Se la pace è solo uno slogan

testo di Piergiorgio Pescali |


Il quarto conflitto tra Israele e Hamas si inserisce in una problematica complessa e mai risolta: la questione palestinese. Conversazione con monsignor Pierbattista Pizzaballa, già custode di Terrasanta, oggi patriarca di Gerusalemme.

il francescano Pierbattista Pizzaballa, massima autorità cattolica in Terrasanta. Foto Piergiorgio Pescali.

Il francescano padre Pierbattista Pizzaballa non è solo l’autorità ecclesiastica cattolica più elevata in Terrasanta, è anche una delle figure più esperte e soprattutto rispettate nella difficile situazione politica, culturale e religiosa che caratterizza la tormentata regione mediorientale. Arrivato in Terrasanta nel 1990, è stato «custode di Terrasanta» tra il 2004 e il 2016 (poi sostituito dal trentino Francesco Patton). Successivamente, ha ricoperto il ruolo di amministratore apostolico di Gerusalemme dei Latini per divenire poi patriarca della città il 24 ottobre 2020.

Lo abbiamo intervistato per chiedergli una sua opinione sull’ultimo conflitto israelo-palestinese e su quali potrebbero essere nuove vie in grado di aprire spiragli di dialogo che, ad oggi, sembrano essere preclusi.

La questione Gerusalemme

Lo scorso 21 maggio il quarto conflitto tra Hamas e Israele ha raggiunto una tregua. Da dove ricominciare per evitare che questo sia solo il preludio per un’altra serie di scontri?

«Credo si dovrebbe usare il condizionale: da dove si dovrebbe cominciare. Perché i motivi del conflitto sono sempre gli stessi, non sono cambiati, anche se ogni volta ci sono delle novità, una sorta di corsi e ricorsi alla Giambattista Vico. Ma, fino a quando non si risolverà la questione palestinese, noi saremo costretti a rivedere questi episodi. Quello che in questo momento ha scatenato la violenza è stata Gerusalemme, che rimane il cuore del problema. La questione di Sheikh Jarrah (il piccolo quartiere a Gerusalemme Est dove ebrei e palestinesi si contendono terreni e case, ndr) è stata presentata come una questione legale, quale in effetti è, ma è, prima di tutto, una questione politica.

Mi pare di capire che la nuova generazione, quella dopo la seconda intifada, sia ben connessa con la comunità internazionale, preparata anche culturalmente, determinata e disposta a tutto. Gerusalemme è diventata un punto sul quale non si può scendere ad alcun compromesso. Non più, proprio non più.

Quindi, queste sono le due cose da risolvere perché si possa evitare un nuovo conflitto: primo, la questione palestinese; secondo, riconoscere l’universalità di Gerusalemme, su cui tutti hanno eguali diritti».

Sull’universalità della città santa, l’Onu si è già espressa più volte e, sin dal 1948, ha riconosciuto a Gerusalemme e Betlemme uno status internazionale che nessuno dei due contendenti vuole riconoscere. Sia Israele che Palestina considerano Gerusalemme loro capitale. E qui possiamo passare a una delle cause principali del perdurare del conflitto tra Israele e Palestina: la mancanza assoluta di una volontà di dialogare. Da quando esiste il problema israelo-arabo-palestinese tutti parlano di necessità del dialogo in Terrasanta, ma alla luce dei comportamenti e delle prese di posizione da tifosi da stadio (non solo da parte dei principali attori, ma anche di chi osserva il conflitto dall’esterno), oramai questa dichiarazione d’intenti ha perso credibilità. A me sembra che nessuno abbia intenzione di trovare una via al dialogo.

«Parlare di dialogo, adesso e qui, è soltanto uno slogan. Perché ci sia dialogo debbono, in primo luogo, sussistere delle condizioni su cui fondarlo. Il dialogo, innanzitutto, presuppone che ci sia un desiderio di incontro e scambio che significa volontà di riconoscere l’altro o, per lo meno, di ascoltare le sue ragioni».

E evidentemente non c’è né l’uno né l’altro.

«No, non c’è. Si sta andando verso la colonizzazione politica e – ahimè – anche religiosa, perché le due cose si mischiano. I palestinesi in questo conflitto non gridavano “Palestine”, ma “al-Aqsa” (nome della moschea della vecchia Gerusalemme, ndr). È vero che al-Aqsa è anche il simbolo della Palestina libera, ma il cambio di slogan è simbolico di come stia cambiando il clima.

E questo, come dicevi tu, è il clima generale del Medio Oriente. Non si va verso una cittadinanza che precede le appartenenze settarie e identitarie, ma sono le appartenenze settarie e identitarie che divengono i canali attraverso i quali passa il concetto di cittadinanza. Purtroppo, questo non è un buon segnale per il futuro».

Arabi ed ebrei

Cittadinanza che, all’interno dello stesso stato di Israele, viene messa in discussione per gli israeliani di etnia araba e questo è forse uno degli elementi nuovi che sembra aver elevato la tensione tra Israele e il mondo arabo: l’attrito interno tra arabi israeliani ed ebrei israeliani. Su questo punto in particolare, quanto reale è il rischio di una guerra civile, specialmente dopo che, il 19 luglio 2018, il parlamento israeliano ha adottato una legge che definisce Israele «stato-nazione del popolo ebraico»?

«Se è fuori discussione che gli arabo-israeliani vivono in condizioni decisamente migliori rispetto a qualsiasi altra entità sia in Palestina, che negli altri paesi mediorientali, è anche vero che queste comunità hanno un grosso problema di identità. Un problema che si trascina da molto tempo e che è diventato evidente innanzitutto con la legge basica di tre anni fa, la quale definisce lo stato ebraico senza alcuna menzione della minoranza non ebraica. Va poi detto che, in questi ultimi anni, abbiamo assistito a una maggiore polarizzazione della politica israeliana spostata sempre più a destra e sempre più antagonista verso il mondo arabo. Un antagonismo che si esplica anche con un linguaggio spesso violento e sprezzante che ha approfondito il solco tra le due parti. C’è da dire che forse non ci eravamo resi conto di quanto fosse profondo».

Netanyahu e la destra

Benjamin Netanyahu, storico leader della destra israeliana.

In questo spostamento della politica israeliana verso destra e nello scavare in profondità questo solco tra arabi e israeliani, Netanyahu ha giocato un ruolo preponderante. È il vero responsabile dell’attuale situazione e tre delle quattro guerre con Hamas sono scoppiate durante i suoi mandati. È anche vero che gli israeliani negli ultimi undici anni sono andati sette volte alle urne e ogni volta hanno scelto Netanyahu.

«Netanyahu si sposta sempre più a destra e questo è evidente. Pare che Israele non riesca a trovare un’alternativa a Netanyahu. Prima di questo conflitto abbiamo visto che c’era la possibilità di sostituirlo. La nuova guerra tra Hamas e Israele ha rimescolato le carte riportandolo al centro della politica nazionale. Non bisogna farsi illusioni: Israele ideologicamente naviga decisamente a destra. Qualunque sia il primo ministro, sarà molto difficile che la questione palestinese venga affrontata in maniera sistematica come invece sarebbe stato possibile un paio di generazioni fa».

(A inizio giugno, è stato formato un nuovo governo che esclude Netanyahu e il suo Likud. Primo ministro è diventato – per il momento – Naftali Bennet, ndr).

Iran, Turchia e Stati Uniti

Hamas e il Palestine islamic jihad godono di appoggi iraniani e turchi. Al netto delle incomprensioni storiche tra palestinesi ed ebrei, è possibile vedere l’attuale conflitto come una ritorsione della Turchia e dell’Iran contro gli «Accordi di Abramo» (tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti, ndr)? Se così fosse, come mai Teheran ha aspettato l’arrivo di Biden alla Casa Bianca e non ha invece iniziato la sua offensiva tramite terzi quando c’era Trump, il vero scardinatore dei delicati equilibri regionali?

