Italia. Povertà e disuguaglianze allontanano l’Agenda 2030

 

Emerge un’Italia in affanno e in ritardo nel suo cammino verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dal rapporto 2024 dell’Asvis, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile.

Tra i molti dati offerti, ci sono quelli che parlano dell’aumento di povertà e diseguaglianze.

Nel 2022, metà delle famiglie più povere possedeva meno dell’8% della ricchezza netta totale del Paese, il 5% delle famiglie italiane più ricche ne deteneva, invece, il 46%. Nel 2010 la quota era del 40%.

Nel 2023, 5,7 milioni di persone (il 9,8% della popolazione) si trovavano in condizioni di povertà assoluta (nel 2015 erano il 7,4%), e 13,4 milioni (il 22,8% della popolazione) erano a rischio di povertà o esclusione sociale.

Lo scenario descritto dalle 210 pagine del documento non è del tutto negativo, ma non è di certo positivo: «Dei 37 obiettivi […], solo 8 sono raggiungibili entro la scadenza del 2030, 22 non lo sono e per altri 7 il risultato è incerto», si legge nel comunicato stampa dell’Alleanza che mette in rete più di 300 organizzazioni senza scopo di lucro, provenienti dalla società civile, impegnate sui temi dello sviluppo sostenibile.

«I dati del Rapporto descrivono con chiarezza l’enorme ritardo dell’Italia nel percorso per raggiungere i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. […] Tra il 2010 e il 2023, il Paese ha registrato peggioramenti per cinque goal: povertà, disuguaglianze, qualità degli ecosistemi terrestri, governance e partnership. Limitati miglioramenti si rilevano per sei goal: cibo, energia pulita, lavoro e crescita economica, città sostenibili, lotta al cambiamento climatico e qualità degli ecosistemi marini. Miglioramenti più consistenti riguardano cinque goal: salute, educazione, uguaglianza di genere, acqua e igiene, innovazione. Unico miglioramento molto consistente interessa l’economia circolare».

Tra gli obiettivi non raggiungibili ci sono quello di ridurre del 20% l’utilizzo di fertilizzanti in agricoltura; quello di dimezzare la disparità occupazionale tra uomini e donne; di raggiungere il 42.5% di energia da fonti rinnovabili; ridurre del 20% i consumi finali di energia; raggiungere il 30% delle aree marine e terrestri protette.

Tra gli obiettivi con andamento altalenante ci sono quello di raddoppiare il traffico merci su ferrovia e quello di azzerare il sovraffollamento nelle carceri.

Tra gli obiettivi raggiungibili nel 2030 ci sono, invece, quello di arrivare al 60% del tasso di riciclaggio dei rifiuti urbani, di garantire a tutte le famiglie la copertura alla rete internet veloce; di ridurre al di sotto del 9% la quota di giovani che non studiano, né lavorano, i cosiddetti Neet.

Nel rapporto si fa anche il confronto del percorso italiano con quello dell’Unione europea: l’evoluzione dei 17 goal dal 2010 a oggi mostra un’Italia sotto alla media.

Dal 28 ottobre e fino al 19 novembre l’Asvis promuove una campagna di diffusione dei dati del rapporto e dei suggerimenti di azioni in esso contenuti: «Un goal al giorno». Ogni giorno viene approfondito, tramite diversi materiali online, semplici da consultare e utilizzare, il punto della situazione dell’Italia rispetto ciascun obiettivo.

di Luca Lorusso




L’autonomia dell’egoismo


La Costituzione italiana ha creato le Regioni come soggetti decentrati dello Stato. La questione è sempre stata: cosa possono fare e con quali soldi? E ancora: deve prevalere la solidarietà nazionale o l’egoismo regionale?

Secondo molti, la cosiddetta «autonomia differenziata» è un progetto che produrrà uno spezzatino legislativo e accrescerà le disuguaglianze fra territori. Il tema riguarda l’autonomia delle Regioni italiane, ossia quanto ognuna di esse possa fare per conto proprio nei vari ambiti che riguardano la vita dei cittadini.

Secondo la visione dei padri costituenti, le Regioni avevano essenzialmente il compito di attuare in ambito locale i servizi decisi dal governo centrale. Solo su materie molto ristrette a forte valenza locale potevano anche legiferare. Alcune di queste erano le fiere e i mercati, la caccia, l’artigianato, l’agricoltura, le foreste, la beneficenza e l’assistenza sanitaria. Ma era ben specificato che le leggi regionali dovevano rimanere dentro i limiti tracciati dai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, né potevano essere in contrasto con l’interesse nazionale o quello di altre Regioni. In conclusione, le Regioni erano concepite come strumenti di decentramento amministrativo in un progetto di avanzamento di tutta la nazione secondo logiche di solidarietà. Pertanto, i cittadini delle regioni più benestanti erano chiamati a contribuire anche per quelli residenti in regioni più disagiate in modo da garantire gli stessi servizi da un capo all’altro d’Italia.

Nord e Sud

La Costituzione italiana è stata emanata nel 1947 ed è entrata in vigore nel 1948, ma le regioni entrarono nel pieno delle loro funzioni solo nel 1970 quando si tennero le prime elezioni regionali. Per circa un ventennio la navigazione procedette senza eccessivi scossoni, ma sul finire degli anni Ottanta nel Nord Italia si sviluppò un movimento, poi battezzato Lega Nord, che arringava le folle sostenendo che il Nord era sfruttato dal Sud. La tesi era che il Nord laborioso produce ricchezza e il Sud parassita se ne appropria per mezzo dei travasi operati dal fisco e del salasso causato dalla macchina burocratica allestita dal governo centrale. La soluzione era l’autonomia regionale, compresa quella fiscale, affinché ogni Regione potesse utilizzare al proprio interno tutti i soldi versati dai propri cittadini modulando i propri servizi in base alla ricchezza disponibile. Un progetto, insomma, spudoratamente egoistico di cui non si faceva mistero. Dimenticando che la ricchezza del Nord era stata prodotta anche grazie al sudore di centinaia di migliaia di immigrati meridionali, al congresso della Lega Nord del 5 febbraio 1994, Gianfranco Miglio, ideologo del partito, tenne il suo discorso incentrato su pidocchi e parassiti: «Il Paese che siamo chiamati a cambiare è ammalato da un esercito di pidocchi. Centralismo e parassitismo sono due fenomeni strettamente legati fra loro. Senza mutare il sistema costituzionale centralizzato noi non riusciremo a sopravvivere». Che tradotto significava riformare la Costituzione affinché venisse riconosciuta alle Regioni la facoltà di trattenere il gettito fiscale generato nel proprio territorio da utilizzare a uso esclusivo dei propri cittadini.

