediche, finché non è chiaro che i rimedi tradizionali sono inefficaci e che le patologie si sono aggravate al punto da essere ormai invalidanti. Le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi e andare al centro di salute a farsi visitare, ad esempio durante la gravidanza, o a far visitare i bambini per scongiurare il rischio della malnutrizione. Creare sensibilità e consapevolezza è un lavoro lungo e delicato. Fare di corsa significa rischiare di offrire un servizio che poi nessuno usa.
«È interessante», prosegue Matteo, «come villaggi distanti pochi chilometri reagiscano in modi diversi: c’è una località nella quale non siamo riusciti a trovare un accordo, un’altra dove ci stiamo avvicinando a un’intesa e una terza in cui, al termine della riunione con la comunità, alcuni giovani avevano già scavato le fondamenta per la case de santé».
Quest’ultimo non è il solo esempio incoraggiante che il missionario cita. Mostra con evidente soddisfazione le foto di Sononzo Carrefour, altro villaggio che fa capo a Dianra, dove la chiesa e la moschea sono dello stesso colore, e ricorda: «L’anno scorso i musulmani di Sononzo hanno fatto una colletta per ridipingere la moschea e ci hanno proposto di dare il loro contributo per ridipingere anche la nostra chiesa. È stato un gesto davvero splendido, un atto di fratellanza che ci riempie di gioia e ci evangelizza».
Verso Sud, fra palma da olio e caucciù
Lasciando Dianra in direzione Sud gli alberi tornano lentamente ad essere verdi, segno che qualche sporadica pioggia – al Nord del tutto assente da mesi – ha lavato via dalle foglie la polvere rossa della stagione dell’harmattan1.
Grand Zattry si trova nel distretto di Bas-Sassandra, lungo la strada in parte asfaltata che collega il Nord a Soubré, cittadina a 130 chilometri dal mare. Ai lati della strada, mentre non vengono meno le piantagioni di cacao, spariscono quasi del tutto i fiocchi bianchi del cotone e i frutti arancioni dell’anacardio. Sono gli alberi di caucciù a dominare il paesaggio – ciascuno con il suo recipiente simile a un bicchiere legato sotto l’incisione nella corteccia dalla quale cola il lattice bianco – e le palme da olio, con i loro grappoli di frutti rossi adagiati dove la fronda si stacca dal tronco.
A Blesséoua, uno dei villaggi che la missione di Grand Zattry accompagna, la scuola primaria ha 458 allievi: troppi per le sei classi che fino a dicembre 2016 aveva a disposizione. Quasi ottanta bambini per aula sono davvero di difficile gestione, constata una maestra che si unisce alla riunione con il capo villaggio e altri responsabili della comunità che collaborano con padre James Gichane, missionario keniano a Grand Zattry. Per questo motivo il salone cucina che la generosità di una donatrice ha permesso di costruire nel 2016 è per il momento stato adibito ad aula. Nel frattempo, il Conseil Café-Cacao, l’ente pubblico che regolamenta la produzione e il commercio dei prodotti da cui prende il nome, sta finanziando la costruzione di altre tre classi. «Sono andato di persona alla sede del Conseil», spiega il capo villaggio, «per spiegare loro la situazione della scuola, e grazie a Dio mi hanno dato retta. Bisognava almeno aumentare il numero di aule, ma anche la mensa scolastica e i servizi igienici sono in pessime condizioni». Oltre al villaggio di Blesséoua, la scuola primaria serve diciassette campement (villaggi più piccoli e provvisori) dei dintorni, gli alunni vengono qui a piedi da cinque chilometri di distanza. La situazione di questa scuola, che è comune a molte altre nel paese, stride con le dichiarazioni d’intenti delle autorità pubbliche secondo le quali ogni classe dovrebbe avere non più di quaranta alunni.
Energia per un paese che vuol crescere
Per andare da Grand Zattry a Sago si passa da Soubré, città sulla quale gli occhi del Costa d’Avorio sono oggi puntati per via della costruzione di un’imponente diga che sfrutterà un dislivello naturale del Nawa, un affluente del fiume Sassandra, per produrre energia elettrica. Una volta ultimata, sarà la più grande diga del paese, con una potenza installata pari a 275 megawatt per una produzione annuale di 1.170 gigawatt ora.
