La nostra inchiesta sul radicalismo islamico e le sue cause si sposta in Italia. A Ravenna abbiamo incontrato Marisa Iannucci, musulmana e islamologa. Con lei, autrice del saggio «Contro l’Isis», abbiamo parlato della posizione degli studiosi islamici e delle comunità dei fedeli rispetto all’ideologia e al terrorismo delle milizie del califfo al-Baghdadi. Ma anche della compatibilità tra islam e democrazia e del (timido) femminismo musulmano.
Marisa Iannucci è musulmana e islamologa, nonché ricercatrice e autrice del saggio «Contro l’Isis».
Impegnata a livello sociale, culturale e politico (anche come presidente dell’associazione «Life Onlus»), Marisa Iannucci ha affrontato, e vinto, diverse battaglie, tra cui quella giudiziaria a seguito di una sua dichiarazione sulla scarsa trasparenza nella gestione contabile di una moschea di Ravenna, e quella contro le intimidazioni e discriminazioni nei confronti delle donne da parte di alcune realtà islamiche italiane. Lei, donna musulmana, aveva osato sfidare «poteri forti» all’interno dell’islam nazionale ed era stata attaccata da persone e entità abituate a vincere sugli altri, a intimorirli, a imporre il proprio diktat e ad avere, da anni (dalle «primavere arabe»), la simpatia di politici e dei media mainstream. In questa prospettiva di coraggio e lucidità di pensiero e di azione, non poteva mancare il suo impegno nella denuncia di ciò che è e rappresenta il Daesh per l’islam mondiale e per l’umanità.
Le strategie comunicative del Daesh
Secondo lei, cos’è e quali sono le «cause» del Daesh?
«La guerra d’Iraq del 2003 è il terreno su cui nasce il Daesh, che è apparso per molti versi come un fenomeno nuovo, ma non lo è affatto. Ha saputo caratterizzarsi come tale grazie a una intensa strategia comunicativa, e un uso attento del web e delle tecnologie mediatiche che hanno creato nell’opinione pubblica il fenomeno del terrore come spettacolo. Ma vi sono elementi di continuità tra Isis/Daesh e al-Qa‘ida e i gruppi a essa affiliati, da cui il Daesh nasce per poi rendersi autonomo, conquistare e controllare territori soprattutto inserendosi in fratture esistenti e facilitato anche dalla guerra civile siriana. La leadership e parte dei combattenti del Daesh provengono da formazioni già esistenti, e lo stesso nucleo di al-Baghdadi è un ramo di al-Qa‘ida ribellatosi all’autorità dei capi. Anche dal punto di vista ideologico non vi sono grandi novità. L’organizzazione ha i suoi riferimenti politici e religiosi in un pensiero di tipo neo salafita wahabita come al-Qa‘ida e altri gruppi che utilizzano il terrorismo internazionale, oltre alla guerriglia, e veicola tra i musulmani una lettura letteralista dei testi per convincerli a prendere le armi per realizzare un nuovo ordine politico e sociale di tipo salafita. Il cosiddetto «califfato» di al-Baghdadi non si differenzia in questo, né nella legittimazione della violenza, né nei riferimenti teologici, dalla dottrina di Ibn Taymiyya o altri, che pure sono ampiamente distorti per la loro causa. Nonostante questo il Daesh rifiuta l’autorità di altri gruppi e ha sempre rifiutato l’arbitrato di altri esponenti islamici, perseguendo un atteggiamento assolutamente “takfirista”, ovvero escludendo e tacciando di miscredenza chiunque non sia a loro sottomesso. L’ostilità non è diretta solo contro i non musulmani (cristiani o yazidi), ma all’interno del mondo islamico contro gli sciiti (ad esempio, contro alawiti, ismailiti, drusi e altri). Va ricordato che anche i sunniti che si rifiutano di aderire alla visione del Daesh e alla sua causa sono considerati miscredenti e quindi nemici. Il Daesh è cresciuto sull’instabilità territoriale, politica e sociale, sulle macerie della guerra dell’Iraq e del governo di stampo sciita di al-Maliki (appoggiato da Usa e Iran), sotto il quale i sunniti iracheni sono stati penalizzati. Le profonde divisioni tra sciiti, sunniti e curdi hanno favorito un gruppo che senz’altro proponeva una strada per la possibile rivalsa sunnita nell’area. Ma il Daesh ha stretto alleanze con altre realtà locali in Nordafrica e in Africa – prima di tutto con Boko Haram -, e ha allargato il campo al terrorismo internazionale».
Senza dimenticare la guerra in Siria…
«La Siria è il campo di battaglia per Arabia Saudita e Iran e per chi li supporta nei loro progetti. La comunità internazionale si è trovata di fronte a una scelta: sostenere il regime siriano contro il Daesh legittimando Bashar al-Assad, dittatore che si è macchiato di crimini contro l’umanità, oppure sostenere la sua variegata opposizione, che ha numerose infiltrazioni e ciò comporta il rischio di rafforzare gruppi che un domani potrebbero costituire un’ulteriore minaccia per l’equilibrio dell’area e il futuro della Siria. Ciò che non si è stati in grado di fare è proteggere i civili da ogni fazione, e creare le condizioni per garantire il soccorso umanitario, questo è molto grave. Era necessario creare dei corridoi umanitari per garantire l’intervento delle agenzie internazionali in favore della popolazione civile: non si è fatto abbastanza in questo senso».
Il mondo islamico davanti al Daesh
Che cosa possono fare le comunità islamiche?
«Le comunità islamiche possono fare molto soprattutto fuori dai contesti di guerra, per impedire la radicalizzazione e isolare l’ideologia fondamentalista. È, tuttavia, un lavoro molto difficile, considerando che un’altra “guerra” (quella della propaganda) viene combattuta senza armi, ma con grandi somme di denaro, che arrivano anche in Europa, e con le quali si controllano centri islamici e moschee. Lo fanno anche gli stati a maggioranza musulmani come l’Arabia Saudita, il Qatar e l’Iran. Ognuno gioca la sua parte.
È importante che i musulmani in Occidente lavorino per l’integrazione, e agiscano attraverso la partecipazione politica alle società in cui vivono e la cittadinanza attiva. L’emarginazione e la povertà culturale in cui versano molti immigrati provenienti da paesi a maggioranza musulmana, in particolare Nordafrica, fornisce materiale per le attività di radicalizzazione. Grandi responsabilità hanno i governi europei e le loro politiche sull’immigrazione. Probabilmente ci sono molti mercenari nei “foreign fighters” arruolati nel Daesh, e non mancano certo gli apporti dei vari servizi segreti, ma non si può ignorare che l’indottrinamento esiste, ed è rivolto alle fasce più vulnerabili tra cui gli emarginati, disagiati anche psichici e con dipendenze da sostanze, detenuti, persone che passano dall’essere lontanissimi dalla religione al fanatismo. Si fa leva sul bisogno di riscatto, e sul risentimento di questi giovani, che non è poca cosa. Inoltre, bisogna saper dare delle risposte teologiche e politiche alle esigenze dei musulmani in epoca moderna, che siano un’alternativa al salafismo o all’islamismo dei Fratelli Musulmani».
Dal suo libro emerge che molte voci islamiche autorevoli si sono sollevate contro il cosiddetto jihadismo, dal 2014, quando ormai la situazione era diventata drammatica. Secondo lei, come mai nei tre anni precedenti, in coincidenza con lo scoppio della guerra civile in Libia (2011) e in Siria (2012), c’è stato silenzio o addirittura appoggio ad alcune organizzazioni o gruppi?
«Noi abbiamo considerato le dichiarazioni emesse a partire dal giugno 2014, ovvero dalla proclamazione del cosiddetto califfato da parte di al-Baghdadi. Volevamo fare emergere l’aspetto teologico e la delegittimazione religiosa del califfato, poiché abbiamo concepito il volume come uno strumento, nel suo piccolo, contro il radicalismo, da fare circolare anche nelle moschee. Condivido che l’appoggio di alcuni sapienti salafiti alle organizzazioni o, in misura maggiore, il silenzio di fronte al loro operato, è grave. L’idea che la profonda ingiustizia politica e sociale presente nel mondo arabo e musulmano e le ferite della storia possano essere guarite con le armi o, peggio, con il terrorismo o l’odio verso l’Occidente è presente e va isolata e contrastata dagli stessi salafiti.
Un dibattito c’è tra gli studiosi e c’è una presa di coscienza di questo, abbiamo riportato anche nel libro alcune riflessioni di esponenti del neo salafismo che fanno autocritica. Segnalo però che un grande numero di fatwa, sentenze giuridiche islamiche, sono state emesse in tutto il mondo contro i gruppi che compiono attentati terroristici e uccidono civili, e in generale contro il terrorismo di matrice religiosa. Nel libro diamo anche indicazioni per accedere ad archivi online di questi documenti, almeno dal 2001, dall’attentato alle Torri Gemelle. Al-Qa‘ida è stata oggetto di molte prese di posizione forti».
Dalle fatwa emerge che alcuni professori e scienziati islamici condannano il Daesh ma non altri gruppi jihadisti qaedisti, come Jabhat al-Nusra. Perché?
«Nel libro abbiamo preso in considerazione le opinioni dei sapienti solo sul Daesh, ma ci sono state molte fatwa anche contro al Qa‘ida e affiliati, anche all’epoca di Bin Laden. In alcuni testi tradotti nel volume emerge che il Fronte al-Nusra è stato visto inizialmente come una importante forza anti Assad, mentre il Daesh è un’organizzazione che ha contrastato e indebolito l’opposizione ad Assad. La condanna delle azioni terroristiche, però, è un punto fermo, indipendentemente dai gruppi».
Alcuni studiosi occidentali, come Massimo Campanini e Bruno Étienne, vedono nel «fondamentalismo» islamico una sorta di «potere costituente», cioè rivoluzionario, contro l’oppressione sia interna sia esterna al mondo islamico. Cosa ne pensa?
«Il pensiero politico islamico, l’islamismo nelle sue varie forme, è una importante eredità del Novecento e non va demonizzato. Il mondo musulmano ha elaborato teorie politiche diverse per risolvere i problemi dovuti al colonialismo, al sionismo, agli autoritarismi nati dalla decolonizzazione, mai avvenuta in realtà. Io credo che il pensiero di Sayyid Qutb, o di Ali Shari‘ati, ma anche di Hassan al-Banna abbia avuto un ruolo fondamentale nell’acquisizione di consapevolezza della propria condizione rispetto a queste questioni. Anche pensatori più recenti come Ghannushi hanno elaborato teorie che possiamo inserire nel quadro del costituzionalismo islamico. Ma il terreno è pieno di insidie, come abbiamo visto dopo le cosiddette primavere arabe. Si può vedere però anche in positivo. L’islamismo militante degli ultimi decenni è anche un segnale della rinascita del mondo islamico e del rialzarsi delle società civili nonostante i governi, e può essere letto come l’affermazione di una potenza costituente dell’islam. Le correnti che si rifanno alla “teologia islamica della liberazione”, e anche il femminismo musulmano, che è emerso negli ultimi decenni del secolo scorso, sono degli esempi. Nell’elaborazione politica di un potere islamico entrano discorsi complessi, come la sovranità – di Dio e del popolo – i diritti umani e la tutela delle minoranze, la forma di governo dei musulmani, lo stato e le sue fonti di legge, la shari‘a.
La questione della forma di governo, così attuale dopo il fallimento delle primavere arabe e il fanta-califfato siriano, è divenuta centrale già nel 1924, dopo la caduta dell’ultimo califfato».
Islam e democrazia
Hukûmatu-l-lah, «il governo di Dio», e hakimiyya, «la sovranità di Dio», concetti chiave dell’islamismo politico, sono contrapposti alla visione occidentale della democrazia. Che risposte danno gli intellettuali musulmani?
«Il nodo attorno cui hanno discusso e discutono ancora i teorici musulmani è la liceità per i credenti di dotarsi di un governo che abbia le caratteristiche del costituzionalismo occidentale. In particolare, può una concezione democratica, che richiede la sovranità popolare, realizzarsi in paesi dove i popoli scelgono la sovranità di Dio e quindi lo stato è confessionale, oppure indica nella costituzione il riferimento all’islam come religione di stato e alla shari‘a come fonte primaria della legge? Al momento non vi è risposta a una domanda così complessa, e il mondo musulmano sembra lontano dal trovare una soluzione: il dibattito è aperto. Diversi intellettuali musulmani contemporanei hanno elaborato teorie sia di ispirazione islamista che liberale, cercando di affrontare la problematica che, soprattutto dopo le cosiddette primavere del 2011, si è concretizzata in difficili processi di transizione democratica e, ad eccezione della Tunisia, in tragici fallimenti. Gli studiosi riformisti musulmani oggi mettono costantemente in rapporto l’islam e la democrazia, perché i progetti politici dei partiti islamisti, che, seppur si siano inseriti con successo nella competizione elettorale, hanno dimostrato grandi difficoltà alla prova di governo, prevedono, sì, la confessionalità dello stato ma non ignorano che vi sia una richiesta dalle società di maggiore partecipazione politica, tutela delle libertà, e delle minoranze. La democrazia non è una, ma ha preso nella storia forme e percorsi differenti. Non vi è ragione di credere che ciò non possa accadere anche nel mondo musulmano, che potrebbe aprirsi a nuove esperienze politiche, a meno che non si sostenga la teoria dell’incompatibilità tra islam e democrazia. Una sfida per il mondo musulmano nel XXI secolo, in cui oggi si combattono – nel Vicino Oriente – la maggior parte delle guerre in atto, è proprio l’autodeterminazione nella forma di governo.
Si tratta di elaborare una teologia islamica che tenga presente la realtà attuale, le esigenze dei nostri tempi».
Per un femminismo islamico
Marisa, cosa fa la Onlus (lifeonlus.net) di cui è presidente?
«L’associazione Life Onlus è un’associazione culturale e di volontariato fondata nel 2000 a Ravenna da un gruppo di donne musulmane di varia nazionalità. Si occupa di tutela dei diritti, con particolare attenzione alle donne e ai bambini; mediazione interculturale, per la prevenzione dei conflitti e l’educazione alle differenze, contro razzismo e discriminazione, dialogo interreligioso, solidarietà, cultura.
Io mi occupo principalmente di diritti umani e di questioni di genere, e in particolare studio i femminismi musulmani. Ritengo che la questione dell’equità di genere sia fondamentale per l’islam del XXI secolo. Le donne possono dare un grande contributo attraverso le loro battaglie di liberazione, per svegliare la coscienza dei musulmani su molti temi e per vivere questi tempi in maniera autonoma affrancandosi dal colonialismo culturale, e non solo, da cui non si sono mai liberati davvero».
Il nostro viaggio nel mondo islamico (con molte domande in cerca di risposte)
A sei anni dalla cosiddetta «primavera araba», trasformatasi in un inverno di caos, guerre e instabilità dal Nordafrica al Medioriente, con gruppi e milizie di al-Qa‘ida e del Daesh (l’Isis)1 che occupano regioni intere, con attacchi terroristici in Europa e in vari paesi islamici e il coinvolgimento delle potenze mondiali nello scenario siriano, una parte del pianeta sembra sull’orlo di un conflitto globale dagli esiti imprevedibili.