«Non credo che queste situazioni siano state scatenate dall’esterno. L’Iran e la Turchia hanno “preso l’autostop”, come si dice qui. Sono salite sul carro e hanno approfittato della situazione per fare quello che desideravano fare. Credo però che si debba prendere atto che le situazioni sono state scatenate qui e si risolvono qui. La comunità internazionale, che sia Biden o che sia Erdogan o Khamenei, possono contribuire in un senso o nell’altro, ma non possono sostituirsi ai due attori principali che sono Israele e la Palestina».

 

Gli incontri interreligiosi

Incontri interreligiosi tra musulmani, cristiani e, in misura minore, con gli ebrei ce ne sono stati, ma non hanno mai portato a sviluppi concreti nel processo di pace. Si era parlato anche di «educare alla pace» le nuove generazioni, fondando scuole, villaggi interreligiosi, anche scuole musicali. Tutto questo cosa serve se poi, una volta nei loro quartieri, tra i loro amici e magari anche in famiglia, ognuno torna ad essere antiqualcosa?

«Bisogna distinguere: ci sono dialoghi interreligiosi visti come grandi eventi, che lasciano senz’altro il tempo che trovano. Credo che si debba continuare a farli perché, nell’era delle immagini, esse contano e sono importanti. Il problema di questi incontri religiosi ad alto livello è che non arrivano al territorio e i leader che li guidano o che partecipano, molto spesso non hanno un concreto legame con il territorio. In secondo luogo, bisogna dire che, soprattutto nel caso di ebraismo e islam, non esiste un’autorità comune a tutti. Quindi, tu puoi trovare l’ebreo che partecipa, ma ce ne sarà un altro che la pensa esattamente al contrario; non c’è un’autorità che unifica e che accompagna tutti. Questo rende tutto oggettivamente molto più complesso. A livello di territorio ci sono, è vero, tantissime iniziative, a partire dalle scuole. A cosa servono? Servono innanzitutto a noi perché ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di incontrare e trovare gente che ci crede e che ti dà un respiro, che credono nell’azione. È vero, molti di questi torneranno a essere sostenitori di Hamas o di Bennet, forse della destra estrema di qui o di là, ma non tutti. Credo, quindi, che sia importante avere queste piccole oasi di antivirus che non riusciranno certo a fermare la malattia, però qualche anticorpo resterà in circolo. Non guardiamo all’esito perché, se guardassimo solo a esso, non faremmo nulla. Bisogna agire innanzitutto perché ci crediamo».

Mahmoud Abbas , leader di al-Fatah e presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).

Hamas, tra ideologia e pragmatismo

Nel 2017, Hamas ha emesso un documento in cui accetterebbe i confini dello stato palestinese del 1967, senza però riconoscere Israele. È una contraddizione o un primo passo verso il riconoscimento o, almeno, verso la coesistenza di «due popoli e due nazioni»?

«Hamas è una galassia, non è un partito solo. In lei convivono l’ala militare, l’ala pragmatica, l’ala ideologica; c’è quindi un po’ di tutto. Credo che anche loro siano molto pragmatici e sanno molto bene che Israele non sparirà. D’altro lato, penso che sia molto difficile anche per loro rinnegare quello che è il loro mainstream, quella che è stata la loro ideologia di un rifiuto dello stato di Israele per tutti questi anni. C’è, quindi, da un lato un senso di pragmatismo e dall’altro la difficoltà a cambiare quella che è la loro ideologia principale. Credo che il Medio Oriente non sia mai “aut-aut”, ma piuttosto è sempre “et-et”».

Ismail Haniyeh, leader di Hamas.

Meno di mille cristiani

I cristiani a Gaza sono una piccola minoranza, meno di mille persone su due milioni di abitanti. Che ruolo hanno nella vita sociale della Striscia?

«I numeri parlano da soli: 800 persone su due milioni sono ben poca cosa. Però, nel loro piccolo, le attività sono tante, forse in proporzione anche maggiori rispetto al loro numero reale. Ci sono scuole, una casa per disabili, cliniche mobili della Caritas al servizio della popolazione, soprattutto là dove non ci sono ospedali. Quella cristiana, seppur piccola, è quindi una realtà molto attiva e aperta ai bisogni generali della popolazione».

Gli aiuti e la corruzione

Cosa può fare la comunità europea – e intendo la società e le organizzazioni civili, non i governi o la politica – per favorire la crescita del dialogo?

«Favorire innanzitutto lo sviluppo di questi territori. La gente vive ancora in condizioni miserrime dal punto di vista sociale. Non ha senso parlare di dialogo e di pace quando si vive in condizioni disumane. Paolo VI diceva che sinonimo di pace è sviluppo. Bisogna fare attenzione anche ai bisogni fondamentali di queste popolazioni e poi favorire tutte le occasioni di incontro e dialogo, di attenzione e vicinanza. Insomma, far sentire che c’è qualcuno che li ascolta».

Non c’è il rischio che la politica palestinese, corrotta e inefficiente, dilapidi gli aiuti economici?

«Occorre trovare altre forme per far arrivare questi aiuti, che già ci sono. Bisogna individuare forme di sostegno che non passino dai governi palestinesi attraverso le comunità locali e le Ong che sono sparse sul territorio. Le soluzioni si trovano».

Piergiorgio Pescali
autore del libro
Il custode di Terrasanta. Un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa, Add Editore, Torino 2014

Ebrei ortodossi al «muro del pianto», a Gerusalemme. Foto Pixabay.




Palestina. Senza odio né violenza

testo e foto di Operazione Colomba |


Le famiglie palestinesi delle colline a Sud di Hebron sono ancora lì. Nonostante le violenze quotidiane, anche sui bambini, subite da decenni da parte di esercito e coloni israeliani. Resistono, a difesa delle proprie terre e identità. Condividono la loro lotta nonviolenta i volontari di Operazione Colomba.

È il 2004 quando un gruppo di militanti israeliani, i Ta’ayush1, propongono ai volontari di Operazione Colomba di visitare le colline a Sud di Hebron, in Cisgiordania.

Lì, un comitato popolare locale di palestinesi ha richiesto la presenza di attivisti internazionali per monitorare l’accompagnamento a scuola dei bambini. Lungo la strada per arrivare a lezione, infatti, gli studenti palestinesi sono oggetto di violenze da parte dei coloni israeliani insediati nella zona.

Il villaggio di At-Tuwani si trova nell’area conosciuta come Massafer Yattaad. È il più grande della zona, con circa 300 abitanti. Quando vi arrivano, i volontari del Corpo nonviolento di pace dell’associazione Papa Giovanni XXIII hanno già due anni di esperienza di Palestina. Sono stati in Cisgiordania (West Bank), vicino a Ramallah, a sostegno delle comunità palestinesi private delle proprie terre a causa della costruzione del muro di separazione tra Israele e i Territori occupati. Prima ancora sono stati nella Striscia di Gaza, durante la Seconda Intifada nel 2002.

L’unica via per la pace

Operazione Colomba è nata nel 1992, dal desiderio di alcuni volontari e obiettori di coscienza di vivere concretamente la nonviolenza in zone di guerra.

Inizialmente ha operato nell’ex Jugoslavia, e negli anni a seguire ha aperto presenze stabili in diversi scenari di conflitto, dai Balcani all’America Latina, dal Caucaso all’Africa, dal Medio all’estremo Oriente, coinvolgendo oltre 2mila volontari uniti dalla determinazione di sperimentare nella propria vita la nonviolenza, l’unica via per ottenere una pace vera, fondata sulla verità, la giustizia, il perdono e la riconciliazione.

Vivere in Area C

Il villaggio di At-Tuwani si trova in Area C, tra la città di Yatta e la Green line, quello che dovrebbe essere il confine tra Israele e i Territori palestinesi occupati.

