Sulle vie d’Etiopia con le scarpe da corsa
Testo di Luca Lorusso, foto di Domenico Brusa (AfMC)
Trentanove anni di missione tra Kenya ed Etiopia, raccontati con semplicità e gratitudine. Tante persone incontrate e amate tra le loro povere abitazioni. Tanti ragazzi istruiti nelle scuole della Consolata. Tanti amici musulmani, ortodossi e protestanti. Tanti chilometri fatti di corsa per tenersi in forma e contemplare le meraviglie del creato.
«Ad Addis Abeba, in Etiopia, sono stato 13 anni, dal 1997 al 2010. Mi è piaciuto quel periodo perché vicino a noi c’erano i rifugiati dall’Eritrea. Inizialmente vivevano sotto le tende dell’Unhcr. Dato che sono dovuti rimanere lì diversi anni, alla fine si sono fatti la capanna.
Ho conosciuto diversi bambini di quel campo perché la nostra casa era proprio lì attaccata. Parlavano tigrino. Alcuni bimbi venivano nel nostro campo sportivo a giocare. Qualcuno era cattolico e frequentava la chiesa. La maggioranza era ortodossa. C’era qualche musulmano. Alla fine entravo nel campo senza problemi.
Gli ultimi anni, con alcuni ragazzini di 12-13 anni abbiamo fatto un gruppo per la corsa: venivano a chiamarmi e andavamo a correre. Facevamo tre o quattro chilometri. Era interessante, perché c’era la gente che batteva le mani, ci dava i nomi dei campioni etiopici».
Nato nel 1940 in Valle d’Aosta, fratel Vincenzo Clerici si è laureato in Fisica a Torino e ha insegnato all’Istituto tecnico commerciale di Chieri fino al 1970. Poi la missione l’ha chiamato, e lui ha risposto.
Fratel Vincenzo, come sei arrivato in missione?
«Quando ero giovane, negli anni ‘60, Giovanni XXIII e Paolo VI parlavano dei giovani che lasciavano la loro patria con spirito missionario. Io mi sentivo uno di loro. Desideravo fare il missionario anche se non come religioso. Quando mi è venuta l’idea delle missioni sono andato all’ufficio della diocesi, e lì mi hanno detto: “Chiedi ai missionari della Consolata”. Così nel 1970 sono andato in Kenya grazie a padre Giovanni De Marchi. Dice: “Tu sei insegnante e in Kenya c’è il boom delle scuole. Puoi lavorare come insegnante e vivere in missione”. Così sono andato a Mugoiri, vicino a Marang’a, dove c’erano alcuni padri anziani che anni prima erano stati internati nei campi di concentramento in Sudafrica.
Ho fatto le cosiddette scuole Harambee (termine che in Kenya significa “insieme”; si usa quando è necessario uno sforzo comune per realizzare un obiettivo, ndr). Ho fatto prima un contratto di due anni e poi un altro di tre anni».
Come hai maturato la decisione di diventare fratello?
«Finiti quei cinque anni, ho fatto l’aggregazione all’istituto: ero laico, ma membro dei missionari della Consolata. A quel punto sono andato a insegnare matematica e fisica a Sagana dove c’era una scuola tecnica molto ben attrezzata. Lì ho incontrato i fratelli della Consolata. Erano cinque. Mi sono trovato bene con loro, ed è stato lì che mi è venuta la vocazione. “Perché non essere anche io fratello? Facciamo lo stesso lavoro, stessa vita, stesso orario”.
Il postulato l’ho fatto a Sagana mentre insegnavo. Per il noviziato sono tornato in Italia, un anno alla Certosa di Pesio con padre Peyron alla fine degli anni ‘70, e poi un anno a Bedizzole. Dopo questi due anni sono tornato a Sagana per un altro anno».
Nel 1981, hai ricevuto la nuova destinazione in Etiopia.
«L’Etiopia è un paese molto diverso dal Kenya, la vita è più semplice. Anche lì insegnavo in una scuola tecnica a Meki, e poi provvedevo i materiali per la falegnameria. Caricavo fino a 7 quintali di legna sul camioncino. Facevo 100 km con le ruote davanti che rimanevano quasi sollevate».
Poi sei tornato in Kenya per un altro breve periodo.
«Quando abbiamo ceduto Meki alla diocesi, alla fine del 1988 sono tornato in Kenya per tre anni. C’erano alcuni fratelli kenioti a Langata che si specializzavano in qualche mestiere».
E quando sei tornato in Etiopia, dove sei stato?
«Nel 1992 sono stato ad Addis Abeba e poi ad Asella, nella casa “etsanat masaderia”, la casa dei bambini: c’erano orfani e alcuni handicappati. Era un bel gruppo.
Dopo Asella sono stato a Gambo per tre anni, fino al 1997. Anche lì facevo commissioni varie e mi interessavo un po’ della scuola, anche se non insegnavo più.
Gambo è vicino alla foresta, è un posto isolato. Per cercare libri per la scuola facevo quasi 40 km. Dopo Gambo, sono stato ad Addis Abeba per 13 anni, al nostro seminario di filosofia e nella procura della casa regionale».