L’opera, dal costo di 338 miliardi di franchi cfa (circa 515 milioni di euro), è finanziata all’85% dalla Cina (attraverso la banca Eximbank) e al 15% dalla Costa d’Avorio nel contesto della cooperazione sino-ivoriana; l’entrata in funzione è prevista per la fine del 2017, dopo cinque anni di lavori. Oggi la Costa d’Avorio ha una potenza installata di 1.975 megawatt forniti per tre quarti da centrali termiche (gas naturale e vapore) e per un quarto da centrali idroelettriche, e vende energia a Burkina Faso, Mali, Ghana, Togo e Benin. Il governo intende però raddoppiare la potenza prodotta entro il 2020 e ha pianificato una nuova centrale termica a gas a Songon, quartiere di Abidjan, e una a carbone a San Pedro, suscitando la perplessità per la contraddizione fra la scelta del carbone e la ratifica dell’Accordo di Parigi sul clima.
Sago: l’Africa occidentale in un villaggio
Lungo la strada verso Sago, villaggio a un’ottantina di chilometri dalla costa, è frequente vedere cartelli con il logo della Sipef – Società internazionale delle piantagioni e di finanza – un’agroindustria internazionale che opera nelle aree subtropicali fra cui la Costa d’Avorio. I cartelli recitano: Non au travail des enfants (no al lavoro dei bambini).
«È una campagna che va avanti da qualche anno», spiega padre Ramón, «nata come reazione al fenomeno dei bambini schiavi portati qui soprattutto dal Mali per lavorare nelle piantagioni di cacao».
Il tema ha cominciato ad essere noto all’opinione pubblica internazionale nei primi anni Duemila ma è probabilmente con documentari come il danese The Dark Side Of Chocolate2 che ha guadagnato maggiore visibilità. «Oggi», continua Ramón, «anche grazie a questa campagna, chi è a conoscenza di casi di sfruttamento li denuncia sapendo che, a differenza di un tempo, gli sfruttatori verranno puniti».
Quella del Bas-Sassandra è una zona con una notevole varietà etnica, dove ivoriani e stranieri vivono del lavoro nelle piantagioni o dei commerci che si svolgono nel grande mercato. «In dieci anni», spiega padre Silvio Gullino, missionario della Consolata attivo prima in Repubblica Democratica del Congo e, ora, uno dei decani della missione in Costa d’Avorio, «il villaggio è passato da quattromila a diecimila abitanti. Qui, assieme e agli autoctoni di etnia Godié, vivono Baoulé, Koulango, Abron, ma anche Mossi del Burkina Faso. Anzi, si può dire che siano rappresentati quasi tutti i paesi della Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale): Togo, Benin, Senegal, Mali, Mauritania…».
Una cartina di tornasole di questa varietà è la messa domenicale nella chiesa di Sago, durante la quale le letture vengono fatte in cinque lingue. I cattolici a Sago sono una minoranza, precisa ancora padre Silvio, circa il dieci per cento della popolazione. Sei persone su dieci sono musulmane, il quindici per cento è cristiano di altre denominazioni e un altro quindici per cento pratica le religioni tradizionali.
La scuola primaria Notre Dame de la Consolata accoglie 250 alunni dai sei ai dodici anni; padre Celestino Marandu, missionario tanzaniano anche lui con diversi anni d’esperienza in Congo, è a Sago dal 2009 ed è il responsabile della scuola che, nel gennaio 2017, è stata una delle pochissime a non rimanere chiusa tre settimane per lo sciopero dei funzionari pubblici.
«Certo», osserva Celestino, «è giusto che gli insegnanti rivendichino il loro diritto a stipendi più alti e migliori condizioni di lavoro; ma qui è la scuola a pagare gli stipendi, regolarmente e senza contributi dal governo. Garantiamo ai docenti anche case ad affitti ragionevoli e un ambiente di lavoro organizzato dove possono segnalare, discutere e risolvere i problemi insieme alla dirigenza. E tutto questo per assicurare la cosa più importante: che i bambini abbiano un’istruzione davvero di qualità». Padre Celestino ha appena completato l’arredamento della sala e mensa scolastica finanziato grazie al contributo di alcuni donatori italiani. «L’ispettore regionale dell’insegnamento primario è venuto a visitare la scuola», racconta padre Marandu. «Alla fine ci ha fatto i complimenti per la mensa più bella e grande della regione del Gboklê».
Nell’immediato futuro padre Celestino ha in programma di terminare la recinzione per avviare l’orto che produrrà frutta e verdura per la scuola: «Senza recinto non si può coltivare, arriverebbero gli animali a devastare tutto». Vuole poi ristrutturare alcune delle case degli insegnanti, completare la case de santé della scuola per seguire i bambini anche dal punto di vista della sanità di base, ultimare il campo sportivo. «Il governo ha introdotto l’obbligo scolastico fino a 16 anni», riferisce il missionario, «ma serve anche un sistema uniforme ed efficace di controlli e sanzioni per chi non manda i figli a scuola. Qualcuno stima che i bambini di fatto non scolarizzati siano ancora almeno la metà».
