Ragazzi dimenticati

Tra i migranti che attraversano il mediterraneo o la rotta balcanica, diversi sono ragazzi soli, minori non accompagnati. Come gli adulti, anche loro hanno un progetto migratorio, un sogno. Fuggiti da contesti pericolosi per la loro vita, viaggiano in cerca di un luogo sicuro in Europa. Ma l’Europa li respinge, e lo fa talvolta con violenza. Quella fisica, e quella psicologica dell’indifferenza istituzionale che li rende invisibili.


testi e foto di Daniele Biella; dossier a cura di Luca Lorusso |


Sommario

Fantasmi in carne e ossa

I minori migranti senza famiglia in cerca di un approdo

Tra i migranti che attraversano il mediterraneo o la rotta balcanica, diversi sono ragazzi soli, minori non accompagnati. Come gli adulti, anche loro hanno un progetto migratorio, un sogno. Fuggiti da contesti pericolosi per la loro vita, viaggiano in cerca di un luogo sicuro in Europa. Ma l’Europa li respinge, e lo fa talvolta con violenza. Quella fisica, e quella psicologica dell’indifferenza istituzionale che li rende invisibili.

«Ogni giorno e ogni notte attraversano i confini degli stati membri dell’Unione europea, premio Nobel per la pace, che continua a chiudere gli occhi di fronte alle violenze che sono costretti a subire». Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children Italia non parla di fantasmi, ma di persone, di minorenni stranieri non accompagnati.

Sono ragazzi soli, che lasciano l’inospitale madrepatria muovendosi, senza documenti validi, per mesi o anni, lungo rotte precarie e malsane. Si fermano ogni tanto per svolgere lavori di fortuna utili a guadagnare il pezzo successivo del viaggio. Magari hanno in testa una meta precisa: Inghilterra, Germania, Belgio, Francia, Olanda, ma il loro futuro è incerto. La loro condizione di migranti e di minori lontani dalla famiglia originaria, li espone alle leggi spesso anacronistiche degli stati che attraversano, e a persone senza scrupoli che lucrano sulle loro speranze.

Un disastro umanitario nero su bianco

Save the Children Italia, che ha come mission la salvaguardia dei minori e delle loro famiglie, ha compiuto di recente un passo importante per far uscire allo scoperto il tema della condizione dei migranti minori non accompagnati, portandolo sui tavoli del potere in Italia e in Europa: ha chiesto a due giornalisti – a chi scrive, e al fotoreporter Alessio Romenzi – di seguire le rotte percorse a piedi dai minori non accompagnati lungo le frontiere Nord dell’Italia, oggi più interessate dalle migrazioni forzate, ovvero quelle di Trieste e Udine in entrata e di Ventimiglia e Oulx/Claviere in uscita. Ad accompagnare i due giornalisti, per quasi due mesi di ricerca sul campo, Antonella Inverno, responsabile infanzia e adolescenza dell’Ong fondata a Londra nel 1919 da Eglantyne Jebb.

Lo scopo? Realizzare un report che mettesse nero su bianco il disastro umanitario in atto nelle strade e dentro i confini d’Europa – dove i riflettori accesi sono pochi -, che avesse come protagonisti i più vulnerabili, i ragazzini soli.

«Nascosti in piena vista» è il titolo del report, uscito il 17 giugno 2021, tre giorni prima della Giornata mondiale del rifugiato e alle porte del Consiglio d’Europa. Una cinquantina di pagine (consultabili e scaricabili dal sito: www.savethechildren.it/storie-di-minori-migranti) con un forte j’accuse verso le istituzioni europee che, appunto, lasciano diventare fantasmi persone che invece hanno diritto a un’accoglienza immediata e a una vita dignitosa.

Nascosti in piena vista

Sono 9.131 i minori stranieri non accompagnati censiti in strutture di accoglienza in Italia a fine agosto 2021 (in forte aumento rispetto al 2020 quando sono stati 7.080 quelli registrati nell’intero anno). Per il 97% sono maschi, l’87% ha 16-17 anni. Le nazionalità più frequenti sono Bangladesh, Tunisia, Egitto, Albania, Pakistan, Costa d’Avorio, Guinea Conakry e Afghanistan. Uno su tre si allontana dalla struttura dopo pochi giorni, con punte del 70% in alcune zone.

Altri dati interessanti emergono dall’analisi sul campo sulle frontiere meno monitorabili, quelle cui arrivano i migranti dalla cosiddetta «rotta balcanica», ossia quelle oggetto del report di Save the Children: i boschi tra Slovenia e Friuli Venezia Giulia, e i valichi e le montagne tra Liguria, Piemonte e Francia (come il «Passo della morte» tra Ventimiglia e Mentone): quasi nessuno si ferma in Italia, che siano minori soli o adulti e famiglie.

Nonostante la possibilità di fare domanda di asilo nel nostro paese, o, nel caso del minore, quella di venire accolto subito in comunità protette (come accade ai minori italiani, possibilità introdotta dalla Legge Zampa n. 47/2017, unica del suo genere in Europa), essi non si fermano, perché il loro progetto migratorio prevede di arrivare dove si trovano i loro famigliari, o comunque un numero maggiore di connazionali.

Tanti ragazzi afghani e pachistani, ad esempio, privilegiano l’Inghilterra o la Germania. Chi proviene dall’Africa subsahariana ed è francofono, vuole andare in Francia. Mentre iracheni e iraniani – nazionalità in crescita lungo le frontiere, anche famiglie con bimbi piccoli al seguito – puntano a diverse zone del Nord Europa.

L’aspetto più sconcertante che la ricerca mette in evidenza è che questi ragazzi in viaggio sono in balia di loro stessi. Se non fosse per il terzo settore (Ong, fondazioni, associazioni di volontariato, cooperative sociali, parrocchie) e per semplici cittadini che li intercettano rendendosi disponibili anche solo a dare loro un pasto caldo, un cambio di vestiti, o suggerire dove trovare un giaciglio per la notte, i rischi per loro aumenterebbero a dismisura.

Muri anacronistici e illegali

Il rifugio di Oulx, gestito dalla Fondazione Talità Kum; il presidio di Ventimiglia, nella sede di Caritas Intemelia, dove operano anche Save the Children, Diaconia Valdese e WeWorld; la postazione mobile della Croce Rossa Italiana a Claviere; i volontari dell’associazione Linea d’Ombra, con le associazioni Ics e StradaSiCura, nella piazza della stazione di Trieste dove i migranti arrivano con piedi e gambe devastati da settimane di cammino lungo la rotta balcanica, dopo privazioni e botte subite dalle forze dell’ordine di confine, soprattutto tra Croazia e Bosnia (si veda La dignità sotto i piedi, MC marzo 2021, ndr.). Ecco alcuni capisaldi di solidarietà in mezzo a un’indifferenza istituzionale che è capace di tramutarsi in un muro anacronistico, se non illegale.

Il muro di cui parliamo non è fatto dalle sole violenze fisiche subite dai migranti lungo alcuni confini d’Europa, come, appunto, quello croato o quello bulgaro, ma anche di atti illegittimi all’interno dei confini dell’Ue: diversi minori incontrati durante la ricerca hanno raccontato, ad esempio, di respingimenti subiti dalla polizia francese senza ricevere alcun documento in merito. Trattati come fantasmi, appunto. Altri si sono visti la propria data di nascita modificata dagli ufficiali di frontiera perché risultassero maggiorenni e quindi espellibili. Ci si chiede il motivo di questo accanimento, ma la risposta non arriva. Save the Children e tanti altri enti chiedono all’Unione europea per quale motivo non adotti leggi comuni per i minori, come per esempio un «lasciapassare» che permetta loro di chiedere aiuto dove si sentono più al sicuro.

I ragazzi migranti, invece, sono costretti a passare notti nei boschi o in mezzo alla neve delle montagne, vengono respinti e costretti a ritentare il passaggio. Nessuno di loro torna indietro. Tentano e ritentano non appena recuperate le forze, finché non ci riescono.