Dalla un tempo prospera Libia devastata dalla rivolta – pilotata da agenzie di intelligence inteazionali (Usa, Gran Bretagna, Francia e Qatar), insieme a combattenti islamisti giunti da Europa e mondo islamico -, e dalla guerra Nato, e ora ridotta a un cumulo di macerie e violenza, le bande armate scorrazzano per l’Africa subsahariana, alimentando tensioni e caos e giustificando la presenza in quelle zone di truppe dell’Africom2. Nell’area di Sirte, il Daesh ha creato la propria roccaforte e invita tutti i musulmani a fare la hijra, emigrazione, nello «Stato islamico» di Libia. Anche la Tunisia post primavera araba è entrata nella nebulosa di attentati terroristici e del reclutamento di combattenti islamici; in Algeria, al-Qa‘ida (Aqi) e il Daesh si contendono territori e militanti; l’Egitto, paese chiave tra Africa e Asia islamiche, è preda di gravi problemi economici e instabilità politica (mentre chiudiamo questo numero un attentato dell’Isis ha fatto almeno 25 morti in una chiesa cristiano-copta de Il Cairo, 11 dicembre 2016, ndr).
In questo scenario drammatico, i già complicati rapporti tra «occidente» e «mondo arabo e islamico», sembrano ingarbugliarsi ulteriormente, con accuse reciproche di ingerenze, violenze e destabilizzazioni. I fedeli musulmani, come quelli cristiani, ripetono che la loro religione è pace e tolleranza, e che l’islam affonda le proprie radici nel concetto di sottomissione a Dio. Ma è vero? Oppure esistono dottrine, all’interno del mondo islamico, che predicano la guerra permanente contro tutti coloro che non le seguono (musulmani compresi)? E da dove derivano la propria «autorità» e dottrina formazioni terroristiche come al-Qa‘ida e il Daesh? Queste dottrine hanno trovato spazio tra le comunità musulmane europee e in che modo? Questi network del terrore sono utili alle agende occidentali e mediorientali?
In questo e nei prossimi articoli discuteremo di tutti i temi accennati sopra con studiosi, ricercatori e rappresentanti del mondo musulmano, per tentare di trovare spiegazioni ed eventuali strade di pacifica convivenza in un mondo dilaniato dai conflitti.
Angela Lano
Note dell’Introduzione:
(1) Daesh (D?’ish): acronimo di «al-Dawla al-Isl?miyya f? al-‘Ir?qi wa sh-Sh?m» (in cui «al» è l’articolo), Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (Islamic State of Iraq and Syria, ovvero Isis nell’acronimo inglese), chiamato anche Stato islamico, Is.
(2) Africom: US Africa Command. Il contingente di soldati e contractor statunitensi in Africa (www.africom.mil).
L’articolo
Comprendere (tra paure e diffidenze)
Con il salafismo si è affermata un’interpretazione letterale, dogmatica, atemporale e astorica dei principi religiosi islamici. Con il Daesh – lo Stato islamico – si è giunti al limite estremo, arrivando a costruire un «islam fai da te» con cui i «jihadisti» giustificano il proprio comportamento. Compresi ovviamente gli atti di terrorismo che, con il sangue e i morti, hanno fatto dilagare paure e diffidenze. Il salafismo si è diffuso in gran parte del mondo islamico sulla spinta dei capitali dell’Arabia Saudita e del Kuwait. Solo il Marocco è riuscito – per il momento – a fermare l’infezione.
Cominciamo il nostro viaggio nell’islam contemporaneo dal Marocco. Negli ultimi anni, il paese nordafricano ha conosciuto attentati – Casablanca nel 2003, e Marrakech nel 2011 -, e il reclutamento di terroristi. Recentemente circa 400 suoi cittadini si sono uniti al Daesh per combattere in Siria.
Molti di questi appartengono a classi medie, benestanti ma scarsamente istruite. Avevano iniziato a frequentare moschee e centri islamici di orientamento salafita, che hanno modificato la loro visione della vita, della religione e i loro comportamenti sia in famiglia sia in società.
In Marocco, come in altre regioni del Nordafrica e dell’Africa subsahariana, il salafismo wahhabita1, sponsorizzato da Ong saudite e kuwaitiane, si sta diffondendo, grazie a ingenti capitali, strutture e predicatori indottrinati in Arabia Saudita.
Il regno del Marocco, che segue il sufismo2 della confrateita tijaniyya3, contrasta questo fenomeno con centri islamici e istituzioni controllate dal governo e indirizzate verso l’islam ortodosso lontano dagli estremismi salafiti. Polizia e intelligence fanno il resto, non perdendo di vista gli esaltati.
La resistenza del Marocco
Medina di Fez, agosto del 2016. Incontriamo Mohammad Boukili, docente e studioso marocchino, laureato in filosofia islamica.
Prof. Boukili, lei ha conosciuto personalmente alcune delle persone che si sono unite al Daesh?
«Sì, alcune erano conoscenti di lunga data. Quattrocento jihadisti è un numero importante, ma non è così grande come in altri paesi.
Si tratta di individui con scarsa istruzione, hanno seguito le predicazioni dei seguaci del Daesh, che a loro volta vengono indottrinati da persone più competenti e sostenute economicamente.
In molti casi non si tratta di poveri: quelli che conoscevo avevano ereditato beni, case; erano sposati. Erano poveri a livello culturale, questo sì. Ricordo uno in particolare (chiamiamolo Ahmad), perché la sua visione ideologica emergeva anche nelle discussioni in famiglia. Odiava il sufismo e, qui in Marocco, la maggior parte della popolazione segue questa dottrina, anche se da qualche anno in parlamento siede come partito di maggioranza “Giustizia e Sviluppo”4, ideologicamente vicino alla Fratellanza musulmana, quindi a un islam più politico.
Il mio conoscente che si è unito al Daesh aveva iniziato a imporre alla sua famiglia, a sua madre, atteggiamenti e scelte che non facevano parte della tradizione familiare e locale. Alla vecchia mamma ha strappato via il rosario islamico con cui ella pregava e l’ha costretta a non frequentare più la zawiya5, in quanto luogo di kufr, miscredenza. Per i salafiti, il sufismo è, appunto, una forma di miscredenza e va perseguitato.
Prima della “conversione” radicale, Ahmad era molto occidentalizzato, beveva vino… Dopo essersi sposato, aveva deciso di farsi crescere la barba, aveva cambiato modo di discutere. Aveva iniziato a citare Ibn Taymiyya6. Quando parlava con me recitava frasi per le quali sarebbe stato necessario riflettere accuratamente. Ognuna aveva un certo peso, invece lui le lasciava uscire così, con leggerezza. La situazione è andata peggiorando, finché è partito per la Siria.
È rimasto coinvolto in questo giro di fanatismo anche un nipote di Ahmad, figlio del fratello: riceveva foto dello zio, dalla Siria, sul suo cellulare, e i servizi di intelligence, che evidentemente controllavano tutta la famiglia e i parenti, lo hanno arrestato in quanto simpatizzante; probabilmente l’hanno preso prima che si unisse al gruppo. Durante il processo ha detto al giudice che non voleva andare in Siria ma che “loro hanno ragione”. Sua moglie indossava il neqab, il velo nero integrale che copre anche il volto, anche quando andava a trovarlo in carcere. Dal punto di vista ideologico era uno di loro. È stato condannato a due anni di carcere, come è previsto dalla legge».
In Marocco i salafiti sono tenuti d’occhio, dunque.
«Sì. Dopo gli attentati del 2003 sono molto controllati. La polizia fa retate periodiche. Qui a Fez i salafiti hanno aperto una scuola coranica dove offrono scolarizzazione, ma anche propaganda. Per fortuna, con i giovani marocchini il loro proselitismo non ha successo: i ragazzi vanno su internet, sono informati, amano certe cose e non è facile manipolarli con idee che li farebbero tornare indietro di mille anni.
Gli stessi figli di questi salafiti o dei jihadisti non condividono le visioni dei padri, come è avvenuto per i ragazzi di Ahmad: non lo seguivano nei suoi discorsi. Dicevano che il padre aveva la testa troppo chiusa. Un altro elemento importante è che il nostro Re ha sempre lottato contro questa dottrina».
Interpretazioni atemporali e astoriche: l’islam-fai-da-te
Lei considera il salafismo wahhabita una dottrina deviata?
«Il salafismo ha introdotto molte novità, bid‘a, proibite nell’islam. Un tempo esisteva la dialettica, animata dalla filosofia. Poi, a un certo punto della storia del mondo islamico, questa è stata ritenuta pericolosa. La ragione, la logica, sono morte, e ha prevalso il letteralismo dogmatico e pieno di regole, legato a un’interpretazione fissa, atemporale e astorica dei principi religiosi.
Pensiamo solo a quando governavano i turchi, cioè l’Impero Ottomano, cosa facevano gli ‘ulema, gli scienziati musulmani? Facevano dimenticare alla gente la sofferenza, la riempivano di regole… Tutta questa esteriorità ha lo scopo di far allontanare i credenti dalla vera spiritualità».
Il Daesh, in quanto emanazione della dottrina salafita wahhabita, è dunque un’ideologia deviata del sunnismo?
«Certo, l’islam non è questo. Nel Daesh danno un’interpretazione restrittiva e letteralista, basata su certi hadith. Di hadith ce ne sono così tanti che ognuno potrebbe scegliere ciò che più giustifica il proprio comportamento. Così fanno loro: scelgono un hadith e si autorizzano da soli. È l’islam-fai-da-te».
In Europa ci sono giovani che seguono il Daesh, che si fanno indottrinare da predicatori e poi si uniscono allo “Stato islamico”. Come lo spiega?
«Ho vissuto dieci anni in Italia, dove insegnavo nelle università. Mio padre viveva tra Francia e Italia, e faceva l’imam. In Francia lo chiamavano per fare scuola coranica ai giovani nei centri islamici. I suoi allievi erano figli di arabi, ragazzini emarginati e spesso violenti delle periferie. Seguivano – perché vi erano costretti dalle famiglie – le sue lezioni, dove venivano insegnati i principi etico-morali dell’islam, ma usciti di lì continuavano a comportarsi male.
È da quelle sacche di emarginazione sociale giovanile, con integrazione mancata, che arriva il terrorismo islamico in Europa. Questi giovani, a un certo punto incontrano predicatori salafiti che li indottrinano, dando all’Occidente tutte le colpe della loro situazione. Dunque, su una base di odio sociale si inserisce la dottrina del takfir7, e il resto è fatto».
I (finti) misteri del Daesh
Fez, medina al-Jadid (città nuova), sede del «Consiglio superiore degli ulamâ», gli scienziati musulmani, un’organizzazione nazionale che fa capo al Re e al ministero dell’Educazione del Marocco.
È un’ampia costruzione con giardino interno da cui si diramano varie sale. Il centro forma imam e murshidun e murshidat (guide religiose), uomini e donne. Qui incontriamo uno dei responsabili, che preferisce non rivelarci il proprio nome.
Il Daesh sta creando problemi in Africa e Medio Oriente, e in Occidente. Come lo considerate?
«Il Daesh non fa parte dell’islam. Hanno capito l’islam molto male. Il terrorismo non fa parte di questa religione. Né l’Occidente né il mondo islamico hanno capito cos’è veramente l’islam. Bisogna tornare al Corano, alla sunnah. L’islam è tolleranza, non estremismo».
Allora il Daesh su cosa basa la propria legittimità?
«Sulla propria cattiva comprensione dell’islam. Prendiamo il termine jihad8 nella sua accezione di sforzo militare: ci sono norme che lo regolano. Non è possibile che un gruppo decida per conto proprio. Daesh ha trasformato l’obbligo collettivo (fard al-kifaya) in individuale (fard el-‘ayn) soggetto, cioè, alla decisione del singolo e non più dell’intera comunità, e questo non è corretto».
Allora, qui ci si chiede, il Daesh chi è? Chi l’ha creato?
«Chiunque riceva soldi e armi può creare un’organizzazione come questa.
Sono dei delinquenti che interpretano i testi a modo loro. L’islam non accetta l’assassinio.
Chi ha creato il Daesh sono gli stati o le persone che beneficiano dei proventi del petrolio e chi soffre a causa di questa organizzazione sono soprattutto i musulmani stessi. Infatti, la maggior parte delle persone uccise dal Daesh sono musulmane. Tutti noi siamo responsabili e dobbiamo difendere i nostri valori.
Chi dà le armi al Daesh? L’Europa e gli Usa; l’Arabia Saudita è un’intermediaria. L’Iraq, per esempio, dove il Daesh ha una parte dei suoi domini, è un laboratorio per sperimentare tali armi.
Poi arriviamo al paradosso di un al-Baghdadi che si dichiara “Am?r al-Mu’min?n”, principe dei credenti. Ma non è possibile! Non ha alcuna autorità e potere per dichiararsi tale».
Gli imam vanno formati
Il Marocco cosa fa per contrastare il proselitismo del Daesh?
«Il punto di forza del Marocco è che forma imam. Lo stato ha deciso di formare imam e guide religiose – murshidun – sia uomini sia donne: devono essere laureati e sottoporsi a un anno di formazione specialistica. Il loro ruolo è quello di dare lezioni nelle moschee e anche di controllarle. Controllare, cioè, che non vengano diffusi insegnamenti errati che incoraggiano lo sviluppo del radicalismo. Inoltre, danno consigli scientifici e religiosi. In ogni prefettura c’è un centro come il nostro, che si occupa della formazione di queste guide. Sono 80 in tutto, i centri formativi in Marocco.
In ciascuna sede ci sono sale di conferenza che ospitano 600 persone. Siamo una realtà statale e dipendiamo direttamente dal Re in quanto Am?r al-Mu’min?n. Lui è il presidente del Consiglio scientifico religioso e ha rapporti diretti con il ministero dell’Educazione per indicare le vie corrette nelle scuole e nei libri didattici».
Angela Lano
NOTE
(1) Il salafismo è una scuola di pensiero (un metodo) dell’Islam sunnita che si rifà ai «salaf al-?ali??n» («i pii antenati», «precedessori»), ovvero le prime tre generazioni di musulmani (VII-VIII secolo), che vengono considerate modelli da seguire. Dal salafismo ha avuto origine il neosalafismo: un’ideologia rivolta sia alle masse arabe diseredate sia alle classi medie (e alte, in certi casi), trasformandosi in movimento «anti-intellettuale» e reazionario, divenendo espressione di forme di fondamentalismo, fino alle estreme conseguenze del salafismo jihadista attuale. Wahhabismo: movimento fondato nel 1700 da Muhammad ibn Abd al-Wahhab, teologo arabo della scuola giuridica hanbalita. Attualmente è la dottrina di stato in Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, Kuwayt e in altri paesi.
(3) Tijannyya. Si tratta di un ordine sufi sunnita, originario del Nordafrica, diffusosi poi nell’Africa occidentale. È presente in Marocco – la Casa reale e la maggior parte della popolazione -, in Senegal, in Mauritania, Niger, Chad, nord Nigeria, parte del Sudan, e altri stati.
(4) «Hizb ‘adâla wa tanmia». È stato riconfermato partito di governo nelle elezioni marocchine del 2016.
(5) Zâwiya (oppure ribat in arabo e tekke in turco): è il luogo dove vivono o si riuniscono i musulmani che appartengono alle confrateite sufi. Sono anche locali che assolvono compiti di istruzione, accoglienza o sanitari.
(6) Ibn Taymmyya. Teologo e giurista musulmano, vissuto a Damasco tra il XIII e il XIV secolo e appartenente alla scuola hanbalita, la più severa delle madhhab sunnite. È il teologo-icona del radicalismo islamico, dai movimenti salafiti più moderati fino al Daesh.
