Turchia. Nelle mani del sultano
Lo scorso maggio si sono chiuse le elezioni presidenziali. Da vent’anni al potere, Recep Tayyip Erdoğan ha vinto ancora. Le speranze di molti, soprattutto giovani e intellettuali, di vedere il tramonto del sultano si sono infrante. Tra crisi economica, politica estera ondivaga, islamizzazione e restrizioni delle libertà individuali, il futuro del paese rimane molto incerto.
Istanbul. Quando atterro nella metropoli turca – è il 13 maggio, vigilia delle elezioni -, il clima è tesissimo. Le strade sono tappezzate di bandiere e striscioni con i volti e gli slogan dei candidati. In questi giorni sono state arrestate 78 persone, la maggior parte attivisti e giornalisti, accusati di aver postato sui social media contenuti «inopportuni» contro Erdoğan. Alcuni reporter, all’ingresso in aeroporto, si sono visti anche rifiutare il permesso d’ entrata, ragione per la quale mi sono presentato, alle autorità, come semplice turista. I contendenti alla presidenza sono: l’attuale presidente Erdoğan e il settantaquattrenne Kemal Kılıçdaroğlu, principale oppositore del sultano. Kılıçdaroğlu rappresenta la sinistra, la sua è una visione liberale e inclusiva di tutte le etnie presenti in Turchia. Il terzo candidato è l’outsider: Sinan Oğan, esponente dell’Unr, un partito di estrema destra ma comunque sempre di opposizione. Nella corsa alla presidenza era presente un quarto candidato: Muharrem Ince, ritiratosi dopo essere stato vittima di una pesante campagna diffamatoria. Il terremoto del 6 febbraio ha cambiato qualcosa nell’opinione pubblica. Molto ha pesato la cattiva gestione dei soccorsi da parte del presidente, il quale ha favorito l’invio di aiuti in alcuni luoghi, rallentando invece quelli verso le zone a lui ostili, come quelle a maggioranza curda. Inoltre, l’altissimo livello di corruzione presente in Turchia si è nuova-
mente palesato quando si è scoperto che le enormi cifre destinate alla messa in sicurezza degli edifici a rischio non sono mai state impiegate o, comunque, sono state usate solo parzialmente. Tutto questo ha aperto gli occhi a molti elettori, soprattutto i più moderati, che hanno spostato il proprio voto su Kılıçdaroğlu. Ad oggi, le preferenze degli abitanti di Istanbul, così come quelle di tutto il popolo turco, sono divise quasi perfettamente a metà.
A Sultanahmet, uno dei quartieri più famosi della città, luogo dove sorgono la Moschea Blu e Aya Sophia, un numeroso gruppo di persone già festeggia la vittoria di Erdoğan. I sostenitori sventolano bandiere della Turchia cantando che: «C’è solo un uomo in grado di guidare il Paese».
È blindata Sultanahmet, polizia e militari hanno transennato le strade impedendo l’accesso a qualsiasi veicolo, tutta la zona è sorvolata da elicotteri. Proprio qui, questa sera, si terrà il discorso di chiusura della campagna elettorale di Erdoğan.
Un «dedem» come avversario
Il modo di comunicare dei due principali candidati, fino a ora, è stato totalmente opposto. Altisonante quello di Erdoğan che ha parlato spesso dal palazzo presidenziale, circondato dai suoi uomini e dai militari come in una continua parata.
Kılıçdaroğlu, invece, ha spesso postato video su internet dalla sua cucina, quella di una normalissima casa. Per la sua età, i modi pacati e le buone maniere, l’avversario di Erdoğan è stato soprannominato dai suoi elettori più giovani: «dedem» (mio nonno, in turco).