L’immagine è quella di un gioco dell’oca in cui tutti perdono: i migranti in termini di serenità mentale (quanto peserà dentro di loro la sensazione di essere considerati numeri e non persone?), le autorità che spendono milioni di euro in personale e attività di monitoraggio utili solo a tardare l’ineluttabile passaggio di frontiera, l’umanità stessa che vede quanto sia facile vanificare il messaggio ecumenico di papa Francesco sulla fratellanza tra i popoli.

L’ingresso in Italia: la fine del «game»

«Quando sbuchi dai boschi della Slovenia, ti può capitare di vederla all’improvviso. L’Italia. Trieste, il suo mare. La fine della rotta balcanica, il game over di settimane di cammino e mesi di attesa, preoccupazione, paura. Puoi ritrovarti nel paesino di Dolina, lungo la ciclabile della Val Rosandra, a Basovizza, o nella miriade di altri luoghi del Carso da cui puoi immetterti su una strada italiana e da lì proseguire il tuo viaggio migratorio nell’Europa che fa finta di non vederti o, quando ti trova, ti trattiene valutando se e quando può respingerti». Inizia così la parte del report di Save the Children dedicato all’ingresso in territorio italiano dal confine sloveno: in tutto, 232 chilometri impossibili da monitorare. Da qui passa almeno il 50% dei minorenni non accompagnati che transitano sul territorio italiano.

Nei boschi si trovano gli oggetti del passaggio delle persone: pettini, dentifrici, documenti, vestiti. Tutto viene lasciato nel bosco perché ora inizia una nuova vita nella quale si può e si deve lasciare il passato alle spalle.

Mauro Caputo, videomaker che abita proprio dalle parti di Dolina, ha realizzato su questi oggetti un intenso docufilm, No Borders. Flusso di coscienza. Lui, come molte altre persone, tentano di capire le esigenze dei profughi in cammino che arrivano a piedi alla stazione di Trieste, dove cercano di prendere treni per attraversare il Nord Italia.

Violenze impunite

Fino a un anno fa, come raccontano testimoni diretti, anche l’Italia si macchiava delle riammissioni di persone in Slovenia, a volte anche minori che raccontano di non avere avuto la possibilità di dire la propria l’età. Queste riammissioni sono state poi interrotte anche grazie all’opera di pressione legale di Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione.

Ora, chi viene intercettato, per esempio dai militari dell’Operazione strade sicure che pattugliano le vie tra i boschi, viene ospitato in un centro di quarantena, a Trieste come a Udine.

Adulti e minori non accompagnati vanno in strutture diverse tra loro. A gestire le strutture per minori, ci sono enti del privato sociale come la cooperativa Aedis a Udine, Casa dello studente sloveno e Duemilauno agenzia sociale a Trieste.

Dopo il periodo di isolamento, per i minori c’è l’ingresso in una comunità, ma i ragazzi, a questo punto, spesso fuggono per altre destinazioni.

«Voglio diventare informatico in Inghilterra, dove ho un cugino. Mi piacerebbe avere i miei genitori vicini, ma in Afghanistan non si può vivere bene e non è possibile studiare (già prima del ritorno al potere dei talebani, ndr.)», racconta Nadir, 16 anni. «Ai miei fratelli però dico di non fare il viaggio che ho fatto, perché in Bulgaria sono rimasto in prigione tre mesi, sono stato picchiato. Se dici che sei un minorenne, non ascoltano. Quando sono arrabbiati, picchiano e basta».

Testimonianze come la sua si moltiplicano, in particolare su quanto accade lungo il confine croato in ingresso dalla Bosnia. A metà ottobre, un video dell’equipe d’indagine giornalistica Lighthouse Reports ha mostrato scene di violenza ai danni di migranti anche molto giovani.

Svariati appelli all’Unione europea arrivano da più parti, ma finora sono rimasti inefficaci, dato che le autorità croate non hanno fatto nulla di più dell’avvio di una «commissione di monitoraggio» che avrebbe lo scopo di verificare i fatti, più che di processare i responsabili.

Nel frattempo, i «game» («giochi», come vengono chiamati dagli stessi migranti i tentativi di superamento delle frontiere) continuano, e ragazzi e adulti provano il passaggio di confine anche 10-15 volte prima di riuscire.

La psicologa Lorena Fornasir e il marito filosofo, Gian Andrea Franchi, fondatori dell’associazione Linea d’Ombra – a cui Missioni Consolata ha dedicato un reportage nel numero di marzo 2021 – molto attivi alla stazione di Trieste nel medicare le ferite dei migranti procurate dal viaggio, a metà ottobre sono ritornati a Velika Kladusa e Bihac, in Bosnia, dove hanno documentato con foto e racconti le condizioni di bambini, famiglie, adulti, anche in difficoltà psicofisiche, che rischiano la vita per superare la frontiera.

 

Ventimiglia, respingimenti dalla Francia

«Ho una ferita nella gamba di una pallottola che mi ha sparato un poliziotto libico quando sono scappato dal centro di detenzione», ci ha raccontato Gyasi, 17enne ciadiano. Durante l’intervista che gli abbiamo fatto, si trovava davanti alla struttura della Caritas Intemelia a Ventimiglia, di fianco ai binari della stazione ferroviaria da cui partono ogni giorno treni per la Francia.

Quei treni, Gyasi e tanti altri come lui, non li possono prendere, perché, seppure si trovino già sul suolo europeo, per effetto della sospensione dell’accordo di Schengen, non passerebbero al controllo: sono considerati irregolari.

Lui era arrivato un mese prima dalla Libia, dove era stato trattenuto e schiavizzato per venti mesi dalla malavita che sfrutta i migranti, e in quel momento voleva andare a Parigi. La notte prima era stato respinto dalla polizia francese: «Ho detto la mia data di nascita, 2004, quella con cui sono stato registrato allo sbarco in Sicilia. Ma non mi hanno creduto e mi hanno riportato in Italia scrivendo sul refus d’entrée una data che mi fa risultare maggiorenne». Sul suo certificato di nascita, che aveva con sé, era scritta la data del 2004. Ma non è bastato. La notte successiva, Gyasi ha ritentato, e non ha fatto ritorno. Qualche tempo dopo sul suo profilo Facebook ha messo la geolocalizzazione su Parigi: ce l’ha fatta, perlomeno ad arrivare alla meta.

Altri, invece, non ce la fanno, e sono messi a dura prova, rimanendo come «fantasmi» sospesi tra un luogo e l’altro.

A Ventimiglia, del resto, per tutto il 2021 non c’è stato nessun centro di accoglienza temporanea (prima della pandemia anche i minori soli potevano accedere temporaneamente all’hub della Croce Rossa), e questo ha significato una vita complicata all’addiaccio.

Ragazzi soli e allo sbando

Gli arrivi sono giornalieri, così come, del resto, le «ripartenze». Sono svariati, infatti, i modi in cui le persone cercano di passare a Mentone: a piedi via ferrovia o autostrada, o via sentiero, attraverso il temibile Passo della morte, sulla montagna a ridosso del mare. Per il Passo della morte si parte dal paesino di Grimaldi superiore. Lì vive Enzo Barnabà, storico e saggista che ha scritto, nel 2019, assieme a Viviana Trentin, un libro intitolato proprio così: Il Passo della Morte. Storie e immagini di passaggio lungo la frontiera tra Italia e Francia, nel quale narra la storia di questo passaggio attraverso i tentativi dell’ultimo secolo di superare la rete di confine.

I minori che arrivano a Ventimiglia sono reduci sia degli sbarchi in Sicilia sia del viaggio lungo la rotta balcanica. Vi arrivano in proporzioni simili, che variano a seconda del periodo: durante la ricerca erano maggiori gli arrivi dal «game». Ad aprile 2021, per esempio, dei 453 minori non accompagnati passati dal centro Caritas in cui Save the Children ha un Child friendly space (Spazio a misura di bambino), 149 erano stati registrati agli sbarchi. Il resto, 304 ragazzi, erano arrivati nella cittadina ligure dopo essere entrati in Italia in Friuli Venezia Giulia.