La (brutta) riforma del Centrosinistra

Sulla scia dei successi elettorali dei leghisti, la «questione settentrionale» si era imposta al dibattito pubblico e un po’ tutti i partiti, sinistra compresa, si affrettavano a metterci sopra il cappello. L’Ulivo stesso, in occasione delle elezioni 1996, aveva inserito al terzo posto dei punti programmatici, la voce «Autogoverno locale e federalismo cooperativo», forse pensando che se fosse riuscito a introdurre il regionalismo prima della Lega, il responso elettorale si sarebbe spostato a proprio favore. Effettivamente quella tornata elettorale venne vinta dal Centrosinistra che nel 2001, sul finire della legislatura, varò una riforma costituzionale per garantire alle Regioni maggiori spazi di autonomia fiscale, amministrativa e legislativa. In tutto, gli articoli della Costituzione modificati furono dieci, mentre cinque furono addirittura abrogati. Ma quelli che subirono i cambiamenti più profondi furono il 116 e il 117 che definiscono i compiti delle Regioni e dello Stato. La riforma stabilì che alcune materie, come l’immigrazione, la difesa, l’ordine pubblico, sono di competenza esclusiva dello Stato, mentre altre, come sanità, trasporti, protezione civile, sono materie concorrenti, ossia di competenza congiunta di Stato e Regioni: lo Stato definisce i principi fondamentali, le Regioni gli aspetti di dettaglio.  L’articolo 116, tuttavia, stabilisce che sulle materie concorrenti, le Regioni possono godere di «condizioni particolari di autonomia», ma non precisa quanto possa essere ampia. Dice solo che deve essere richiesta dalla Regione interessata e che sarà una legge specifica, approvata dal Parlamento, ad attribuirla. Dunque, ogni Regione avrà la propria autonomia, ciascuna con contenuti diversi a seconda di ciò che più le interessa. Per questo si parla di autonomia differenziata.

La legge Calderoli

Stabilito che il supplemento di autonomia non è né automatico né predeterminato, serviva una legge ordinaria per definire il percorso utile ad ottenerlo.  Quella legge è arrivata ventitré anni dopo, nel giugno 2024 per iniziativa del ministro (leghista) per gli Affari regionali Roberto Calderoli. Ma è arrivata in un momento di ripensamento politico da parte della sinistra che ora vede l’autonomia differenziata come un pericolo, anziché una conquista. Per cui ha deciso di dare battaglia per mezzo di un referendum e, se tutto procederà secondo le previsioni dei promotori, nella primavera 2025 dovremmo essere chiamati a dire se vogliamo mantenere o abrogare la legge numero 86/2024, meglio nota come legge Calderoli.

Formata da 11 articoli, la legge definisce il percorso da seguire per ottenere l’autonomia supplementare e gli ambiti per la quale può essere richiesta. Ciò che colpisce in questa legge è il ruolo marginale previsto per il Parlamento. La procedura comincia con la richiesta di supplemento di autonomia da parte della Regione interessata con la precisazione delle materie su cui la richiede. Dopo di che si apre un tavolo di negoziato con il governo per dare forma concreta all’autonomia richiesta. L’accordo raggiunto sarà poi trasmesso al Parlamento che lo trasforma in legge senza possibilità concreta di modificarne il contenuto: l’accordo è accolto o rigettato in blocco.

Rispetto agli ambiti di gestione, la legge Calderoli fa una distinzione fra le materie che rientrano nei diritti civili e sociali (sanità, istruzione, tutela ambientale) e tutti gli altri (protezione civile, ricerca scientifica, previdenza sociale complementare). Le materie del secondo gruppo possono essere discusse subito. Quelle del primo gruppo debbono aspettare il varo di altri adempimenti legislativi prima di essere negoziati. La distinzione è d’obbligo perché l’articolo 117 della Costituzione stabilisce che non si può effettuare nessun intervento sulle materie inerenti i diritti sociali e civili se prima non sono stati definiti i livelli minimi da garantire su tutto il territorio nazionale. Si tratta dei famosi Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) che devono essere determinati dallo Stato. Il compito è stato attribuito al governo che legifererà non si sa quando, anche perché si attende il pronunciamento di una commissione appositamente costituita sotto la direzione del giurista Sabino Cassese.

In ogni caso è inutile fossilizzarsi su questa o quella tecnicalità: la legge Calderoli è presa di mira come strategia per congelare l’attuazione dell’autonomia differenziata, in attesa, forse, che un’altra maggioranza rimetta di nuovo mano alla Costituzione per ripristinare un testo simile a quello che avevamo prima della riforma del 2001.

Le criticità

Le principali obiezioni avanzate dagli oppositori dell’autonomia differenziata sono due. La prima è che, da un punto di vista normativo, l’Italia rischia di diventare uno spezzatino che metterà in difficoltà cittadini e operatori economici. Ad esempio, in materia ambientale si potrebbe avere una tale pluralità di assetti normativi rispetto a procedure, autorizzazioni e controlli, da mandare in confusione chi possiede attività economiche in più regioni. Per di più la libertà normativa può incitare le regioni a lanciarsi in una pericolosa gara di permissivismo per attirare in casa propria le imprese in cerca di siti produttivi.  L’obiezione più rilevante, tuttavia, è che l’autonomia differenziata aumenterà le disuguaglianze fra regioni ricche e regioni povere. In materia finanziaria la riforma costituzionale del 2001 non introduce novità di rilievo rispetto alla versione originaria del 1947.

Entrambe le versioni affermano che le Regioni possono godere di tributi propri e partecipare a quelli erariali destinati allo Stato centrale. Ma la versione del 1947 precisava che l’autonomia finanziaria si attua «nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica». La versione del 2001 è più vaga lasciando la porta aperta a vie di definizione meno controllabili come il tavolo di negoziazione che il governo avvia con le singole regioni richiedenti il supplemento di autonomia. In effetti l’articolo 5 della legge Calderoli stabilisce che «l’intesa individua le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale».

Secondo la Corte dei Conti, nel 2021 le regioni a statuto ordinario si sono finanziate per il 35% con tributi propri come il bollo sull’auto, l’Irap, l’addizionale Irpef, e per il 65% attingendo al gettito Iva raccolto sul proprio territorio. Allo stato attuale le regioni possono trattenere una quota massima di Iva territoriale pari al 70% e debbono destinarla alla sanità che rappresenta il 62% della spesa regionale complessiva.

Attraverso un calcolo piuttosto complicato, ogni anno il governo definisce l’importo di Iva che ogni regione può effettivamente trattenere. Il calcolo avviene mettendo a confronto l’ammontare di Iva raccolto sul proprio territorio, limitatamente al 70%, con la parte di spesa sanitaria che la stessa deve finanziare. Se la spesa risulta più alta dell’ammontare raccolto, la regione riceverà dallo Stato dei soldi a compensazione; se risulta più bassa, la regione verserà l’eccesso a un apposito fondo definito «fondo di solidarietà interregionale», che lo Stato utilizza, assieme ad altre entrate, per sostenere la spesa sanitaria delle regioni in affanno. Nel 2019 le regioni che hanno contribuito al fondo di solidarietà sono state sette. In testa c’è la Lombardia con un contributo pari a 2 miliardi di euro, seguita da Lazio, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Toscana, Liguria, per un totale di 5 miliardi di euro. Fra quelle che hanno beneficiato del fondo c’è prima di tutto la Campania, che ha ricevuto 2,1 miliardi. A seguire la Puglia, la Calabria e altre cinque regioni.

Oggi, in nome dell’autonomia differenziata, le regioni più ricche possono chiedere di trattenere le loro eccedenze per fornire ai propri cittadini servizi aggiuntivi. Del resto, è per questo che hanno rivendicato il supplemento di autonomia. Sarà quindi il fondo di solidarietà a rimetterci, con il rischio che si prosciughi fino ad azzerarsi, mettendo in difficoltà lo Stato, prima ancora delle regioni più fragili, perché esso dovrà trovare altre forme di entrata per finanziare i servizi essenziali da garantire da un capo all’altro d’Italia. Se avessimo avuto una sinistra più attenta ai suoi valori storici piuttosto che alle convenienze elettorali, oggi non ci troveremmo in questo pasticcio che potrà essere risolto solo con un forte intervento popolare.