San Pedro e Abidjan, cacao invenduto e grattacieli
L’aria impregnata dell’odore acre delle fave di cacao è forse uno dei tratti distintivi di San Pedro, insieme alle file di camion che trasportano, oltre al cacao, anche gli altri prodotti delle piantagioni ivoriane. Ma nell’inverno del 2016 nell’aria si respirava anche apprensione: 400 mila tonnellate di cacao erano bloccate nei porti ivoriani e cominciavano a marcire. Il Conseil Café-Cacao, riportava il quotidiano francese Le Monde3, aveva fissato per il 2016 il prezzo cosiddetto «a bordo campo» a non meno di 1.100 franchi al chilo, 1,67 euro. Gli esportatori devono vendere ad almeno 1.800 franchi (2,74 euro) per guadagnare qualcosa considerando anche i costi di manodopera e trasporto. Ma da agosto dell’anno scorso il prezzo del cacao sul mercato mondiale è diminuito del 25% e ora un chilo vale 1.300 franchi, poco meno di due euro. A febbraio, del fondo che il Conseil Café-Cacao ha a disposizione per rimborsare gli esportatori in questi casi nessuno aveva ancora visto un franco. E, spesso, i produttori ricevono il pagamento per il raccolto in parte alla consegna e in parte anche mesi dopo, perciò, se non arrivano prima i rimborsi agli esportatori per l’invenduto i coltivatori rischiano di non incassare nulla.
E se questo è il problema più immediato, non è però l’unico: la rivista Jeune Afrique4 riportava diverse testimonianze di addetti ai lavori secondo i quali la metà del cacao venduto come equo, solidale e sostenibile avrebbe avuto una certificazione fasulla. Questo tipo di cacao può essere venduto a un prezzo più alto di quello del cacao ordinario, perché, in teoria, ha costi di produzione maggiori dovuti a standard più elevati nel trattamento dei lavoratori e nei metodi di coltivazione. Dopo che i colossi del cioccolato, Mars e Lindt in testa, si sono impegnati ad arrivare entro il 2020 a comprare solo cacao certificato, questa fetta di mercato ha avuto un boom. Ma qualcosa non torna: la certificazione è un processo lungo e meticoloso, eppure nel 2015 un terzo del cacao ivoriano – cioè 600 mila tonnellate su un milione e 800 mila – risultava certificato. Troppo in troppo poco tempo, sostengono gli scettici. Alcuni operatori avrebbero fiutato l’affare e costituito delle cooperative intermediarie che comprano cacao ordinario al prezzo minimo, ottengono false certificazioni e rivendono il cacao come equo, facendo così una cresta che può arrivare a 170 Fcfa (18 centesimi di euro) al chilo. Il cacao, ricordava ancora Le Monde, genera due terzi dei posti di lavoro e dei redditi nel paese, la metà degli introiti delle esportazioni e il 15 per cento del Pil. È un settore con il potere di mettere in crisi l’intero paese.
A guardare le scenografiche luminarie delle feste scintillare sui vetri dei grattacieli del Plateau, il quartiere chic di Abidjan, a sentire i comunicati con cui le Nazioni Unite annunciano che la situazione è abbastanza stabile da ritirare la forza di pace5, o a leggere che il volume degli scambi di denaro via cellulare tocca i 25 milioni di euro al giorno6 non si direbbe che la Costa d’Avorio possa ripiombare nel caos. E il ricordo ancora vivo del conflitto, della paura costante, del paese spaccato a metà potrà aiutare a contenere le spallate di inizio anno. Ma certamente il 2017 sarà un banco di prova fondamentale per evitare sia un nuovo conflitto sia il cronicizzarsi di una latente, logorante instabilità.
Chiara Giovetti
(2 – fine)
Note
1- L’Harmattan è un vento secco e polveroso che soffia a Nordest e Ovest, dal Sahara al Golfo di Guinea, tra novembre e marzo. È considerato un disastro naturale (Wikipedia).
2- The Dark Side of the Chocolate – Il Lato Oscuro del Cioccolato – Italiano, 02 agosto 2014, canale Youtube «doppiatorianonimi».
3- Charles Bouessel, Comment la Côte d’Ivoire se retrouve avec 400 000 tonnes de cacao invendues sur les bras,
lemonde.fr, 16 febbraio 2017.