Secondo gli accordi di Oslo, la Cisgiordania è divisa in tre Aree denominate A, B, e C. In particolare, l’Area C, che copre circa il 61% dell’intero territorio della Cisgiordania, è sotto il controllo civile e militare di Israele. Questo significa che i palestinesi non possono costruire nulla, se non con un permesso rilasciato dalle autorità israeliane, e che le loro terre possono essere confiscate.

È proprio in merito a questi poteri che nel 1999 la zona a Sud di Yatta è stata dichiarata area di addestramento militare (Firing zone 918) dall’amministrazione israeliana. Tale dichiarazione ha portato al trasferimento forzato di tutti gli abitanti palestinesi viventi nell’area, circa 700 persone di dodici villaggi, che sono stati caricati su camion militari e portati altrove mentre le ruspe distruggevano le tende e le grotte in cui avevano vissuto.

Dopo sei mesi, grazie a un procedimento portato avanti da avvocati israeliani, e in seguito a una decisione dell’alta corte di Giustizia israeliana, i palestinesi sono potuti tornare nei propri villaggi, senza però che vi fosse prima stato un formale smantellamento della zona di addestramento militare, che ancora oggi minaccia la vita degli abitanti.

Oltre all’occupazione militare, è andata crescendo negli anni anche quella civile, con le espansioni degli insediamenti israeliani e la nascita di nuovi avamposti, abitati da coloni nazional religiosi che, per mezzo di attacchi fisici anche molto violenti, impediscono ai palestinesi gli spostamenti e l’accesso alle proprie terre. Gli avamposti, come anche le colonie, sono peraltro considerati illegali, non solo dal diritto internazionale ma perfino dallo stesso ordinamento israeliano.

Resistenza nonviolenta

La scelta più semplice per i palestinesi delle colline a Sud di Hebron avrebbe potuto essere quella di lasciare le proprie terre per vivere una vita più sicura in città, oppure di abbandonarsi alla violenza – come talvolta capita quando non si ha più speranza nella vita -. Invece, questi semplici pastori e contadini, hanno deciso di restare e di lottare per difendere i propri diritti. Alcuni abitanti di At-Tuwani, allora, sotto la guida di uno di loro, Hafez Hureini, si sono uniti in un comitato popolare per trovare assieme il metodo più efficace per resistere alle ingiustizie.

È nata così la loro resistenza popolare nonviolenta.

Si tratta di una forma di lotta dal basso in cui le famiglie e i villaggi si uniscono per difendere una terra che è di tutti, senza ingerenze politiche, valorizzando il ruolo di ognuno, dalle donne, ai bambini, agli anziani.

Quando un terreno è minacciato, è terra di tutti; quando un giovane viene arrestato, è il figlio o il fratello di tutti.

La nonviolenza chiede ogni giorno di non guardare l’oppressore come un nemico, ma come un essere umano che sta sbagliando. Chiede di denunciare con forza l’ingiustizia, senza odiare chi la compie.

Lo scopo non è schiacciare l’altro, ma includerlo nella ricerca di una soluzione condivisa.

L’obiettivo della lotta popolare è il riconoscimento dei palestinesi come esseri umani portatori di diritti umani inalienabili.

Nella pratica, il comitato popolare delle colline a Sud di Hebron, organizza manifestazioni e azioni nonviolente, supporta i contadini e i pastori nell’accesso quotidiano alle loro terre, e promuove numerose iniziative per garantire servizi essenziali come l’acqua potabile, la corrente elettrica, la costruzione di scuole e di cliniche mediche.

Negli anni la resistenza nonviolenta ha raggiunto risultati incredibili: dallo smantellamento del muro nel 2006 che avrebbe distrutto la vita delle comunità, all’approvazione di un piano regolatore che riconosce l’esistenza del villaggio principale dell’area, At-Tuwani. Vittorie importanti, che però non sono sufficienti in una quotidianità di oppressione come quella dell’occupazione militare.

Accompagnare i bambini

In questa realtà, Operazione Colomba si è stabilita ad At-Tuwani, inizialmente con il compito di accompagnare i bambini all’unica scuola presente nell’area. Per raggiungerla, i bambini dei due villaggi di Tuba e Maghayir Al Abeed, ancora oggi, devono percorrere una strada che passa tra la colonia israeliana di Ma’on e l’avamposto di Havat Ma’on.

Dati i frequenti attacchi da parte dei coloni su quella strada, i bambini avevano iniziato a fare un percorso alternativo che li costringeva però a camminare ogni giorno circa 2 ore e mezza, rischiando comunque la violenza degli israeliani.

Nel 2004, durante un accompagnamento di bambini sulla strada più breve, quattro attivisti internazionali sono stati brutalmente attaccati e feriti dai coloni. L’episodio ha ottenuto un’attenzione mediatica così ampia che la commissione per i Diritti dell’infanzia della Knesset (il parlamento israeliano) ha deciso di riconoscere una scorta militare ai bambini che ogni giorno li accompagnasse nel tragitto da casa a scuola.

Dal 2004, Operazione Colomba monitora questo servizio per denunciarne le mancanze e i continui ritardi. Infatti, spesso la scorta militare non si presenta, lasciando i bambini ad aspettare, a volte per ore, in una zona estremamente pericolosa, esponendoli al rischio di essere attaccati. Inoltre questi ritardi portano anche a perdere ore scolastiche, che non vengono recuperate, ledendo ulteriormente il diritto all’istruzione degli alunni.

Qualora la scorta non si presenti, sono gli stessi volontari a ricoprire la sua funzione, accompagnando i bambini e condividendo con loro il rischio degli attacchi da parte dei coloni, che spesso approfittano dell’assenza dell’esercito.

 

Documentare le violenze

Come stile di vita, i volontari di Operazione Colomba hanno scelto la piena condivisione della quotidianità del villaggio, vivendo al suo interno, nello stesso modo in cui vivono i palestinesi.

Tra le attività di cui si occupano, l’accompagnamento dei pastori e delle famiglie sulle loro terre è la più importante. Poiché le terre spesso si trovano vicino a colonie e avamposti israeliani, i volontari documentano con foto e video le loro violazioni e, quando se ne presenta la necessità, s’interpongono tra i palestinesi e i coloni armati.

A questa attività, che occupa la maggior parte della giornata di un volontario, si aggiungono tutte le situazioni classificabili come emergenze. Tra esse, ad esempio, il monitoraggio dei checkpoint mobili, improvvisati lungo la strada dai militari israeliani, troppo spesso luoghi di violenze e umiliazioni nei confronti dei palestinesi; il monitoraggio delle demolizioni di abitazioni o di strutture per animali, strade e tubature per acqua potabile.

I volontari osservano e documentano arresti e violenze perpetrate dalle forze armate israeliane o dai coloni: la documentazione tramite video e fotocamere (spesso condivisa sulla pagina Facebook di Operazione Colomba) è fondamentale per poter denunciare e mettere l’opinione pubblica a conoscenza delle violazioni dei diritti umani che avvengono.

Attivisti israeliani per i palestinesi

Fortunatamente, a supportare la resistenza nonviolenta delle colline a Sud di Hebron, non ci sono solo i volontari internazionali: fin dal 1999 è stata costante la presenza di attivisti israeliani.

La loro azione è basilare sia negli accompagnamenti dei contadini sui loro campi che nelle azioni legali che vengono promosse da avvocati israeliani.

Opporsi alle ingiustizie perpetrate dal proprio paese, dal proprio esercito, non è affatto facile, e ha un costo molto alto: spesso gli attivisti vengono identificati come traditori della patria, sono emarginati e perseguitati. La loro scelta implica molta solitudine e talvolta il carcere, come succede per i giovanissimi che rifiutano il servizio militare per obiezione di coscienza.

 

Nonviolenza ereditaria

Nel corso degli anni, i volontari di Operazione Colomba ad At-Tuwani hanno visto crescere una nuova generazione di giovani che s’impegna e che diviene progressivamente consapevole del valore della resistenza popolare nonviolenta. I frutti di questa trasmissione intergenerazionale si riconoscono nella nascita del presidio di Sarura, e di Youth of Sumud2, un gruppo di azione nonviolenta.