È il periodo in cui correvi con i ragazzi del campo dei rifugiati?
«Sì, mi è piaciuto quel periodo».
E dopo Addis Abeba, sei arrivato a Modjo.
«Sì, nel 2010. Modjo è una cittadina di 50mila abitanti dove si respira aria di campagna. Nella strada davanti alla missione vediamo passare quasi solo calessi tirati da cavalli. Sono un po’ sgangherati, ma quelli sono i taxi.
Le case sono ancora tradizionali: casette a un solo piano con un pezzetto di terreno davanti.
Vicino a Modjo c’è la “città dei container” che arrivano da Gibuti. C’è la dogana, quindi ci sono centinaia di container fermi. Di lì passa l’autostrada che va da Addis a Nazareth (Adama in Oromo). Una grossa città a 20 km da noi».
Com’è la comunità di Modjo?
«I cattolici sono pochi: alcune famiglie. Poi ci sono ragazzini adolescenti ortodossi che ci frequentano. La chiesa è una bella struttura costruita da padre Zordan. Il cardinale ha voluto che diventasse anche un santuario dedicato alla Consolata.
Quando sono arrivato a Modjo c’era ancora il seminario minore. L’ultimo anno di secondaria. Lì facevo un po’ di ripetizioni la sera. Adesso il seminario è stato riaperto dopo un periodo di chiusura. Io faccio l’economo della missione. Dopo una vita, non lavoro più con le scuole».
Com’è l’economia della città?
«Fuori dalla città ci sono cinque fabbriche di pellami, di solito gestite da indiani o pachistani. Ci lavorano molti giovani. Altra attività molto diffusa è il commercio: il mercato, i negozietti. Altro impiego è quello della dogana. Poi a Modjo ci sono almeno cinque banche e molti distributori di diesel e benzina perché la città è un luogo di passaggio, sia da Gibuti che dal Sud le strade s’incrociano a Modjo per arrivare ad Addis Abeba.
Fuori dalla città ci sono villaggi tipici tradizionali nei quali le persone lavorano la terra. Diversi giovani di Modjo lavorano ad Addis Abeba o a Nazareth e tornano nei week end».
Come si presenta il territorio?
«Modjo è in una zona semiarida. La città è piatta, si trova nella Rift Valley. Attorno ci sono colline sulle quali viene coltivato grano e teff, un cereale locale.
Noi lavoriamo con la gente della città. Ma abbiamo tre cappelle fuori. Una a 4 km in zona rurale, una in una piccola cittadina a 15 km e la terza è a 11 km sulle colline. In quest’ultima operano tre famiglie. In due di queste cappelle c’erano due asili informali. Uno gestito da una suora, l’altro da una maestra. Ma il governo centrale ha chiesto di renderli degli asili formali, di tre anni, con il personale. Quindi l’attività è stata ridotta a semplice accoglienza il sabato e la domenica».
In Etiopia, su 108 milioni di abitanti, i cattolici sono pochi: intorno agli 800mila. Quasi tutti gli altri sono musulmani (37 milioni), ortodossi (47 milioni) o protestanti (20 milioni).
«Penso che nella nostra parrocchia siano elencate un centinaio di persone sul registro dei battesimi. Ci sono una ventina di adolescenti. Poi qualche famiglia con i bambini piccoli. La domenica ci sono una cinquantina di persone a messa. Le celebrazioni qui sono fatte con il rito orientale, perché Modjo è sotto la diocesi di Addis Abeba, mentre pochi chilometri più in là, a Meki, c’è il rito latino».
Come sono le relazioni con i musulmani?
«Le persone non hanno nessun problema. La convivenza è buona. I musulmani sono gentili: c’è un negoziante in città che mi fa sempre lo sconto. Vicino alla missione vive una famiglia della quale sono molto amico. La mamma è originaria di Gambo, ha tre bambini ed è moglie di un musulmano. Qualcuno della sua famiglia è cristiano. Qualche volta vado a prendere il caffè da loro. Quello tradizionale ci vuole un’ora per prepararlo: prendono i grani, li lavano, li abbrustoliscono, poi li pestano nel mortaio e intanto fanno bollire l’acqua. Due o tre amiche della signora, che incontro quando vado da lei, hanno tutte la croce appesa al collo. Sono ortodosse e non hanno problemi a indossarla. Stanno assieme, chiacchierano, si aiutano».
Che lingua si parla a Modjo?
«In Etiopia si parlano ottanta lingue. In città da noi sanno tutti l’amarico, però molti sono Oromo. In campagna la maggioranza sono Oromo. Gli Amara sono ortodossi. Gli Oromo dell’Ovest, invece, sono per lo più protestanti. Mentre gli Oromo dell’Est sono per la gran parte musulmani.
C’è un problema politico che riguarda gli Oromo, ci sono quelli che vogliono l’indipendenza da Addis Abeba, quelli che vedono male il programma di sviluppo del governo che fa molti contratti con la Cina».
Si sente il problema dell’emigrazione in Etiopia?
«In Etiopia i giovani hanno come obiettivo di andare all’estero, negli Usa specialmente, anche perché durante il marxismo gli Usa facilitavano gli esuli. Oggi molti hanno parenti negli Usa o in Canada.