Arrivo nel quartiere di Besiktas, una delle roccaforti di Kılıçda- roğlu, il 14 maggio. Anche questa mattina c’è molta tensione, le strade sono semideserte in una calma irreale. Massiccia è la presenza di militari e polizia. Malgrado tutti i candidati abbiano chiesto, ai propri elettori, di non uscire per strada e di non manifestare, si ha molta paura che, qualsiasi sarà il risultato, possano esserci scontri e violenze. Incontro il mio interprete, ha appena votato per Kılıçdaroğlu: «Sono venuto qui a lavorare con te in segreto. Lavoro per una compagnia gestita dalla famiglia di Erdoğan, potrei perdere il mio posto se si venisse a sapere che sto collaborando con un giornalista. Potrei comunque anche perderlo se dovesse vincere Kılıçdaroğlu, ma non mi importa. Siamo stanchi di questa situazione, cambierei volentieri lavoro se questo dovesse significare avere un presidente diverso».
Mentre ci rechiamo in una delle scuole adibite a sede elettorale, un gruppo di anziani richiama la nostra attenzione mostrandoci, con le dita, il segno «V» di vittoria.
«Questa notte finalmente potremmo riavere una vera democrazia – spiega uno di loro -. Sono pensionato, ho lavorato come rappresentante commerciale in giro per la Turchia e per l’Europa. Molti vedono il nostro Paese ancora come un luogo dalla mentalità chiusa, ma il desiderio di molti di noi è quello di convivere con tutte le nostre religioni ed etnie: musulmani, cristiani, curdi, turchi, tutti pacificamente. La politica di Erdoğan è sempre stata incentrata su odio e divisione. Ma questa sera, sarà la fine di tutto questo».
Arrivato davanti a una scuola, noto moltissimi giovani che camminano avanti e indietro tra le aule e l’ingresso: sono volontari, sostenitori di Kılıçdaroğlu. Sono qui per assicurarsi che non ci siano brogli e che tutto avvenga regolarmente. I timori di irregolarità in queste elezioni sono ben giustificati. Solo pochi giorni fa, a Mardin, sono state sequestrate migliaia di schede elettorali finte. La presenza di tutti questi volontari fa ben sperare che, davvero, questa possa essere la fine di Erdoğan.
Meglio l’anonimato
Un altro quartiere da sempre liberale, e opposto all’attuale presidente, è quello di Kadikoy. Situato sul golfo del Mar di Marmara, pieno di locali e luoghi di ritrovo, Kadikoy è il ritrovo dei giovani artisti e intellettuali di Istanbul.
Avvicino alcuni di loro, seduti a un tavolo di un caffè. Discutono di quello che potrebbe essere il risultato finale di questa notte. Uno di loro dice: «Io penso che vincerà Kılıçdaroğlu, ma la vittoria non sarà schiacciante, sarà un testa a testa fino alla fine. Noi ci siamo laureati da poco, lavoriamo per multinazionali straniere che hanno delle sedi qui, ma, per colpa di Erdoğan, siamo sottopagati. Il nostro stipendio si aggira sulle 15mila lire al mese (circa 600 euro), ne paghiamo 10mila di affitto. I costi aumentano, i nostri stipendi rimangono uguali. Erdoğan ha trasformato la Turchia in un Paese di manodopera a basso costo per aziende occidentali. Questa è la realtà».
Cosa fareste se dovesse vincere Erdoğan?, chiedo. «Io penso che cercherei un modo di andar via – risponde un altro ragazzo -. Penso che se continueremo con Erdoğan al potere, questo Paese andrà sempre più verso un’islamizzazione estrema, fino a somigliare a un vero regime, come quello iraniano».
Domando: «Come festeggerete questa sera se dovesse vincere Kılıçdaroğlu?». «Non penso che festeggeremo – dice una ragazza del gruppo -. Sinceramente, io ho paura che ci possano essere scontri e che delle persone possano rimanere uccise. Soprattutto se dovesse vincere “dedem”. I sostenitori di Erdoğan uscirebbero in strada per sfogare la loro rabbia su chi sta celebrando. Per questo, tutti i leader politici ci hanno rivolto degli appelli a non uscire di casa, qualsiasi sarà il risultato».
Prima di andare via, chiedo il permesso di poter scrivere i loro nomi, ma i ragazzi hanno paura e si rifiutano. Uno di loro aggiunge: «Questo, però, dillo. Scrivi che i giovani di Istanbul sono così terrorizzati da Erdoğan da non poter dare nemmeno il proprio nome».