4- Charles Bouessel, Agriculture : la filière cacao envahie par la fraude à la certification, jeuneafrique.com, 3 febbraio 2017.
5- Carlverth Kouakou, Côte d’Ivoire : Les casques bleus quittent le pays à partir du 15 février, laseve.info, 10 febbraio 2017.
6- Hamsatou Anabo, Côte d’Ivoire: Entre 15 et 18 milliards CFA de transactions quotidiennes via Mobile Money, connectionivoirienne.net, 3 febbraio 2017.
Perdenti 16 Iqbal Masih
Iqbal Masih nacque in Pakistan nel 1983 in una famiglia cristiana poverissima a Muridke, abitato a Nord di Lahore, città con la più grande comunità cristiana del paese, nella provincia del Punjab. A causa di un indebitamento, contratto quando Iqbal aveva 5 anni, i suoi genitori furono costretti a «cederlo» a un fabbricante di tappeti per l’equivalente di 12 dollari. Il bimbo iniziò a lavorare 12 ore al giorno, per sette giorni alla settimana, incatenato al telaio, senza la possibilità di uscire dalla fabbrica, subendo maltrattamenti, con uno stipendio pari a una sola rupia al giorno (corrispondente a pochi centesimi di euro). Gli interessi del debito invece crescevano negando a Iqbal la possibilità di riscatto. Lavorò fino all’età di nove anni, quando, durante una fuga, fortuitamente venne a conoscenza delle attività di un’organizzazione in difesa dei diritti dei bambini lavoratori. Grazie a essa ritrovò la libertà, e iniziò a impegnarsi per la liberazione degli altri bambini. Una serie di circostanze favorevoli lo portarono alla ribalta dell’opinione pubblica internazionale e la sua testimonianza fu determinante per rompere il silenzio di omertà che copriva lo sfruttamento dei minori nel mondo. Il giorno di Pasqua del 1995, mentre andava a messa, fu ucciso da ignoti.
Iqbal, come ti ritrovasti a lavorare più di dodici ore al giorno a un telaio per fabbricare tappeti?
La mia famiglia era poverissima, mio papà per uscire dalla situazione economica molto precaria in cui ci trovavamo contrasse dei debiti con delle persone poco raccomandabili, praticamente degli strozzini che gli proposero di restituire il debito mandando uno dei suoi figli a lavorare per loro in una fabbrica di tappeti.
E tu ti offristi per andare a lavorare da quella gente per aiutare la tua famiglia?
Sì, perché mio padre era malato e poteva lavorare poco. A casa nostra si faceva una gran fatica a racimolare i pochi soldi necessari per vivere, per questo fin da piccoli tutti noi eravamo coinvolti nel trovare aiuti necessari per la sopravvivenza della nostra famiglia.
In cosa consisteva il tuo lavoro?
Io e gli altri bambini della fabbrica facevamo tappeti. Lavoravamo su dei telai tradizionali che richiedevano molta destrezza e mani piccole. Le nostre piccole dita si infilavano agevolmente nell’ordito e nella trama del tessuto: potevamo così realizzare disegni molto raffinati ed elaborati. Bisognava però lavorare giorno e notte, con tui massacranti. Ci tenevano incatenati l’uno all’altro per paura che fuggissimo. Ma io, almeno all’inizio, non avevo alcuna intenzione di fuggire perché dovevo aiutare la mia famiglia. Il padrone ci teneva sotto controllo ogni istante e se sbagliavamo a fare i nodi nel disegno di un tappeto ci puniva severamente. A volte ci costringeva a stare senza mangiare e bere dentro una scatola di lamiera sotto il sole.
Capitò anche a te di subire quel tipo di punizione?
Sono finito due volte lì dentro, una volta da solo e un’altra insieme a un ragazzo malato ai polmoni. Dopo qualche giorno è morto senza che nessuno avesse chiamato un medico per curarlo.
Non cercaste mai di scappare?
Una volta fuggii e mi rivolsi alla polizia, ma venni riportato alla manifattura e bastonato per punizione. Un’altra volta uscii dalla fabbrica insieme ad altri bambini di nascosto, e per caso assistemmo alla celebrazione della «Giornata della Libertà» organizzata dal Fronte di Liberazione dal Lavoro Schiavizzato (Bounded Labour Liberation Front – Bllf). Per la prima volta sentii parlare dei diritti dei bambini e descrivere la nostra condizione di schiavitù.
Quello fu un momento importante per te…
In quell’occasione conobbi Eshan Ullah Khan, leader del Bllf, il sindacalista che sarebbe stato la mia guida verso una nuova fase della mia vita, dedicata alla difesa dei diritti dei bambini.