È un colpo al cuore incontrarli lungo il fiume Roja, alla periferia Nord della città. Lì vanno di sera per la distribuzione di viveri e per ricaricare i cellulari. Questi servizi sono offerti da attivisti di associazioni italiane e internazionali (per esempio 20K, Medecins du Monde e Kesha Nyia, che ha anche una cucina presidio vicino al punto di confine di Ponte San Luigi).

Li si può incontrare anche sui binari morti della stazione: spesso sono molto stanchi, alcuni in preda all’alcol che, in qualche modo, «lenisce le ferite» di quello che stanno vivendo, incalzati dai trafficanti che, nonostante i controlli, imperversano offrendo modi costosi e sempre più pericolosi per passare il confine.

Questi ragazzini sono davvero allo sbando: la loro presa in carico istituzionale, a livello europeo, ancor prima che italiano, dovrebbe avvenire al momento del primo ingresso in Europa. Invece sono qui, perché al posto dell’accoglienza hanno ricevuto dinieghi, e, in alcune frontiere, percosse.

La speranza supera il Monginevro

«C’è un pullman di linea che parte tutte le sere alle 19.45 da Oulx, operosa cittadina piemontese di montagna a pochi chilometri dal colle del Monginevro, confine tra Italia e Francia. Ogni persona che sale paga i 2,20 euro del biglietto che la porterà in 20 minuti al massimo a Claviere, ultimo centro italiano a quota 1.760 metri, meta sciistica incuneata nella Francia per tre dei suoi quattro lati. Dalla piazza Europa, nomen omen, dopo quattro chilometri di cammino su un piacevole sentiero senza troppo dislivello, si arriva a Mongénevre, territorio francese nel dipartimento Hautes-Alpes. Ma non tutte le persone che salgono sul pullman per Claviere potranno percorrere liberamente quel sentiero. Non ne hanno diritto, dice la Paf, la polizia di frontiera francese: devono chiedere asilo politico in Italia, non in Francia, se vogliono rimanere in Europa». A differenza di Ventimiglia, qui può succedere che un ragazzo minorenne venga respinto e riconsegnato alla polizia italiana senza alcun foglio di via, come se non fosse mai passato di lì. Non gli viene chiesta l’età – perché altrimenti dovrebbe essere preso in carico dalle istituzioni – e non gli viene consegnato nessun refus d’entree così che le associazioni francesi non abbiano prove per fare ricorso contro il respingimento.

Ancora una volta, quindi, ci troviamo di fronte a giovani vite sospese nel mezzo della Fortezza Europa, la quale, seppure sia tutt’altro che inespugnabile (anche in queste montagne, dopo qualche tentativo, si passa, spesso anche perché a fronte di poliziotti transalpini più duri, se ne possono trovare in altre notti di più «solidali») erige muri anche fra gli stati fondatori dell’Unione. E questo non accade solo alle frontiere orientali, dove la reticenza ad accogliere è maggiore, come in Ungheria, Polonia e, appunto, Bulgaria, oltre alla già citata Croazia. Meno male che da queste parti, nell’alta Val Susa, nota per la tenacia della sua gente, l’aiuto non manca: sono tanti i volontari che danno una mano, offrono un pasto o un alloggio, chiedono conto alle autorità (che, a volte, vedi il Comune di Oulx con l’attuale sindaco Andrea Terzolo, si dimostrano attente alle necessità dei profughi e collaborano con la società civile). L’antropologo Piero Gorza, ad esempio, in un momento di emergenza, ha accolto diversi migranti in casa propria. Il parroco don Luigi Chiampo e la fondazione che ha creato, Talità Kum, gestisce una casa rifugio modello a Oulx dove le persone sostano, si rifocillano e si preparano per il viaggio notturno sulle montagne. Proprio qui, nel Rifugio Massi, le persone che capiscono di trovarsi, forse per la prima volta dopo mesi, in un ambiente in cui si riceve rispetto e si può dare fiducia, si aprono e raccontano di sé.

Esemplare la vicenda di Ahmad, 16enne afghano, da tre anni in viaggio, passato attraverso lo sfruttamento lavorativo in Turchia, l’approdo sulle isole greche e la rotta balcanica: il giorno dell’arrivo al rifugio è carico di vita, sente vicina la meta, dato che, una volta in Francia, vuole raggiungere la Germania.

Accade che la notte viene respinto, senza alcun foglio di via. La Croce Rossa italiana, meritevole nel suo servizio da queste parti anche attraverso il progetto Migralp, lo intercetta a lo riporta al rifugio la mattina dopo.

Ahmad ha perso completamente la serenità, è arrabbiato perché molti compagni di strada ce l’hanno fatta, e lui no.

Ci riprova la sera dopo, questa volta il tentativo va a buon fine.

Chissà dove sarà ora. Di lui ci rimangono nella memoria parole d’oro: «Come il diamante diventa forte grazie alla durezza, si può crescere solo grazie alle difficoltà. Ho viaggiato per tanti paesi, ho avuto un percorso difficile per poter arrivare fin qui, però non mi sono mai arreso. Vorrei dire alla mia mamma che le voglio bene, mi manca tanto e andrò a trovarla».

Daniele Biella

Abdel, 19 anni

Pachistano, incontrato a Trieste a maggio 2021, ne aveva 17 all’epoca dei fatti*.

«Siamo scesi dalla montagna in Croazia e abbiamo viaggiato per due giorni e ci siamo seduti, sdraiati tutti, il trafficante ci ha fatto riprendere fiato. Eravamo all’incirca cento persone. Ed è arrivata la polizia. Quindici, venti persone sono scappate e anche il trafficante è stato catturato con noi. Loro prima ci hanno spruzzato lo spray negli occhi. Sai? Lo spray per gli occhi. Poi sono arrivati due furgoni. Ci hanno fatto salire su quelli e ci hanno portati verso la frontiera della Bosnia. Lì c’era un fiume, una specie di fiume, ci hanno portati lì, picchiati molto e hanno bruciato i nostri zaini, ci hanno fatto togliere i vestiti e hanno bruciato anche quelli e ci hanno fatto tornare indietro in mutande.

[…] Poi dopo quindici giorni ci abbiamo riprovato. Abbiamo proseguito, siamo arrivati in Slovenia. Gli sloveni ci hanno presi e tenuti in prigione e da lì ci hanno riportati indietro: gli sloveni ci hanno consegnati ai croati. I croati sono arrivati e ci hanno riportati indietro. E ci hanno portati di nuovo al fiume dove ci hanno fatto ritogliere i vestiti. Tolti i vestiti, ci hanno picchiati, uno ci teneva le braccia e uno le gambe, e ci buttavano nel fiume. L’acqua era fredda, faceva freddo, avevano un bastone nero, era tipo così, e picchiavano con quello uno ad uno e lo buttavano nell’acqua. L’acqua scorreva veloce, tanto che la persona non riusciva ad uscire, e le pietre ci ferivano i piedi
[…]. I poliziotti ci hanno circondati da tutti e quattro i lati. I ragazzi che avevano cercato di scappare li hanno presi e picchiati. Poi ci hanno riportati indietro, dove c’è una montagna molto alta. C’era un “billa” [inteso come un uomo con gli occhi chiari], era il loro capo, era cattivo, era molto violento, ci picchiava, dava calci. Tra loro c’era un brav’uomo, gli diceva di non picchiare, lo diceva in inglese, e l’altro si arrabbiava anche con lui, e lui allora rimaneva zitto. […] Era arrivato un tagliaboschi, stava facendo la legna nei boschi. Il trafficante è andato a chiedergli se poteva andarci a prendere del cibo se gli avessimo dato i soldi. Lui ha preso i soldi e non si sa se lui o qualcun altro ha chiamato la polizia, e la polizia è arrivata. I piedi erano feriti e non siamo riusciti a scappare, avevano i cani. Quando abbiamo riprovato di nuovo a scappare, uno di noi è stato bastonato dalla polizia alla testa ed è morto sul colpo. L’hanno preso e buttato nel fiume, l’hanno buttato nel fiume, la polizia, il suo corpo non l’abbiamo ritrovato neanche noi».