«Occorrerebbe una rivoluzione culturale»
Continuando a camminare nel quartiere di Kadikoy, arrivo a un’altra sede elettorale. Sono le 16, c’è ancora un’ora a disposizione, dopodiché, le elezioni saranno chiuse. Anche le scuole di Kadikoy pullulano di volontari che controllano l’effettiva regolarità della votazione.
Tra questi ragazzi, si avvicina un uomo. Si chiama Omer Faruk, è uno scrittore ed editore turco:
«Rimarrò qui fino allo spoglio delle cartelle. Non mi fido assolutamente di quello che può succedere. Il problema in ogni caso, anche se dovesse vincere Kılıçdaroğlu, rimane. La Turchia è un Paese che ha ancora una mentalità troppo arretrata. Un Paese che, per metà, vota ancora per Erdoğan è un Paese che ha bisogno di un cambiamento radicale. La Turchia è ancora schiava della religione. Gli estremisti, che rappresentano la maggior parte dei suoi elettori, hanno ancora troppo potere nella società. Anche cambiando governo, questo Paese ha bisogno di affrontare una rivoluzione culturale».
Gli elettori di Erdoğan
Nella metropoli turca, chi sono i sostenitori di Erdoğan? Molti sono imprenditori, anche stranieri, residenti qui da anni. Nel Paese sono stati tanti gli investimenti edilizi illeciti, soprattutto a Istanbul, città della quale Erdoğan è stato anche sindaco. In molti casi, qui basta pagare una tangente per ottenere permessi di costruzione, anche dove non sarebbe possibile. Un’altra nutrita parte di elettori, fedelissima, la si trova tra i musulmani conservatori.
Un terzo gruppo è rappresentato dalle persone facilmente influenzabili, vittime della interminabile campagna mediatica di Erdoğan che, con la sua famiglia, controlla quasi tutti i canali di comunicazione del Paese.
Camminando per Istanbul è facile capire quali quartieri siano a lui devoti. Luoghi, ad esempio, come il quartiere di Fatih, parte della città dove risiedono i musulmani più estremisti. Le strade sono decorate da bandiere che raffigurano il suo volto, quasi tutte le donne indossano il tradizionale chador, e praticamente nessuno vuole rilasciare dichiarazioni riguardanti le elezioni. I pochi commenti che riesco a raccogliere sono soltanto lodi alla grandezza del presidente e slogan per la sua sicura vittoria.
Per aspettare il risultato dello spoglio elettorale, mi sposto a Taksim, una delle piazze principali della città. Qui, nel 2013, si svolsero le proteste contro il governo di Erdoğan. La polizia represse i manifestanti con un bagno di sangue: 11 morti e quasi novemila feriti. Anche questa notte si teme che possa accadere la stessa cosa. Quindi, le misure di sicurezza sono eccezionali.
Alle 23, quando cominciano a uscire le prime proiezioni, le poche persone in giro cominciano ad andar via. Per strada rimaniamo solo in pochi giornalisti stranieri, molti collegati in diretta Tv con i propri Paesi. I sostenitori, di tutti e tre i leader, rimangono a distanza ai margini della piazza, seduti in cerchio a osservare l’aggiornamento dei risultati dai loro cellulari.
È circa l’una di notte quando viene dato l’annuncio, anche se non ancora ufficiale, i giochi sembrano fatti: Erdoğan ha chiuso le votazioni con poco più del 49%, Kılıçdaroğlu al 44% e Oğan appena sopra il 5%. A fine mese si tornerà al voto.
Il ballottaggio spegne la speranza
È il 28 maggio. Rispetto a due settimane fa, le speranze di un cambiamento sembrano affievolite. Rispetto al primo turno di elezioni, i giorni che hanno preceduto il ballottaggio hanno visto una campagna elettorale ancora più aggressiva. Erdoğan, in particolare, ha usato tutto il suo potere mediatico per gettare discredito su Kılıçdaroğlu, accusandolo anche di essere simpatizzante dei terroristi del Pkk.