Era il maggio 2017 quando alcuni attivisti israeliani, insieme ai giovani palestinesi delle colline a Sud di Hebron – figli di coloro che quasi vent’anni prima avevano iniziato la resistenza nonviolenta -, si sono stabiliti a Sarura, un villaggio abbandonato negli anni ’90 a causa della violenza dei coloni. La loro intenzione era di ristrutturare le grotte dell’ex villaggio e di riportarvi le famiglie a viverci.

Telecamera alla mano, hanno iniziato anche ad affiancare i volontari di Operazione Colomba nelle loro attività giornaliere: accompagnamenti dei bambini e dei pastori, e documentazione di checkpoint e di demolizioni.

Non è stato facile mantenere una presenza stabile a Sarura: le vessazioni da parte dei coloni e dell’esercito sono state continue, ma i giovani di Youth of Sumud hanno continuato la resistenza nonviolenta restaurando una prima grotta, dove ora è tornata a vivere la famiglia proprietaria.

In una Palestina in cui i villaggi vengono evacuati e distrutti, nelle colline a Sud di Hebron, un villaggio abbandonato è rinato ed è tornato in vita, grazie all’impegno di questi ragazzi.

Essere la loro voce

Negli ultimi anni, i volontari di Operazione Colomba hanno iniziato a visitare altre aree oltre al villaggio di At-Tuwani, accompagnando e supportando le comunità palestinesi in lotta anche altrove nella Cisgiordania occupata, ovunque ce ne sia bisogno.

Una realtà che ricorda molto le colline a Sud di Hebron di quindici anni fa, è quella delle comunità di pastori che vivono nella valle del Giordano. Circa l’86% del suo territorio è, infatti, area C, e la presenza di colonie e avamposti israeliani è massiccia, così come la presenza di aree dichiarate zone militari e di riserve naturali, sotto la piena giurisdizione israeliana.

Tutto ciò porta al trasferimento forzato di intere comunità palestinesi, costrette ad andarsene dalle proprie case.

Nel 2019, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato l’intenzione di annettere parte della valle del Giordano entro il 2020, operazione per ora sospesa.

Grazie all’aiuto di attivisti israeliani, i volontari di Operazione Colomba hanno iniziato a visitare le comunità della zona, mettendo a disposizione la propria esperienza. In particolare, nell’ultimo anno hanno iniziato a dormire in un villaggio e ad accompagnare i pastori della zona, ripercorrendo le fasi di conoscenza reciproca e di creazione di un rapporto di fiducia simili a quelle degli inizi della presenza ad At-Tuwani.

Spesso le storie di resistenza e nonviolenza rimangono nascoste e silenziose. I palestinesi di At-Tuwani sono persone normali, che fanno vite semplici, ma che si sono trovate loro malgrado vittime di un’oppressione, e hanno deciso di lottare per i propri diritti e la giustizia.

Kifah Adara, una donna del villaggio, ogni volta che qualcuno dei volontari parte per ritornare in Italia, chiede di raccontare quello che ha visto in Palestina, di essere la loro voce amplificata. Ed è questo il nostro augurio: che possiamo sempre essere megafono dei popoli che chiedono giustizia.

Volontari di Operazione Colomba

Note:

1- Organizzazione di israeliani e palestinesi che lottano insieme, attraverso un’azione diretta nonviolenta quotidiana, per porre fine all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e per raggiungere la piena uguaglianza civile. www.taayush.org

2- www.facebook.com/youthofsumud

Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII

L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII è un’associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio. Fondata nel 1968 da don Oreste Benzi, è impegnata da allora, concretamente e con continuità, nel contrasto all’emarginazione e alla povertà. La Comunità lega la propria vita a quella dei poveri e degli oppressi e vive sempre con loro, ogni giorno.

Attraverso lo strumento della condivisione diretta con gli emarginati, i membri di Comunità non possono chiudere gli occhi davanti alle ingiustizie e anzi lavorano incessantemente per la loro denuncia e rimozione.

Oggi la Comunità siede a tavola, ogni giorno, con oltre 41mila persone nel mondo, grazie a più di 500 realtà di condivisione tra case famiglia, mense per i poveri, centri di accoglienza, comunità terapeutiche, Capanne di Betlemme per i senzatetto, famiglie aperte e case di preghiera. La Comunità opera anche attraverso progetti di emergenza umanitaria e di cooperazione allo sviluppo in molti paesi del mondo.

Infine, è presente nelle zone di conflitto con il proprio Corpo nonviolento di pace Operazione Colomba.

Complessivamente è presente in una quarantina di paesi nei cinque continenti.

Dal 2006 la Comunità Papa Giovanni XXIII è anche presente all’Onu con un ruolo consultivo speciale presso l’Ecosoc (consiglio Economico e Sociale dell’Onu), rendendosi portavoce degli ultimi del mondo, nel foro in cui i leader internazionali prendono le decisioni sulle sorti dell’umanità.

Grazie alla forza dei suoi membri, dei volontari e dei suoi sostenitori, la Comunità Papa Giovanni XXIII porta avanti il grande progetto di solidarietà del suo fondatore: essere famiglia per chi non ce l’ha.

www.apg23.orgwww.operazionecolomba.it

www.facebook.com/OperazioneColomba


Vite che non si arrendono

La prossimità alle persone che vivono in zone di conflitto, o ci hanno vissuto, ha due facce: quella della vicinanza lì (in Palestina, Siria, Libano, Iraq); e quella dell’accoglienza qui, in Italia. Due amici ce le raccontano attraverso 24 storie di incontri. In Cisgiordania come a Torino, ciò che emerge è la speranza di chi resiste, la resilienza dell’umanità.

Fatima vive ad Aleppo, una città distrutta dalla guerra. Ha tre bambini che mostrano i segni della malnutrizione. Accudisce una sorella disabile. Suo marito è morto per un’esplosione. Lei guadagna qualcosa vendendo oggetti che recupera in giro, tra le macerie. A volte trova bombe inesplose che smonta per venderne i pezzi. Disfa ordigni di morte per ricavarne cibo e vita.

Aisha è una giovane somala sbarcata a Lampedusa tempo fa. Dopo anni dalla fuga, sente ancora ogni tanto dentro sé i morsi delle violenze viste e subite.

Le loro sono storie difficili, e Alessandro Ciquera e Marco Canta ce le raccontano trasmettendoci la speranza e la forza di cui sono pervase. Oltre a Fatima e ad Aisha, ci presentano Arsema, ragazza etiope in cerca di casa in Italia; i figli di Hafez che piangono mentre il padre viene portato via dalla polizia militare israeliana; Ola e il suo fratellino, siriani malati di talassemia, profughi in Libano; e poi Mohammed, Karim, Abu Zahra, e altri.

Gli autori de La speranza ha il vestito azzurro, parlano di resilienza, e ce la mostrano nel racconto dei gesti quotidiani di uomini, donne e bambini.

Come Fatima, che tramuta bombe in pane, morte in vita, tutti loro fanno i conti con il male, la sofferenza, facendone il luogo della loro resistenza e, a volte, rinascita.

Alessandro ha 32 anni e fa parte dell’Operazione Colomba. A 18 anni ha fatto il suo primo viaggio in un luogo di conflitto, a Kirkuk, in Iraq, per costruire un campetto da calcio per i bambini, e da allora non ha più smesso di viaggiare per incontrare e condividere. È stato in Palestina per due anni, in Siria, in Albania, nei campi profughi siriani in Libano per tre anni.

In Italia ha lavorato in progetti educativi presso il carcere minorile di Torino, nella scolarizzazione di minori in condizioni socialmente critiche e nell’assistenza alle persone senza fissa dimora.

Da ragazzo è stato animatore, in oratorio a Grugliasco (To), dei figli di Marco.