D.B.

* Abel e Nadir, interviste raccolte nel report di Save the Children, Nascosti in piena vista, giugno 2021.

Nadir, 16 anni

Afghano, incontrato a Trieste nel maggio 2021.

«Ho trascorso due mesi in Turchia, sei, sette mesi in Bulgaria, dove sono arrivato a inizio 2021, poi in Moldavia, e quattro mesi in Serbia. Non ho incontrato la polizia croata né la polizia slovena. Non ho avuto problemi di cibo o acqua. Avevamo cibo e cose da bere nelle borse nei boschi. Sono entrato direttamente in Italia. La parte più difficile del viaggio è stata in Bulgaria. Non si comportano bene con i migranti. Non importa se uno ha 15-16 anni, se è un bambino o un adulto, comunque lo portano in prigione e lo picchiano. Non ero stato mai in prigione prima della Bulgaria. Sono rimasto in prigione per tre mesi. Per quindici giorni non ho visto l’aria aperta, il cielo, solo la cella. E poi alla fine mi hanno dato un foglio e mi hanno detto: “Vai!”. Mi hanno chiesto “Quanti anni hai?”, ma non ascoltano niente. Ci hanno picchiato. Non guardano dove ti picchiano: la testa, le gambe, la schiena, gli occhi. Non guardano neanche, picchiano e basta, i migranti e i rifugiati. Dicevano: “Perché sei venuto? Perché sei venuto qui?”. E poi ci picchiavano. […] Eravamo dodici amici, ma non so adesso dove sono gli altri. […] Sai, in Afghanistan, c’è la guerra. Ci sono i talebani, picchiano la gente e la uccidono. La situazione è molto brutta in Afghanistan. Tutti vogliono venire in Europa, vogliono una vita, vogliono studiare, e in Afghanistan non è possibile. Va tutto male là. Ma in Italia le persone sono buone, hanno cura di noi, ci danno tutto. Ho un cugino in Gran Bretagna, a Birmingham. Lui studia lì. A me piace l’informatica. Per imparare l’inglese prima di tutto ho guardato film, ho imparato le parole e poi le frasi. Poi ho iniziato a parlare alle persone in inglese e molto lentamente ho imparato. Ora prima di tutto vorrei studiare e poi trovare un lavoro legato ai miei studi. Mi piacerebbe avere i miei familiari vicino. Tutti desiderano avere il loro papà o la mamma con sé e trascorrere una vita felice. Ma la situazione è critica là. […] Ai miei fratelli direi: “Non venite in questo modo, è troppo pericoloso”. Non lo rifarei, mai nella vita».

D.B.

Famiglie, speranza cercasi

Le condizioni dei giovani genitori e dei loro bambini

Sui confini italiani, accade d’incontrare famiglie con bimbi anche molto piccoli, in fuga da contesti pericolosi. Giovani genitori, pieni di speranza per un futuro migliore, e di amarezza per un presente lacerante, fatto di muri e di botte, di dignità negata.

«Di chi avete paura? Di me e mio figlio?», urla un giovane padre iraniano, con un bimbo in braccio, avvolto in un giaccone più grande di lui. Lo fa puntando lo sguardo verso la montagna, rivolgendosi a due punti neri a lato di un pilone della seggiovia. Lì è già territorio francese.

Quei due punti neri sono poliziotti – della Paf, polizia di frontiera francese – che pattugliano a piedi i sentieri attorno a Claviere.

Oltre alla realtà dei minori soli, c’è quella di centinaia di famiglie con figli, anche molto piccoli, al seguito. Giovani genitori e bambini che passano anni lungo le rotte migratorie in condizioni a dir poco devastanti.

Con un rapido calcolo sulla base delle osservazioni fatte dal vivo a Trieste, Ventimiglia e soprattutto Oulx, Save the Children stima il passaggio di sessanta nuclei familiari al mese, ovvero almeno 240 persone, dato che i figli al seguito sono quasi sempre due o più. Le provenienze sono soprattutto Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, qualcuna dal Nepal e, ancora, ma più di rado rispetto al passato, qualche famiglia siriana. Tutte risolute ad arrivare a destinazione, nonostante le difficoltà: colpisce la loro forza di volontà, la determinazione di portare i loro figli in un luogo dove possano crescere con più speranza rispetto alla patria lasciata alle spalle.

Un rifugio sul confine

Il rifugio Massi a Oulx è un luogo neutro nel quale si incontrano famiglie migranti che riposano qualche ora. Queste famiglie vengono accolte dagli operatori della fondazione Talità Kum e da volontari che si alternano portando scarponi, vestiti, viveri, fermandosi spesso a condividere un po’ di tempo con le persone, riconoscendo loro quella dignità che era stata cancellata dal «game» lungo la rotta balcanica, negli hotspot sulle isole greche, sui gommoni, nei camion e in tutte le altre situazioni di privazioni e violenze che sono costretti a vivere, loro malgrado, molti migranti.

«Le indegne esperienze traumatiche vissute dai bambini in questi viaggi si affiancano a un altro aspetto: spesso sono i figli, soprattutto nella fascia d’età dagli 11 ai 16 anni, a diventare portavoce delle famiglie. Parlano più lingue, sanno usare gli smartphone e la tecnologia, si orientano bene e capiscono al volo chi può essere più utile tra le persone che si trovano davanti. Allo stesso modo, a volte, le autorità sono meno vessatorie nei respingimenti quando hanno davanti dei bambini», spiega il rapporto. «Tutte queste ragioni fanno sì che i bambini siano un elemento strategico per la famiglia, una sorta di salvavita. Come nelle favole settecentesche», specifica Piero Gorza, antropologo e ricercatore di On Borders che vive proprio a Oulx e studia da decenni i flussi migratori.

Solidarietà sulla strada

Il sorriso dei più piccoli dà forza ai più grandi, anche se i più grandi vedono quanto è pesante il fardello dell’esperienza migratoria sulle spalle dei bimbi. Al rifugio, ad esempio, due sorelline afghane giocano a guardie e ladri e raccontano a mamma e papà: «Stiamo giocando al poliziotto che picchia il migrante» (vedi box a pag. 47, ndr.).

Ci vorranno mesi, se non anni, per superare i traumi del viaggio una volta giunti – si spera – a una destinazione sicura.

Tra famiglie che si incontrano e si conoscono lungo il viaggio, succede che scatti la solidarietà: si uniscono, fanno un tratto di viaggio assieme, si aspettano e, in alcuni casi, se per qualche motivo un nucleo viene diviso a una frontiera, si prendono cura di chi ha bisogno.

Questo accade anche per i minori non accompagnati: nel loro viaggiare «soli», spesso percorrono tratti di strada con nuclei familiari ai quali si affezionano e con cui poi rimarranno in contatto.

Anche per la situazione delle famiglie in viaggio, una soluzione dovrebbe essere cercata con un accordo interfrontaliero tra paesi europei, per capire dove i migranti hanno familiari, così da metterli in contatto e garantire un ricongiungimento sicuro, al riparo dai rischi del viaggio e dal traffico di esseri umani.

Daniele Biella

Porta d’Europa, opera di Mimmo Paladino

 

Lampedusa, frontiera Sud

Due giorni nell’Isola. sbarchi e memoria del 3 ottobre 2013

Quarantatrè sbarchi in 48 ore. Adulti, ragazzi, bambini accolti e trasferiti dal molo ai centri di accoglienza. Senza turbare i turisti. Mentre decine di migrant arrivano con piccole barche, a otto anni dal naufragio del 3 ottobre 2013, alcuni sopravvissuti e parenti delle vittime ricordano i loro morti e l’urgenza della ricerca di verità e giustizia.

Se nel Nord Italia il movimento tra frontiere è continuo, altrettanto succede al Sud, dove ogni giorno nuove persone, compresi minori stranieri non accompagnati, sbarcano sulle coste.