Cosa successe dopo?
Ritornato nella manifattura, mi rifiutai di riprendere il lavoro malgrado le percosse. Il padrone disse alla mia famiglia che il debito contratto anziché diminuire era aumentato a diverse migliaia di rupie. Nel conto aveva inserito anche il cibo (sebbene scarso) che mi era stato dato, gli errori di lavorazione e altre menzogne. La mia famiglia fu costretta dalle minacce ad abbandonare il villaggio e io fui ospitato in un ostello dalla Bllf. Lì potei cominciare a studiare.
Il fatto di essere accolto da una struttura che, invece di sfruttarti, ti proteggeva, ti mise nelle condizioni di diventare un testimone dei soprusi che venivano compiuti verso voi bambini.
Dopo che incominciai a raccontare e a esporre al pubblico le terribili condizioni di vita a cui erano sottoposti i miei coetanei, il mio racconto venne ripreso e pubblicato dai giornali locali, da lì, per una serie di fortuite coincidenze, la storia rimbalzò sui mass media di tutto il mondo.
Così diventasti portavoce e simbolo del dramma dei bambini lavoratori in Pakistan, come in altri paesi in tutto il mondo.
Nel 1993, quando avevo dieci anni, invitato da diverse organizzazioni mondiali, cominciai a viaggiare e a partecipare a conferenze inteazionali, sensibilizzando l’opinione pubblica sui diritti che nel mio paese erano negati ai minori e contribuendo al dibattito sulla schiavitù mondiale e sui diritti inteazionali dell’infanzia.
Con le tue denunce e nella tua veste di «sindacalista bambino», non temevi per la tua vita?
Sulle prime avevo paura, ma con il tempo mi passò. A un certo punto mi accorsi di non avere più paura dei padroni, anzi, prendevo atto che erano i padroni che avevano paura di me e di noi bambini lavoratori e della nostra ribellione. Maturai anche l’idea che da grande sarei andato all’università per conseguire la laurea da avvocato per difendere coloro che erano oppressi e che vivevano situazioni intollerabili.
È vero che la tua fede religiosa ti fu molto di aiuto e ti sostenne nei momenti più duri e difficili?
Proveniente da una famiglia cristiana in un paese a stragrande maggioranza islamica, pregavo il Signore Gesù che mi desse la forza di rendere testimonianza della fede che avevo in lui e questo lo affermai in diverse occasioni nei miei viaggi per gli incontri inteazionali.
Se non vado errato hai anche ricevuto dei riconoscimenti inteazionali?
Nel dicembre del 1994 ottenni un premio di 15.000 dollari, con il quale decisi di finanziare una scuola in Pakistan. Ricevetti anche una borsa di studio per studiare all’estero, ma la rifiutai perché avevo deciso di rimanere in Pakistan, per portare avanti la mia campagna in favore dei più piccoli.
La tua attività come difensore dei bambini e la tua determinazione nel far conoscere al mondo il dramma del lavoro minorile sortì qualche effetto nella tua terra?
Circa tremila piccoli schiavi come me poterono uscire dalla loro condizione: sotto la pressione di alcuni organismi inteazionali, il governo pakistano iniziò a chiudere decine di fabbriche di tappeti che sfruttavano i minori.
Il 16 aprile 1995, domenica di Pasqua, all’età di 12 anni, Iqbal Masih venne assassinato, mentre si stava recando in bicicletta in chiesa. L’edificio era nei pressi della casa di sua nonna dove poi sarebbe andato con i suoi cugini. Alla notizia della sua morte, Ullah Khan affermò che si era trattato di un complotto «della mafia dei tappeti». Qualcuno si era sentito minacciato dall’attivismo di Iqbal, la polizia fu accusata di collusione con gli assassini. Di fatto molti dettagli di quel tragico giorno sono ancora oggi avvolti dall’oscurità. Alcuni testimoni affermarono di aver visto una macchina (dai finestrini oscurati) avvicinarsi al ragazzo in bici, dall’auto sarebbero partiti dei colpi di arma da fuoco.
Nel 2000 Iqbal fu il primo a ricevere, sia pur alla memoria, il World’s Children’s Prize, premio per i diritti dei bambini. Nel messaggio di fine anno del 31 dicembre 1997, il presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro ricordò il grande sacrificio di Iqbal Masih.
I suoi assassini, spezzandone la vita, hanno collocato la sua figura nel Pantheon dei testimoni che sacrificano la loro esistenza illuminando il cammino dell’umanità e ne hanno fatto un piccolo grande rivoluzionario.L’esempio che Iqbal ha seminato in Pakistan, come nel mondo intero, resta indimenticabile per tutti.