Francesco Gesualdi


Il Ssn e i livelli essenziali

L’acronimo Lea sta per «Livelli essenziali di assistenza» e indica le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket). I Lea vennero introdotti con una legge del 1992 sulla constatazione che c’erano zone d’Italia dove non si garantivano nemmeno i servizi sanitari più elementari. Pertanto, si sentì il bisogno di definire quei servizi che dovevano essere assicurati a tutti i cittadini d’Italia, ovunque essi vivessero. Il loro elenco è rivisto periodicamente ed è suddiviso in tre sezioni: prevenzione collettiva e sanità pubblica, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera. L’ultimo aggiornamento risale al 2017.

Una legge del 2000 introdusse il Sistema di garanzia, un metodo di verifica che ha lo scopo dì appurare quanto sono effettivamente garantiti i servizi sanitari essenziali nelle diverse regioni d’Italia. L’indagine si basa sull’utilizzo di un centinaio di indicatori di qualità. L’ultima rilevazione relativa al 2018 certifica che esistono ancora differenze molto marcate fra le diverse regioni d’Italia. Quella più virtuosa è l’Emilia Romagna che garantisce i Lea al 98%. All’ultimo posto c’è la Calabria con un livello di adempimento del 44%.

L’acronimo Lep sta, invece, per «Livelli essenziali di prestazioni» e indica le prestazioni e i servizi che la collettività è tenuta a garantire a tutti i cittadini rispetto ai diritti civili e sociali. I Lep, dunque, sono un concetto più ampio dei Lea. I Lep sono stati introdotti dall’articolo 117 della Costituzione, per definire i servizi che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. L’articolo 117 si limita ad affermare il principio dei Lep, lasciando che sia una legge ordinaria a definirne le modalità d’attuazione. La legge Calderoli tratta i Lep all’articolo 3 indicando i settori interessati e l’organo che deve dettagliarli. Per quanto riguarda i settori ne individua quattordici, dall’istruzione ai trasporti passando per la sanità. Quanto a chi deve dettagliarli, la legge stabilisce che sarà il governo a farlo, previa consultazione di rappresentanze regionali e di alcune commissioni parlamentari. A molti è sembrato grave che non sia previsto nessun ruolo per il Parlamento come organo collegiale, perché i Lep non sono una questione formale, ma di grande  sostanza politica e sociale. Dalla loro definizione dipendono i diritti dei cittadini, la qualità delle loro vite, perfino il livello di equità presente nella società italiana. Rimettere questioni tanto importanti alla sola valutazione del governo è davvero molto pericoloso. Ragione di più per chiedere l’abrogazione della legge Calderoli affinché sia dato, quanto meno, più potere al Parlamento.

F.G.

 




Italia. Studenti di serie B

 

La scuola italiana fa fatica a sviluppare una didattica inclusiva e interculturale e a superare gli stereotipi sulla migrazione. Una ricerca su cinque città italiane conferma fenomeni di segregazione.

 

In un mondo attraversato da continui flussi migratori, l’intercultura, la condivisione e lo scambio sono sempre più urgenti, e la scuola è uno dei luoghi dove lo sono di più.

L’istruzione, infatti, ha un ruolo cruciale nel determinare il futuro dei giovani. Può essere un potente vettore di emancipazione, tanto più se i ragazzi provengono da situazioni di povertà ed esclusione sociale, come quelli che hanno alle spalle un background migratorio. Ma questo avviene a condizione che l’ambiente scolastico combatta le diseguaglianze educative e favorisca incontro e scambio tra culture, saperi e lingue.

 

Il progetto Integration mapping of refugee and migrant children in schools and other experiential environments in Europe (Immerse, Mappatura dell’integrazione dei bambini rifugiati e migranti nelle scuole e in altri ambienti esperienziali in Europa), finanziato dal programma Horizon 2020, ha analizzato l’inclusione scolastica e sociale di minori migranti e rifugiati in Belgio, Germania, Grecia, Irlanda, Italia e Spagna.

In Italia, la ricerca è stata condotta da Save the Children e ha coinvolto 7.168 studenti tra 10 e 17 anni delle città di Catania, Milano, Napoli, Roma e Torino.

Il rapporto conclusivo, Il mondo in una classe. Un’indagine sul pluralismo culturale nelle scuole italiane, denuncia la mancanza di risorse economiche e professionali, soprattutto negli istituti presenti in aree svantaggiate. L’Ong evidenzia le difficoltà della scuola italiana nello sviluppare approcci didattici inclusivi e interculturali e nel superare gli stereotipi sulla migrazione.

 

Molti istituti, soprattutto in aree periferiche, manifestano fenomeni di segregazione. Il white flight, ad esempio, è la tendenza delle famiglie italiane a iscrivere i figli nelle scuole di aree centrali o in istituti privati, incentivando la concentrazione di alunni stranieri nelle periferie. Altro fenomeno riguarda la propensione, denunciata dalla Fondazione Ismu – Iniziative e studi sulla multietnicità, ad assegnare docenti meno preparati e motivati alle classi con maggiore concentrazione di studenti stranieri.

L’abitudine a inserire gli studenti di origine straniera in classi inferiori alla loro età, il mancato riconoscimento di titoli di studio conseguiti nei Paesi di origine e la scarsa offerta di attività extra-scolastiche, sono altri fattori di marginalizzazione.

 

Nell’anno scolastico 2021/2022, l’11% degli studenti con background migratorio ha dichiarato di non aver frequentato la scuola per sei mesi o più (a fronte del 5,9% tra gli italiani). Alcune delle motivazioni addotte (barriere linguistiche, necessità di aiutare i genitori, inutilità della scuola) sottolineano l’incapacità inclusiva del sistema scolastico.

Allo stesso modo, gli studenti con background migratorio hanno un minore accesso alle attività extra scolastiche: corsi di sport, arte e musica sono frequentati dal 20% degli studenti stranieri e dal 43% di quelli italiani.

 

Preoccupante è anche il rapporto con i docenti: se il 64,5% degli studenti italiani ritiene di avere sempre o quasi la fiducia degli insegnanti, tra gli alunni di origine straniera lo pensa solo il 53,4%. Inoltre, il consiglio orientativo dei docenti per la scelta della scuola superiore mostra la tendenza a sottovalutare il potenziale di questi alunni: a parità di risultati nelle prove Invalsi, essi ricevono meno frequentemente il consiglio di iscriversi a un liceo.

 

In Italia, l’acquisizione della cittadinanza è regolata dalla legge 91 del 1992 che stabilisce il principio dello ius sanguinis: si diventa cittadini alla nascita se si è figli di uno o due genitori italiani. Chi è nato in Italia da genitori stranieri può acquisire la cittadinanza a diciotto anni se ha risieduto legalmente e senza interruzione nel Paese. Fino a quell’età, quindi, molti ragazzi, nati e cresciuti in Italia, restano esclusi dalla cittadinanza.

 

Alcuni studi condotti in diversi Paesi europei hanno evidenziato una correlazione positiva tra successo scolastico e cittadinanza. Save the Children conferma questa tendenza anche in Italia: la cittadinanza favorisce un livello più elevato di istruzione: il 46% di italiani e il 43% di alunni con background migratorio ma cittadini italiani aspirano a laurea, master o dottorato. Tra coloro che non hanno la cittadinanza solo il 35%.

 

Per rendere la scuola italiana un ambiente inclusivo e interculturale, in grado di valorizzare il potenziale di tutti i giovani, la strada è ancora lunga. Non si tratta solo di intervenire sulla qualità delle istituzioni scolastiche e dell’insegnamento ma anche di garantire pari opportunità nella sfera socioeconomica e, soprattutto, dei diritti umani.