Marco Canta ha 54 anni, si è formato nella Gioc (Gioventù operaia cristiana), è stato attivo nel Gruppo Abele, presidente della Cooperativa Orso che si occupa, tra le altre cose, di accoglienza di rifugiati, e attualmente è direttore e vicepresidente di Casa Oz, Onlus che offre accoglienza a bambini malati e alle loro famiglie che soggiornano a Torino per il periodo delle cure. È portavoce del Forum del terzo settore del Piemonte.

Alessandro, nel libro racconti di persone che non si arrendono, e che, ad esempio ad At-Tuwani, in Cisgiordania,
resistono alle ingiustizie in modo nonviolento.

«I palestinesi di At-Tuwani e dei villaggi di quell’area, da decenni vivono aggressioni sistematiche.

Loro vorrebbero solo vivere la loro vita, andare ai pascoli, coltivare, fare pozzi, costruire stalle, ma tutti i giorni sono umiliati, minacciati, ostacolati, picchiati, a volte uccisi o arrestati.

Quello che li aiuta è il senso del resistere insieme: non c’è nessuno lì che si salva da solo. Quando qualcuno è arrestato, subito fanno una colletta per gli avvocati, manifestano, chiamano giornalisti.

Quella gente desidera solo rimanere sulla propria terra.

Il fatto che dopo decine di anni di soprusi non se ne siano andati altrove, è un messaggio bello per tutti. I giovani di lì, sanno bene cosa c’è fuori del loro villaggio, però sono consapevoli della loro identità: sono nati lì, le loro famiglie abitano quelle terre da generazioni, e anche loro vi appartengono.

Ecco, in questo tenere insieme la vita normale, semplice, i piccoli gesti, la scuola, il seminare, con l’oppressione, io ci ho sempre visto qualcosa che parla del Vangelo. Lì ho imparato cosa può voler dire un’esistenza senza violenza».

Dove ti ha portato Operazione Colomba negli anni?

«Io sono legato a Operazione Colomba da quando mi sono diplomato. Ho iniziato in Palestina, dove sono stato due anni, poi sono stato in Iraq più di una volta, in Libano per tre anni, in Siria, in Albania. Sempre cercando la condivisione con le persone che vivono situazioni di sofferenza e di conflitto. Mai con l’idea di essere “l’occidentale che va lì a salvare i poveri”, ma con il desiderio di camminare insieme, di partecipare nel mio piccolo a una lotta che magari va vanti da decenni.

In Iraq la gente rischia di morire anche solo facendo gesti semplici, come andare al mercato, a messa, esprimere un pensiero. In Siria ci sono la guerra, l’obbligo del servizio militare, il rischio del carcere o di sparire, le fosse comuni, i villaggi bruciati. Ecco, in Siria ho trovato un dolore grande, e se c’è qualcosa che si può imparare da queste persone è il desiderio di non fermarsi, di rimanere in piedi: anche se vivi sotto una tenda, metti una stufetta, un fiore, un quadretto, provi a far fare i compiti ai bambini. E continui ad avere fede, a vivere la fede nelle ferite che la vita ti ha fatto incontrare».

Nel libro parli molto dei profughi siriani in Libano.

«Quello che mi ha colpito della vita dei profughi è la loro solitudine. Se vivi in un villaggio in Palestina, pur nella violenza, sei a casa tua, hai la tua casetta, le tue pecore, la tua gente. Invece il profugo ha la sensazione di essere dimenticato da tutti, che la sua vita non vale niente, e che, se oggi muore, saranno in pochi ad accorgersene, pochi o nessuno potrà venire al suo funerale, perché ha un amico in Turchia, un altro è morto, un altro fa il servizio militare, un altro è scomparso in prigione, un altro è in Europa, un altro sta provando a prendere una barca per attraversare il Mediterraneo.

Chi sei tu senza le tue relazioni? Tanti ci dicevano: “Non abbiamo nessun altro, a parte Dio e voi”».

Marco, i capitoli che raccontano gli incontri con rifugiati avvenuti a Torino e dintorni, sono tuoi?

«Sì. Il primo incontro con i rifugiati per me è stato nel 2009: sono entrato quasi per caso nell’ex clinica San Paolo di corso Peschiera a Torino che era occupata da 400 rifugiati, provenienti soprattutto dal Corno d’Africa. Quell’incontro ha cambiato la mia vita. Prima non sapevo nemmeno cosa significasse fuggire da contesti di guerra.

La proprietà dell’immobile, a un certo punto, ne aveva chiesto la restituzione, e prefettura e questura avevano deciso per lo sgombero. Da lì è nato “Non solo asilo”, un coordinamento di associazioni, che ha avviato un dialogo, e che ha ottenuto sei mesi di tempo per trovare opportunità per le persone. In poche settimane abbiamo creato una rete di comuni e associazioni che ci ha aiutati ad avviare progetti per 200 persone. Lavoravamo sul modello dell’accoglienza diffusa, e non sulle grandi strutture. La rete dello Sprar si è allargata così in buona parte del Piemonte, e ad Avigliana si è realizzato il primo Cas diffuso (centro accoglienza straordinaria), che poi ha fatto scuola in Italia».

Perché hai voluto raccontare questi tuoi incontri?

«Nel libro raccontiamo storie di persone che hanno una forza, un’energia, una capacità di resilienza tale che, se fossimo in grado di accoglierle e di renderle conosciute tra i giovani, ne avremmo giovamento tutti. Sono storie potenti.

Se pensiamo alla crisi della nostra società, ai ragazzi disillusi che non lavorano e non studiano, le storie di queste persone, che sono riuscite a superare delle tragedie enormi ricostruendo il loro futuro, danno speranza a tutti.

Una delle storie raccontate nel libro è quella di Mohammed, arrivato in Italia come minore non accompagnato. Oggi è un giovane di 22 anni, come mio figlio più grande. Se penso all’influsso positivo che lui ha avuto sui miei figli, mi è chiaro che quando riesci a superare la barriera della non conoscenza, poi accadono cose belle».

E tu Alessandro?

«Ho scritto dei miei incontri con queste persone ferite dalla vita, ma resilienti, perché quando trovi una perla preziosa, non puoi tenerla in tasca. Devi mostrarla. Non sono storie solo nostre. Abbiamo iniziato a scriverle in un tempo difficile, quando sono stati fatti i decreti sicurezza e parlare di questi temi era davvero dura. Volevamo lanciare queste storie come un salvagente».

Luca Lorusso

 




Israele: Come si vive vicino a Gaza


La mia camera è un bunker

In Israele, chi abita lungo il confine con Gaza ha una vita particolare. Razzi e palloncini incendiari diventano «normalità». Così occorre attrezzarsi per non morire. Ma c’è una donna che vorrebbe tornare a quando gli abitanti dai due lati del muro si frequentavano. Un sogno o un futuro possibile?

Testo e foto di Valentina Tamborra

Il 2 gennaio 2019 l’esercito israeliano ha completato la barriera marina che separa Gaza da Israele, nella località di Zikim, a Nord di Gaza. Alta sei metri sopra il livello del mare e lunga 200 metri, è stata costruita su un terrapieno artificiale poggiato sul fondo marino, ed è dotata di sensori. Lo scopo della barriera è evitare che si possano scavare tunnel sotto il confine marino. Anche nel Nord di Israele, si sta ultimando un muro che separa il paese dal Libano. Lì sono stati cementati tunnel degli hezbollah, già noti all’intelligence israeliana da quattro anni.

A di là delle misure di sicurezza prese dall’esercito, come vivono le persone che ogni giorno hanno a che fare con la tensione di stare proprio sui confini?

Rifugi anti razzo

Abbiamo incontrato Adele Raemer, insegnante di scuola elementare, segnalata dal quotidiano Haaretz come una fra le dieci persone israeliane più significative del 2018.

Adele vive dal 1975 nel kibbutz Nirim, che dista poche centinaia di metri dal confine con la Striscia di Gaza.