(7) Takf?r: dichiarare un musulmano miscredente. Il takfirismo è un «movimento» fondamentalista di musulmani che fanno dell’accusa di miscredenza rivolta ad altri correligionari una delle basi portanti della loro ideologia. È emerso soprattutto con la guerra civile in Siria e la diffusione di organizzazioni come il Daesh e al-Nusra, che hanno diviso drammaticamente il mondo islamico, costringendolo a un conflitto e spaccando precedenti alleanze e cornoperazioni.
(8) Jihâd: sforzo. Nella maggior parte dei casi in Occidente è tradotto come «guerra santa», ma è una generalizzazione. La radice «jhd» ha il significato di sforzo, compromesso, lotta interiore, applicazione con zelo. La forma verbale «jâhada» significa «lottare contro qualcuno», ma «al-jihâd fî sabîl Allâh» è «lo sforzo/lotta sul cammino di Dio», uno «sforzo sacro». L’Islam distingue due tipi di jihâd: il «grande jihâd», che è contro le proprie passioni, contro l’anima che si perde (nafs ammâra bi-s-sû’: l’ego che indirizza verso il male o ordina il male), è lo sforzo nel cammino del bene, sociale o personale; è la perseveranza nella fede e nelle avversità della vita; il jihâd minore, o «piccolo jihâd» (jih?d al-as?aru): sforzo militare difensivo, che deve essere fatto con le armi per la difesa della comunità, la ummah e il Dâr al-Islâm, il territorio dell’Islam, quando è minacciato dai nemici. Ciò non ha nulla a che vedere con la guerra indiscriminata, con i genocidi di popolazioni, le torture, i cadaveri fatti a pezzi, gli organi interni mangiati, gli stupri. Il jihad come sforzo militare è un concetto che si presta a interpretazioni e utilizzi differenti, a seconda delle scuole giuridiche e delle correnti.
L’approfondimento
Le «murshidat», predicatrici islamiche (che non sono imam)
Da oltre dieci anni, il governo del Marocco forma le murshidat, predicatrici, donne laureate, per insegnare e tenere conferenze nelle moschee e nei centri islamici del Regno e all’estero. Tra queste ci sono teologhe islamiche con dottorati in università prestigiose. «Il nostro compito è insegnare i principi islamici – ci spiegano – come la compassione, la tolleranza, la pace, e tenere lontani dal fondamentalismo».
Periodicamente, alcune di loro sono inviate nei paesi europei dove vivono molte donne musulmane immigrate, per aiutarle nei vari ambiti della religione e della vita quotidiana.
Le murshidad lavorano anche per diffondere l’istruzione, l’educazione e aiutare le donne ad allevare i propri figli. Esse rappresentano un aspetto della svolta al «femminile», iniziata nel 2004 con la riforma del codice di famiglia marocchino, la moudawana, che ha portato all’introduzione di più diritti e tutele nei confronti delle donne.
Tali figure rappresentano un insieme di «religiose» e «assistenti sociali», e dipendono dal ministero marocchino degli Affari islamici. Hanno un livello culturale e accademico elevato. Si occupano di islam, ma anche di problemi sociali e psicologici.
Prima di iniziare a svolgere il loro compito, si preparano per un anno in centri ad hoc (si veda l’articolo) e, una volta diplomate, sono inviate nelle varie regioni del Marocco a predicare un islam moderato e rispettoso dei diritti civili e femminili.
Il curriculum delle predicatrici annovera un’ampia cultura generale – storia, religione, geografia, sociologia, psicologia, management, legge, codice di famiglia, lingua araba – e la conoscenza di almeno metà del Corano, studiato a memoria.
Le murshidat sostengono le varie attività nelle moschee e affiancano gli imam. Ma l’obiettivo privilegiato, sottolineano, è il sostegno alle donne, alle giovani generazioni, alle famiglie. Sono tutte concordi sul fatto che il Corano e il profeta Muhammad abbiano garantito rispetto e diritti alle donne, ma che i musulmani, nel corso dei secoli, se ne siano dimenticati e che il testo sacro islamico sia stato spesso «frainteso».
Una delle loro missioni fondamentali è quella di educare a una fede non politica o ideologica, lontano dagli eccessi radicali. Infatti, dopo gli attentati terroristici a Casablanca, nel 2003, il governo marocchino pensò che fosse importante e necessario promuovere una visione della religione tollerante e non aggressiva per combattere le tendenze estremiste.
È bene chiarire, tuttavia, che le murshidat non sono delle «imam al femminile», in quanto a loro non è permesso guidare la preghiera in moschea.
Terrorismo e fondamentalismo islamico rischiano di riaccendere uno «scontro di civiltà» nei paesi europei. In questa situazione, che ruolo possono giocare le seconde generazioni?
Negli ultimi mesi terrorismo e fondamentalismo islamico sono tornati prepotentemente sulle prime pagine dei giornali, portando con sé un’isteria collettiva che richiama le paure dello «scontro di civiltà». Il terrorismo e i suoi effetti collaterali hanno, infatti, ricadute importanti sulle stesse comunità islamiche in Europa e sul faticoso processo di integrazione nelle comunità in cui si trovano. Ai musulmani che vivono nei paesi europei viene chiesto con forza di prendere posizione: condannando, dissociandosi dagli estremisti, cercando spiegazioni ai gesti folli, per «tranquillizzare» le società in cui vivono. Gioalisti e accademici si sforzano allora di inquadrare nuove figure con cui poter dialogare, da poter «integrare» o già «integrate»: il «musulmano moderato», il «musulmano europeo». Cercando di dare etichette, però, talvolta, si viene a generare ancora più confusione, rendendo sempre più difficile trovare interlocutori adeguati perché, al di là delle prese di posizione pubbliche e ufficiali, molti sono i punti critici che rimangono aperti: l’esistenza o meno di un Islam europeo o italiano, l’influenza dell’Islam politico, il rapporto tra sfera politica e sfera religiosa, il ruolo della secolarizzazione.
A questi elementi va aggiunta la crescita di una nuova generazione di musulmani di origine straniera in Italia che, nell’ultimo decennio, ha raggiunto l’età adulta, e il confronto (talvolta lo scontro) tra padri e figli sulla diversa visione della religione e del ruolo di questa nella società d’adozione, sulle nuove forme di riappropriazione di rituali, tradizioni e usanze, sulla rivisitazione e rinegoziazione di pratiche e credenze, che riflette una crescente autonomia soggettiva dei più giovani dalla cultura ereditata. La partecipazione a un contesto democratico, l’uso di una lingua differente da quella della propria comunità d’origine, l’immersione totale in luoghi di socializzazione italiana condizionano, infatti, le scelte dei giovani musulmani, contribuendo significativamente a una messa in discussione e, spesso, a una reinterpretazione critica dell’appartenenza religiosa. Come ha scritto la ricercatrice Anna Granata, i giovani spesso scelgono «una loro via, cercando compromessi e nuove sintesi, ponendosi domande sulle tradizioni che hanno ereditato, vivendo la fede in un modo personale e autentico e non sull’onda di un’adesione acritica».
Si riscontra, insomma, un progressivo distacco da un Islam «etnico» e l’affermazione di una relazione personale con la dimensione religiosa. I giovani musulmani non vedono più l’Islam come una mera riproduzione di pratiche religiose del paese di origine dei genitori in un nuovo contesto. L’appartenenza religiosa delle seconde generazioni si configura piuttosto come uno stile di vita legato a una scelta: scelta che aiuta a comprendere sé stessi e sentirsi parte attiva della società.
Viviana Premazzi
Musulmani d’Italia
In Italia, l’appartenenza religiosa, in quanto dato sensibile, non viene rilevata dalle analisi Istat. Per questo le stime, foite dai diversi enti e istituti di ricerca, possono variare significativamente: il Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni) nel 2012 parlava di 115mila musulmani italiani, tra immigrati e convertiti, Camillo Regalia di Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) alla conferenza Metropolis del 2014 li stimava in 258mila. Più alti sono invece i numeri foiti dal Pew Forum on Religion and Public Life: nel 2010, secondo l’istituto, i musulmani in Italia erano già 1.583.000, dato che si avvicina a quello dichiarato dal presidente dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane) 1 milione e 700mila, e stimato nel Dossier Immigrazione 2015 curato da Idos (Centro studi e ricerche): più di 1 milione e 600mila. Tra i musulmani, oltre agli immigrati di prima generazione, troviamo ora anche una consistente presenza di «musulmani di seconda generazione», ossia giovani di fede musulmana e di origine immigrata, ma nati in Italia. (Vi.P.)
L’analisi
Stessa fede, modalità diverse
La prima generazione di immigrati musulmani ha visto l’Islam come un elemento di
riconoscimento e rafforzamento identitario e come un antidoto alla solitudine e all’isolamento. La seconda generazione (ovvero i figli) non rifiuta la religione, ma ha avviato un (lento) processo di revisione critica e di adattamento al contesto di vita del paese d’adozione. Nel contempo, l’affermazione delle nuove tecnologie ha anche facilitato la diffusione di visioni radicali.
Ragionare di religione in emigrazione spesso significa tracciare una linea di confine netta fra la religiosità della prima generazione e quella della seconda, ritenuta spesso più secolarizzata. Tuttavia, risultati di indagini empiriche recenti come quella realizzata da Abis Analisi e Strategia nel 2011, G2: una generazione orgogliosa1, hanno mostrato, invece, che la religione può giocare un ruolo significativo anche nelle vite dei giovani di seconda generazione, contrariamente a quanto l’esperienza degli immigrati europei dei secoli scorsi aveva evidenziato2.
L’esperienza migratoria, infatti, è certamente esposta a pressioni assimilazioniste, ma, per contro, è anche un’esperienza in cui, in presenza di un grado sufficiente di tolleranza e di possibilità d’espressione, i migranti tendono a riscoprire e riproporre le loro tradizioni e identità religiose3. Questo è particolarmente vero quando entrano in campo i figli e quindi la trasmissione dell’identità culturale.
Spesso per la prima generazione il fatto di trovarsi in una realtà nuova, senza riferimenti linguistico-culturali familiari, ha favorito il ricorso alla religione come elemento di riconoscimento e rafforzamento identitario, ma anche come antidoto alla solitudine e all’isolamento. Questo soprattutto perché la frequentazione delle moschee e dei luoghi di culto permetteva l’incontro con connazionali con cui condividere esperienze e bisogni. È però con il passaggio da una migrazione temporanea (o percepita come tale) a una di radicamento e stabilizzazione che si sono concretizzate nuove forme associative per la trasmissione della propria religione ai figli e nuove richieste nei confronti della società italiana, ad esempio riferite alla libertà di culto.
La pratica religiosa in un nuovo contesto
La socializzazione dei giovani in Italia dà vita a percorsi autonomi di relazione con il sacro: nascono nuove riflessioni sulla propria identità personale e sull’appartenenza religiosa personale e collettiva. La fede non viene abbandonata, ma rivista e adattata al contesto di vita quotidiano, traducendosi in un pluralismo valoriale che rivendica un proprio riconoscimento4. I giovani infatti spesso scelgono «una loro via, cercando compromessi e nuove sintesi, ponendosi domande sulle tradizioni che hanno ereditato, vivendo la fede in un modo personale e autentico e non sull’onda di un’adesione acritica»5. Studiando l’idea che i figli hanno del contesto religioso familiare, si riscontra l’avvio di un processo di revisione e reinvenzione delle pratiche religiose. Se per le prime generazioni vivere la propria fede in emigrazione significa spesso mantenere anche le tradizioni religiose-culturali del paese di origine, per i figli non è più così. Le strategie di adattamento sono molteplici e in alcuni casi si riscontra un certo interesse per l’approfondimento dei contenuti fondamentali della propria fede, per reagire a un contesto di vita in cui coesistono secolarizzazione e pluralismo religioso, fenomeni che mettono in discussione valori e principi tradizionali6.
Come evidenzia la professoressa Jocelyne Cesari (University of Birmingham) a proposito dei musulmani in Francia, anche la secolarizzazione in atto nel paese ha influenzato i giovani musulmani spingendoli, in molti casi, a individualizzare e privatizzare la loro religione. Questi processi, secondo Oliver Roy (Istituto universitario europeo), mettono anche in discussione l’idea stessa di una comunità musulmana «unica» in Europa: «Non esiste un Islam occidentale, esistono musulmani occidentali». L’individualizzazione può significare maggiore libertà di adattare alcune regole a determinati contesti o di sviluppare forme inedite di mescolanze e sincretismo, ma può anche portare a orientamenti fondamentalisti e radicali, tendenza ulteriormente complicate dalla diffusione delle nuove tecnologie che ha aggiunto nuove opportunità ma, parallelamente, nuovi rischi. L’uso di internet e dei canali satellitari può infatti portare allo sviluppo di interpretazioni «bottom up» dell’Islam (interpretazioni fai da te della religione), un Islam «cut and paste» (un Islam taglia e incolla che ognuno si costruisce prendendo quello che più gli piace o gli fa comodo), eclettico, dal quale le persone possono prendere ispirazione a seconda delle proprie preferenze. L’incontro online con particolari messaggi o predicatori può anche legare i giovani nati in Italia a pratiche religiose lontane dalle loro esperienze familiari e favorire la diffusione di visioni radicali e inconciliabili con il contesto di vita, producendo situazioni d’isolamento e straniamento che portano a rifugiarsi sempre più in ambienti «protetti», nella rete o nella vita reale.
Oltre le moschee e i centri islamici
Il crescente individualismo dei giovani musulmani con riferimento alla fede islamica può essere collegato alla perdita d’autorità delle organizzazioni religiose, che non sono più in grado di trasmettere i loro valori e di rispondere alle domande e ai bisogni delle nuove generazioni. Per gli adulti immigrati e quindi per le istituzioni da loro create (moschee e centri islamici) è infatti difficile comprendere fino in fondo il contesto in cui i giovani crescono e socializzano. Alle difficoltà e alle paure dei genitori che i figli seguano l’esempio dei coetanei italiani e quindi perdano i propri valori tradizionali, fa da contraltare, però, la cosiddetta «forza della numerosità», che sta diventando un aspetto importante nel rapporto fra giovani e religioni. Per i figli dell’immigrazione, infatti, la sensazione di essere «come un pesce fuor d’acqua» si manifesta quando essi assumono comportamenti che li distinguono dalla maggioranza dei coetanei. Tuttavia, l’aumento della visibilità delle famiglie musulmane, del numero degli studenti che a scuola si dichiarano musulmani, delle ragazze che indossano il velo e di un protagonismo associativo legato alla religione può diventare un terreno favorevole all’emersione di identità religiose latenti, inibite dal timore della discriminazione. La religione e le associazioni religiose create dalle seconde generazioni, in questi casi, sembrano soddisfare il desiderio di trovare un punto di riferimento morale e il proprio posto nel mondo, evidenziando la propria originalità, all’interno di una precisa appartenenza. L’Islam praticato insieme ai propri coetanei offre stabilità, un quadro in cui si può vivere da musulmani nella società italiana, continuando però a interrogarsi sia rispetto all’identità religiosa dei propri genitori in Italia, sia rispetto all’identità religiosa percepita nei paesi d’origine, in cui essere musulmano va per così dire da sé e determinati comportamenti non richiedono continue giustificazioni, come invece avviene in Italia.