Aurora Guainazzi




Paesi Ue della Nato. Sempre più armati e insicuri

 

È aumentata del 10% nel solo 2023 rispetto al 2022 la spesa pubblica per il comparto militare nei paesi dell’Unione europea membri della Nato. Complice (anche) la guerra in Ucraina che sta consumando gli arsenali dei paesi donatori.

Se prendiamo un arco temporale più ampio, la voce «Difesa» nei bilanci di questi stessi paesi tra il 2014 e il 2023 si è ingrossata del 46%: da 145 miliardi a 215. In media, ogni cittadino ha pagato per la spesa militare, tramite le imposte, 508 euro nel 2023 contro i 330 del 2013: il conto per ogni cittadino italiano è stato di 436 euro.

Nel medesimo periodo di dieci anni la spesa pubblica per l’istruzione è aumentata solo del 12%, quella per la protezione ambientale del 10%, quella per la sanità (che ha affrontato l’emergenza Covid) del 34%.

Insomma, mentre le economie dei paesi dell’Unione europea sono in grave affanno, le disuguaglianze sociali aumentano insieme alle difficoltà dei cittadini a curarsi, a progettare il proprio futuro, a vivere in un ambiente sano, il comparto militare fa festa: la sola spesa per gli armamenti nei Paesi Ue membri della Nato ha raggiunto nel 2023 i 64,6 miliardi di euro (+270% in un decennio).

L’obiettivo di arrivare a una spesa per la difesa pari al 2% del Pil, imposto dagli Usa ai suoi partner della Nato, è quasi realizzato. Quello di una maggiore sicurezza, sia interna ai singoli paesi, che internazionale, invece, sembra allontanarsi a grandi passi.

È interessante sottolineare che le importazioni di armi da parte dei paesi Ue sono triplicate tra il 2018 e il 2022, e che la metà di queste importazioni proviene proprio dagli Usa.

Il rapporto Arming Europe pubblicato di recente da Greenpeace, con un focus particolare sulle spese militari di Germania, Spagna e Italia, mette in fila questi dati e diversi altri.

La copertina della sintesi in lingua italiana di Arming Europe.

Tra le valutazioni centrali dello studio c’è quella che sottolinea l’irrazionalità dell’aumento delle spese militari: irragionevole sia dal punto di vista della sicurezza che da quello della crescita economica e sociale.

La corsa agli armamenti (in alternativa agli strumenti della cooperazione, della giustizia redistributiva, della diplomazia, della difesa civile), infatti, è da sempre uno dei fattori di inquinamento delle relazioni tra stati e, quindi, scatenanti delle guerre. Ed è anche una palla al piede per l’economia e, di conseguenza, per le politiche sociali dei singoli paesi.

La ricerca di Greenpeace ha il merito di confrontare le stime di crescita economica per diversi ambiti di spesa pubblica: cosa comporta – si chiede la ricerca – una spesa di 1.000 milioni in termini economici ed occupazionali? «In Germania – si legge nel report -, una spesa di 1.000 milioni di euro per l’acquisto di armi porta a un aumento della produzione interna di 1.230 milioni di euro. In Italia, l’aumento risultante è di soli 741 milioni di euro, poiché una parte maggiore della spesa è destinata alle importazioni. In Spagna, l’aumento della produzione interna è di 1.284 milioni di euro. L’effetto sull’occupazione sarebbe di 6.000 posti di lavoro aggiuntivi (a tempo pieno) in Germania, 3.000 in Italia e 6.500 in Spagna.
Invece, quando i 1.000 milioni di euro vengono spesi per l’istruzione, la salute e l’ambiente, l’impatto economico e occupazionale è maggiore.

I risultati più elevati si registrano per la protezione ambientale, con un aumento della produzione di 1.752 milioni di euro in Germania, 1.900 milioni di euro in Italia e 1.827 milioni di euro in Spagna. Per l’istruzione e la sanità, la produzione aggiuntiva varia da 1.190 a 1.380 milioni di euro. In termini di nuovi posti di lavoro, in Germania 1.000 milioni di euro potrebbero creare 11.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale, quasi 18.000 posti di lavoro nell’istruzione, 15.000 posti di lavoro nei servizi sanitari. In Italia, i nuovi posti di lavoro andrebbero da 10.000 nei servizi ambientali a quasi 14.000 nell’istruzione. In Spagna, l’effetto occupazionale sarebbe compreso tra 12.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale e 16.000 nell’istruzione. L’impatto sull’occupazione è da due a quattro volte superiore a quello atteso da un aumento nella spesa per le armi».

Se non bastassero le considerazioni etiche contro il riarmo, almeno quelle economiche dovrebbero indurre i governanti a valutare con maggiore attenzione l’uso del denaro pubblico e orientarlo in direzione di una maggiore giustizia, sia sociale che ambientale, sia nazionale che internazionale. Purtroppo pare, invece, che al momento gli interessi siano altri.

Luca Lorusso




La solidarietà degli immigrati

 

A Palermo, i membri dell’associazione Stra Vox, giovani tra i 16 e i 30 anni provenienti dall’Africa occidentale, dal 2019 sostengono le persone in difficoltà, immigrate e italiane, distribuendo pasti caldi, beni di prima necessità e giocattoli per bambini.
Ogni anno svolgono attività di raccolta fondi tramite il «Ramadan solidale», distribuendo circa 900 pasti caldi nella zona di Ballarò, e tramite il «Natale solidale», acquistando giocattoli da regalare a centri aggregativi, parrocchie e famiglie.

A Jesi, in provincia di Ancona, i volontari del Centro culturale islamico Al Huda (che unisce musulmani di Tunisia, Marocco, Algeria, Bangladesh, Pakistan, Albania e Senegal) nel 2020 hanno donato al Comune 2.500 euro per contribuire ai bisogni emersi durante la pandemia, inoltre si dedicano a periodiche iniziative ambientali, ripulendo le principali zone della città.

A Venezia, negli ultimi anni, i bangladesi della Venice Bangla School, con sede a Mestre, hanno effettuato donazioni in denaro al Comune e alla protezione civile, e hanno regalato 100 tute protettive anti-Covid alla polizia di Stato, 100 alla polizia municipale e 300 all’ospedale locale.

Sono alcuni degli esempi virtuosi presentati nella ricerca Partecipo quindi dono. L’impegno solidale delle persone di origine immigrata oltre la pandemia, realizzata dal Centro Studi Medì – Migrazioni nel Mediterraneo in collaborazione con Csvnet (associazione nazionale dei Centri Servizio Volontariato), per esaminare le pratiche di dono e aiuto messe in atto dalle persone di origine straniera a partire da due emergenze: la pandemia da Covid-19 e l’accoglienza di profughi del conflitto russo-ucraino.

L’indagine, realizzata in diverse regioni italiane attraverso 330 questionari, 64 interviste narrative e l’analisi di sette realtà associative, rovescia lo stereotipo dell’immigrato destinatario passivo degli aiuti descrivendolo come protagonista attivo della solidarietà.