È la fondatrice del gruppo «The movement for the future of western Negev» (Il movimento per il futuro del Negev occidentale) che si occupa essenzialmente dell’area del Negev occidentale, ovvero quella direttamente confinante con Gaza. È la zona dove lo stato ha imposto la costruzione di una «safe room» (camera di sicurezza), in ogni casa. Dal 2011 infatti, per legge, è obbligatorio per tutti coloro i quali vivono entro 4 km dalla Striscia di Gaza, avere una stanza bunker.

Adele ha creato su google maps (programma che permette la visualizzazione geografica, ndr) una «mappa dei fuochi», ovvero degli attacchi di vario tipo, che colpiscono Israele: la aggiorna quotidianamente avvalendosi della collaborazione di tutti gli aderenti al gruppo che, come lei, vivono sul confine. La mappa su google è attiva dall’aprile 2018 e a oggi partecipano alla segnalazione anche persone che ufficialmente non dovrebbero esporsi, come pompieri o esercito.

L’azione di Adele non è passata inosservata alle Nazioni Unite, che lo scorso novembre l’ha chiamata a Ginevra a raccontare ciò che fa, dato l’enorme riscontro che il suo lavoro stava ottenendo su strumenti social quali facebook, sul quale gestisce la pagina «Living on the border with Gaza» (vivere alla frontiera con Gaza).

Una vita sotto tensione

Il suo obiettivo non è però promuovere se stessa o ciò che fa: Adele infatti, vuole solo raccontare lo stato di perenne tensione in cui si vive giorno per giorno a pochi chilometri da Gaza. La sua stessa camera da letto, infatti, è stata colpita da un mortaio pochi anni fa, e lei è viva per miracolo.

Nel kibbutz dove vive, tutti i centri diurni per i bambini, le scuole, sono state fortificate così da renderle dei veri e propri bunker in caso di escalation degli attacchi.

I bunker comunque nulla possono in caso di arrivo improvviso di palloncini incendiari, i quali, se per un adulto non sono mortali, possono provocare gravissime lesioni ai bambini. Si tratta di semplici palloncini, come quelli utilizzati alle feste. Ad essi viene collegata una fialetta di liquido esplosivo che, quando il palloncino tocca terra o viene preso in mano, prende fuoco.

«Ho creato la mappa perché volevo che le persone capissero cosa significa vivere in questa situazione: da entrambe le parti soffriamo, abbiamo paura e la gente non immagina neppure lontanamente cosa significhi essere in uno stato di perenne tensione».

Un missile in camera

Adele ci racconta di quanto accadde circa dieci anni fa, in novembre, un mese prima che suo marito si suicidasse.

Non esistevano ancora le safe room e un colpo di mortaio colpì la loro camera da letto. Adele e il marito si salvarono solo perché in quel momento erano in cucina.

Nel ristrutturare la stanza, Adele scelse di lasciare visibile un segno sullo stipite della porta, là dove il mortaio aveva terminato la sua corsa: «Voglio ricordarmi quanto sono stata fortunata, voglio ricordarmi ogni giorno quanto è bello essere vivi».

Oggi quella camera da letto è diventata un bunker: la finestra è stata cementata, le mura sono spesse il doppio di quelle delle altre stanze.

Stanze prive di serratura però, in quanto in caso di bombardamento è necessario poter intervenire velocemente per estrarre le persone.

Adele ci dice che non è una safe room a far sentire al sicuro chi vive al confine: uno dei timori più forti è quello delle infiltrazioni di estranei. Mi racconta che prima del muro era normale frequentarsi, cenare insieme, condividere una quotidianità senza barriere. Oggi invece, con l’odio e il livore che c’è stato e viene alimentato giorno per giorno, i «vicini» sono persone da temere per entrambe le parti. Così l’idea che qualcuno possa superare il muro, il filo spinato, ed entrare nel kibbutz è la cosa che più atterrisce chi vive sul confine.

Intrusioni, palloncini incendiari, missili: convivere ogni giorno con la paura di sentire improvvisamente una voce femminile registrata che dà l’allarme: «Tzeva adom…tzeva adom…tzeva adom» (colore rosso…colore rosso…colore rosso). Una voce che scandisce quel lasso di tempo brevissimo nel quale puoi rifugiarti nella tua safe room prima che si senta l’esplosione. Dai 4 ai 10 secondi nei quali, se stai dormendo, devi svegliarti, realizzare cosa accade e correre il più velocemente possibile verso la stanza fortificata.

Quando si stava insieme

Nonostante tutto questo, Adele continua a portare avanti la sua idea di coesione: vorrebbe tornare indietro, a quando israeliani e palestinesi si mescolavano, lavoravano insieme. Anche casa sua è stata costruita da palestinesi. Dopo l’ultimo conflitto del 2014, è stato difficile mantenere i contatti, ma Adele continua a comunicare con alcuni giornalisti di Gaza e sta tentando di far arrivare degli strumenti musicali alle scuole elementari della Striscia. «La musica può unire. Non mi illudo, non può abbattere confini ma può forse aprire un dialogo». E sono in molti a pensarla come lei: chi vive a ridosso della Striscia infatti, spera solo in una soluzione di pace.

La costituzione di due stati, Israele e Palestina, non spaventa Adele. A spaventarla è il gioco di potere fra partiti politici dall’una e dall’altra parte del muro. Giochi di potere che non tengono conto delle persone coinvolte, di chi ogni giorno vive nella paura.

Prima di salutarci Adele mi porta a vedere un luogo, proprio accanto alla rete che separa il kibbutz dalla linea di terra che porta a Gaza. Qui, a ridosso del confine, c’è un albero con una targa in pietra: è una lapide. È stata posta a ricordo dei due uomini, due padri di famiglia, morti nel 2014 a causa di un razzo qassam sparato da Gaza. Si erano arrampicati su un palo della luce precedentemente colpito da un missile per ripristinarlo e riportare la luce nel kibbutz.

«È perché non accada più una cosa come questa che continuo il mio lavoro, perché si smetta di morire in modo così stupido: segnalo le esplosioni, i palloncini incendiari, tutto ciò che accade qui a ridosso della Striscia, non per indicare “un colpevole” ma perché si capisca che non è più possibile vivere così. È necessaria la pace, aneliamo tutti la pace. E il silenzio che ci circonda va rotto: solo noi, persone comuni, possiamo farlo, continuando a parlare, a lottare, a dire “ci siamo”».

Il muezzin inizia a cantare: il vento di gennaio porta la sua voce fino a noi. Sono due mondi così vicini che un semplice canto raggiunge e scavalca il muro, le reti, il filo spinato e pervade l’aria.Dal fondo della strada vediamo arrivare tre bambine: avranno dieci o undici anni. Salutano Adele, la abbracciano. Sono sue allieve.

I sorrisi sul volto, il kibbutz che si anima, le persone a passeggio e il sole che inizia a fare capolino da dietro le nubi. È un giorno come tanti, una quotidianità che convive con l’inaspettato, con la paura, cercando però di non farsi sopraffare.

Il muezzin ha finito il suo canto, per Adele è ora di rientrare a scuola, i ragazzi la aspettano.

Nell’aria fredda di gennaio ci salutiamo: «Ciò che accade a Gaza è orribile, ma anche qui non è un pic nic».

Valentina Tamborra

 




Abbiamo un «piccolo» problema a Gaza


Due paesi abbracciati. Due paesi strettamente legati. Due stati che non si riconoscono. Ma c’è chi crede nella pace e così nasce un movimento di donne attiviste. Mentre un gruppo di suore lavora con bambini audiolesi. Reportage tra Israele e Palestina. Dalle due parti del muro.


Testo e foto di Valentina Tamborra


Il tassista guida veloce verso la frontiera con la Giordania. Qui a Eilat, sulla punta più estrema di Israele, al confine con l’Egitto, la guerra è un concetto lontano. Spiaggia, barriera corallina, locali alla moda: qui la vita, almeno all’apparenza, scorre tranquilla. Non fosse per l’avviso trovato nella camera dell’hotel dove ho dormito: «Il rifugio antiaereo si trova nell’interrato, piano -1».