Le associazioni musulmane dal «chi siamo» al «cosa possiamo fare»
La nascita di associazioni musulmane di seconda generazione, come ad esempio quella dei «Giovani Musulmani d’Italia», ha attirato l’attenzione degli studiosi sociali per la sintesi che tali realtà sembrerebbero esprimere tra religiosità dei padri e religiosità dei figli e per la capacità di porsi come musulmani in Italia, protagonisti nella costruzione della società italiana. Le associazioni sembrano infatti esprimere la richiesta di uguaglianza di questi nuovi italiani che non si limitano a chiedere di essere riconosciuti come cittadini liberi di professare le proprie convinzioni religiose, ma domandano anche di partecipare attivamente alla società, al pari dei loro coetanei non musulmani. Oltre quindi a offrire formazione e aggregazione per i propri membri, le associazioni superano l’atteggiamento rivendicativo di diritti tipico delle prime generazioni e, forse considerando ormai acquisito il loro riconoscimento in quanto associazioni di italiani musulmani, guardano al di là dei confini della propria religione e della propria cultura di origine per proporre e realizzare insieme ad altre associazioni e singoli italiani progetti e attività in ambiti diversi. Ci troviamo quindi in presenza di una nuova generazione che non si accontenta più solo di esserci, ma che vuole partecipare attivamente alla costruzione di significati, che cerca quotidianamente di conquistare i propri spazi di azione e rivendicazione, sia rispetto alle prime generazioni sia rispetto all’intera società italiana. Superato il passo del «chi siamo», ora le associazioni sembrano cercare di rispondere alla domanda del «che cosa possiamo fare» in relazione al contesto sociale in cui sono inserite. Per le seconde generazioni, il riferimento all’immigrazione e alla diversità deve essere abbandonato: la relazione è sullo stesso piano, tra (quasi) cittadini7, ovvero tra residenti che si impegnano per il bene comune della comunità e della città in cui vivono.
Il cambiamento è significativo: da immigrati considerati destinatari di interventi, i giovani musulmani vogliono diventare coprotagonisti nei processi di costruzione delle politiche pubbliche. La seconda generazione perciò non confina più l’Islam a una questione personale, «da immigrati», ma cerca di far entrare il discorso religioso nel più ampio dibattito pubblico sul pluralismo, liberandolo dai suoi legami con l’immigrazione, di cui spesso i nuovi attori non hanno alcuna esperienza.
L’obiettivo di partecipazione si è tradotto, nei fatti, in un’idea di cittadinanza «praticata». La seconda generazione aspira a essere riconosciuta come partner, ad avere un ruolo attivo negli eventi culturali delle città, a intervenire laddove possibile nei processi decisionali sostenendo l’idea che l’Islam è compatibile con forme di cittadinanza attiva.
Le associazioni: i punti critici
Le aspirazioni però spesso si scontrano con la realtà, che vede le associazioni di seconda generazione, pur apprezzate da gran parte dei gruppi politici locali, non ancora completamente in grado di rappresentare l’Islam davanti alle istituzioni, anche per tensioni intee alla comunità islamica soprattutto riguardo ai processi di selezione delle leadership.
Un altro aspetto importante da mettere in luce è la relazione di queste associazioni con i propri membri. Essa infatti pone anche dei rischi, come ad esempio, quello di porsi come l’«unica vera via», quasi che l’appartenenza associativa risulti più importante dell’appartenenza religiosa, al punto che solo l’associazione possa pretendere di porsi come rappresentante dell’Islam. Il rischio è anche che, per i membri, le associazioni possano trasformarsi in un ghetto che chiede alla società italiana spazi di partecipazione e di riconoscimento, ma esclude anime e visioni diverse al proprio interno. Se le associazioni possono infatti configurarsi come un ponte tra la cultura islamica e occidentale, come pure tra i padri e i figli della nuova presenza musulmana in Italia, il rischio è che si trasformino in realtà che aderiscono incondizionatamente al pensiero dei padri o che cercano di riproporre modi di vita e pratiche proprie dei contesti di origine. Si tratta di un rischio concreto soprattutto in relazione alle modalità con cui si strutturerà nei prossimi anni l’egemonia religiosa e culturale nel confronto tra le generazioni. La sfida è rappresentata dalle relazioni che si sviluppano con la generazione dei genitori e dal modo in cui interagiscono con le esigenze della fedeltà e il conformismo. Questioni come l’autorità e la rappresentanza hanno, infatti, strettamente a che vedere con le dinamiche intergenerazionali, anche in relazione al modo in cui le prime generazioni considereranno l’Islam dei figli: se confinato in associazioni giovanili di «eternamente giovani», se cornoptato per influenzae gli orientamenti o se riconosciuto come una «terza via» in grado di esprimere autorità e rappresentanza (viste le competenze relative al contesto italiano e a quello di origine). La sfida ancora tutta da giocare riguarderà proprio la capacità dell’associazionismo islamico di sviluppare processi trasparenti di formazione delle leadership, in grado di garantire indipendenza e pluralismo. Al momento la creazione di una propria leadership è una delle questioni più importanti con cui si sta confrontando l’Islam in Italia. Il processo di selezione, in particolare rispetto ad alcune realtà associative giovanili, rischia di essere connotato da derive nepotiste, soprattutto per quanto riguarda la formazione teologica e culturale dei quadri, restando ancora troppo orientata verso (e influenzata da) i paesi di origine.
Viviana Premazzi
Note
(1) Abis Analisi e Strategia, G2: una generazione orgogliosa, Rapporto di ricerca, Milano 2011. (2) Joceyline Cesari, Sean McLoughlin, European Muslims and the Secular State, Ashgate, London 2005. (3) Viviana Premazzi, Religioni in migrazione. Intervista a Maurizio Ambrosini (Milano, 27 novembre 2014), in Giovanni?Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016, pp. 75-77. (4) Joceyline Cesari, Andrea Pacini, Giovani Musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005. (5) Anna Granata, Di padre in figlio, di figlio in padre. Il ruolo innovativo delle seconde generazioni nelle comunità religiose di minoranza, «Mondi migranti» 3 (2010), pp. 86-100. (6) Cfr. Luisa Deponti, Migrazione e religione: la prospettiva dei giovani della seconda generazione, «Corriere degli Italiani», 3 ottobre 2012. (7) Diciamo «quasi» perché molti musulmani, pur nati in Italia, non hanno ancora la cittadinanza, dato che la legge attuale non è basata sullo «ius soli».
L’esperienza
Oratori, un passo avanti
Nato come luogo di rafforzamento della religione cattolica tra i più giovani, da qualche anno l’oratorio ha attenuato questa caratteristica originaria. Oggi, soprattutto nelle regioni del Centro Nord, l’istituzione accoglie molti ragazzi stranieri – i numeri parlano del 20-25% -, indipendentemente dal loro credo religioso. Per gli stranieri la motivazione è quasi sempre strumentale e la grande maggioranza dei genitori dei ragazzi non partecipano alle attività. Tuttavia, il ruolo che giocano gli oratori nel superamento delle differenze è rilevante.
Nel contesto italiano, in particolare nel Centro Nord, l’oratorio è rimasto nel tempo un luogo importante di socializzazione e punto di riferimento sotto diversi aspetti per molti bambini e adolescenti, oltre che per le loro famiglie.
Anche se la dimensione religiosa è la base e il cardine di tutte le attività che l’oratorio propone, non sembra rappresentare un elemento discriminante per chi non professa la religione cristiano cattolica. Oggi si assiste infatti a una diminuzione della partecipazione da parte dei giovani di origine italiana e un aumento nell’uso di strutture e servizi offerti dall’oratorio da parte dei giovani di origine straniera e delle loro famiglie, anche se, come vedremo più avanti, questo uso è nella maggior parte dei casi strumentale.
L’oratorio nasce come una struttura aperta a tutti e pronta ad accogliere anche coloro che esprimono bisogni peculiari: esso è, per sua natura, in dialogo con il contesto locale nel quale è inserito ed è attivo protagonista nei cambiamenti che coinvolgono la comunità alla quale appartiene e coinvolto nelle problematiche che emergono1.
Cosa dicono le ricerche
Nel 2015, secondo la ricerca Ipsos L’oratorio oggi, commissionata dalla Fom (Federazione oratori milanesi) e da Odielle (Oratori diocesi lombarde), gli oratori in Lombardia erano 2.307. Nel 15% di questi si svolgono attività specifiche per gli stranieri. In media, infatti, almeno un bambino su dieci che frequenta l’oratorio è straniero e di questi un terzo è musulmano. Anche in Piemonte, negli oratori salesiani, già nel 2008, il 21% dei ragazzi che li frequentavano erano stranieri2 e provenivano soprattutto da Maghreb, Perù, Ecuador e Brasile. In alcuni oratori delle diocesi lombarde – come, ad esempio, Cremona, Lodi e Milano – la presenza di minori stranieri raggiunge percentuali vicine al 40- 50% di tutti i frequentanti3. Nei diversi oratori si trovano racconti e pratiche diverse dovute anche alle diverse caratteristiche delle zone e della tipologia di immigrazione.
Secondo la ricerca Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione a cura di Ismu, Fom, Caritas Ambrosiana e Ufficio Pastorale Migranti Diocesi di Milano, l’oratorio viene scoperto per la prima volta dai ragazzi stranieri soprattutto grazie al doposcuola4 o ai corsi di lingua italiana, organizzati in genere per gli adulti, i genitori, che spesso devono portare con sé i figli piccoli, o grazie ad amici e compagni di scuola che invitano a giocare negli spazi all’aperto o nelle squadre sportive. Nel primo caso sono per lo più gli insegnanti della scuola a parlare ai ragazzi della possibilità di frequentare un doposcuola e dell’aiuto che potrebbe dare loro sia per l’apprendimento della lingua sia per un sostegno scolastico più generale.
Più rare sono le situazioni per cui la prima conoscenza avviene grazie all’iscrizione, da parte della famiglia, all’oratorio estivo, oppure attraverso la partecipazione alla messa e al catechismo5.
Secondo la ricerca condotta dalla Caritas Ambrosiana6 sui doposcuola nella diocesi di Milano, più del 40% dei ragazzi e delle ragazze che li frequentano è di origine immigrata con punte del 90% nei quartieri popolari di Milano. Questo dato supera il 50% nella città di Milano e nella zona di Lecco mentre nelle altre aree della diocesi tale valore si attesta intorno al 30- 35%. Nella sola diocesi ambrosiana sono presenti quasi 200 doposcuola, nella maggior parte di essi sono coinvolti prevalentemente volontari: universitari, insegnanti e pensionati.
In fila per l’oratorio estivo
L’oratorio estivo è uno dei momenti più importanti nella vita della struttura ed è, sempre più, un’occasione fondamentale di condivisione di esperienza tra italiani e stranieri e di educazione ai valori che sono comuni a tutte le nazionalità e le religioni: l’amicizia, il rispetto dell’altro, l’onestà7.
L’indagine Educare generando futuro mette in luce come l’oratorio estivo risulti essere tra le attività maggiormente frequentate dai ragazzi di origine straniera: la percentuale di minori stranieri si attesta, infatti, al 27% circa, sia per i maschi sia per le femmine. Sempre secondo i dati della ricerca, sul totale dei ragazzi stranieri presenti negli oratori estivi, la percentuale di cattolici si attesta al 60,2%; i musulmani tra i minori immigrati sono invece il 26,9% e coloro che appartengono ad altre confessioni cristiane rappresentano circa il 10%.
È possibile anche che alcuni ragazzi di origine straniera, i più grandi, dopo i primi anni da «utenti/usufruitori di servizi», prendano degli impegni e delle responsabilità in oratorio, come il compito di allenare una squadra sportiva, di fare l’animatore all’oratorio estivo o, più raramente, di partecipare agli incontri di catechismo o di confronto e riflessione settimanale del gruppo adolescenti. In quest’ultimo caso, può avvenire che i momenti di preghiera non siano vincolanti per loro (possano cioè non pregare) qualora siano di religione non cattolica. Come spiega il sociologo Maurizio Ambrosini (Università di Milano), infatti, «l’oratorio non viene percepito come un luogo di indottrinamento cattolico. Alcuni lo frequentano solo per le attività sportive, per altri invece è anche un’occasione di impegno»8. È quella che la professoressa Paola Bonizzoni (Università Milano Bicocca) chiama «inclusione non partecipante»: «I ragazzi hanno la possibilità di fare comunque un’esperienza di spiritualità e di riflessione che trascende (in quanto universale e connaturata alla natura umana) la specificità (e la padronanza) del linguaggio cattolico»9.
Don Andrea Plumari, della parrocchia di Precotto, indica (un suo commento anche a pagina 44, ndr) diversi atteggiamenti adottati da chi non è di religione cattolica rispetto alla preghiera: dalla partecipando alla preghiera, senza però pregare, per sentirsi comunque parte del gruppo a chi preferisce invece stae totalmente al di fuori per evitare problemi, probabilmente anche con la famiglia.
In poco più della metà degli oratori che compongono il campione della ricerca Educare generando futuro ci sono animatori di origine immigrata (52%) e il 44,4% delle parrocchie ha responsabili stranieri negli ambiti relativi alla pulizia e manutenzione, anche se in questo caso si tratta di adulti. Più scarsa è invece la partecipazione nei consigli pastorali di persone immigrate o tra i catechisti: 23,5% e 19%. Anche la quota di educatori (13,4%) e di allenatori sportivi (12,9%) risulta essere relativamente modesta.
L’oratorio e le famiglie: in cerca di cura ed educazione
Le famiglie intervistate, italiane e straniere, anche di religione non cattolica, considerano l’oratorio un luogo di educazione ed accudimento, un posto sicuro, controllato dagli adulti che lo gestiscono con un’attenzione educativa ai ragazzi, in cui viene chiesto il rispetto delle regole e vengono foiti stimoli positivi e non credono che la connotazione religiosa sia un problema per il proprio figlio. Esistono comunque casi, anche se più rari, di genitori che temono un luogo connotato dal punto di vista religioso. A Torino, ad esempio, un genitore, marocchino musulmano, voleva vietare al figlio di giocare nella squadra di calcio dell’oratorio perché temeva lo volessero convertire10.
L’approccio dominante nei confronti delle attività e dei gruppi presenti in parrocchia e in oratorio è, però, di carattere strumentale: per tutti – italiani e non, cattolici e musulmani e di altri credi – l’oratorio sopperisce al bisogno di cura e di educazione.
Sarebbe interessante capire se, nel caso ci fossero strutture simili, organizzate dalle proprie comunità religiose, la partecipazione si orienterebbe verso queste piuttosto che verso gli oratori che hanno il valore aggiunto di offrire ai ragazzi la possibilità di stare anche con ragazzi italiani. Il caso della comunità filippina, da questo punto di vista, è emblematico: i filippini, infatti, tendono a fare gruppo a sé e si concentrano soprattutto nelle cappellanie dove celebrano la messa nella propria lingua.
Genitori stranieri: un coinvolgimento ancora limitato
Nonostante all’oratorio ci siano possibilità di incontro non solo tra i ragazzi, ma anche tra le famiglie, i genitori dei ragazzi stranieri sembrano relazionarsi maggiormente con i connazionali o con altri stranieri e meno con i genitori italiani, partecipando poco alle occasioni di festa e agli incontri dedicati ai genitori, mentre sembra cerchino occasioni di incontro e di confronto con chi si occupa del doposcuola e chi ha ruoli di responsabilità all’interno dell’oratorio11.
Le famiglie hanno un ruolo attivo nella fase del «contatto» poiché sono loro che devono iscrivere il figlio al doposcuola o all’oratorio estivo, ma sono meno coinvolti nelle fasi successive: i livelli di partecipazione, infatti, sono molto bassi. Sempre secondo la ricerca Educare generando futuro, nessuna attività/iniziativa vede il coinvolgimento di più del 7% di famiglie immigrate. Mentre, laddove presenti, sono impegnate in attività caritative/missionarie (6,3%), nel gruppo famiglie (6,2%) e nelle attività ricreative/culturali (5,2%). Ugualmente basso è il coinvolgimento in ruoli di responsabilità, come già segnalato in precedenza nella partecipazione ai consigli pastorali o tra i catechisti.