Ma qual è l’identikit dei cittadini stranieri con propensione al dono?
«Al 59% sono donne, che mostrano maggiore sensibilità e dispongono di tempo libero dal lavoro fuori casa», spiega la sociologa Deborah Erminio dell’Università di Genova, una delle curatrici della ricerca.
Si tratta, inoltre, di persone con titoli di studio medio alti (il 52% laureati), con occupazioni dignitose anche se non sempre stabili (42%), residenti in Italia da molti anni (in media più di 20), nelle regioni più sviluppate (quasi il 90% tra Nord e Centro) e che vivono nel nostro Paese con la propria famiglia (64%). «Ciò dimostra che la maggiore stabilità socio-economica e giuridica consente di liberare energie a favore degli altri: l’integrazione mette in circolo la solidarietà».

L’attitudine solidaristica, a favore sia dei propri connazionali sia della società e delle istituzioni italiane, è stata analizzata in tre ambiti: dono di beni materiali (raccolte fondi, collette alimentari, giocattoli), dono di tempo (visite a persone malate, babysitteraggio occasionale, aiuto ad altri stranieri per le pratiche burocratiche), volontariato vero e proprio (nel quale emerge un senso di solidarietà universalmente orientata).

La maggior parte degli intervistati, 8 su 10, dedicano il proprio aiuto alle persone bisognose che vivono in Italia, indipendentemente dalla loro origine, per cui prevale un orientamento universalistico seppure in una dimensione di prossimità fisica. «I cittadini d’origine straniera sentono la responsabilità sociale verso il nostro Paese: spesso, anche quando aiutano gli altri immigrati, lo fanno non con spirito di parte ma perché li vedono come categoria povera e vulnerabile. Il criterio è: si aiuta chi ha bisogno», nota Deborah Erminio.

Circa il 55% del campione considerato è anche impegnato nella solidarietà transnazionale con i territori d’origine, sia nella forma di rimesse inviate regolarmente a familiari o ad associazioni e centri religiosi, sia in occasione di emergenze (terremoti, incendi, conflitti). Accanto all’esigenza di integrarsi nel nostro Paese, rimane dunque il desiderio di mantenere i legami con la propria società di origine.

In tutti i casi, «la solidarietà è contagiosa: tende ad aiutare di più chi a sua volta ha ricevuto aiuto, per cui si crea un circuito virtuoso di responsabilità sociale», spiega Deborah Erminio. Lo confermano le parole di El Anouar El Miloudi, presidente del Centro culturale islamico Al Huda: «Abbiamo deciso di fare qualcosa di bello per aiutare il Comune di Jesi, perché loro sono sempre con noi e quando bussiamo hanno sempre la porta aperta. Durante il Covid, ci hanno dato un terreno dove seppellire i nostri morti. Il Comune ci ha fatto un grande favore, in quel periodo non c’era il cimitero e hanno concesso un terreno per la comunità islamica».

L’indagine evidenzia la capacità degli immigrati – inclusi i neocittadini italiani e le nuove generazioni cresciute nel nostro Paese – di aggregarsi in forme più o meno organizzate (associazioni, comunità religiose, gruppi di connazionali) per attivarsi e prestare aiuto. Emerge così «l’esistenza di una classe media di origine immigrata che durante la pandemia ha fatto da tramite tra le istituzioni italiane e la popolazione straniera, tutelando la salute di tutti. Pensiamo ad esempio ai migranti irregolari, a lungo esclusi dalle vaccinazioni anti-Covid», osserva Maurizio Ambrosini, sociologo dell’Università di Milano, altro curatore di Partecipo quindi dono.

La pratica del dono manifesta anche una dimensione politica, è un modo per sentirsi parte della società italiana a pieno titolo, cittadini a tutti gli effetti. «Accanto all’idea di una restituzione simbolica nei confronti del Paese ospitante, c’è una domanda di riconoscimento sociale. L’altruismo è una forma di cittadinanza dal basso, che rivendica più ascolto e apertura in sede politica», dice Ambrosini. «Del resto, gli immigrati trovano più spazio nell’associazionismo che nel mondo del lavoro o della politica. Come spesso avviene, la sfera del volontariato è un passo avanti».

Stefania Garini




Migrazioni:

Schengen è morto, viva l’Europa

Testo di Simona Cranino, foto di Simone Perolari |


Ci eravamo abituati ad andare in Francia senza controlli. Oggi, chi ha la faccia da europeo continua a farlo. Gli altri invece rischiano di morire sulla frontiera. E vi muoiono. I gendarmi francesi passano il confine con arroganza, per riportare in Italia i malcapitati sopravvissuti, africani o asiatici. Intanto a Strasburgo si fatica a modificare il trattato di Dublino.

Un’ora e 10 minuti è il tempo di percorrenza del treno regionale che da Torino porta a Oulx, comune dell’alta valle di Susa, situato a 20 chilometri dal confine francese. Dalla stazione ferroviaria, un servizio di autobus di linea conduce a Claviere in meno di mezz’ora. Da lì, a piedi ci vogliono 3 ore per arrivare a Briançon. Se si cammina nella neve, bisogna considerare almeno mezz’ora in più. Tuttavia, al netto di imprevisti, il viaggio da Torino, attraverso il valico del Monginevro, fino al primo centro abitato della Francia ha una durata di circa 4 ore e mezza.

Un tempo troppo breve, per non provare ad attraversare quell’ultimo confine. Soprattutto se si paragonano le 4 ore e mezza ai mesi di viaggio in cui si è sopravvissuti al deserto, al mare e alle violenze dei trafficanti, prima di arrivare in Europa. Questo pensa Abdel, 38 anni, algerino, mentre si sfrega le mani per il freddo e si siede su una panchina di Oulx ad aspettare l’autobus che lo porterà a Claviere, da dove inizierà l’ultimo tratto di strada nei boschi per arrivare in Francia.

Nell’ultimo anno, migliaia di persone, come Abdel, hanno tentato di attraversare il confine italo-francese in alta valle di Susa, in seguito all’intensificazione dei controlli a Ventimiglia, a partire dall’estate 2017. L’obiettivo è uno solo: vivere in Francia o continuare il viaggio verso il Nord Europa.

Rotte che cambiano

Fino a gennaio 2018 i migranti provavano ad arrivare a Briançon attraverso il colle della Scala e Nevache, iniziando il percorso da Bardonecchia. Le grandi nevicate dell’inverno e il rischio slavine hanno convinto i viaggiatori a cambiare rotta e passare dal Monginevro, che permette di raggiungere Briançon su sentieri più sicuri, anche se maggiormente controllati dalla gendarmerie francese.

Abdel ha già provato la traversata ieri sera, ma è stato respinto dalla polizia al Monginevro. Determinato a viaggiare verso la Francia, ha deciso di ritentare l’attraversamento oggi, dopo essersi riposato nella saletta di prima accoglienza a Bardonecchia messa a disposizione dal comune nei locali della stazione, gestita da due referenti migranti della Recosol (Rete dei comuni solidali), il sudanese Moussa Khalil Issa e il camerunense Roland Djomeni, e dai medici dell’Ong Rainbow for Africa, che forniscono assistenza sanitaria. «La gendarmerie continua a respingermi – spiega Abdel in un buon italiano -. Eppure io ho il permesso di soggiorno per motivi umanitari valido in Italia, per cui non capisco perché non possa andare in Francia».