Molti ragazzini, proprio come gli adulti, una volta arrivati in Italia in una regione meridionale, prendono la via del Nord. Spesso hanno Ventimiglia come tappa successiva.

La frontiera Sud, il mare di mezzo, il Mediterraneo, vede nelle sue acque centinaia di migranti che provano a raggiungere l’Europa per iniziare da zero una vita con più prospettive. Loro malgrado lo fanno nel modo più pericoloso.

Sbarchi, trasbordi e quarantene

Missioni Consolata ha potuto riscontrare, direttamente a Lampedusa, ben 43 sbarchi in 48 ore, almeno mille persone in tutto nelle sole due giornate del 2 e 3 ottobre 2021. Erano soprattutto «barchini» provenienti dalla Tunisia, ciascuno con una ventina di persone a bordo, ma anche dalla Libia con 50-60 migranti ognuna.

La settimana prima era arrivato un peschereccio con 600 persone. Tra esse, numerosi minori soli, in gran parte, come è logico geograficamente, provenienti dai paesi del Nord Africa e dell’Africa subsahariana.

I ragazzi non accompagnati, quando arrivano, normalmente vengono condotti dal porto di sbarco, il molo Favaloro, all’hotspot. Dato, però, che per legge non potrebbero stare in strutture per adulti, nel giro di pochi giorni vengono portati in Sicilia. Trasferiti su navi di linea, separati dai passeggeri, devono fare 7-10 giorni di quarantena.

Nei due giorni di visita a Lampedusa, abbiamo assistito alle operazioni di salvataggio e poi di trasbordo. Queste venivano effettuate dalle autorità competenti – Guardia costiera, Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia, ministero della Salute per le pratiche mediche – con contingenti tali che, di fatto, creavano una sorta di militarizzazione dell’isola.

Soccorrere ricordando il 3 ottobre 2013

Durante la nostra visita, Lampedusa stava vivendo un boom del turismo: l’estate 2021 è durata fino a fine ottobre, con strutture pressoché piene. I turisti non vedevano alcun migrante. Le persone sbarcate, infatti, venivano portate con pulmini dal porto all’hotspot, senza mettere piede nelle vie cittadine.

Save the Children, Diaconia Valdese, Fcei (Federazione delle chiese evangeliche in Italia) sono presenti agli sbarchi, assieme alle agenzie dell’Onu, Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) e Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni), per controllare la giusta presa in carico dei minori e delle famiglie.

L’alto numero di arrivi sull’isola è coinciso con la commemorazione del naufragio del 3 ottobre 2013, in cui avevano perso la vita 368 persone, in gran parte eritree, al quale era seguito quello dell’11 ottobre, con 268 vittime – di cui 60 bambini – in gran parte siriani.

La commemorazione è stata molto sentita. Il Comitato 3 ottobre ha organizzato eventi per un gran numero di studenti arrivati sull’isola da tutta Europa allo scopo di capire le migrazioni forzate raccontate dalla voce dei protagonisti, compresi diversi dei 47 superstiti e dei familiari delle vittime delle due stragi citate.

Alcuni superstiti, salvati con le loro mani da alcuni pescatori isolani, tra cui Vito Fiorino e Costantino Baratta, insediatisi nel frattempo soprattutto in Germania e Svezia, si sono sposati e hanno avuto figli.

Erano presenti anche madri di giovani tunisini dispersi durante il viaggio, accompagnate dai volontari di Carovane migranti e di altre associazioni che cercano verità e giustizia per le vittime. Dopo otto anni, infatti, non sono ancora state fugate le ombre sui ritardi e sulle omissioni di soccorso delle autorità in quelle circostanze.

Daniele Biella

Famiglia afgana

Zalmai e Jamila, marito e moglie di30 anni, con due bimbe di sei e quattro anni. Incontrati a Oulx a maggio 2021, hanno provato il «game» dieci volte.

«Lasciai l’Afghanistan perché mia moglie era stata promessa a qualcun altro. Lei fuggì con me. Fummo poi minacciati. Arrivammo in Iran, ma quegli uomini riuscivano a mandarmi minacce perché avevano soldi. […] Dalla stazione di polizia mi fecero rimanere e mi presero quattro volte il telefono, i croati. Mi presero i soldi. Mi inflissero tanta sofferenza. Mi picchiarono. Mentre mi stavano respingendo mi chiedevano “maani”, cioè chiedevano soldi, “money”. Ci perquisivano, cercavano soldi e prendevano tutti i soldi che trovavano. Ci trattennero, ci misero una maschera sulla faccia mentre ci espellevano. Presero i soldi da qualunque famiglia che conoscessi. Avevano questi bastoni di plastica: ci colpirono con quelli. In qualunque paese tu dicessi loro che saresti andato, Francia, Germania, ti avrebbero picchiato. Menzionavano un paese e poi ci colpivano. Uno, due, tre… a loro non importava quanto ci picchiassero. Ci sedemmo e basta. Quindi ci diedero un calcio o ci dissero: “Alzati!”, e ci tolsero tutti i vestiti e ci picchiarono. Ci arrestavano sempre. Ecco perché abbiamo così sofferto. Mia moglie era malata, ma era riuscita ad arrivare. Fu colpita dal freddo. Aveva nevicato e il corpo le faceva male ovunque. Era stata arrestata e aveva le sue figlie con lei. Alla fine arrivarono due poliziotti. La trascinarono come un cadavere. Continuavano a trascinarla e a trascinarla. […] Quando partimmo con il gruppo di 35 persone verso la Croazia, la bambina aveva paura della polizia e avrebbe avuto paura ogni volta che la polizia sarebbe comparsa. E l’altro problema è che quando diventa ansiosa, si colpisce, sul muro, sul terreno, su qualsiasi cosa. Si colpisce molto duramente, che sia la testa o altro. Si fa male da sola. Non capisce nulla in quei momenti. Una volta che si riprende, ovvero quando si sente meglio, allora piange da quel momento in poi. Ma il fatto è che rimane a disagio. Si rattrista per 5, 10, 15, o 20 minuti, tutto qui. Abbiamo sofferto lungo la strada e speravamo che tutto il ricordo della sofferenza venisse cancellato rapidamente dalla sua memoria, altrimenti sarebbe rimasto nel suo cervello. Sai, è una bambina e le piace giocare. Così quando si siede con la sorella, assegnano a ciascuno ruoli come “Io sono un rifugiato” e l’altra dice “Io sono la polizia”. Poi si alzano e quella che fa il poliziotto viene colpita dall’altra, si inseguono a vicenda e poi combattono. È così che si ricordano. Quindi, non stanno dimenticando quelle cose. Tutti i ricordi, le cose nella loro mente, quelle cose sono ancora nella loro mente».

D.B.

Con gli occhi dei minorenni

Raccomandazioni di Save the Children all’Unione europea.

Un minore è, prima di tutto e sopra ogni cosa, un minore, e i suoi diritti vanno protetti e promossi indipendentemente da ogni altra circostanza relativa alla sua condizione o status suoi personali o dei suoi genitori, ad esempio l’origine nazionale, etnica o sociale o, ancora, lo status legale.

Il principio di non discriminazione è un valore fondante della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Crc), stella polare in tema di diritti dei minori che, applicandosi a tutti i minori in ogni circostanza, è centrale anche quando si parla di bambine, bambini e adolescenti coinvolti nella migrazione. Come recentemente riconfermato dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’Infanzia, in nessun caso un minore straniero non accompagnato può essere espulso o respinto alla frontiera, in base alle norme di diritto internazionale poste a tutela dei diritti umani, dal diritto umanitario e sui rifugiati, e, in particolare, all’articolo 33 della Convenzione sullo status di rifugiato del 1951 e dall’articolo 3 della Convenzione Onu contro la tortura.

Ciascuno degli stati alla cui frontiera e nel cui territorio arriva un minore, coinvolto più o meno consapevolmente in un percorso migratorio, ha la responsabilità di prendersene cura, in base a una serie di norme vincolanti volte ad assicurarne la protezione e il riconoscimento di uno status legale.