L’oratorio è un luogo dove si costruiscono e si sviluppano importanti relazioni tra pari e con adulti significativi: sacerdoti, suore, educatori ed educatrici e in cui la provenienza e l’origine dei genitori spesso passano in secondo piano rispetto alle dinamiche e ai processi classici di socializzazione dei ragazzi e degli adolescenti. I ragazzi vivono, infatti, nelle relazioni tra pari una dimensione di normalità e le differenze – che si vedono di più nella generazione dei genitori – sono spesso superate da un radicato senso di appartenenza al territorio in cui si abita e si vive e ai luoghi che si frequentano, come l’oratorio, appunto, più che alle proprie origini.
Per il dialogo serve la conoscenza
Dal punto di vista dell’offerta e della proposta valoriale ed educativa dell’oratorio gli intervistati per la ricerca Educare generando futuro concordano su due questioni: la presenza di ragazzi stranieri negli oratori e nelle parrocchie stimola l’innovazione nell’organizzazione delle attività e richiede, in particolare con riferimento alla presenza di minori stranieri di fede non cattolica, che vengano organizzate occasioni di mutua conoscenza e, allo stesso tempo, fa sorgere un bisogno di formazione specifica per gli educatori, i catechisti e gli animatori.
Quello della formazione e delle occasioni di incontro, non solo per catechisti ed educatori, ma anche per i ragazzi e le loro famiglie, è un tema ricorrente rispetto alle questioni poste dall’incontro e dal dialogo interculturale ed interreligioso: prima di dialogare è necessario conoscersi.
Sempre più urgente appare il bisogno di formazione e accompagnamento attraverso l’organizzazione di incontri, anche su temi molto specifici come quello della legislazione e regolazione dell’immigrazione e, soprattutto, dal punto di vista religioso, sull’Islam e le sue diverse correnti.
Già il cardinal Martini nel documento Noi e l’Islam del 1990 metteva in guardia contro il conflitto e il relativismo disinformato. Il fenomeno, infatti, va conosciuto, precisava, per evitare «uno zelo disinformato che può esprimersi sia attraverso atteggiamenti di chiusura pregiudiziale sia – più sovente – attraverso atteggiamenti superficiali che, in nome di un generico ottimismo, non colgono la complessità delle questioni e i problemi. La posizione corretta è un serio sforzo di conoscenza, un supplemento di cultura»12.
Come sottolinea don Andrea Pacini, rispetto all’Islam, l’obiettivo di questi percorsi di formazione dovrebbe essere quello di «fornire una conoscenza in grado di impedire il cristallizzarsi di pregiudizi e atteggiamenti conflittuali o irenici (in entrambi i casi espressione di zelo disinformato) sia per dare quel minimo di conoscenza che permetta di entrare in rapporto con l’altro in modo efficace (conoscendo l’essenziale che riguarda la religione e la cultura altrui e le questioni problematiche in rapporto alla propria cultura e fede religiosa)»13.
Anche il documento Musulmani all’oratorio dell’Ufficio Cei per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso considera l’opportunità di invitare imam locali per fornire agli educatori strumenti utili a una migliore conoscenza e comprensione dei ragazzi: «Il dialogo interreligioso e interculturale, infatti, esigono la conoscenza della propria e dell’altrui religione»14.
Aumentare la formazione e la sensibilità
È importante, però, proporre anche momenti di formazione al cristianesimo per le famiglie straniere non con l’obiettivo di convertirle, ovviamente, ma per far loro conoscere i valori che stanno alla base del «servizio di cui usufruiscono». In alcune realtà questo avviene già, come ha raccontato all’Inteational Joualism Festival di Perugia 2015 mons. Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo: «Molte famiglie di immigrati, ad esempio, si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica per una finalità di tipo culturale, per conoscere la cultura del paese in cui si trovano»15.
Nonostante venga posto il problema della formazione e della conoscenza reciproca, quello che si riscontra nei fatti è, però, una bassa partecipazione ai momenti di formazione organizzati. Dall’indagine Educare generando futuro emerge, infatti, che la maggior parte dei catechisti, degli animatori e degli educatori non partecipano ad attività di formazione sul tema dell’immigrazione e della multiculturalità. Questo sembra causato, per lo meno nelle risposte raccolte dall’indagine, principalmente dalla scarsa sensibilità sul tema che prevale negli oratori e nelle parrocchie e dalla mancanza di competenze necessarie per l’organizzazione di queste attività.
Viviana Premazzi
Note
(1) Ismu, Fom, Caritas ambrosiana e Ufficio pastorale migranti Diocesi di Milano, Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione, Milano 2014. 2) Rosita Deluigi, La progettualità ricercata. Minori immigrati e intrecci educativi nel territorio, Edizioni Università di Macerata 2008. (3) Ismu, Progetto Oratorinsieme, Milano 2014. (4) Il doposcuola è un servizio di accompagnamento educativo, con particolare attenzione al sostegno allo studio. In alcune realtà i ragazzi stranieri costituiscono la maggior parte degli iscritti. (5) Anche perché per lo più i ragazzi stranieri non sono di religione cattolica, bensì musulmana, oppure cristiano ortodossa o cristiano copta. (6) Caritas Ambrosiana, I doposcuola parrocchiali nella diocesi di Milano, Milano 2010. (7) Laura Badaracchi e Claudio Urbano, Se in oratorio arriva lo straniero, «Popoli» aprile 2011. (8) Ibidem. (9) Paola Bonizzoni, Incroci. Traiettorie di socialità di adolescenti italiani e stranieri in un oratorio milanese in Ambrosini M., Bonizzoni P., Caneva E., Incontrarsi e riconoscersi. Socialità, identificazione, integrazione sociale tra i giovani di origine immigrata, Fondazione Ismu, Milano, p. 120. (10) Nell’ottobre 2015, sempre a Torino, un’altra polemica ha riguardato il ritiro da parte di alcune famiglie musulmane dei propri figli da un corso di musica organizzato dalla scuola. Di fronte a questo genere di incomprensioni che possono anche generare scontri è importante offrire occasioni di confronto aperto, coinvolgendo anche i responsabili religiosi di entrambe le comunità e cercando di trovare un accordo nel rispetto delle diverse sensibilità, quella del bambino, quella del genitore e quella dello spazio-oratorio o della scuola. (11) Cfr. Educare generando futuro, opera citata. (12) Andrea Pacini, Il dialogo interreligioso e le relazioni islamo-cristiane in Italia, p. 11. (13) Ibi, 12. (14) Cei – Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, scheda 3a e 3a bis, I musulmani in oratorio, p. 2. (15) Laura Lana, Come costruire il dialogo interreligioso. Cristiani, ebrei e musulmani a confronto, in www.perugiaonline.it, 15/04/2015.
Il commento
Identità cercasi
Credo sia ormai chiaro a tutti che ci troviamo in un’epoca in cui la Chiesa in Europa si pone come una realtà tra le tante, non più come la realtà predominante tra tante piccole realtà religiose (e non): basta osservare l’attuale composizione delle assemblee nelle nostre parrocchie. È vero che vi è ancora un significativo senso di appartenenza alla Chiesa, almeno in Italia, ma è altrettanto vero che è debole la coscienza di cosa sia realmente la Chiesa; per esempio molti chiedono ancora i sacramenti per i propri figli – e qui si esprime un certo senso di appartenenza – ma questi stessi non hanno più chiaro cosa sia la Chiesa. Ci si potrebbe chiedere: ma è necessario essere coscientemente cristiani per essere in grado di incontrare il diverso? A questa domanda rispondo con un’altra domanda: ma quale altra personalità è riuscita a produrre la cultura non cristiana? Mi pare che l’uomo europeo da una parte rifiuti di riconoscersi cristiano o ne ha una coscienza debole, dall’altra non ha più un volto: non sa più chi è. Questa non coscienza di ciò che si è genera confusione nel rapporto con l’altro: più non sai chi sei, più l’altro ti fa paura.
Solo dove ci sono luoghi, anche con numeri esigui, dove si ha chiara quale sia la ragion d’essere della Chiesa e quindi della propria personale vocazione – quindi i ragazzi scoprono che la vita ha uno scopo – , si sta ricominciando a costruire. Gli oratori nelle nostre città spesso sono dei luoghi dove ciò accade, nel silenzio più totale dei mass media ma tra la gratitudine delle famiglie.
Solo un’identità chiara consente di guardare all’altro non come un problema ma come un’occasione anche per approfondire la propria identità. Da quando nasciamo, anzi già dal grembo materno, noi scopriamo chi siamo in rapporto con qualcuno che è altro da noi: fin dall’inizio della vita l’altro non è un problema ma un’occasione.
Con queste premesse non può fare paura avere tra i ragazzi dell’oratorio alcuni mussulmani: loro sanno di essere accolti dalla Chiesa e nessuno, né noi né loro, deve rinunciare alla propria identità o annacquarla. È un’arricchimento reciproco che costringe ad approfondire la propria identità e fa scoprire che l’altro è una risorsa per ciascuno.
don Andrea Plumari parrocchia San Michele Arcangelo in Precotto, oratorio San Filippo Neri, Milano
Le criticità
Stato italiano e islam, dialogo complicato
In Italia non esiste un solo Islam, ma una pluralità di soggetti islamici. Anche per questo per lo stato non è facile trovare un’«intesa» come per le altre confessioni religiose. A ciò vanno aggiunte le pesanti intromissioni di alcuni paesi stranieri (Arabia Saudita e Qatar, in primis) e le ambiguità insite nelle figure degli imam. E il piano «Moschee trasparenti» trova molte resistenze.
A titolo di premessa è opportuno ricordare che, al di là di un nucleo condiviso di elementi/principi/pilastri, l’Islam, e in particolare l’Islam sunnita, non può essere considerato un insieme monolitico; profonde sono le differenze che si possono registrare all’interno di un mondo che si estende dal Marocco all’Indonesia sia sul piano interpretativo che dottrinale. Su questo, inoltre, si innestano, si mischiano, talvolta si confondono, tradizioni e pratiche culturali proprie dei diversi paesi o di alcune aree all’interno di questi stessi paesi. A questa condizione intrinseca non sfuggono le diverse comunità islamiche presenti in Europa e in Italia. Questa pluralità si esprime, dunque, in una varietà di sale di preghiera e di centri culturali islamici. Inoltre, negli ultimi anni si sono costituite diverse associazioni di seconda generazione, che cercano di ritagliarsi un ruolo attivo nella società italiana e stanno cercando di proporsi come interlocutori per le istituzioni.
Il punto di partenza dovrebbe dunque essere il seguente: non si può far riferimento a un solo Islam né ancora, almeno per il momento, a un «Islam italiano» (e neanche europeo), esiste invece una comunità islamica composta da musulmani «provenienti da altrove» (dal Marocco al Pakistan, dall’Albania all’Iran), da musulmani nati e cresciuti in Italia e da convertiti. A livello locale, in molti contesti, si sperimentano forme positive di convivenza e integrazione che sembrano, per ora, reggere alla prova dei fondamentalismi, ma molte questioni devono trovare una risposta politica forte a livello nazionale, che poi si possa concretizzare e rendere operativa a ogni livello.
Le ingerenze di Arabia Saudita e Qatar
Tra le questioni che ancora non hanno trovato una soluzione c’è, sicuramente, la mancanza di un’intesa con lo stato italiano e la questione della costruzione dei luoghi di culto.
L’Islam ad oggi, non può contare, infatti, su alcun tipo di intesa con lo stato italiano1, al contrario di altre religioni minoritarie come ebraismo o buddismo. La causa principale di tale situazione risiede nella mancanza di una leadership unitaria, riconosciuta e realmente rappresentativa delle diverse organizzazioni e orientamenti. Questa difficoltà è inoltre aggravata dalla presenza di molteplici gruppi nazionali di immigrati musulmani sul territorio italiano e dagli interessi (ingerenze) e dai conseguenti finanziamenti dei paesi di origine o dei paesi del Golfo (Arabia Saudita e Qatar in primis) a determinate organizzazioni. L’intervento dei paesi del Golfo, in particolare, ha spesso sostenuto un Islam meno spirituale e più politico, promotore di battaglie politico-religiose talvolta molto distanti dal vissuto e dalle esperienze dei musulmani in Italia. La questione dei rapporti con i paesi di origine e con i paesi del Golfo deve trovare una risposta urgente, anche rispetto a punti come la costruzione di nuove moschee e il riconoscimento o la formazione degli imam in Italia.
La questione degli imam e il piano «Moschee trasparenti»
Per quanto riguarda gli imam e la loro formazione, se è vero che molti processi di radicalizzazione sono avvenuti online o in carcere e non in moschea, e a causa dell’incontro con determinati imam e predicatori, le moschee possono comunque giocare un ruolo fondamentale nella formazione e nel contrasto alla radicalizzazione. La mancanza di un’intesa con lo stato pone, però, il rischio che, in assenza di controlli, autoproclamati imam possano improvvisare moschee/centri islamici e fare propaganda per un Islam radicale. Nell’ambito del progetto denominato «Moschee trasparenti», lo scorso 11 luglio il ministro dell’Inteo Alfano ha chiamato a raccolta gli esponenti di varie anime della comunità musulmana italiana. L’obiettivo era di discutere il rapporto «Ruolo pubblico, riconoscimento e formazione degli imam»2. Il rapporto, datato 1 aprile 2016 e redatto da 12 esperti guidati dal professor Paolo Naso (Università La Sapienza), insiste sulla necessità di avere imam formati e certificati per guidare i fedeli verso l’integrazione. La formazione non entrerà nel merito delle questioni religiose, ma sarà un percorso civico di riconoscimento delle regole dell’ordinamento italiano3. Nel documento si legge che l’obiettivo è quello di «costituire un nucleo primario di interlocutori delle istituzioni che, per competenza e autorevolezza riconosciute da parte delle loro comunità, conoscenza della realtà italiana ed esperienza nella partecipazione alla vita pubblica del territorio in cui operano, possano svolgere costruttivamente il ruolo di «mediatori» nelle relazioni tra lo stato e le varie associazioni». Gli imam che sottoscriveranno lo statuto potranno ottenere maggiore libertà di accesso a «luoghi protetti quali ospedali, cimiteri, centri di identificazione e accoglienza dei migranti, «case del silenzio» e, naturalmente, le carceri, luoghi, come già detto, dove più forte è il pericolo della radicalizzazione violenta. Un altro punto della discussione, condiviso tra i partecipanti all’incontro, ma criticato aspramente sui social network, è stato l’uso della lingua italiana nei sermoni. Le accuse, rivolte, contro il ministro e la Consulta ponevano l’attenzione sull’idea che i musulmani siano «sorvegliati sociali» e non considerati al pari dei fedeli di altre religioni. Da ultimo, contro la radicalizzazione, è fondamentale che moschee e imam siano in contatto e collaborino a livello locale sia con la polizia e i servizi di sicurezza per condividere informazioni e contrastare esiti violenti di processi di radicalizzazione, sia con le famiglie, le scuole e le altre agenzie formative presenti sul territorio per prevenirla.