Senza visto

Sulla carta, una persona non europea con regolare permesso di soggiorno può varcare i confini di tutti gli stati dell’Unione senza richiesta di visto turistico. Tuttavia, nei fatti, con l’esacerbazione dei controlli alle frontiere interne all’area Schengen, ripristinati dalla Francia a partire dal 2015, in seguito agli attacchi terroristici e alla crisi migratoria, anche chi possiede i documenti di viaggio corretti può essere respinto, se non è in grado di dimostrare risorse economiche sufficienti a giustificare il periodo di turismo. Con la sospensione della libera circolazione, la Francia è diventata una roccaforte irraggiungibile per i migranti che, come Abdel, non hanno intenzione di rimanere in Italia. «Ho vissuto in Italia per 8 anni, ma oggi il mercato del lavoro non offre opportunità e quindi, visto che parlo francese, e ho tanti amici in Francia ho pensato di provare la fortuna lì». Eppure ad Abdel è preclusa la possibilità di un lavoro regolare in Francia perché, secondo il regolamento di Dublino, i migranti possono richiedere asilo politico solo nel paese di arrivo, che, in caso di approvazione della domanda, diventa l’unico stato dell’Unione in cui possono lavorare regolarmente, mentre negli altri paesi possono viaggiare come turisti.

Abdel lo sa e pensa che sia meglio lavorare in nero piuttosto che non lavorare affatto e quindi accetta il rischio. In fondo, lui possiede un permesso di soggiorno e, nel peggiore dei casi, dovrà accettare l’idea di rimanere in Italia.

Le vittime di Dublino

Diversa è la situazione di Abu, 18 anni, originario del Ghana. In mano non ha documenti. Arrivato a Lampedusa nel 2017 ha fatto richiesta di asilo, poi è scappato dal centro di accoglienza, stufo di aspettare il giorno di esame della sua pratica, che dopo mesi di attesa, ancora non era arrivato. Ora è vicino al confine francese e sta pensando se attraversarlo. A farlo ragionare sui pro e contro della sua scelta ci pensano i referenti della Recosol.

«Noi informiamo le persone dei loro diritti in Italia – spiegano Roland e Moussa -. In particolare, ricordiamo ai richiedenti asilo politico che se migrano in Francia e non si presentano in questura per la valutazione del proprio caso, perdono il diritto di avere un permesso valido in Italia e non potranno fare un’altra richiesta d’asilo in Francia, rischiando di vivere da sans papiers». La norma che impone di fare domanda d’asilo nel primo paese d’accesso, prevista dal regolamento di Dublino, è responsabile dei tentativi di fuga dai centri di accoglienza di chi, sbarcato in Italia, Grecia e Spagna, ambisce a richiedere asilo politico in Francia o in altri paesi del Nord Europa, non sapendo che di fatto non potranno fare nuovamente domanda. In questi mesi, il parlamento europeo sta lavorando a una riforma di Dublino, che prevede la sostituzione del criterio del primo paese d’accesso con un meccanismo di ricollocamento delle persone negli altri stati europei, secondo un sistema di quote e di legami tra migrante e paese di destinazione. Tuttavia, la riforma è in discussione e il risultato si vede alla frontiera italo-francese dove donne, bambini e uomini cercano di superare il confine illegalmente, convinti che un altro modo non ci sia. E in effetti, non c’è. Senza permesso di soggiorno non è possibile muoversi in Europa, neppure facendo riferimento a un eventuale passaporto rilasciato nel paese d’origine. Così ha pensato anche Abu, che alla fine ha deciso di affrontare la frontiera. Abu non ha il passaporto del Ghana, ma anche se lo avesse ottenuto, avrebbe dovuto chiedere un visto turistico alla Francia che glielo avrebbe negato per mancanza dei requisiti economici, la stessa mancanza che lo ha spinto a lasciare il proprio paese.

Il «potere» del passaporto

Il «Passport Index 2018», la classifica annuale dei passaporti secondo il potere di circolazione senza richiesta di visto, stilata dall’impresa Arton Capital, riporta che il passaporto ghanese permette di viaggiare solo in 61 stati senza richiesta di visto, nessuno dei quali è in Europa. Invece, il passaporto italiano apre le frontiere di 161 paesi. Questo determina che nascere in Italia o in Ghana divide automaticamente le persone in serie A e serie B. E chi ha un passaporto di serie B, come Abu, non gode della libertà di movimento, per cui risulta obbligato ad affidarsi a reti di traffico illegale e a un viaggio insicuro.

Invasioni francesi

Per tutto l’inverno, i migranti respinti alla frontiera di Claviere, o al traforo del Frejus, sono stati trasportati dalla Gendarmerie di fronte al ricovero di Bardonecchia, secondo una prassi dei militari francesi non concordata con la polizia italiana. Prassi che ha portato a un attrito scoppiato il 30 marzo scorso, quando la Gendarmerie ha fatto irruzione nel punto di accoglienza a Bardonecchia, per svolgere gli esami delle urine su un ragazzo nigeriano, fermato sul Tgv in direzione Roma, sospettato di essere un consumatore e corriere di droga. L’operazione, che ha portato alla liberazione del ragazzo per mancanza di prove, si è svolta sotto gli occhi dei volontari e dei mediatori del punto di accoglienza. Sebbene sia sempre stato rispettato l’accordo di cooperazione Italia-Francia che permette alle rispettive forze di polizia di svolgere controlli coordinati su migranti nelle zone di frontiera, il 30 marzo si è rischiato di mettere in discussione le relazioni diplomatiche tra i due stati per omissione di comunicazione alla polizia italiana dell’operazione gestita dai militari francesi sul nostro territorio nazionale. Il fatto ha evidenziato la tensione che negli ultimi mesi si è generato alla frontiera franco-italiana in alta valle di Susa. «Le relazioni diplomatiche tra i paesi di frontiera sono rimaste ottime – commenta a due mesi dall’accaduto Francesco Avato sindaco di Bardonecchia -. I fatti del 30 marzo non hanno inciso negativamente sull’operatività del nostro lavoro, anzi siamo riusciti a concordare che la polizia francese non possa più trasportare alla nostra stazione i migranti, di cui ora si occupa la polizia italiana. I fatti hanno permesso comunque di portare in agenda internazionale ed europea la situazione migratoria sulla nostra frontiera».

Uomini e numeri

I flussi di migranti in alta valle di Susa sono altalenanti. A partire da maggio 2018 i numeri si sono ridotti, sia nel ricovero di Bardonecchia, sia alla stazione di Oulx. «Oggi calcoliamo una media di circa 6 o 7 passaggi al giorno – commenta il sindaco di Oulx Paolo De Marchis -. Tuttavia, potrebbero aumentare con la riapertura del Colle della Scala, nel periodo estivo. Su quel versante della montagna è più facile passare inosservati ai controlli».

Fino a marzo 2018, nella sala di accoglienza di Bardonecchia transitavano 15 o 20 persone al giorno. Guinea Conakry, Mali, Costa d’Avorio, Nigeria e Ghana sono gli stati di provenienza della maggior parte dei migranti, anche se, nei mesi primaverili, sono aumentate le persone originarie di Iraq, Bangladesh e Pakistan. Sebbene i numeri della migrazione che si muove su rotte irregolari siano difficili da documentare, i volontari e gli attivisti di «Chez Jesus», che a marzo 2018 hanno occupato il sottoscala della chiesa di Claviere installando un rifugio per migranti in transito, hanno visto il passaggio di centinaia di persone. A fronte di picchi di flusso tra le frontiere interne all’Europa, si è verificata una riduzione degli arrivi via mare. Secondo i dati dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), dal 1 al 23 maggio 2018 si sono verificati 1.240 sbarchi sulle coste italiane a fronte dei 22.993 di maggio 2017. Stessa tendenza al ribasso anche in aprile con 3.171 arrivi del 2018, rispetto ai 12.943 del 2017. Come Abdel e Abu, la maggior parte delle persone che cercano la Francia, dal confine dell’alta valle di Susa, hanno deciso di rimettersi in viaggio, dopo aver vissuto un periodo in Italia.