Il Bllf continua la sua difficile campagna per la liberazione da qualsiasi tipo di schiavitù, soprattutto contro l’asservimento dei bambini, per l’aumento delle paghe e per il cambiamento della legislazione.
Mario Bandera, Missio Novara
Lavorare da morire
Il rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil)
Lavorare da morire
Per molti avere un lavoro è un miraggio. Per altri può divenire una fonte di pericolo: le cifre degli incidenti e delle malattie professionali sono impressionanti. Se poi la collettività non si fa carico (come suggeriscono i teorici del libero mercato) dei danni patiti, allora per il lavoratore e la sua famiglia la vita può diventare un autentico calvario.
Tre anni fa, Nolberto, il mio amico peruviano, ha avuto un incidente d’auto mentre lavorava. A Villa El Salvador, in Perù, una sera come tante, la sua vita è precipitata. Un pullman, guidato da un ubriaco, ha superato un’auto e, nonostante il tentativo di buttarsi fuori strada, l’ha preso in pieno.
L’auto sulla quale Nolberto viaggiava è andata distrutta: lui e due altri passeggeri sono stati portati in ospedale.
Dopo le prime cure, i medici hanno fatto la lista della spesa e l’hanno passata ai parenti. C’è bisogno di tante sacche di sangue, di tanti donatori, di chiodi per sistemare il femore, fili e aghi da sutura, medicine, esami di laboratorio, radiografie, il vitto, la riabilitazione e così via.
Per fortuna, Nolberto non è uno che si perde d’animo. Ha chiamato a raccolta gli amici; gli amici hanno chiamato altri amici e così si è formata la fila per donare il sangue, hanno raccolto i primi soldi per le cose più urgenti. Lui ha dovuto vendere lo scassato pullmino, che era non solo il suo orgoglio, ma anche e soprattutto lo strumento del suo lavoro, quello che gli permetteva di mantenere la moglie e i tre figli.
Nolberto è sopravvissuto. Gli hanno impiantato un chiodo dopo averlo messo in trazione, ma non aveva i soldi per l’operazione definitiva e la riabilitazione l’ha fatta da solo. Per questo è rimasto zoppo; comunque sia, dopo 6 mesi ne è uscito.
No, non era disperato. Mi ha semplicemente spiegato che, per sopravvivere in quei 6 mesi, si era «mangiato» tutto quello che per anni aveva investito nel pullmino, ma che per fortuna aveva salvato la casa. E poi ha ricominciato. Ha ricominciato da zero. Ha affittato un’auto ed ha iniziato a fare il taxista. Io ho la sua stessa età e non so se sarei in grado di ricominciare da zero.
Mi ha detto che è stato fortunato. Che lui aveva già informato i suoi figli che non avrebbe lasciato loro niente, perché la sua casa è una baracca e il suo lavoro è appeso a un filo che ogni tanto si può spezzare. Ha spiegato loro che la cosa importante era lo studio: questa era l’unica cosa che poteva lasciare loro insieme al suo cognome.
IL RAPPORTO OIL: UN BOLLETTINO DI GUERRA
Nolberto è solo una delle 270 milioni di persone che ogni anno nel mondo subiscono un infortunio sul lavoro e che si sommano ad altri 160 milioni di lavoratori che, sempre in un anno, contraggono una malattia professionale.
Si muore soprattutto di cancro (32% dei decessi, 640 mila morti all’anno), per malattie all’apparato circolatorio (23%), incidenti (19%) e per aver contratto malattie contagiose (17%). L’amianto, da solo, causa ogni anno 100 mila morti. Ogni anno, poi, muoiono 12 mila minori sul lavoro.
È il rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil) del 2003, che getta sulle nostre coscienze queste spaventose cifre. Ha avuto la sfortuna di essere pubblicato durante la guerra dell’Iraq ed è passato praticamente sotto silenzio.
Tra i settori più pericolosi spicca l’agricoltura, che occupa più della metà dei lavoratori nel mondo e conta più del 50% di incidenti e morti sul lavoro. La maggior parte delle vittime appartiene ai paesi in via di sviluppo, dove si concentrano le attività del settore primario: l’agricoltura, la pesca, l’estrazione mineraria e la silvicoltura. Ad ogni modo l’Oil rileva che, in generale, in tutto il mondo è carente l’informazione sulle precauzioni da adottare sul lavoro per evitare di contrarre malattie o di rimanere vittime di infortuni.