L’elenco delle «giustificazioni» e i rischi
Il rischio di giustificare l’Isis (o altri movimenti violenti) con «le guerre fatte in Medio Oriente dagli occidentali» o di identificarlo come creazione del «complotto americano-sionista» e di giustificare i foreign fighters con la discriminazione e il disagio economico e sociale di cui alcuni immigrati sono vittime può generare gravissime conseguenze. Per quanto riguarda i foreign (o domestic) fighters, infatti, non sempre i soggetti radicalizzati sono scarsamente integrati (ancora meno il discorso vale per i convertiti). Se è vero che le scelte legislative e politiche dell’Italia possono determinare dinamiche di rifiuto, di isolamento sociale, di sentimenti contrari al senso di appartenenza civile e comunitaria, soprattutto di quei (molti) musulmani di origine straniera. La radicalizzazione (e tutti gli attentatori degli ultimi mesi lo confermano) ha molteplici cause e può innestarsi su debolezze, talvolta anche personali, di individui che finiscono per abbracciare la violenza, o persino il jihadismo internazionale, perché in cerca di «significato» per la propria vita e di appartenenza a un gruppo. Rispetto a critiche e autocritiche verso «l’Occidente», poste alcune responsabilità innegabili, sarebbe però importante rendere conto della complessità e delle responsabilità dei diversi attori coinvolti in specifiche situazioni. L’autocritica generalizzata non giova e anzi non fa altro che aumentare la credibilità di chi pone come unica soluzione lo scontro «Noi-Loro» e la giustificazione di atti di violenza come vendetta o ritorsione rispetto a ingiustizie e soprusi subiti, facendoci precipitare in una spirale di violenza senza fine.
Il ruolo dei media: tra buonismo cieco e condanna aprioristica
Un ultimo punto critico riguarda il ruolo dei mass media: da un lato i mezzi più tradizionali (televisioni, giornali) spesso presentano l’Islam attraverso generalizzazioni e semplificazioni, dall’altro internet e i social network veicolano varie immagini di questa religione, ma in uno spazio assolutamente non controllato né controllabile. Ne deriva che il discorso pubblico, specie quello diffuso e alimentato dai canali mediatici, oscilla spesso tra un buonismo, cieco di fronte alle problematiche oggettive di certi fenomeni, e una condanna aprioristica e corredata di stereotipi, che può creare il terreno per le derive più intransigenti o sentimenti di rivalsa. C’è il rischio, in fondo, che vengano mostrati solo gli aspetti politicizzati o mitizzati dell’Islam, lontani dalla realtà vissuta quotidianamente dai musulmani italiani. In questo terreno possono proliferare non solo i pregiudizi, ma anche le strumentalizzazioni politiche e conseguenti scelte basate sull’emozione di tutti quei soggetti che colgono solo in modo parziale la realtà islamica. La sfida deve essere, allora, quella di decostruire i pregiudizi e di dare conto della complessità dell’Islam.
Viviana Premazzi
Note
(1) Sulle intese tra stato italiano e diverse religioni si vedano le puntate della rubrica «Libertà religiosa» in MC n. 1,3,4,5 del 2015 e n. 6 del 2016. Le puntate sono reperibili e/o scaricabili (in formato Pdf) dal sito della rivista. (2) Il documento è scaricabile dal web. Un secondo rapporto su moschee e luoghi di culto è di recente uscita. (3) Un’iniziativa simile sul tema è stato il corso per leader religiosi organizzato dal 2010 al 2012 dal Fidr («Forum internazionale democrazia e religioni», www.fidr.it) al quale hanno partecipato diversi rappresentanti di moschee e associazioni musulmane da tutta Italia. L’iniziativa era volta a offrire ai leader religiosi informazioni e approfondimenti necessari allo svolgimento di attività culturali e cultuali sul territorio italiano. Benché patrocinata dal ministero dell’Inteo e da quello per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione, l’esperienza non ha avuto seguito, specie nell’elaborazione di politiche ufficiali sul tema della formazione degli imam.
Bibliografia
Joceyline Cesari, Andrea Pacini, Giovani Musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005.
Pietro Cingolani, Roberta Ricucci (a cura di), Transmediterranei. Generazioni a confronto fra Italia e Nord Africa, Accademia University Press, Torino 2014.
Annalisa Frisina, Giovani Musulmani d’Italia, Carocci, Roma 2007.
Anna Granata, Di padre in figlio, di figlio in padre. Il ruolo innovativo delle seconde generazioni nelle comunità religiose di minoranza, «Mondi migranti» 3 (2010).
Giovanni Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016.
Stella Coglievina e Viviana Premazzi, L’Islam in Italia di fronte al fondamentalismo violento, in Martino Diez e Andrea Plebani (a cura di), La galassia fondamentalista tra jihad armato e partecipazione politica, Marsilio, Padova 2015, pp. 126-138.
Viviana Premazzi, Secolarizzazione e nuove forme di protagonismo nella seconda generazione musulmana in Italia, in Giovanni Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016, pp. 106-116.
Bibliografia sugli oratori
Caritas Ambrosiana, I doposcuola parrocchiali nella diocesi di Milano, Milano 2010.
Paola Bonizzoni, Incroci. Traiettorie di socialità di adolescenti italiani e stranieri in un oratorio milanese, in Ambrosini M., Bonizzoni P., Caneva E. (a cura di), Incontrarsi e riconoscersi. Socialità, identificazione, integrazione sociale tra i giovani di origine immigrata, Fondazione Ismu, Milano 2011.
Ismu, Fom, Caritas Ambrosiana e Ufficio pastorale migranti diocesi di Milano, Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione, Milano 2014.
Sitografia
Chiesa cattolica italiana, Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei: www.chiesacattolica.it/ecumenismo.
Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose: www.olir.it.
Fondazione Ismu, Iniziative e studi sulla multietnicità: www.ismu.org.
Viviana Premazzi– Esperta di immigrazione e, in particolare, di seconde generazioni di religione musulmana. Collabora con il Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione (Fieri) di Torino e la Fondazione Oasis di Milano. È stata consulente per la Banca mondiale e per l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Le riflessioni contenute in questo dossier sono state elaborate nell’ambito del progetto «Conoscere il meticciato. Goveare il cambiamento» cornordinato da Fondazione Oasis e finanziato da Fondazione Cariplo.
Roberto Brancolini– Fotografo indipendente, ha scoperto viaggiando la sua passione per la fotografia. Si occupa prevalentemente di reportage. Il suo lavoro può essere visionato sul sito: www.brancolini.com.
A cura di: Paolo Moiola, giornalista, redazione MC.
Cari missionari 76
Informazioni sbagliate?
Spettabile Redazione,
ho letto il fuorviante articolo del mese di maggio 2016 di Sabina Siniscalchi sulle disuguaglianze. Non voglio commentare quanto scritto ma ritengo che almeno i riferimenti a documenti citati debbano essere corretti.
Non sono andato a cercare «Finanza-Capitalismo» di Luciano Gallino ma ritengo impossibile che affermasse che «chi ha un capitale depositato di 28000 euro paghi 5600 euro senza muovere un dito!». Per fortuna un deposito in banca non costa niente anzi forse può rendere qualcosa e in ogni caso non è segno di grande ricchezza. Se si parlasse di utile da capitale e non di deposito sarebbe diverso. Il rapporto finanziario Fisac Cgil del 2015 non dice «che un dirigente percepisce un compenso medio pari a 4 milioni 326 mila euro all’anno», ma parla di top manager! Un dirigente medio è estremamente lontano da tale importo. Sarebbe opportuno che gli articoli venissero controllati da esperti per non dare informazioni sbagliate e devianti alla massa dei lettori. Cordiali saluti.
Vittorio Bosco
17/05/2016
Egregio sig. Bosco,
lei definisce il mio articolo fuorviante e le informazioni che foisco sbagliate e devianti, questo mi stupisce molto perché il grave fenomeno della crescita delle disuguaglianze, di cui il pezzo parla, è ormai riconosciuto e suscita la preoccupazione di tutte le istituzioni pubbliche e private, non solo per i costi umani e sociali che comporta, ma perché rappresenta un freno alla crescita economica. L’Ocse nei suoi tanti rapporti sulle crescenti disuguaglianze (growing inequalities) afferma che una delle cause del fenomeno è da ricercarsi nell’indebolimento dei sindacati e dei corpi sociali intermedi. La invito a riflettere sul fatto che una debolezza di pensiero si traduce in una debolezza di azione. Quanto alle citazioni, le confermo che quella attribuita a Gallino è pienamente corretta (v. anche pag. 24 di «La lotta di classe dopo la lotta di classe»), mentre mi scuso per l’errore di traduzione del termine top manager, laddove cito non virgolettato il rapporto Fisac Cgil. Cordiali saluti,
Sabina Siniscalchi
Mi permetto di aggiungere che un commento al testo di Gallino riporta «[…] mentre un redditiere con un capitale dello stesso importo […]», avallando così quello che giustamente lei interpreta come l’utile da capitale depositato. Non serve comunque fare una battaglia di cifre. Si trattasse anche solo di top manager iperpagati, questo non diminuisce il problema delle diseguaglianze crescenti (e della «scomparsa» della classe media). Ho qui davanti a me il numero 112, giugno 2016, della rivista «In dialogo», notiziario della Rete Radié Resch. Titola: «Sergio Marchionne | Nel 2015 ha guadagnato: 54 milioni e 543 mila euro. 150 mila al giorno. | Che senso ha?». In quest’ultima domanda è sintetizzato tutto il problema: «Che senso ha?».
Islam, dialogo e pace
Buongiorno,
da qualche tempo ho in corso con un amico di infanzia recentemente ritrovato una discussione a distanza sul tema in oggetto rispetto al quale siamo su posizioni divergenti. Il sottoscritto parrebbe un «utile idiota» rispetto alle tesi dell’altro. Vista l’importanza del tema e la mia impreparazione, che ho del resto confessato all’amico, vi chiedo come vecchio lettore della vostra ottima rivista se vorrete dare adeguato spazio ancora alla questione: il Corano è inconciliabile con l’idea della convivenza pacifica con popoli di altre religioni? Il musulmano moderato è fuori dall’Islam in quanto tale? Questa e altre domande fanno parte dello scambio di opinioni con il mio amico che è partito idealmente dalla lettura del vostro editoriale di maggio. Grazie dell’attenzione che darete alla presente. Cordiali saluti
Claudio Solavagione
14/05/2016
Caro sig. Claudio,
raccogliamo il suo invito, anche se non sarà un lavoro facile. Stiamo studiando seriamente un dossier o una serie di articoli sull’argomento, ma deve avere un po’ di pazienza. Indipendentemente da questo lavoro, c’è stato un avvenimento importante che fa ben sperare: la visita del grande imam sunnita di Al Azhar, Ahamad Muhammad Al-Tayyib, a papa Francesco il 23 maggio scorso. È stato un incontro positivo e incoraggiante in questi tempi difficili. Speriamo che una possibile visita del papa al Cairo possa consolidare il cammino iniziato.
Per quanto poi possa valere la mia esperienza personale, in Kenya posso dire di aver sperimentato le due facce opposte dell’Islam: da una parte una radicalizzazione sempre più evidente, dall’altra una bellissima e duratura amicizia con alcune famiglie musulmane con cui conservo ancora legami profondi. Quando le persone riescono a incontrarsi cuore a cuore, con semplicità e umanità, allora non conta religione, ideologia, casta o razza. La tragedia scoppia quando sulle persone prevale lo stereotipo, il pregiudizio o l’ideologia, sia essa politica che religiosa.
E a questo proposito mi viene da pensare che gran parte dei guai nostri con l’islamismo più radicale – diventato una minaccia mondiale – sono frutto di una politica dissennata che ha visto alleati i fondamentalisti cristiani d’America con i fondamentalisti wahabiti dell’Arabia Saudita per far crollare le «dittature» – religiosamente tolleranti – di Saddam Hussein (Iraq), Muhammar Gheddafi (Libia) e Assad (Siria). Quegli stessi fondamentalisti che sostengono ora Trump e la sua agenda piena d’intolleranza, gli stessi che continuano a finanziare in tutto il mondo le sette cristiane più integraliste che dividono le comunità in Africa e in America latina per lasciar spazio, nella divisione, agli interessi delle multinazionali che sfruttano senza controlli (vedi RD Congo e Amazzonia sia dell’Ecuador che del Brasile). Senza dimenticare la passività, divisione e confusione della politica estera dell’Unione europea che tollera (o permette e favorisce?) in paesi come il Kosovo e l’Ucraina la crescita e il prosperare di organizzazioni fondamentaliste, incubatori di foreign fighters e terroristi.
Musulmano Ucciso per salvare cristiani
Aiuto, qualcosa mi è sfuggito, leggo diversi giornali quotidiani tutti i giorni, ma non ho letto, se non in piccolissime recensioni sulla morte, il 18/01/16, di Salah Farah. Ho letto di Valeria Soresin, morta nell’attacco al Bataclan a Parigi, ho letto su Giulio Regeni morto misteriosamente in Egitto. Tutto ciò è molto giusto. Ho guardato in internet il cognome Salah: ho visto pagine su Abdelham Salah, terrorista, ma ancora di più su Mohamed Salah, calciatore della Roma, e del suo infortunio. Ho guardato vari programmi d’informazione e denuncia, ma mai si è parlato di Salah Farah. È solo un vero eroe dimenticato, Salah è l’insegnante keniota che ha difeso con la sua vita dei cristiani da una morte certa, dicendo ai terroristi che cristiani e islamici sono tutti uguali e che dovevano uccidere tutti. Quindi, secondo me dovrebbe essere considerato un eroe sia per i cristiani che per i mussulmani. Ma nessuno ne parla, come per vergogna: il mondo islamico forse perché ha salvato dei cristiani, il mondo occidentale, forse perché nero, povero e non biondo. Io penso che meriterebbe almeno il Nobel per la pace, magari togliendolo a qualche potente, che ha reso il mondo molto pericoloso. Ora chiudo e vi incito a farvi promotori per una colletta per la sua numerosa famiglia che viveva solo con il suo stipendio.
Saluti
Stefano Graziani
08/05/2016
Ho fatto una rapida ricerca, e, a parte quattro testate, in Italia se ne è parlato poco o niente. Noi stessi abbiamo riportato solo quanto avvenuto il 21 dicembre sulla pagina Facebook della rivista. Il fatto a cui si riferisce il nostro lettore è l’agguato del 21 dicembre 2015 teso dagli Al-Shabab a un pullman diretto a Mandera, una cittadina del Kenya all’stremo Nord-Est del paese, ai confini con la Somalia. «L’uomo, al momento dell’assalto di un gruppo di uomini armati, appartenenti ai miliziani sunniti somali di al-Shabaab, si trovava a bordo di un autobus insieme a un gruppo di passeggeri cristiani e musulmani. Quando gli assalitori hanno intimato al gruppo di viaggiatori di dividersi fra musulmani e cristiani, Farah insieme ad altre persone si è rifiutato, sapendo che i cristiani sarebbero stati massacrati una volta individuati. L’insegnante musulmano si era rivolto agli uomini armati sfidandoli e dicendo loro: “Uccideteci tutti oppure lasciateci andare”. I miliziani, prima di lasciare che il bus proseguisse il suo tragitto per Mandera, avevano ucciso due delle persone a bordo e ne avevano ferite altre tre» (The Post Internazionale del 22/01/2016). «“Appena abbiamo parlato hanno sparato a un ragazzo, e a me”. Dopo quasi un mese in ospedale, Salah non ce l’ha fatta» (Avvenire del 21/01/2016). Salah Farah era un insegnate di 34 anni, padre di cinque figli.
In Kenya l’hanno onorato come un eroe e ci sono state preghiere di cordoglio da parte di tutti i gruppi religiosi ed è stata lanciata sui social media una colletta per aiutare la sua famiglia.