Morti di frontiera

L’intensificazione dei controlli alla frontiera da parte della polizia francese, se sulla carta ha l’obiettivo di limitare la tratta e la migrazione illegale, di fatto ha inasprito la situazione e spinto i migranti a cercare pericolosi punti di accesso alla frontiera. E se, nei mesi del grande freddo, i volontari del Soccorso alpino hanno dato fondo alle proprie forze per evitare tragedie umane in montagna, proprio mentre la neve sta lasciando spazio al verde della primavera, a maggio 2018 si sono verificate le prime due vittime del viaggio migratorio. Entrambe le persone hanno perso la vita in Francia, a pochi chilometri dal confine italiano. Mathew Blessing, ventunenne nigeriana, è caduta nel fiume Durance mentre cercava di raggiungere Briançon, mentre Mamadou, un ragazzo senegalese, è morto di sfinimento dopo tre giorni che vagava per i sentieri oltre il valico del Monginevro. A marzo era morta anche Beauty, ragazza nigeriana incinta affetta da linfoma in stato terminale che, a pochi giorni dallo spegnersi, aveva tentato di camminare nella neve per arrivare fino in Francia, prima di essere respinta dalla Gendarmerie, che l’ha trasportata a Bardonecchia dove i medici di Rainbow for Africa hanno attivato i soccorsi. Beauty è morta all’ospedale Sant’Anna di Torino, dopo aver dato alla luce sua figlia. Il suo sogno era partorire in Francia, dove vive sua sorella.

E mentre le notizie delle morti si succedono, le frontiere rese invisibili da Schengen nel 1995 ritornano a innalzarsi su un’Europa inespugnabile, costituita da nazioni che sembrano negare quegli stessi diritti umani che hanno contribuito a teorizzare dopo la rivoluzione francese.

Reato di solidarietà

Intanto di fronte al peregrinaggio silenzioso dei migranti, la frontiera si anima di persone e opinioni contrastanti. E se da un lato si rafforzano spinte nazionaliste, ben riassunte dalla massiccia presenza di esponenti della destra di Génération Identitaire che sul confine italo-francese manifesta la propria opposizione ai movimenti migratori al grido «Defend Europe», dall’altro lato, gli attivisti di Briser les frontières, la rete che promuove la libera circolazione degli esseri umani, oggi divisa nei due collettivi Chez Jesus e Valsusa oltre confine, porta il proprio sostegno ai migranti offrendo cibo, vestiti e suggerimenti di viaggio, promuovendo una «Welcoming Europe» e ribadendo che «la solidarietà non è reato».

Eppure si può venire accusati di «reato di solidarietà». È successo a Benoît Duclos, cittadino francese che rischia una condanna a 5 anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dopo aver trasportato all’ospedale di Briançon una donna incinta bloccata nella neve a Claviere. Stessa cosa è accaduta a Eleonora, Theo e Bastien che, dopo aver partecipato a una manifestazione ad aprile per promuovere l’apertura delle frontiere, sono stati accusati dalla polizia francese di favoreggiamento di immigrazione clandestina in banda organizzata. Il procedimento contro i tre ragazzi e Benoît mette sullo stesso piano chi compie atti umanitari e i passeur delle reti di contrabbando e di tratta, che richiedono pagamenti elevati a chi cerca di andare in Francia. Tuttavia, sono agli antipodi le motivazioni di chi, convinto che le frontiere non debbano esistere, cerca di dare una mano gratuitamente a un migrante che rischia di morire sui sentieri di montagna e di chi, al contrario, sfruttando i muri alzati dalla Francia e la mancanza di un’universale uguaglianza nella libertà di movimento, prova a lucrare sul dolore dei migranti.

Simona Carnino




Prestiti e ricatti

Testo sui ricatti dei prestiti di Francesco Gesualdi |


Qualcuno li aveva definiti «maiali» (Piigs). Erano i paesi comunitari dell’area mediterranea – Portogallo, Italia, Grecia e Spagna – più l’Irlanda, che tra il 2008 e il 2013 si erano trovati in grave difficoltà a causa del loro debito. Intervenne la «Troika» che, in cambio di prestiti (onerosi), pretese una serie di pesanti impegni. Oggi la situazione finanziaria pare più stabile, i governi più deboli, la gente più povera.

Fra il 2008 e il 2013, un precipitare di eventi, non tutti collegati fra loro, rese particolarmente difficile la situazione debitoria di vari paesi dell’eurozona. E a indicare quelli più in difficoltà venne creato l’acronimo Piigs («maiali», in inglese), comprendente Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna.

Dall’Irlanda alla Grecia

L’Irlanda fu il primo paese a mostrarsi pesantemente inguaiato, e non per mala amministrazione o per avere voluto garantire ai cittadini chissà quali lussi, ma per aver salvato le proprie banche. L’eccesso di azzardo aveva portato le principali banche irlandesi sull’orlo della bancarotta e, per evitare il loro fallimento, il governo irlandese le foraggiò con 64 miliardi di euro. Un’operazione fatta a debito che in cinque anni portò il debito pubblico irlandese da un minuscolo 25% del Pil nel 2007, a uno spaventoso 120% nel 2012.

Il secondo paese a lanciare l’Sos fu la Grecia che, per la verità, già da anni si portava dietro un pesante fardello. Fin dal suo ingresso nell’euro aveva un debito pubblico pari al 100% del Pil, ma la situazione sembrava stabilizzata. Senonché dal 2004 il debito aveva ripreso a crescere un po’ per fare fronte alle spese connesse alle Olimpiadi, un po’ per garantire ai cittadini pensioni e salari più alti, oltre che servizi migliori. La situazione precipitò nel 2010 quando si seppe che lo scoperto annuale superava il 15% del Pil, mentre il limite imposto dai trattati europei era (ed è) al 3%. Nell’aprile del 2010 la Grecia venne dichiarata inaffidabile dalle agenzie di rating e di colpo non ottenne più un centesimo di prestito dal sistema bancario e finanziario privato. Senza nuovi prestiti, la Grecia non avrebbe potuto pagare né interessi né rate in scadenza: di fatto sarebbe stato come dichiarare fallimento. Una vera sciagura per i creditori, al 70% stranieri, e per l’euro che poteva subire una grave svalutazione per perdita di fiducia. Fu così che, per evitare la catastrofe, il 2 maggio 2010 l’Unione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, la famosa «Troika», misero a disposizione della Grecia 110 miliardi di euro per le scadenze più urgenti. Questi non bastarono e in seguito vennero accordati altri prestiti: 172 miliardi nel 2012 e 86 miliardi nel 2015. Oggi vediamo che il debito pubblico greco ha continuato a crescere, fino a raggiungere, nel marzo 2018, 330 miliardi, il 180% del Pil, detenuto per l’80% da soggetti pubblici: governi europei, Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e greca. Soggetti che, pur essendo pubblici, non si sono mostrati più magnanimi dei creditori privati. Anzi si sono dimostrati peggiori perché hanno approfittato della loro posizione di potere per mettere il parlamento e il governo greco sotto ricatto. Per prima cosa hanno chiarito che non regalavano, ma prestavano con tanto di interessi e di scadenze prefissate per la restituzione del capitale. Poi però hanno fatto di peggio: hanno condizionato l’esborso dei prestiti alla sottoscrizione di una serie di impegni.