Erdoğan controlla l’85% dei media turchi, tra cui i principali giornali e televisioni. Il suo governo ha posto pesanti censure su Twitter, YouTube e Facebook. Già nella prima parte delle elezioni, la disparità di visibilità tra i due contendenti è stata abissale. Secondo Rsf (Reporter senza frontiere), Erdoğan ha ottenuto 60 volte la visibilità di Kılıçdaroğlu. Sulle Tv nazionali, i minuti messi a disposizione a Kılıçdaroğlu sono stati appena 30, contro le 32 ore per Erdoğan. Il candidato Oğan ha espressamente chiesto ai suoi elettori di votare per Erdoğan, mentre il suo partito si è dissociato da queste dichiarazioni, appoggiando Kılıçdaroğlu.
Gruppi armati di bastoni, coltelli e catene, inoltre, si sono recati in alcune scuole nel quartiere di Kadikoy, vandalizzandole, così da scoraggiare gli elettori ad andare alle urne. Si è stimato che quest’atto abbia abbassato l’affluenza del 10%. In questo caso, tutti voti in meno per Kılıçda-roğlu.
Le speranze si spengono definitivamente alle 22, quando Erdoğan, dal palazzo presidenziale, annuncia la sua vittoria: rimarrà presidente per altri 5 anni, avendo ottenuto il 52,16% dei voti. In conferenza stampa, Kılıçdaroğlu dichiara che queste sono state le elezioni più scorrette della storia recente. Prega i suoi elettori di tenere viva la lotta per la democrazia.
Il nuovo governo di Erdoğan si troverà a fronteggiare il malcontento di quasi il 50% della popolazione, la ricostruzione delle regioni distrutte dal terremoto di febbraio, e un’inflazione che sfiora l’80%.
Non da ultimo, le ambigue amicizie del presidente con Cina e Russia, una lenta, ma costante, islamizzazione del Paese e le continue violazioni dei diritti umani, fanno guardare con preoccupazione a quello che potrebbe accadere in Turchia nei prossimi cinque anni.
Angelo Calianno
Erdoğan e la politica estera: Più Mosca e Pechino che Bruxelles
La posizione geografica della Turchia, da sempre, la rende uno dei luoghi strategici più importanti di tutto il Medioriente, essendo un punto di connessione tra Asia ed Europa. Con 1.148 imprese registrate sul territorio, la Cina è uno dei principali investitori in questo Paese. La Turchia è il ventitreesimo maggior destinatario di investimenti cinesi nel mondo. La maggior parte delle aziende di Pechino si occupano di trasporti e logistica, utilizzando la rete ferroviaria (che hanno contribuito a modernizzare) e quella marittima. Importantissimi poi sono gli investimenti cinesi sulle telecomunicazioni: società di telefonia, infrastrutture per la rete 5G. Le banche cinesi, come la Bank of China, hanno partecipato al finanziamento della costruzione della centrale termica di Hunutl e di diversi gasdotti.
Un altro importantissimo, e storico, alleato della Turchia sin dalla fine della guerra fredda, è la Russia. Mosca fornisce quasi la metà del gas naturale importato, oltre che il 25% delle importazioni di petrolio. La Russia sta costruendo la prima centrale nucleare turca. Il commercio bilaterale, sull’asse Mosca-Ankara, valeva 26 miliardi di dollari nel 2019: da un lato importazioni turche di energia e grano, dall’altro gli acquisti russi dei prodotti agricoli turchi. Preoccupano molto alcuni accordi, tra Mosca e le banche turche, che hanno introdotto la possibilità di pagare con «carta Mir». Mir è un circuito di pagamento russo che si avvale di conti virtuali e carte di credito, un sistema potrebbe aiutare la Russia ad aggirare le sanzioni occidentali.
Uno dei principali rivali politici della Turchia, in questi anni, sono stati gli Emirati Arabi Uniti. I due Paesi si sono accusati a vicenda nell’ultimo decennio: Erdoğan ha ritenuto colpevoli gli Emirati Arabi di aver appoggiato il tentativo di colpo di Stato del 2016. Gli Emirati Arabi hanno lamentato il sostegno turco ai Fratelli musulmani durante le rivolte arabe. Dal 2021 però, dopo un’intensa attività diplomatica, i due Paesi hanno ripreso a dialogare.