Resta comunque il fatto che spesso sui media non tutte le morti hanno lo stesso valore. La lista potrebbe essere lunga, dalla Nigeria alla Somalia, dalla Siria all’Iraq, non ultimo l’ennesimo massacro di civili avvenuto agli inizi di maggio nel Beni (una provincia della Repubblica democratica del Congo vicina all’Uganda) per mano di un gruppo di miliziani qaedisti ugandesi, uno dei 23 gruppi che si contendono il controllo del territorio a Est del Congo e le sue enormi risorse. Noi stessi abbiamo saputo del fatto solo perché vi sono state vittime tra i membri della famiglia allargata di un nostro missionario. Eppure non è una cosa da poco, oltre 1100 persone indifese, soprattutto donne e bambini, sono state uccise in quell’area negli ultimi tre anni e migliaia e migliaia costretti a fuggire dalle loro case.
E chi ha riportato che «è morta (il 20 maggio) suor Veronica Rackova, religiosa delle Suore Missionarie dello Spirito Santo (Ssp), la medico missionaria slovacca ferita gravemente in un agguato stradale in Sud Sudan il 16 maggio»? Ricordate l’assordante silenzio sul massacro delle quattro suore di Madre Teresa in Yemen all’inizio di marzo? Perfino papa Francesco, con la sua abituale franchezza, si sentì in dovere di stigmatizzare l’indifferenza dei media.
Notizie di questi drammi si trovano sull’informazione di «nicchia», come le agenzie missionarie, le riviste specializzate e quelle di ong e gruppi interessati a questi problemi, e qualche volta anche nelle pagine intee della grande stampa. Ma occorre avere un occhio attento, capace di andare oltre l’anestetizzante informazione di «prima pagina».
Avanti con MC
Caro padre
faccio riferimento alla lettera pubblicata su MC aprile 2016 (lettrice di Bologna), per incoraggiarvi a continuare nell’attività di stampa, spedizione e diffusione della rivista. In data odiea ho provveduto ad effettuarvi un piccolo bonifico che vorrete utilizzare per inviare la rivista a chi ne ha bisogno e trova in essa un utile strumento di informazione e formazione, soprattutto sulla chiesa missionaria ed in particolare di quella dei missionari della Consolata. Buon lavoro!
Email firmata
11/04/2016
A giorni vi faccio avere una piccola donazione per la vostra bella rivista. A volte mi chiedo se possa essere realizzabile una piccola campagna nelle mie tre parrocchie per far conoscere la rivista e favorire una cultura alternativa sui veri problemi del mondo… Forse sarà un’illusione, ma sarei lieto, magari per il mese missionario, di studiare con voi qualcosa. Se avete suggerimenti…
Don D.
17/05/2016
Grazie di cuore a tutti gli amici che ci sostengono e ci incoraggiano a continuare il nostro servizio in questi tempi duri. Come sapete questi ultimi sei anni hanno visto chiudere riviste missionarie una dopo l’altra. Altre stanno davvero lottando per la sopravvivenza proprio in questi tempi. Cose che vi abbiamo già detto altre volte. In MC stiamo facendo il possibile e l’impossibile per «fare bene il bene», convinti che se questa è un’opera voluta da Dio, Lui ci provvederà sempre la forza e i mezzi per andare avanti. Se non è opera sua, meglio chiudere.
Appello per lo ius soli
Agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti in Italia, deve essere riconosciuto il diritto di cittadinanza. Lo sostengono le riviste missionarie e le associazioni per i diritti dei migranti. Che chiedono sia presentato quanto prima al Senato, per la sua definitiva approvazione, il disegno di legge sullo ius soli.
In sintonia con la campagna «L’Italia sono anch’io», sostenuta da numerose organizzazioni della società civile, noi rappresentanti della stampa missionaria e di associazioni impegnate per i diritti degli immigrati, chiediamo al Parlamento italiano di portare a termine senza ulteriori dilazioni l’iter di riforma della legge che estende il diritto di cittadinanza agli stranieri nati nel territorio italiano. In modo particolare ci rivolgiamo alla presidente della Commissione affari costituzionali, Anna Finocchiaro, affinché stabilisca quanto prima la data per presentare al Senato il disegno di legge, già approvato in prima lettura alla Camera dei deputati il 13 ottobre 2015, per la sua definitiva approvazione.
La vigente legislazione, fondata su legami di sangue, garantisce il diritto di cittadinanza a nipoti di un nonno o nonna italiani, anche senza mai aver messo piede in Italia. A maggior ragione riteniamo giusto e doveroso che lo stesso diritto venga riconosciuto agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti nel nostro paese, che oggi sono costretti ad attendere fino alla età di 18 anni prima di poter ottenere la cittadinanza. A tale obiettivo mira la riforma della legge 91 del 1992 che assicura ai figli di immigrati nati in territorio italiano da almeno un genitore con permesso di soggiorno di lungo periodo (ius soli temperato) o a seguito di un percorso scolastico (ius culturæ), il diritto a diventare cittadini.
L’approvazione della nuova legge – ne siamo certi – darà un segnale importante a oltre 1 milione di giovani di origine straniera che vivono in uno stato di precarietà esistenziale, che si sentono italiani di fatto, ma non lo sono per la legge. Grazie a questa normativa più della metà di costoro, con un genitore in possesso di un permesso di lungo soggiorno, potrebbero già beneficiare della riforma. L’accesso alla cittadinanza è l’unica via in grado di consentire ai figli di immigrati di essere considerati alla pari, nei diritti e nei doveri, rispetto ai loro coetanei, figli di italiani.
Come cittadini e cittadine italiane riteniamo l’approvazione della nuova legge sulla cittadinanza agli stranieri un atto di giustizia che il nostro Parlamento è chiamato a compiere per rimediare a una discriminazione che penalizza i nostri fratelli e sorelle immigrati di seconda generazione.
Questo documento è stato firmato in data 12 maggio 2016 dai direttori delle riviste aderenti alla «Federazione della stampa missionaria italiana» (Fesmi) e dai responsabili di altri organismi solidali e impegnati nel mondo dei migranti, rifugiati e nomadi. Il testo è stato pubblicato sui siti delle varie riviste (della Fesmi), su Avvenire e Vita (e su Famiglia Cristiana) e consegnato alla presidente della Commissione affari costituzionali, all’inizio di giugno. (Nella rivista è scritto così. perché questo era il piano, ma la realtà è più difficile e si sta ancora lavorando per riuscire a consegnare il testo a chi di dovere).
Nel documento si usa l’espressione «immigrati di seconda generazione» per adeguarsi al linguaggio della legge attuale, ma tale termine non ha senso. Bambini nati in Italia da genitori che qui vivono e lavorano da tempo, non possono essere considerati migranti. Eccetto che anche noi vogliamo introdurre il termine «alieno», lo stesso stampato sulla mia carta d’identità locale quando vivevo in un paese d’Africa.
Italia moschee negate
In Italia la questione dei luoghi di culto musulmani è all’ordine del giorno. Diverse regioni e città vi si confrontano. È impossibile passare sotto silenzio l’ormai stabile radicamento di circa due milioni di fedeli musulmani. E questo porta con sé la necessità di affrontare anche la questione della loro libertà religiosa. Partendo da una delle esigenze più essenziali: la disponibilità di luoghi in cui svolgere e celebrare in forma collettiva la preghiera, le festività e le altre attività e pratiche essenziali per la loro vita comunitaria.
L’apertura di un luogo di culto è sempre materia simbolica e, non di rado, delicata. Simbolica perché il luogo di culto rende evidente nello spazio pubblico l’esistenza di una comunità che si riunisce intorno a principi e valori non necessariamente condivisi da tutti. Delicata perché interpella le altre componenti sociali: dalla società civile alle istituzioni pubbliche alle altre comunità religiose, a partire, nel contesto italiano, dalla chiesa cattolica.
Non «se», ma «quali» luoghi di culto
A seconda delle vicende che accompagnano la sua apertura, il luogo di culto (in questo caso musulmano) può divenire strumento di integrazione culturale, sociale e civile, oppure di ghettizzazione, di chiusura, emarginazione e isolamento. In Italia i luoghi di culto musulmani rischiano di vivere più la seconda esperienza negativa che la prima positiva. Questo perché alla quantità dei luoghi musulmani presenti sul territorio, non ne corrisponde una uguale qualità. Infatti, dei circa 800 censiti, soltanto sei (Segrate, Brescia, Colle Val d’Elsa, Roma, Ravenna e Catania), o poco più, possono essere identificati come vere e proprie moschee. Gli altri sono semplici «sale di preghiera» collocate in capannoni, garage, seminterrati, magazzini e palestre. Luoghi riadattati e, non di rado, in condizioni poco dignitose e disagiate.
La questione, dunque, non è se aprire luoghi di culto musulmano in Italia (perché ci sono già), ma quali luoghi di culto musulmani vuole avere l’Italia: per l’esclusione o per l’integrazione?
Il carattere laico dello stato
La Costituzione, nell’interpretazione costante e sempre più approfondita della Corte Costituzionale, impone una scelta precisa: il luogo di culto è espressione del diritto di libertà religiosa. Lo stato centrale (dettando le norme fondamentali), e le regioni (predisponendo la legislazione di dettaglio), hanno il dovere di garantire a tutti i gruppi religiosi questo diritto, mostrando non indifferenza, ma adoperandosi per rendee concrete le possibilità di esercizio. In altre parole, l’apertura dei luoghi di culto è espressione non solo dello specifico diritto di libertà religiosa, ma, più in generale, del carattere laico (pluralista e non indifferente) della Repubblica italiana chiamata a valorizzare e integrare, su un piano di uguale libertà, tutte le formazioni sociali, anche quelle religiosamente connotate.
Le regioni fanno il bello e il cattivo tempo
Lo stato è intervenuto in materia facendo rientrare gli edifici di culto tra le opere di urbanizzazione secondaria, e dunque tra gli spazi pubblici di interesse comune. Le municipalità dovranno quindi pianificare i propri territori prevedendo la presenza di luoghi di culto, e disponendo per essi anche la possibilità di appositi finanziamenti pubblici.
Fissata questa regola essenziale, lo stato centrale non ha emanato alcuna disciplina organica di settore, lasciando l’attuazione del dettato costituzionale ai diversi legislatori regionali. Ed è qui che si sono incontrate le prime difficoltà. Infatti le varie leggi regionali in materia di edilizia di culto, in alcuni casi hanno portato a un’esplicita discriminazione contraria alla costituzione. Larga parte della legislazione regionale in materia mostra in particolare tre caratteristiche:
la grande discrezionalità lasciata alle pubbliche amministrazioni nella valutazione delle istanze avanzate dai diversi gruppi religiosi;
la ricorrente differenza di trattamento riservato alla chiesa cattolica rispetto agli altri gruppi;
la tendenza a considerare come interlocutori soltanto le comunità religiose istituzionalmente organizzate e numerose, riservando minore attenzione ai gruppi più fluidi (non solo i musulmani, ma anche, ad esempio, gli evangelici), meno numerosi e, di fatto, più distanti dal «sentire» della maggioranza.
Da queste tre tendenze, alcune regioni (l’Abruzzo e, soprattutto, per ben due volte, la Lombardia) hanno fatto derivare l’esclusione delle confessioni religiose prive di Intesa con lo stato1 dai contributi pubblici per l’edilizia di culto (Abruzzo), o dalle ordinarie procedure per l’assegnazione degli spazi, sostituite da altre più onerose (Lombardia).
La Corte costituzionale ha reagito contro questa tendenza dichiarando incostituzionali le leggi in materia edilizia della regione Abruzzo (1993) e Lombardia (2002 e 2016). Tali leggi non riconoscevano che il diritto a disporre di un luogo di culto discende direttamente dall’art. 19 della Costituzione e, dunque, costituisce un elemento essenziale del diritto di libertà religiosa indipendentemente dalla stipulazione di un’Intesa con lo stato.
Nonostante il loro peso, gli interventi della Corte costituzionale tuttavia non sembrano diventati un patrimonio comune dei legislatori regionali e delle amministrazioni comunali che si trovano a governare collettività multiculturali e religiosamente differenziate.
La «questione musulmana»
All’interno di questo quadro, la «questione musulmana» ha costituito la cartina di tornasole per verificare la capacità del ceto politico-istituzionale italiano di dare corpo alla libertà religiosa e alla laicità dello stato. L’islam, infatti, porta con sé tutti gli ingredienti capaci di mettere in crisi una gestione statica degli spazi pubblici.
Non solo i musulmani ben si prestano a rappresentare lo stereotipo dell’incolmabile alterità, ma essi sono pure frammentati, privi di rappresentanza unitaria, etnicamente e culturalmente differenziati, diversificati anche per scuole e tradizioni religiose, nonché per i legami con i paesi di provenienza che perdurano, spesso con scorno delle nuove generazioni, anche molti anni dopo l’insediamento in Italia.
L’11 settembre e le altre tragiche date che ne sono seguite, fino agli ultimi attentati di Bruxelles, hanno favorito l’inquadramento dei musulmani sub specie securitatis, incentivando paure e logiche differenzialiste – ispirate all’eccezionalismo – anche nel godimento del diritto di libertà religiosa e di culto. Di fatto, il legittimo godimento di luoghi di culto per i musulmani è divenuto, oggi, assai problematico.
Si spiegano così le 800 «sale di preghiera» allestite in luoghi inadatti e disagiati, e le pochissime «moschee» presenti nel nostro paese.
Un circolo vizioso da rompere
Peraltro, ad aggravare la situazione concorre la circostanza che nessuno dei loro luoghi di culto è formalmente classificato e, dunque, trattato come tale. Qualche lacuna del diritto e l’indisponibilità politica producono da troppo tempo un circolo vizioso che deve essere interrotto. Nei confronti dei gruppi religiosi ancora privi di intesa con lo stato italiano, infatti, il nostro paese non dispone di una legge generale sulla libertà religiosa e si serve ancora della legislazione sui «culti ammessi» del 1929-1930. Questa normativa lascia grandi spazi alla discrezionalità politica, e le comunità musulmane, per loro ignoranza o sfiducia, o per rifiuti e ostilità subiti, non sono ancora riuscite a ottenere il riconoscimento quali «enti di culto». L’unico ente musulmano capace di ottenere tale riconoscimento è stata la Moschea di Roma nel lontano 1974. La data è importante: si era in piena crisi petrolifera ed era obiettivo della politica estera dei tempi avere buoni rapporti con il mondo arabo incarnato, appunto, da una moschea che non rappresentava tanto i «musulmani italiani», quanto gli stati a maggioranza musulmana. Nel suo consiglio di amministrazione siedono, infatti, gli ambasciatori dei «paesi musulmani» accreditati presso la Repubblica e la Santa Sede.
Per gli altri gruppi, fino a ora, la via di questo riconoscimento è stata interdetta. Come pure è stata interdetta (molto discutibilmente) dal Consiglio di Stato la possibilità di ottenere una personalità giuridica di diritto privato ricorrendo al codice civile: per il giudice amministrativo, infatti, quando la finalità religiosa è prevalente l’unica via per il riconoscimento della personalità giuridica è quella prevista dalla legislazione del 1929-1930.
Ma così si torna al punto di partenza. I musulmani sono stati indotti allora a optare per il mimetismo, organizzandosi attraverso associazioni no profit, onlus, associazioni di promozione sociale. Tutte forme idonee per l’esercizio di molte delle attività non cultuali delle comunità religiose, ma inidonee per lo svolgimento delle attività con fine di religione e di culto. Per questo le comunità vengono poi a scontrarsi con i dinieghi comunali – e regionali – nel momento in cui vogliano, attraverso dette associazioni, aprire e gestire un luogo di culto.