Altri emigrano nella penisola arabica e in Libano. In particolare ragazze che vanno a fare le collaboratrici domestiche.
C’è un’organizzazione che procura l’alloggio e paga il viaggio. Le donne restituiscono l’anticipo ricevuto con i primi stipendi presi nel paese. Conosco una ragazza, mamma di due bambini, che è di Gambo e ora sta a Beirut. Lavora in una famiglia cristiana. I bambini e il marito sono a Gambo, e lei manda aiuti».
Qual è l’aspetto che ti piace di più del popolo Etiope?
«A Modjo ero andato a una festa patronale di una chiesa ortodossa in una zona di campagna. La chiesa è bella, su una collina. Cento metri più in basso ci sono grotte scavate nel tufo dove vivono dei monaci. A quella festa vanno migliaia di persone.
Quando sono arrivato a sei chilometri di distanza, ho iniziato a vedere la strada piena di auto parcheggiate. Allora ho lasciato lì l’auto e ho fatto un’ora e mezza di strada a piedi. C’era con me un ragazzino, sua cugina di nome Marta e un’altra ragazzina, Ghennet. Avevano 12 anni. Quando siamo arrivati alle grotte dei monaci, lì c’erano dei ragazzi che raccoglievano la sabbia perché consideravano quella come terra benedetta.
Al ritorno, i ragazzi erano stanchi e io non ricordavo neppure bene dove fosse l’auto. A un certo punto il ragazzo è andato avanti a cercare acqua perché sentiva sete. Dopo un altro po’, a causa della folla, ho perso di vista Marta. Siamo rimasti solo io e Ghennet. Quando siamo arrivati alla macchina, Marta non c’era. Ero in ansia per lei. Dopo un po’, una coppia si è avvicinata e mi ha detto: “La ragazzina sta arrivando”. Io non li conoscevo. Non erano neppure di Modjo. Però mi hanno visto lì ad aspettare e hanno capito.
Ecco. Gli etiopici sono così, sono gentili. È gente aperta».
C’è un brano biblico che ti accompagna in modo particolare nella tua missione?
«Mi piacciono i Salmi. In particolare il 63:
“O Dio, tu sei il mio Dio, / all’aurora ti cerco, / di te ha sete l’anima mia, / a te anela la mia carne, / come terra deserta, / arida, senz’acqua.
Così nel santuario ti ho cercato, / per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
Poiché la tua grazia vale più della vita, / le mie labbra diranno la tua lode.
Così ti benedirò finché io viva, / nel tuo nome alzerò le mie mani”».
Luca Lorusso
Una visita ai monaci ortodossi
«Le chiese ortodosse si trovano spesso su cocuzzoli di montagna, con piccoli villaggi nelle vicinanze. La chiesa di Tekle Haymanot, 60 km a Nord Est della capitale, si trova su un piccolo ripiano a metà di una valle molto scoscesa, nel distretto di Bereh. Il posto è legato alla storia della Chiesa etiopica perché il santo Tekle Haymanot (nome che significa Pianta della fede) è stato riformatore del monachesimo nel XIII secolo e fondatore del monastero Debre Libanos.
Attorno alla chiesa si estendono campi sassosi dove si coltiva il grano. Ci sono un piccolo villaggio, una sorgente di acqua cui si attribuiscono proprietà curative, e un gruppo di capanne abitate dagli studenti della chiesa (quelli che noi chiameremmo “seminaristi”), qui soprannominati kollò tamari, da tamari, studente, e kollò, grano abbrustolito, perché hanno la tradizione di elemosinare nelle case il cereale.
A pochi minuti dal villaggio sulla ripida costa della montagna, vivono, in alcune grotte, dei monaci eremiti. C’è anche una piccola chiesa rupestre, scavata a mano nel tufo della montagna e dedicata a San Michele.
Facemmo una visita a quella chiesa il giorno della festa di Tekle Haymanot. Vedemmo un giovane monaco di pochissime parole. Non rispose subito alla nostra richiesta di visitare le grotte, ma fece capire che era possibile. Prima di tutto bisognava togliersi le scarpe, come usano i fedeli nei luoghi sacri. Poi, con mia sorpresa, il monaco ci condusse ai piedi della ripida scarpata che avevamo appena salito, e ci portò all’imbocco di una grotta scavata a mano. Feci presente che non avevamo niente per illuminare il tunnel, ma rispose che non era necessario. Ci fece prendere per mano come a formare una catena e iniziò a salire nel buio più completo.
Il cunicolo aveva a tratti delle impennate brusche, dove avevi l’impressione di cadere nel vuoto. Dopo un tempo che parve molto più lungo del reale arrivammo ad alcuni scalini scavati nella roccia. Qui il monaco ci fece fermare e andò ad aprire una porta. Finalmente vedemmo di nuovo la luce del giorno e ci accorgemmo di essere arrivati a pochi metri dalla chiesa di San Michele.
In seguito un altro monaco mi spiegò che il cunicolo rappresenta l’inferno (Sheol). Quando esci e ti trovi nella luce, sei come alla porta del Paradiso».