Ma Israele è così: da Tel Aviv a Eilat, a un primo sguardo superficiale, non ci sono motivi di tensione. Eppure il 10 agosto, solo due giorni prima del mio arrivo, c’è stato l’ennesimo scambio di missili fra Israele e Gaza.

Il tassista sostiene che il problema di Israele siamo noi giornalisti e media: raccontiamo una guerra che non c’è.

Se fosse il mio primo incontro di questo tipo mi stupirei, ma dal primo giorno in Israele ho avuto la netta percezione che ci sia una ferrea volontà di rimozione. Forse è, in parte, una difesa: vivere in un costante stato di allarme porta a un fatalismo estremo che sfocia nel tentativo di trovare la normalità lì dove di normale c’è ben poco.

Di tutt’altro avviso è invece Hamutal Gouri, fondatrice, insieme ad altre quaranta donne, del movimento «Women wage peace» (Le donne muovono la pace).

Sedersi accanto

Il movimento nasce nell’estate del 2014, racconta Hamutal, per creare uno spazio dove sedersi l’uno accanto all’altro, pur essendo in disaccordo, e avere così la possibilità di creare un dialogo.

Il movimento ogni anno elegge un gruppo di quattro donne che formano la squadra al comando per dodici mesi. Non si basa su una figura carismatica, ma sulla partecipazione popolare.

Women wage peace è una realtà controcorrente non solo perché professa la pace. Hamutal mi spiega, infatti, che in Israele vige ancora una mentalità fortemente maschilista. Il regno della donna è la casa: lì è la regina, ma dalla vita pubblica viene tenuta fuori.

Women wage peace sfida questa realtà: le donne combattono perché la loro voce venga ascoltata.

Dunque è un doppio obiettivo quello che si prefiggono: da un lato l’accesso alla vita pubblica, la libertà di opinione, e dall’altro, ovviamente, un accordo di pace.

Hamutal mi spiega che sono ispirate dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu 13-25 che stabiliva che, siccome le donne sono le più colpite nei conflitti, devono anche divenire parti attive nella trasformazione e nella risoluzione degli stessi.

«È molto più facile per me credere che ci possa essere una pace o una collaborazione tra Ebrei e Palestinesi, credere nel potere delle persone e specialmente delle donne di portare la pace. È molto più facile per me pensare questo, piuttosto che accettare il fatto che non ci sarà mai pace». È lo spirito che ha mosso donne coraggiose a dare il via a quello che ad oggi è diventato un movimento con 40mila persone iscritte.

Una varia umanità

Women wage peace raccoglie iscritti da tutto il mondo: decine di migliaia di membri appartenenti alle frange politiche di destra, centro e sinistra, arabi, ebrei, laici, religiosi, dai paesi alle periferie, donne dai kibbutz e dagli insediamenti. Tutti uniti per la richiesta di un mutuo accordo nonviolento condiviso da entrambe le parti.

Moltissime le iniziative organizzate: a partire dalle tremila donne che nel 2015 hanno circondato la Knesset – il parlamento monocamerale di Israele – per chiedere un’iniziativa di pace, e dalla celebre Marcia della speranza, nel 2016, quando trentamila persone, donne e uomini, ebrei e arabi, israeliani e palestinesi hanno marciato per due settimane dal Nord del paese sino a Gerusalemme.

Le immagini di quella marcia hanno fatto il giro del mondo: migliaia di donne piene di speranza, di commozione e di gioia unite in un tentativo pacifico ed estremo allo stesso tempo.

In un mondo dominato, almeno di questi tempi, dalla ferocia, è sconvolgente trovare tanto accanimento nel ricercare una pace che molti ritengono impossibile.

Sì, perché Hamutal crede fermamente nella pace, pur essendo lei nata e cresciuta a Gerusalemme, fra conflitti e confini delimitati da mura e filo spinato. Lei, costretta a prestare servizio militare, giacché in Israele la leva è obbligatoria per tutti, eccezion fatta per gli ebrei ultraortodossi. Le donne devono prestare servizio per due anni, gli uomini per tre.

Un mondo senza check point

Quando nacque il suo primo figlio, Daniel, Hamutal gli promise che non sarebbe dovuto entrare nell’esercito. Sognava un mondo come quello che aveva solo sfiorato quando, da ragazza, aveva lavorato per una compagnia aerea. Mi racconta che un giorno le dissero di avere passato il confine del Belgio e che lei si stupì di non aver visto neppure un check point, militari, armi. Fu in quell’occasione che iniziò a immaginare un mondo senza reti, senza delimitazioni.

Ma la promessa fatta a Daniel fu, suo malgrado, una bugia. La cosa certa è che nessuna madre mette al mondo un figlio per mandarlo in guerra. Questo è il pensiero che sta alla base del movimento Women wage peace. Donne come madri, in senso universale. Unite a dispetto dei confini: che tuo figlio sia israeliano, palestinese, ebreo, musulmano, cristiano, la speranza è una sola: che possa vivere in pace. Che non debba conoscere l’orrore della guerra.

Per Hamutal fu un brutto momento quello nel quale accompagnò Damiel al bus che l’avrebbe portato al centro di addestramento. E ancora peggiore il giorno della cerimonia quando dovette sentirlo pronunciare il giuramento: «Giuro di difendere il mio paese anche se dovessi sacrificare la mia vita per esso». Ad Hamutal si riempiono gli occhi di lacrime nel raccontarlo: «Stavo li seduta e pensavo solo: questo è mio figlio, il mio unico figlio maschio, il mio primogenito, lo amo più di ogni altra cosa al mondo e devo sentirgli dire che morirebbe pur di difendere il proprio paese?».

Preghiera per le madri

Questo dolore e questa speranza stanno alla base anche della bellissima canzone che fa da inno del Movimento, Prayer of the mothers, di Yael Deckelbaum, che recita così: «Tra il cielo e la terra ci sono persone che vogliono vivere in pace, non arrenderti, continua a sognare di pace e prosperità. Ascolta la preghiera delle madri, porta loro la pace, porta loro la pace».

Una sorta di «stabat mater» moderno. Un grido di speranza che dice la volontà di non vedere più i propri figli ammazzati in una guerra che ormai ha violato ogni luogo, persino il deserto.

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E pensando al deserto tornano alla mente le parole di Emil Cioran, filosofo e saggista rumeno: «Gli asceti cristiani pensavano che solo il deserto sia senza peccato, e lo paragonavano agli angeli. In altre parole, non c’è purezza se non là dove non nasce nulla».

Israele e Palestina smentiscono il suo pensiero: qui pure il deserto non è esente dal peccato.

Un’altra cosa che sconvolge, infatti, viaggiando lungo le strade che conducono alla Valle del Giordano, a luoghi considerati sacri non solo dai cristiani ma anche da ebrei e musulmani, è la presenza costante di filo spinato, mura, carri armati, aree di tiro, cartelli che segnalano pericolo.

L’ultima cosa che mi dice Hamutal, prima di salutarmi, è che non si capacita di come il suo popolo che ha tanto sofferto, che è stato martoriato, vessato, privato di una terra, possa ripetere tali atrocità su un altro popolo.

La memoria storica che qui viene continuamente celebrata (basti pensare al monumentale complesso museale dello Yad Vashem, costruito per documentare e tramandare la storia del popolo ebraico durante la Shoah preservando la memoria dei sei milioni di vittime dell’Olocausto), pare cadere nell’oblio non appena si pensa a ciò che accade in Palestina e in particolare sulla striscia di Gaza.

Gaza 2014

In Palestina, a Betlemme, trovo il corrispettivo, in versione molto più semplice e non monumentale, dello Yad Vashem: un muro dipinto di nero, con i nomi di tutti i bambini morti sulla striscia di Gaza nel 2014 scritti a mano.