L’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea conferma la centralità del superiore interesse dei minori in tutte le azioni o decisioni che li riguardano intraprese dalle autorità pubbliche o da istituzioni private.

[…] Come è evidente dalla lettura delle testimonianze, di fronte alla mancanza di un sistema di protezione e accoglienza europeo per i minori migranti, all’assenza di procedimenti rapidi e ben funzionanti di ricongiungimento familiare, alla necessità sinora disattesa di riforma del
Regolamento di Dublino e al quasi totale abbandono dell’esperienza della relocation fra stati membri, fatte salve sporadiche e quanto mai limitate iniziative su base volontaria, ai minori e alle loro famiglie non rimangono alternative che affidarsi ai passeur per proseguire nel proprio percorso migratorio attraverso le frontiere interne dell’Unione. Una scelta obbligata che si accompagna alla necessità di essere invisibili, con il rischio di restare intrappolati nelle maglie del traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale o lavorativo e di subire violenze e vessazioni o di esserne testimoni.

In questo quadro, le violazioni dei diritti dei minori migranti continuano a consumarsi all’interno e all’esterno dei confini dell’Ue, con uno specifico allarme per le zone di confine, sia lungo il perimetro delle cosiddette «frontiere esterne» dell’Unione europea, sia in corrispondenza delle frontiere tra stati membri, luoghi di particolare criticità e pericolo per i minori, nonostante l’Allegato VII del Codice Schengen preveda che sia prestata particolare attenzione nei confronti del minore che attraversa la frontiera e che siano adottate particolari modalità nei confronti dei minori accompagnati o non accompagnati.

I minorenni in particolare – come ci ricorda il Comitato sui diritti dell’infanzia – non dovrebbero mai essere respinti verso un paese dove vi siano fondate ragioni di ritenere che essi siano a rischio di danni irreparabili o verso un altro paese dal quale essi potrebbero essere lì respinti, anche in considerazione delle loro esigenze primarie di sopravvivenza e sviluppo, tenuto conto dell’età e del sesso.

[…] Il caso delle frontiere Nord dell’Italia è, per alcuni versi, emblematico del vuoto politico e giuridico lasciato dalle istituzioni dell’Unione europea e dagli stessi stati membri in tema di movimenti migratori: prassi delle forze di polizia impegnate nella gestione dei confini diverse da territorio a territorio, mancanza di un coordinamento locale e tra i territori dove insistono le diverse frontiere, mancanza di un’indicazione strategica che tenga conto della necessità di gestire i flussi in arrivo dalle diverse frontiere – Sud e Nord – e di distribuire l’accoglienza sull’intero territorio, assenza di mediatori che possano veicolare informazioni ai valichi di frontiera, le principali criticità riscontrate.

Di fronte alla situazione attuale serve guardare alle politiche europee, compresa la riforma degli atti legislativi nell’ambito del Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo emanato a settembre 2020, e a quelle nazionali, con gli occhi dei minorenni che ogni giorno provano ad attraversare i nostri confini.

Save the Children Italia




Tutto in 22 km quadrati

testo e foto di Simona Carnino |


Nella splendida isola, più vicina all’Africa che all’Europa, i turisti sono in grande aumento. I migranti che vi approdano sono invece in rapida diminuzione. E i giovani cercano di andarsene.

Vista dall’alto di un aereo, sorge come uno scoglio in mezzo al Mediterraneo, più vicina al Nord dell’Africa che all’Italia, si trova a 224 km da Porto Empedocle in Sicilia e a 188 km da Sfax, in Tunisia. È la maggiore tra le Isole Pelagie, che in greco antico significa «in mare aperto». Lampedusa è un’isola rocciosa, terra delle antiche abitazioni in pietra calcarea chiamate dammusi e luogo prescelto dalle tartarughe caretta caretta per la riproduzione. Il mare trasparente e caldo rende piacevole un tuffo anche in ottobre e l’Isola dei Conigli o le spiagge di Cala Madonna e Cala Pulcino fanno sognare i tropici. Nell’aria, il profumo di finocchietto selvatico avvolge ogni cosa.

Nell’ultimo decennio, l’arrivo sulle sue coste di migliaia di persone provenienti dal Nord Africa ha reso i 22 km quadrati dell’isola universalmente conosciuti. Lampedusa è rappresentata oggi dai media quasi unicamente come «l’isola dei migranti». Eppure, come un vero porto di mare, terra di passaggio, sull’isola, luogo utopico e reale, convivono e intrecciano le loro vite viaggiatori di ogni tipo, volontari o forzati, lavoratori stagionali, residenti, gente che arriva e giovani che se ne vanno.

I tanti volti di Lampedusa

Meta di turismo di mare. Così appare Lampedusa agli occhi di Marcello, un impiegato di Milano di 51 anni che, a fine settembre 2019, ha scelto di sfuggire alle prime nebbie padane e di rifugiarsi sull’isola per una breve vacanza. Di giorno trascorre il tempo alla ricerca delle spiagge più belle. La sera, invece, si siede in qualche piano bar di via Roma, tra un bicchiere di vino e un karaoke. Classica vacanza di mare. Non sa niente del tema migratorio e non gli interessa. Migranti non ne vede e gli va bene così.

Meta di turismo solidale. Così vede l’isola Roberta di Perugia che si trova sull’isola nello stesso periodo di Marcello. Anche lei è una turista, arrivata per il Festival di Lampedusa, un appuntamento organizzato da ragazzi residenti e artisti italiani per portare una proposta culturale sull’isola.

Roberta è interessata a conoscere la Lampedusa Porta d’Europa, terra di frontiera e sede di organizzazioni culturali che si occupano di temi sociali, ambientali e promozione dei diritti umani. Trascorre il tempo a Porto M, un piccolo museo gestito dal movimento culturale Askavusa, dove sono contenuti oggetti appartenenti a migranti e ritrovati sulle spiagge. Guarda le scarpe spaiate, frammenti di barche, maglie stracciate e pezzi di giubbotto salvavita. Va all’archivio storico, sfoglia le foto in bianco e nero di una Lampedusa antica e scopre che l’isola è stata sede di un carcere di alta sicurezza agli inizi del Novecento e di una base militare durante la Seconda Guerra Mondiale. Parla con alcuni residenti dell’isola che non dimenticano i naufragi a cui hanno assistito negli ultimi anni. Roberta vorrebbe anche parlare con qualche migrante per ascoltare la loro storia. Ma rimane delusa. Eppure si era fatta l’idea, leggendo i giornali, che Lampedusa straripasse di migranti.

Luogo da cui scappare. Per Louay, un ragazzo di 21 anni originario della Tunisia, Lampedusa ha l’aspetto di un carcere. Arrivato nella notte del 29 settembre 2019, insieme a circa 180 connazionali divisi su più imbarcazioni, Louay vede l’isola come una zona di transito obbligato. Il suo obiettivo è arrivare in Francia e poi spostarsi in Germania.

Quando Louay arriva a Lampedusa alle 2 di notte, Marcello e Roberta stanno dormendo.

Dormono anche tanti dei seimila residenti di Lampedusa, molti dei quali al mattino si alzano all’alba per lavorare in bar e ristoranti. Per loro Lampedusa è una casa e il flusso turistico rappresentato da Marcello e Roberta è il lavoro.

Non dormono invece gli operatori di alcune organizzazioni umanitarie presenti sull’isola, che si svegliano e si dirigono al porto per portare generi di conforto e documentare l’arrivo di Louay e delle altre persone che i carabinieri trasporteranno nell’hotspot, il centro di prima accoglienza. Per coloro che lavorano in Ong nazionali e internazionali o nelle forze armate italiane, Lampedusa è un posto dove trascorrere una parte della propria vita svolgendo una missione, chi ubbidendo a ordini militari, chi lavorando per i diritti umani o facendo volontariato.

Per altri, infine, Lampedusa è il luogo da cui spiccare il volo. La vedono così i ragazzi lampedusani che desiderano una formazione accademica. I ragazzi in età universitaria sanno che devono trasferirsi in Sicilia o spostarsi in qualche altra regione italiana o magari all’estero, se vogliono ottenere una laurea.