L’interesse degli emiratini a investire in Turchia è concreto. Su tutti: l’Abu Dhabi investment authority. Il piano economico, messo in standby durante le elezioni, potrebbe diventare sempre più intenso adesso.
Senza tregua è la lotta dell’attuale presidente contro l’etnia curda. Continui sono gli arresti ingiustificati di giornalisti, attivisti, tutti per presunta affiliazione al Pkk, spesso senza prove concrete. L’ultimo atto, in questo senso, è stato il bombardamento della Turchia nel Rojava, la regione curda nel nord della Siria, a novembre e dicembre del 2022. Bombardamenti e tentativi di invasione che Erdoğan riprende con ogni pretesto.
Infine, una delle questioni più complesse dei governi di Erdoğan degli ultimi 20 anni, è stata il rapporto con l’Unione europea e i Paesi occidentali. Pur avendo avviato dal 2005 i negoziati di adesione alle Ue, l’entrata ufficiale della Turchia è in stallo dal 2018, soprattutto per i continui passi indietro del Paese in materia di democrazia. Censure ai media, arresti arbitrari e la dubbia posizione sulla guerra in Ucraina, vedono oggi la Turchia più lontana che mai dall’Europa.
An.Ca.
Turchia: Da paese laico a paese islamico
Da Kemal Atatürk a Erdoğan
Nonostante la Turchia abbia una costituzione di ispirazione laica, con Erdoğan al potere, gli ultimi 20 anni costituiscono uno degli esempi più longevi di politica islamista in Medioriente. L’orientamento all’islam di Erdoğan è cominciato fino dalla sua giovinezza. Nato a Kasimpasa, quartiere povero di Istanbul, viene mandato dal padre a studiare in una scuola religiosa. Negli anni perfeziona lo studio del Corano e della vita di Maometto. Durante l’adolescenza, si unisce all’ala giovane di partiti islamico-nazionalisti, anti occidentalisti e anti semiti come l’Mnp (Milli selamet partisi). Malgrado, a un certo punto, questi partiti vengano banditi per aver violato la Costituzione turca, Erdoğan continua la sua militanza, formandosi poi con l’ideologia sulla quale si baserà per tutta la sua carriera politica: populismo e anti kemalismo (termine indicante la politica di Kemal Atatürk, ndr).
Il primo grande successo di Erdoğan arriva nel 1994, quando diventa sindaco di Istanbul. In pochi anni raccoglie milioni di consensi, facendo leva soprattutto sul «vittimismo» di molti musulmani che, dalla formazione di uno Stato turco di stampo laico, quello di Atatürk, non hanno più trovato lo spazio e l’importanza del passato.
Dal 1924, per ordine di Atatürk, in Turchia è presente un organo chiamato: Diyanet (dal turco «Diyanet işleri başkanlığı»), ovvero Direttorio per gli affari religiosi). Inizialmente il Diyanet era un ufficio nato per supervisionare gli affari religiosi, costituito per proteggere la Repubblica turca da pressioni e infiltrazioni religiose estremiste. Con Erdoğan però, esso cambia totalmente ruolo. Da quando il presidente è salito al potere, nel 2002, il Diyanet si occupa della promozione dell’Islam sunnita, sia in Turchia che all’estero, e della divulgazione dei valori della vita tradizionale. Negli ultimi 10 anni, il budget del governo destinato al lavoro del Diyanet è stato quadruplicato, oggi conta 150 mila dipendenti. Ultimo atto di questo organo amministrativo, sono state pesanti tassazioni sulle bevande alcoliche e il divieto di servirle a bordo di arei nelle tratte domestiche. Oggi Erdoğan è considerato uno dei principali leader dell’islam nel mondo. È stato soprannominato il nuovo sultano o califfo. Nel 2019, nella lista della Royal islamic strategic studies centre, si è classificato come uno dei 500 musulmani più influenti del mondo.
Angelo Calianno