Secondo l’Oil circa l’80% degli infortuni e delle morti bianche potrebbe essere prevenuto se tutti gli stati membri dell’Organizzazione internazionale del lavoro ricorressero alle migliori e più comuni strategie di prevenzione e sicurezza.
Definire il rapporto Oil un bollettino di guerra è riduttivo perché le vittime del lavoro sono più del doppio di quelle provocate dai conflitti, superano di molte lunghezze quelle causate dall’alcornol e dalla droga. Dei 250 milioni d’infortuni che si verificano ogni anno molti hanno conseguenze permanenti, menomazioni della salute, handicap, perdita del lavoro, povertà.
Alcune cifre: nel mondo, un morto ogni 15 secondi, 5.470 al giorno, 2 milioni all’anno; in Italia, 1.360 morti in un anno.
Il costo degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali è pari al 4% del prodotto interno lordo del pianeta, supera di venti volte il totale degli aiuti ai paesi sottosviluppati. «Tutti gli incidenti sono prevedibili e prevenibili», afferma il rapporto dell’Oil che indica l’agricoltura, l’edilizia e le miniere come i settori più mortiferi, sia nei paesi avanzati che in quelli emergenti.
La media dei morti per infortuni sul lavoro è di 14 decessi per 100 mila lavoratori. Nei paesi ricchi (Nord America, Europa occidentale, Au-stralia, Giappone), il rapporto scende a 5,3; è 11 nei paesi ex socialisti, Cina e India; 13 in America Latina. Il tasso sale a 21 morti per 100 mila lavoratori in Africa subsahariana, 22,5 nel Medio Oriente e tocca il massimo – 23,1 – in Asia, dove, escludendo Cina, Giappone e India, nel ’98 si sono verificati 80.600 incidenti mortali.
Oltre a ciò, vanno aggiunte le vittime della violenza sul lavoro. Secondo stime della Confederazione internazionale dei sindacati (Icftu), nel 2001 sono stati uccisi o fatti scomparire 209 sindacalisti (+50% sul 2000), 8.500 sono stati arrestati, 3 mila sono stati feriti. Circa 20 mila lavoratori sono stati licenziati per la loro attività sindacale.
Il direttore dell’Infocus programme dell’Oil, Jukka Takala, dichiara: «Si riscontra un forte calo dei feriti gravi nei paesi industriali. Questo miglioramento è imputabile sia ai cambiamenti strutturali (diminuzione del numero di lavoratori impegnati nelle attività pericolose del settore agricolo, industriale, minerario e della costruzione) che alle misure concrete d’igiene e sicurezza sul lavoro».
Tanto per cambiare, nei paesi in via di sviluppo (Pvs) la tendenza è ancora meno favorevole. La migrazione delle popolazioni verso le città, l’apparizione di nuove industrie, il ricorso a lavoratori inesperti nel settore industriale imposto dalla globalizzazione, il crescente fabbisogno di nuovi alloggi, l’intensificarsi del traffico stradale, la meccanizzazione dell’agricoltura sono altrettante cause dell’aumento del tasso di malattie e incidenti nei Pvs. Solo nell’Africa subsahariana, si stimano ogni anno 125 mila decessi riconducibili all’attività lavorativa.
Non dimentichiamo che l’indennizzo per le malattie e incidenti legati al lavoro è praticamente inesistente nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Soltanto 23 stati hanno ratificato la Convenzione n° 121 sugli indennizzi e riconoscimenti in caso di incidenti sul lavoro o di malattie professionali, adottata nel 1964 e dove sono elencate le malattie che devono essere oggetto di risarcimento.
Bisogna intraprendere, poi, azioni urgenti contro l’Aids. Le ultime valutazioni segnalano 23 milioni di lavoratori che soffrono di questa malattia, con 17,5 milioni in soli 43 paesi africani, tanto da generare una condizione di emergenza che non può essere ignorata.
Per l’Oil, infine, i sindacati non devono mai abbassare la guardia. Imprenditori e lavoratori potrebbero pensare che «capita soltanto agli altri». Non dimentichiamo che per ogni incidente mortale avvengono 1.200 incidenti meno seri, all’origine di una sospensione di lavoro per almeno tre giorni, 5 mila feriti necessitano di una cura e 70 mila incidenti lievi. Per evitare un incidente mortale occorre quindi agire sull’insieme degli altri elementi che sono spesso all’origine di un decesso sul lavoro.
E poi ci sono i bambini, i minori.