Tra un ragazzo di 18 anni di Lampedusa e Louay non c’è molta differenza. Entrambi hanno il sogno di costruirsi una vita. Però solo il ragazzo con il passaporto italiano ha in mano il lascia passare per trasferirsi in Europa, su un aereo e con le carte in regola. L’altro è forzato a rischiare la vita in mare o nel deserto, cercando di attraversare qualche frontiera.

Bruciare i documenti

Louay è arrivato a Lampedusa su una barca da 20 posti, intercettata in mare dalla Guardia Costiera che l’ha scortato fino al porto. Poi è stato trasferito all’hotspot, dove chi arriva senza documento viene trattenuto durante le pratiche del foto segnalamento prima di essere mandato nei centri della Sicilia o del resto d’Italia, nei quali rimarrà in attesa di una risposta alla richiesta di protezione internazionale. A fine settembre 2019, l’hotspot, che ha una capienza massima di circa 95 posti, è sovraffollato. Sono presenti intorno alle 250 persone in attesa di essere trasferite. La maggior parte sono tunisini. Tra di loro anche alcuni ragazzi eritrei e altri originari dell’Asia, tra cui Bangladesh.

Louay, come altri ragazzi, esce da un buco nella recinzione che percorre il perimetro dell’hotspot e si dirige verso la chiesa del paese, dove il parroco ha messo a disposizione il wifi gratuito.  Indossa pantaloni rossi e una  t-shirt bianca, il vestiario in dotazione dell’hotspot. «Circa il 30% delle persone nel centro ha meno di 18 anni – racconta Louay mentre cammina sotto il sole caldo delle 2 del pomeriggio -.  Il viaggio fino a Lampedusa da Sfax è durato 36 ore circa e la barca su cui ero io era solida e il mare calmo. Ce l’abbiamo fatta. Ora però il mio obiettivo è andarmene da qui».

Quando Louay arriva in paese, la piazza della chiesa è quasi deserta. Qua e là qualche ragazzo come lui cerca la connessione internet. Quando Whatsapp comincia a funzionare, Louay chiama suo padre e gli dice che il viaggio è andato bene. Dall’altra parte dello schermo un uomo sorridente lo saluta felice. «Adesso devo capire come arrivare in Francia – dice Louay -. Ci sentiamo dopo». Poi si dirige verso il porto e cerca di comprare un biglietto del traghetto per Porto Empedocle. Un impiegato della biglietteria gli chiede i documenti. Lui non li ha e quindi non riesce nel suo intento. A poco servono i soldi per pagare.

«No, non ho i documenti con me – ci spiega Louay -. Noi usiamo la parola harga per dire che viaggeremo verso l’Europa in barca, attraverso il Mediterraneo. Harga deriva dalla parola araba che significa “bruciare”. In questo caso, bruciare i documenti, perché non vogliamo essere riconosciuti. Per noi tunisini non ci sono molte speranze di avere un permesso di soggiorno in Italia, quindi è molto meglio non avere nessun documento di identità con noi».

Il decreto interministeriale del ministero degli Affari esteri del 4 ottobre 2019, emanato di concerto con il ministero dell’Interno e il ministero della Giustizia, anche detto decreto Di Maio, stabilisce che la Tunisia può essere considerata un paese sicuro, per cui le persone originarie di quello stato, senza un regolare visto, possono essere rimpatriate in pochi giorni, se non dimostrano di aver subito una persecuzione personale nel paese di partenza. Louay, come molti dei suoi connazionali, scappa da un salario misero, dalla carenza di opportunità lavorative, e ha il sogno di vivere in Europa. Tuttavia, non esistono possibilità di accedere a un visto lavorativo se non si ha un contatto diretto con il datore di lavoro nel paese di destinazione. Per Louay non c’era un’alternativa di viaggio, senza visto. L’unica possibilità era bruciare i documenti e provare ad attraversare la frontiera in un altro modo.

Invasione di turisti

Nelle strade di Lampedusa a inizio ottobre ci sono più turisti che migranti. «Lampedusa non è per niente collassata a causa dei migranti – ci spiega Nino Taranto, il direttore dell’Archivio storico del paese -. Spesso i giornalisti confondono l’isola con il suo hotspot. Se il centro di prima accoglienza è sovraffollato, non significa che lo sia l’isola. Lampedusa non è il suo hotspot».

Negli anni, si è radicata la narrazione che l’Italia sia invasa dai migranti partiti dal Nord Africa e che Lampedusa, una delle sue frontiere, sia sprofondata sotto il peso della responsabilità di accogliere tutti. «Si tratta di un immaginario che si è costruito nel 2011, quando sull’isola sono cominciate ad arrivare le persone in fuga dagli scontri prodotti durante la cosiddetta Primavera araba. Oggi le cose non stanno più così – continua Taranto».

Delle 11.741 persone arrivate in Italia nel 2019 attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, 7.155 sono approdate in Sicilia e le altre principalmente tra Sardegna, Calabria e Puglia. Gli arrivi dei migranti a Lampedusa sono superati dall’arrivo dei turisti. Secondo le ultime elaborazioni prodotte nel 2018 dall’Osservatorio turistico della regione siciliana sulla base dei dati forniti dall’Enac, Ente nazionale per l’aviazione civile, si è verificato un notevole aumento del numero dei turisti passando da 185mila arrivi all’aeroporto nel 2015 a oltre 253mila nel 2017, con un aumento esponenziale dei passeggeri nei mesi estivi. Ad esempio, ad agosto del 2017 sono arrivate all’aeroporto 58.422 persone a fronte delle 4.793 durante il mese di gennaio.

«Il turismo di massa è aumentato a dismisura negli ultimi anni – commenta il direttore -. Ma la gestione di questo settore è lasciata ancora un po’ al caso, manca addirittura un ufficio del turismo ben strutturato e un progetto di sviluppo ordinato».

Negli ultimi anni Lampedusa ha registrato il tutto completo a luglio e agosto e basta fare un giro su blog e siti di prenotazioni e vacanze per leggere recensioni di utenti che consigliano ai futuri visitatori di mettere piede sull’isola in bassa stagione, se si vuole godere di un’esperienza rilassante senza doversi fare largo a gomitate tra gli altri turisti.

Tra percezione e realtà

Nonostante ci siano infiniti modi di guardare Lampedusa, negli anni l’isola si è trovata al centro di un’interpretazione ridotta a due sole narrazioni: descritta a volte come «l’isola dell’accoglienza», altre volte come «l’isola collassata per i troppi arrivi dei migranti». L’immagine dell’isola è stata focalizzata unicamente sui temi migratori e cambia a seconda della maggioranza che governa il paese.

I cittadini di Lampedusa stanno facendo ancora i conti con un’immagine semplificata ed eccessivamente politicizzata che spesso non accettano. «Noi non ci sentiamo rappresentati nei racconti di giornali e televisioni. Vogliamo articolare un discorso su Lampedusa e le migrazioni che si smarchi dalle due retoriche dominanti, quella, per farla breve, dei “migranti cattivi” e quella dei “migranti buoni”, la stessa retorica semplicistica che ha visto i lampedusani passare dall’essere descritti come tutti eroi a tutti razzisti – spiega Giacomo Sfarlazzo del collettivo Askavusa -. Nessuno ha ascoltato le voci dei lampedusani e quelle delle persone migranti, nessuno si è chiesto perché le persone lasciano il proprio paese e quali responsabilità ha l’Unione europea in questi processi, e nessuno ha messo al centro del discorso la regolarizzazione dei viaggi. Perché la cosa importante non è pensare se salvare o non salvare le persone quando stanno già affogando, ma dare loro una possibilità di viaggiare e muoversi in sicurezza in modo che non rischino di annegare».

Nessuno dei pescatori o dei residenti dell’isola che si sono messi a disposizione per dare una mano ai migranti durante i numerosi naufragi si sente un eroe. «Abbiamo fatto il nostro dovere, niente più di questo – racconta Lino, residente a Lampedusa, che ha soccorso alcuni migranti con la sua barca durante il grande naufragio del 3 ottobre 2013 -. Se senti delle persone “vusciare” (disperarsi nel dialetto dell’isola, nda) nell’acqua, che fai? Le salvi, no?».