Christine Lagarde, IMF Managing Director. © Simone D. McCourtie / World Bank

Le «riforme» della Troika

È successo alla Grecia esattamente come successe, negli anni Ottanta del secolo scorso, nei confronti dei paesi del Sud del mondo, quando il Fondo monetario internazionale si dichiarò disponibile a venire in loro soccorso purché accettassero di introdurre una serie di riforme che avevano come obiettivo la trasformazione delle loro economie in sistemi neoliberisti. E con la scusa di aiutarla a ritrovare la propria sostenibilità economica e a riprendere la strada della crescita, anche la Grecia venne obbligata ad adottare una serie di misure, «riforme» come dice la Troika, cheavevano come obiettivo la riduzione del peso dello stato e la crescita del potere del mercato e, per converso, la riduzione della sicurezza sociale, dei salari e dei diritti dei lavoratori. Con conseguenze disastrose su tutti i piani. Dal 2008 al 2015 in Grecia la spesa sanitaria pro capite fu tagliata di un terzo tanto che oggi un quarto dei greci si ritrova senza copertura sanitaria. Negli ospedali mancano lenzuola, garze e medicinali. Le infezioni ospedaliere sono sempre più frequenti, gli interventi non riusciti si moltiplicano, i medici migliori fuggono all’estero. Salari e pensioni hanno subito tagli dal 30 al 50% mentre la disoccupazione è salita al 25% con i giovani colpiti in maniera particolare. La povertà estrema è passata dal 9% nel 2011 al 15% nel 2015 e, se includiamo anchei greci in povertà relativa, scopriamo che la percentuale complessiva dei poveri al 2015 si colloca al 23% della popolazione. Dal 2009 al 2016 il numero dei senza tetto è quadruplicato a causa dell’abolizione del sostegno all’alloggio. Mezzo milione di greci, su un totale di 10 milioni, vivono grazie ai pasti messi a disposizione dalle organizzazioni umanitarie. Una vera tragedia umana che molti non hanno retto facendo raddoppiare il numero dei suicidi passati da 373 nel 2009, a 616 nel 2015.

Il turno dell’Italia

Anche l’Italia venne inclusa fra i Piigs. Non tanto per un peggioramento repentino del suo debito pubblico, quanto per il suo stato di indebitamento cronico. Con un debito strutturalmente al di sopra del 100% del Pil, gli occhi dei mercati erano puntati sull’Italia per cogliere il benché minimo segnale di peggioramento da sfruttare per organizzare un attacco speculativo contro di essa e magari anche contro l’euro (come avvenuto anche a maggio-giugno 2018, ndr). L’Unione europea sudava freddo e avrebbe tanto desiderato poter entrare a gamba tesa nella politica interna italiana per imporle l’adozione di misure d’austerità che avrebbero rassicurato i mercati e quindi ridotto i rischi di ritorsioni da parte del mondo della finanza. Ma a differenza della Grecia, l’Italia non aveva chiesto prestiti all’Europa, per cui mancava l’appiglio su cui esercitare il ricatto. Alla fine l’Unione europea trovò il modo di fare passare dalla finestra ciò che non riusciva a fare entrare dalla porta e lo fece appellandosi all’intervento di due strutture tecniche: la Banca d’Italia e la Banca centrale europea. Fu così che il 4 agosto 2011, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, si vide recapitare una lettera a firma di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet (riquadro), in cui si segnalava che dopo aver discusso la situazione dei titoli di stato italiani, il Consiglio direttivo della Banca centrale europea aveva giudicato necessario sollecitare le autorità italiane a «un’azione pressante per ristabilire la fiducia degli investitori». E, per non rimanere nel generico, la lettera elencava dettagliatamente le riforme che dovevano essere intraprese dal governo italiano, compresa l’abolizione delle Province, passando per la piena liberalizzazione dei servizi pubblici, la riforma delle pensioni, la revisione della legge sui licenziamenti e molto altro ancora.

Berlusconi non riuscì a realizzare le riforme auspicate e il 12 novembre del 2011 fu sollecitato a dimettersi per lasciare la poltrona a Mario Monti. Un cambio di guardia voluto dall’Europa che molti non hanno esitato a definire un colpo di stato.

Il gendarme dei conti pubblici

Come richiesto da Draghi e Trichet, il compito di Mario Monti era di «ristabilire la fiducia degli investitori» che, tradotto, significava due cose. La prima: dimostrare che la priorità dell’Italia è servire l’interesse dei creditori. La seconda: dimostrare che la fede dell’Italia è nel mercato. Di qui le operazioni che Monti e i governi successivi compirono: inasprimenti fiscali per garantire maggiori entrate allo stato, taglio alle spese per garantire un avanzo quanto più ampio possibile da destinare agli interessi, privatizzazioni per trasferire al mercato quante più attività possibili, riforme del lavoro per accrescere il potere delle imprese. Il tutto suggellato dalla modifica dell’articolo 81 della Costituzione (legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, approvata con maggioranza qualificata di due terzi del Parlamento, ndr), in ossequio al Fiscal compact, che ha introdotto l’obbligo di pareggio di bilancio a significare che lo stato ha rinunciato a qualsiasi ruolo di orientamento dell’economia. E naturalmente disponibilità a controlli preventivi da parte della Commissione europea che ha il diritto di verificare i programmi di bilancio prima di mandarli all’approvazione del parlamento italiano. E se, per caso, vi trova dei numeri fuori posto ha il diritto di imporre dei correttivi.

Da quando l’Unione europea ha assunto il ruolo di gendarme dei conti pubblici, il percorso che porta all’approvazione dei bilanci nazionali si è fatto lungo e complesso.

Volendo, la procedura inizia a Bruxelles piuttosto che nelle varie capitali europee secondo un cronoprogramma scandito in cinque tempi:

1) Gennaio-marzo: gli organi dell’Unione europea analizzano la situazione di ciascun paese della zona euro e formulano indicazioni di programma per ciascuno di essi.

2) Aprile-luglio: sulla base delle indicazione ricevute da Bruxelles, ogni governo elabora un programma finanziario di medio periodo, corrispondente almeno a un triennio. In Italia il documento, denominato «Documento di economia e finanza» (Def), deve essere approvato dal Parlamento entro il 10 aprile e subito inviato a Bruxelles per un giudizio di merito. L’Unione europea si prende tre mesi di tempo per esaminarlo e formulare le proprie raccomandazioni.

3) Settembre: tramite un apposito documento denominato «Nota di aggiornamento al Def», il governo italiano recepisce le raccomandazioni dell’Unione europea e le sottopone all’approvazione del parlamento.

4) Ottobre: il governo elabora due documenti distinti: il primo, denominato «Documento programmatico di bilancio», descrive le spese previste per l’anno a venire e come saranno coperte; il secondo, denominato «Legge di bilancio», definisce nel dettaglio tutte le misure da assumere per raggiungere gli obiettivi previsti. Il primo documento è mandato a Bruxelles per un parere rapido. 5) Novembre-dicembre: il parlamento discute e approva il «Documento programmatico di bilancio» e la «Legge di bilancio».

Al servizio di pochi

Visto il potere delegato agli organi di controllo europeo, rimane difficile definire i nostri parlamenti strutture sovrane. Ma lo scandalo non è la perdita di sovranità a favore di una struttura sovrannazionale. Lo scandalo è che la struttura sovrannazionale non ha come fine la costruzione di un’Europa più equa, più solidale, più sostenibile al servizio dei diritti di tutti, ma un’Europa al servizio dei mercati affinché i padroni della finanza possano arricchirsi sempre di più alle spalle di tutti.

Francesco Gesualdi