ILLEGALE, MA DIFFUSO
Oggi nel mondo un bambino su sei è vittima del lavoro minorile ed è sottoposto a lavori nocivi per la sua salute mentale e fisica o per il suo sviluppo emozionale.
Questi bambini lavorano in vari settori dell’industria in diverse parti del mondo, soprattutto nell’agricoltura dove sono esposti a prodotti chimici e a macchinari pericolosi. Altri bambini lavorano per strada come venditori ambulanti o come fattorini; altri ancora sono lavoratori domestici, operai o sono costretti a prostituirsi. A nessuno di loro vengono offerte reali possibilità di vivere una infanzia normale, di ricevere una vera educazione o di aspirare a delle condizioni di vita migliori.
Dal lavoro di questi bambini dipende la loro sopravvivenza nonché quella delle loro famiglie. Anche se è stato dichiarato illegale, il lavoro minorile persiste tuttora, avvolto spesso da un muro di silenzio, di indifferenza e di apatia.
Inizia tuttavia a sgretolarsi il muro del silenzio. Se l’eliminazione totale del lavoro minorile rimane un obiettivo di lungo periodo per numerosi paesi, alcune forme di esso vanno però fronteggiate senza indugio. Poco meno di 3/4 dei bambini che lavorano operano in attività universalmente riconosciute come forme peggiori di lavoro minorile: traffico di esseri umani, conflitti armati, schiavitù, sfruttamento sessuale, lavori pericolosi. L’abolizione effettiva del lavoro minorile costituisce una delle sfide più urgenti del nostro tempo.
LÀ DOVE TUTTO È UN LUSSO
Quando per un periodo ho lavorato nella zona industriale di Villa El Salvador per impiantare le basi di un programma di medicina del lavoro, i piccoli impresari e artigiani mi dicevano che loro prima di tutto volevano lavorare e che la sicurezza era un lusso.
È proprio così: i maggiori disastri ambientali, le più grandi tragedie del trasporto, i più tremendi incendi nei luoghi pubblici, gli effetti più disastrosi dei fenomeni naturali (terremoti, uragani, inondazioni, ecc.), avvengono nei paesi in via di sviluppo. In quei paesi la prevenzione è un lusso, l’attenzione all’ambiente un altro lusso; è lusso anche avere un lavoro fisso, magari di 12 ore al giorno, senza protezione sociale, senza regole, senza controlli, senza sicurezza.
In quei paesi, al contrario del nostro immaginario collettivo, si lavora tanto, ma proprio tanto: lavorano tanto gli uomini, lavorano tanto le donne, lavorano tanto i bambini. In quei paesi si lavora tanto da morire.
Organizzazione internazionale del lavoro (Oil):
numero di morti per 100.000 lavoratori
America del Nord, Europa Occidentale, Australia, Giappone 5,3
Paesi ex socialisti, Cina e India 11,0
America Latina 13,0
Africa Sub-sahariana 21,0
Medio Oriente 22,5
Asia (escluso India, Cina e Giappone) 23,1Media mondiale 14,0
DATI STATISTICI SUL LAVORO MINORILE
• 246 milioni di bambini sono costretti a lavorare.
• 73 milioni dei quali hanno meno di 10 anni.
• Nessun paese ne è immune: si stimano in 2,5 milioni i bambini che lavorano nei paesi sviluppati e in 2,5 milioni quelli che lavorano nei paesi in transizione, come gli stati dell’ex Unione Sovietica.
• Muoiono ogni anno 12 mila bambini a causa di incidenti sul lavoro.
• La maggior parte (circa 127 milioni) dei bambini di età inferiore ai 14 anni costretti a lavorare, vive nella regione dell’Asia e del Pacifico.
• La proporzione più alta di bambini costretti a lavorare si osserva nell’Africa subsahariana: quasi un terzo (48 milioni) di bambini di età inferiore ai 14 anni.
• Nel mondo, la maggior parte dei bambini che lavorano sono impiegati nel settore informale, dove non sono tutelati da alcuna protezione legale o regolamentare:
• il 70% è attivo nell’agricoltura, caccia e pesca industriali o industria del legno;
• l’8% lavora nelle industrie manifatturiere;
• l’8% è attivo nel commercio all’ingrosso e al dettaglio, ristorazione e settore alberghiero;
• il 7% lavora nei servizi comunitari, sociali e personali, come i lavori domestici;
• 8,4 milioni di bambini sono nella trappola della schiavitù, traffico di esseri umani, asservimento dei figli per ripagare i debiti, prostituzione, pornografia o altre attività illecite;
• tra questi ultimi, sono 1,2 milioni i bambini vittime del traffico di esseri umani.