Sfiducia nello stato

Anche la vittoria della Lega, che ha ottenuto il 45,85% dei voti di Lampedusa e Linosa durante le ultime elezioni europee di maggio 2019, in realtà nasconde un significato che va oltre un semplice trionfo della destra sulla sinistra. A Lampedusa, più del 70% delle persone aventi diritto non è andata ai seggi e l’alta percentuale di astensionismo dimostra una sfiducia della cittadinanza nei confronti dello stato e della politica italiana in generale. Da anni, molti lampedusani si lamentano della raccolta dei rifiuti, della militarizzazione costante dell’isola, della presenza di radar per motivi di sicurezza nazionale e di una gestione limitata della sanità. Sull’isola manca un ospedale attrezzato, cosa comprensibile se si considera il basso numero di residenti, ma che genera scontento nella popolazione.

Eppure sembra difficilissimo per i residenti di Lampedusa liberarsi della narrazione fatta dai media nazionali e dalla percezione che si è creata intorno al fenomeno migratorio e al ruolo dell’isola.

I problemi di percezione dipendono da una rappresentazione mediatica spesso urlata che propone un’immagine dell’isola che ricorda quella del 2011, quando si è verificata un’impennata di arrivi dei migranti rispetto al 2010, ma anche dal fatto che lo stato italiano continua a descrivere l’inclusione dei migranti già presenti sul territorio come un’emergenza. In realtà, la gestione dei processi di integrazione è diventata più caotica in seguito all’introduzione del Decreto sicurezza bis, che ha abolito il permesso di soggiorno per motivi umanitari, condannando molte persone già in Italia alla condizione di irregolarità e ad uscire dai progetti Sprar.

Cala la percezione d’insicurezza

Nonostante i provvedimenti anti migranti, nel 2019 è diminuita la percezione di insicurezza che provano gli italiani nei confronti delle persone che arrivano nel paese.

Un recente rapporto dell’Associazione Carta di Roma, intitolato «Notizie senza approdo» ribadisce che c’è «una assenza di correlazione tra quantità̀ di esposizione mediatica del fenomeno e l’incremento della percezione di insicurezza delle persone». Nel 2019 il tema migratorio è stato molto presente sui media: sui 304 giorni analizzati, solo uno è stato privo di notizie sull’immigrazione. Tuttavia, si è verificato un calo di dieci punti dell’insicurezza percepita nei confronti di migranti e stranieri. Ad aiutare il cambiamento è stata una riduzione dei toni sensazionalistici che sono spesso utilizzati dai media per descrivere il fenomeno migratorio.

Sebbene ancora un italiano su tre consideri i migranti una minaccia alla sicurezza personale e sociale, gli altri invece hanno cominciato a provare meno preoccupazione di fronte agli arrivi delle persone dal mare, forse perché si sono annoiati o talvolta abituati all’eccessiva rappresentazione del fenomeno e hanno cominciato a considerare normale qualcosa che è stato spesso comunicato come anormale.

Inoltre una buona parte di chi arriva in barca sulla rotta del Mediterraneo centrale non vuole rimanere in Italia. Probabilmente in questo momento storico, i migranti e gli italiani condividono le stesse preoccupazioni sulla difficoltà di accedere a un lavoro ben pagato in questo paese.

Secondo i dati Istat del 2019, alla fine del 2018, gli stranieri regolari residenti in Italia erano l’8,7% del totale della popolazione, dato che si conferma più o meno uguale negli ultimi anni. A livello percentuale, c’è stata una riduzione del 3,2% delle iscrizioni all’anagrafe italiana da parte di persone residenti all’estero. Invece è aumentato dell’1,9% il numero degli italiani, in particolare giovani diplomati e laureati, che vivono e lavorano stabilmente all’estero. Negli ultimi 10 anni sono 816mila gli italiani che hanno deciso di partire. Quasi la quantità di persone di una città delle dimensioni di Torino. Il numero è ancora più alto se si considerano tutti gli italiani che di fatto vivono all’estero, ma non hanno trasferito la residenza. Intanto la natalità in Italia si riduce e nel 2018 il saldo tra i nati vivi e i morti è stato negativo di 193mila unità. Nel 2018 sono nati 439.747 bambini, il minimo storico dall’Unità d’Italia.

Se si guarda ai dati, al di là di ogni rappresentazione e percezione, in Italia si nasce di meno e sembra che la gioventù scappi più che arrivare.

A metà ottobre Louay è stato rimpatriato in Tunisia, dopo aver trascorso 9 giorni nell’hotspot di Lampedusa e 5 giorni in Sicilia, dove è stato stabilito che il ragazzo non corre un reale pericolo di vita nel suo paese d’origine. Negli stessi giorni, qualche studente di Lampedusa ha preso il volo verso l’università. In qualche altra regione italiana, una laureata o un diplomato ha fatto la valigia per Londra, o forse Ginevra o magari per la Cina. Sullo sfondo rimane un paese un po’ più anziano e un po’ meno accogliente per i giovani di qualsiasi nazionalità, che si concentra su improbabili invasioni per evitare di riflettere sull’immobilismo a cui sta consegnando il suo futuro.

Simona Carnino

I dati sconfessano le dichiarazioni  dei politici

Arrivi dimezzati,  morti aumentati

Louay è una delle 11.741 persone arrivate in Italia nel 2019 sulla rotta del Mediterraneo centrale secondo i dati dell’Unhcr/Acnur, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Gli arrivi dell’ultimo anno sono i più bassi in assoluto dal 2012 e sono il 50,9% in meno dei 23.370 arrivi via mare del 2018. I numeri si sono molto ridotti negli ultimi 2 anni, se si considera che nel 2017 sono entrate in Italia attraverso il mare 119.369 persone.

Nonostante la riduzione degli arrivi, secondo le statistiche pubblicate il 3 gennaio 2020 sempre dall’Agenzia dell’Onu, nel 2019 sono morte o sono state dichiarate disperse 750 persone durante il viaggio. Nell’ultimo anno è aumentata la mortalità sulla rotta del Mediterraneo centrale con 65 persone morte o disperse su 1.000 rispetto alle 54,7 su 1.000 del 2018.

Negli anni, i governi italiani hanno ridotto o eliminato le iniziative di soccorso in mare, a partire dal 2014 con la chiusura dell’operazione di salvataggio Mare Nostrum, per finire con la criminalizzazione delle navi per il recupero dei naufraghi gestite da Ong nazionali e internazionali. Secondo gli articoli 1 e 2 del decreto legge 53, detto anche Decreto sicurezza bis del 15 giugno 2019, attualmente in processo di modifica, il ministro dell’Interno «può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale» per ragioni di ordine e sicurezza e la sanzione per chi viola il divieto è una multa fino a 50mila euro per il comandante e la confisca della barca. In pratica, il decreto mette sullo stesso piano i volontari e gli operatori delle organizzazioni umanitarie che salvano i naufraghi in mare e i cosiddetti trafficanti, che lucrano sul trasporto dei migranti.

La conseguenza di una condotta politica che elimina i soccorsi non è stata la riduzione degli arrivi, ma l’aumento dei decessi dei migranti in mare, che in genere viaggiano su imbarcazioni precarie ad alto rischio di avaria. Le partenze per l’Europa si sono ridotte non tanto perché siano cambiati i motivi che portano le persone a muoversi verso il Nord geopolitico, ma a causa degli accordi tra Italia e Libia firmati dal governo Gentiloni nel 2017, che autorizzano lo stato nordafricano ad aumentare i controlli per contrastare la migrazione cosiddetta clandestina. Come conseguenza di questo accordo di esternalizzazione della frontiera europea, la polizia libica persegue e reclude nelle proprie carceri i migranti provenienti dall’area subsahariana ben prima che possano prendere la via del mare e dirigersi in Europa.

Simona Carnino

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