Proprio nell’estate di quell’anno Israele lanciò nella striscia di Gaza l’operazione «Margine protettivo» con l’obiettivo di fermare il lancio di missili verso il proprio territorio ed eliminare i tunnel di Hamas. Esplose così uno tra i più sanguinosi conflitti israelo-palestinesi della storia recente. A farne le spese, moltissimi civili. Una vittima su cinque, in quei giorni di violenza, era un bambino.

Betlemme è un altro luogo sacro violato dalla guerra. Nel 2002, durante la seconda intifada, duecento palestinesi si rifugiarono nella Chiesa della Natività, protetti da quaranta frati e quattro suore. L’assedio durò trentanove giorni. I frati francescani, custodi dei luoghi santi, misero al primo posto l’aspetto umanitario, accogliendo i fuggitivi. Oggi, di quei momenti di paura e disperazione non si ricorda granché. La Basilica accoglie ogni giorno centinaia di pellegrini che molto spesso non sanno dei tragici eventi che hanno segnato questo luogo.

La storia scomoda viene costantemente e metodicamente rimossa. Infatti, se di una situazione si smette di parlare, presto la si dimentica.

Donne (suore) coraggio

A Betlemme, esiste un altro gruppo di donne coraggiose: le suore di Effetà. Ad oggi si prendono cura, all’interno dell’istituto da loro fondato nel 1971, di 150 bambini.

La scuola è specializzata nella rieducazione audio fonetica dei bambini audiolesi residenti nei Territori palestinesi. Suore coraggiose, da sempre attive sui luoghi di confine, di conflitto, hanno di recente perso una sorella in Siria. Nonostante questo, stanno progettando di muoversi verso il confine giordano per aiutare i profughi siriani, che oggi sono quasi 20.000.

Il nome Effetà si rifà a un passo del Vangelo secondo Marco: «E gli condussero [a Gesù] un sordomuto, pregandolo di imporgli una mano. E portandolo in disparte gli pose le dita negli orecchi (…) e disse “Effetà” – Apriti».

Gli allievi provengono da diverse zone della Palestina: Betlemme, Beit Jala, Sahour e zone limitrofe come Ramallah e Hebron, dove le condizioni di vita sono molto dure. Purtroppo dalla scuola restano esclusi i bambini della regione di Gerusalemme e del Nord per via dei problemi di trasporto e soprattutto di passaggio, perché il muro di sicurezza che separa Israele dalla Palestina circonda e chiude quasi interamente la città di Betlemme.

Queste suore si trovano ogni giorno a operare in un territorio ostile. Eppure, non perdono mai il sorriso.

Suor Laura, direttrice dell’istituto, e suor Bruna, educatrice, mi raccontano che il loro sogno è di poter ampliare la struttura, accogliere più bambini e soprattutto far sì che si radichi il pensiero che la sordità non preclude una vita sociale attiva e partecipativa. In Palestina, infatti, questa problematica viene trattata con vergogna da parte delle famiglie. Eppure riguarda una percentuale del 3% della popolazione, e in alcuni villaggi particolarmente isolati, si arriva sino al 15%, classificandosi così fra le più alte del mondo. Questo avviene principalmente a causa dell’eredità genetica in quanto circa il 40% dei matrimoni in Palestina è endogamico, ovvero combinato all’interno della famiglia allargata.

Le suore di Effetà, lavorano perché questi bambini abbiano il diritto a una vita quanto più possibile serena e integrata pur vivendo ogni giorno in un contesto difficile.

La presenza del muro di sicurezza, il filo spinato, le telecamere, i militari armati e i check point certo non sono la premessa ideale a un’infanzia serena.

Camera con «svista»

Proprio a Betlemme è nato il «The walled off hotel», l’hotel provocazione di Banksy, artista e writer inglese, considerato uno dei maggiori esponenti della steeet art e molto noto anche per il suo attivismo politico. Costruito proprio a ridosso del muro che separa Israele dalla Palestina (Betlemme dista poco più di 20 minuti in bus da Gerusalemme), si fregia del titolo di «Hotel con la peggiore vista del mondo».

Dalle camere si può vedere il muro, le torrette di controllo, e, subito oltre, i territori israeliani.

Una vista da incubo sulla continua violazione della libertà, anche solo di quella dello sguardo, operata in quei territori. L’hotel oggi è diventato un vero e proprio polo di attrazione turistica: in molti vengono qui a lasciare la propria firma, la propria frase sul muro di separazione. Senza nulla obiettare al messaggio di Banksy, resta da capire quanto questa spettacolarizzazione del dolore possa portare reale beneficio.

All’interno dell’hotel è stato creato anche un museo e una galleria che raccontano la storia della Palestina e dell’occupazione da parte degli israeliani. Ci sono guide che portano in giro i turisti per far vedere loro le condizioni di vita attorno al muro e all’interno dell’Aida Camp, il campo profughi fondato nel 1948, il cuore della lotta all’occupazione israeliana.

La volontà è certamente quella di far conoscere la situazione del popolo palestinese: George, un ragazzo che lavora per l’hotel di Banksy, mi racconta, per esempio che l’acqua viene razionata. Distribuita ogni due settimane e nel giorno prefissato ogni quartiere dovrà raccoglierne quanta più possibile.

In effetti, guardando i tetti delle case palestinesi, si possono osservare su ciascuna serbatorni d’acqua. Qualora una famiglia dovesse terminare la propria scorta, dovrà andare a procurarsela direttamente alla compagnia che controlla l’erogazione, pagando circa 70-80 dollari per riempire il serbatornio.

George mi racconta anche delle restrizioni che il governo israeliano impone per lasciare il paese: l’unico aeroporto vicino, infatti, è quello di Ben Gurion (Tel Aviv), in territorio israeliano e, dunque, interdetto ai palestinesi. Questo significa che è necessario recarsi in Giordania. Per passare il confine ci possono però volere dalle 7 alle 10 ore e una volta giunti all’aeroporto si devono affrontare code lunghissime, 4, 8, 10 ore di attesa perché questo è l’unico punto dal quale si può partire verso altre destinazioni.

Gaza blindata

La situazione a Gaza risulta ancora diversa. Qui non si può entrare e da qui non si può uscire. Alcune volte viene dato un permesso per recarsi in Egitto attraverso il Sinai o per raggiungere la West Bank (Cisgiordania) in occasione di feste particolari. Qualora però dovesse scadere il permesso, anche per un semplice ritardo di poche ore, non si potrà più lasciare Gaza.

Il muro continua a progredire: i lavori non si sono fermati e anzi attraversano anche i territori beduini.

George mi chiede di scattare foto: alle case, al muro, ai bambini, alle persone. Dice che in Europa deve arrivare il messaggio che i palestinesi non sono pronti a farsi saltare in aria, non ci tengono a morire, né a lanciare pietre. Vogliono solo quei diritti fondamentali che ad oggi vengono loro negati.

Mi guardo intorno: case semplici, di pietra, spazzatura ammassata contro il muro e per le vie, bambini che scorrazzano su vecchie biciclette sgangherate e un centro ricreativo per l’infanzia che è praticamente da demolire.

Eppure, a neanche venti minuti di distanza, c’è Gerusalemme: città sacra, città meravigliosa. Un mondo altro, quasi impossibile da immaginare. È la duplicità, la coesistenza di due realtà così diverse fra loro che lascia interdetti.

Mi chiedo se un turista, lasciato il messaggio sul muro, riesca a comprendere cosa significa vivere, crescere, condurre un’esistenza normale laddove ogni mossa è controllata, verificata, limitata.

C’è un solo luogo a Betlemme che lascia un po’ di spazio a occhi e cuore: è il deserto che si estende poco oltre la città. Vi è un santuario e poi chilometri di roccia e sabbia. È territorio palestinese, ma zona C, ovvero sotto il controllo israeliano. Qui, forse, finalmente, si riesce a lasciar vagare lo sguardo senza che venga bloccato da muri e filo spinato, senza che, costantemente, ci si senta chiusi in gabbia. Questa parte del deserto è il luogo dove George viene a sedere di tanto in tanto per immaginare una vita diversa.

Valentina Tamborra