Due percorsi da intraprendere
È evidente che i percorsi per superare questa impasse sono fondamentalmente due:
varare una nuova legge sulla libertà religiosa che superi definitivamente la legislazione dell’epoca fascista dettando nuove norme sull’associazionismo religioso nonché i principi fondamentali in materia di edilizia di culto;
in attesa di tale intervento, favorire l’organizzazione delle comunità musulmane secondo un modello duale già sperimentato con successo in altri paesi: da una parte, l’associazione di culto (allo stato attuale, una semplice associazione privata non riconosciuta) quale rappresentante degli interessi religiosi dei fedeli musulmani residenti in un determinato territorio; dall’altra, tutte le forme associative previste dall’ordinamento italiano per l’esercizio delle attività non cultuali.
In questo modo, attraverso un dialogo aperto e trasparente, le amministrazioni comunali ben potrebbero rapportarsi con le «associazioni religiose» in vista dell’assegnazione di aree o edifici per il culto, anche con l’accompagnamento di specifiche convenzioni in cui fissare rispettivi oneri, obblighi e contributi pubblici di sostegno.
Leggi ostili generano esclusione e insicurezza
Purtroppo, il percorso più seguito è più spesso un altro: quello dell’interdizione e della chiusura.
Ne è stato un recente esempio la legge regionale lombarda n. 62 del 27 gennaio 2015. In base a questa normativa l’apertura di un luogo di culto da parte dei gruppi religiosi privi di intesa (leggi: i musulmani) finiva per essere condizionata da controlli e oneri particolarmente pesanti e totalmente discrezionali. Si evocava poi il ricorso a invasive misure di sorveglianza che esorbitavano dalle competenze regionali.
Il 24 marzo scorso è stata resa nota la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionali parti importanti della legge lombarda. Ma l’azione dei giudici non è sufficiente.
Le nuove misure approvate il 5 aprile scorso dal Consiglio regionale del Veneto si collocano, pur se con maggior prudenza, sulla stessa direttrice tracciata dal legislatore lombardo. Il luogo di culto come eccezione da definire e circoscrivere (anche spazialmente) più che come diritto fondamentale da regolare. Si evoca, ma a fini apparentemente descrittivi, evitando le conseguenze costituzionalmente illegittime, la distinzione tra chiesa cattolica, confessioni con intesa e confessioni senza intesa; si evoca il referendum e si introduce la possibilità di richiedere l’utilizzo della lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto. Una norma che esorbita dalle competenze in materia urbanistica proprie del legislatore regionale e potenzialmente suscettibile di essere discrezionalmente strumentalizzata dai comuni, in occasione della stipula – e dell’esecuzione – delle convenzioni, contro l’apertura dei luoghi di culto delle comunità composte per la maggior parte da stranieri.
L’ostilità nei confronti dei luoghi di culto musulmani trascura la realtà (essi esistono già e vanno, piuttosto, ben regolati); offende la Costituzione; produce esclusione e insicurezza e, non da ultimo, contribuisce a erodere la comprensione del diritto di libertà religiosa che rischia di essere meno tutelato, per tutti.
Alessandro Ferrari*
* Alessandro Ferrari insegna diritto ecclesiastico e diritto canonico presso l’Università degli Studi dell’Insubria (Como-Varese). Autore di numerose pubblicazioni è membro del Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano istituito presso il ministero dell’Inteo.
Note:
1- Per approfondire il tema delle intese e della legge generale sulla libertà religiosa in Italia, si vedano gli articoli di questa rubrica in Mc 1-2/2015 (pp. 78-82), 3/2015 (pp. 66-69), 4/2015 (pp. 72-75) e 5/2015 (pp. 69-72).
sventola bandiera nera 2
Paesi occidentali e arabi sono in guerra contro il Daesh. Eppure il Califfato di al-Baghdadi resiste e, anzi, cresce e raccoglie proseliti. Chi sono i jihadisti che si arruolano? E come si spiega la loro scelta?
2014-2016, i due anni dello «stato islamico»
La guerra (poco) santa del Daesh
Paesi occidentali e arabi sono scesi in campo contro il Daesh (il nome arabo dell’Is, il cosiddetto Stato islamico). Eppure il Califfato di al-Baghdadi resiste e, anzi, raccoglie proseliti. Chi sono i jihadisti che si arruolano? Da dove provengono? Come si spiega la loro scelta? In questo dossier – proseguimento di quello del gennaio 2015 – cerchiamo di fornire qualche risposta.
«I crociati divisi di Oriente e Occidente si pensavano al sicuro nei loro jet mentre bombardavano vigliaccamente i Musulmani del khil?fah (califfato, ndr) […]». Così inizia la prefazione al numero di dicembre 2015 della rivista «Dabiq», organo di stampa del Daesh. E prosegue: «Ma Allah ha decretato che la punizione si sarebbe abbattuta sui crociati guerrafondai da dove non si sarebbero aspettati. Così, i benedetti attacchi contro i russi e i francesi sono stati eseguiti con successo nonostante la guerra dell’intelligence internazionale contro lo Stato islamico. Entrambe le nazioni crociate hanno distrutto le proprie case con le proprie mani per mezzo delle loro ostilità verso l’Islam, i musulmani e il Califfato».
Il 13 novembre 2015 l’Occidente è scosso dagli attacchi terroristici a Parigi che provocano 129 morti tra Francesi, Europei e Arabi. Tale tragedia è preceduta da altre che non ricevono la stessa attenzione mediatica e politica: il 12 novembre in un quartiere sciita di Beirut vengono uccise 43 persone; il 31 ottobre, l’esplosione di un aereo russo sul Sinai dilania 224 tra adulti e bambini; il 10 ottobre, un attentato ad Ankara colpisce una manifestazione pacifica facendo 102 vittime; e poi ancora attentati, benché non tutti direttamente a firma del Daesh, in Iraq, Kenya, Mali, Somalia, Tunisia, Siria, Libia, Usa, Indonesia, Burkina Faso, sia precedenti che successivi ai fatti di Parigi.
L’elenco dei morti è lungo e, se guardiamo con attenzione ai luoghi e alle persone, notiamo che la stragrande maggioranza delle vittime degli attacchi è musulmana. Nella stessa Parigi, ad esempio, sono stati uccisi diversi arabi musulmani. Dunque, oltreché una guerra contro l’Occidente, è in atto una guerra intra e inter islamica, cioè tra fazioni e popolazioni musulmane, alimentata da odii settari, regimi e gruppi sanguinari, e da retaggi di guerre coloniali passate e presenti.
Dal 2011, gruppi legati ad Al-Qaida, di cui l’Is originariamente faceva parte, sono stati armati, addestrati, finanziati da Europa, Usa e alleati turco-arabi (tra cui l’Arabia saudita), per abbattere regimi e dittature non funzionali al dominio occidentale. Questi gruppi hanno contribuito a devastare Libia, Siria, Iraq e altri stati.
Testimonianze, documenti e foto dimostrano che organizzazioni armate e addestrate dalla Nato sono passate dalla Libia alla Siria. Esse hanno acquisito armi, competenze e conoscenze sufficienti per fare ciò che vogliono, e per sperimentare le loro tecniche di «guerra urbana» anche in Europa, com’è successo a Parigi. In questi casi non si tratta più di grandi organizzazioni terroriste, ma di «cellule» che, giunte dall’esterno o già presenti nel paese, si attivano dopo il «patto di alleanza» con il gruppo terrorista e l’ordine ricevuto.
Dabiq, manuali e war-game
Consultando la rete internet non è difficile incontrare la rivista dell’Is, «Dabiq», o «manuali del combattente» come l’How to survive in the west. A mujahid guide, 2015 (Come sopravvivere nell’Occidente. Una guida per il mujahid), da scaricare e leggere per apprendere l’arte della dissimulazione, o taqiyyah, e fingersi bravi cittadini allo scopo di preparare indisturbati l’attacco terrorista; per imparare i modi in cui ingannare gli odiati kuffar, miscredenti, tramite carte di credito clonate, phishing (furto di dati e informazioni personali), furti, o per imparare le tecniche della guerriglia urbana, descritte minuziosamente per la «cellula dormiente da attivare al momento giusto, quando la ummah (comunità dei credenti) ha bisogno di te», o, ancora, per diventare esperti nelle modalità «dark» di comunicazione tra combattenti via internet1, per non essere scoperti dalle polizie dei vari paesi.
«La guerra imminente per la conquista di Roma – si legge nel manuale del combattente – consisterà principalmente in guerra urbana dentro le città e le strade europee», come è accaduto a Parigi o a Tunisi. E per essere pronti, i combattenti islamisti si addestrano all’uso delle armi, si allenano in palestra, fanno arrampicata, giocano con videogame di guerra, tra i quali i famosi «Call of Duty».
Tutto, dall’uccisione del miscredente, al comportamento illecito, all’abuso, è giustificato attraverso ahadith2 (ovvero, i detti del Profeta) selezionati e menzionati ad hoc, e rafforzato dalla convinzione che governi e corporazioni occidentali si comportino da criminali. La distinzione, operata a volte da governi e media occidentali, tra jihadista «moderato» (utile ad esempio in Siria per destituire Al-Assad, ndr) e terrorista, non ha senso. Tutti attingono dalle medesime fonti.
«Tutti questi eccessi, il discorso del martirio, i comportamenti immorali, la dissimulazione, la violenza, costituiscono un abuso da parte dell’Is e degli altri gruppi, una strumentalizzazione politica della religione», ci dice Roberto Aliotta, musulmano sufi e responsabile di una comunità ad Albenga (Savona). «Senza una guida spirituale, il Sacro Corano diventa lo strumento per giustificare ogni genere di crimine. L’abbandono del sufismo da parte degli Arabi ha avuto effetti catastrofici e li ha fatti tornare all’epoca preislamica. L’Is, così come altri gruppi, utilizzano alcuni versetti del Corano e certi ahadith per giustificare le loro azioni e far scattare la trappola del takfirismo (l’ideologia che usa l’accusa di miscredenza e apostasia, cfr. il glossario). Purtroppo il salafismo attuale (che vorrebbe un Islam «puro» come quello delle origini) incoraggia l’interpretazione personale degli ahadith, inducendo all’esaltazione della propria visione, sia essa incline alle degenerazioni modeiste o alla superficialità dei “letteralisti”».
Alla conquista di «Roma»
«Conquisteremo la vostra Roma – si legge su «Dabiq» di aprile 2015 -, spezzeremo le vostre croci e renderemo schiave le vostre donne, con il permesso di Dio, il Glorificato. Questa è la sua promessa fatta a noi. Egli è glorificato e non manca nelle sue promesse. Se non raggiungeremo quel momento, lo raggiungeranno i nostri figli e nipoti, e venderanno i vostri figli al mercato degli schiavi».
L’11 dicembre 2015, il sito del quotidiano britannico Dailystar pubblica un video dell’Is intitolato Incontrando Dabiq. In esso viene proposta una visione apocalittica degli ultimi giorni sulla Terra3. Roma è presentata come lo scenario della battaglia finale tra i «crociati» e i «credenti», con sequenze che mostrano la Città del Vaticano e un’unità corazzata dell’Is che avanza verso il Colosseo. La preparazione di jihadisti, da parte dell’Is, a una missione suicida viene mostrata in una parte del video intitolata Le ultime parole prima dell’operazione di martirio.
Quando lo Stato islamico parla di «Roma», traduce il termine arabo al-R?m, i Romani, cioè i Bizantini dell’Impero romano d’Oriente, rifacendosi alla omonima sura XXX del Corano che, al versetto 2, fa cenno alla conquista di Bisanzio da parte dei persiani: «I bizantini sono stati sconfitti». Tuttavia la stessa sura prosegue preconizzando la rivincita dei Romani: «Ma loro, dopo la sconfitta, vinceranno». Essa infatti si riferisce a eventi contemporanei al profeta Muhammad che videro quest’ultimo parteggiare per i Bizantini. Nel 614, i persiani politeisti di Cosroe avevano, infatti, occupato Damasco e Gerusalemme, compiendo saccheggi e devastazioni, avevano colpito anche l’Egitto ed erano arrivati a minacciare Costantinopoli. Alla Mecca, i nemici dei primi musulmani si rallegravano per le vittorie dei Persiani, ma la piccola comunità del profeta parteggiava per i Bizantini, monoteisti. Diciamo che il Corano, dunque, tiene le parti dei Romani in quanto cristiani, cioè genti del Libro, contro i Persiani.
Dove attinge allora l’Is, per giustificare le minacce a «Roma»? Come di consueto, dalla miriade di ahadith. Esiste una profezia riguardante la conquista di Roma menzionata da ahadith di Sahih Muslim, riportati nel già citato numero di aprile di «Dabiq», in cui vengono nominate Costantinopoli e Roma: «Questi ahadith indicano che i musulmani saranno in guerra con i cristiani romani – si legge a pagina 33 -. Roma, nella lingua araba del profeta si riferisce ai cristiani d’Europa e alle loro colonie in Siria prima della conquista della Siria stessa per mano dei Sahabah (primi musulmani). Ci sarà una pausa in questa guerra dovuta a una tregua o trattato. Durante questo tempo, musulmani e Romani combatteranno un nemico comune».
Dunque, dal punto di vista della tradizione ortodossa, la pretesa dell’Is di far guerra a Roma, dopo Costantinopoli, avrebbe un fondamento? Sia i versetti del Corano sia gli ahadith che citano la guerra contro Roma sarebbero da contestualizzare storicamente, ma nell’Islam la lettura storico-critica dei testi sacri è negata. «Dabiq» allora interpreta la profezia dandole un valore escatologico, da fine dei tempi, per avvalorare la conquista di Roma in questa epoca storica. A partire da questa visione profetica «senza tempo» e «senza territorio», e mancando un capo religioso riconosciuto da tutta la ummah, chiunque, con un po’ di potere, può decidere di muovere guerra decodificando Corano e ahadith a modo proprio.
Contro i «crociati cristiani»
L’Is spiega il perché del suo odio contro i «crociati cristiani»: «Oh Americani ed Europei – si legge, sempre nello stesso numero di «Dabiq» -, lo Stato islamico non ha iniziato una guerra contro di voi, come i vostri governi e media cercano di farvi credere. Siete voi che avete iniziato la trasgressione contro di noi e dunque siete voi a meritare il biasimo e a pagare un alto prezzo. Pagherete il prezzo quando le vostre economie collasseranno. Quando i vostri figli saranno mandati a fare guerra contro di noi e toeranno a voi disabili, amputati, dentro bare o mentalmente malati. Quando avrete paura di viaggiare in altre terre. Quando camminerete per strada, girando a destra e a sinistra, temendo i musulmani. Non vi sentirete sicuri nemmeno nei vostri letti. Pagherete il prezzo quando questa crociata collasserà, e vi colpiremo nella vostra terra e voi, da quel momento in poi, non sarete più in grado di far male a nessuno. Pagherete il prezzo e noi abbiamo preparato per voi ciò che vi farà soffrire». Sarà la «campagna finale», la battaglia apocalittica che avverrà in Dabiq, territorio nella Siria settentrionale in cui la profezia pone l’atto conclusivo della guerra contro i Romani. Dunque, afferma l’Is, «preparatevi, colpiteci, uccideteci, distruggeteci. Non servirà a nulla. Sarete sconfitti, perché il nostro Signore, l’Onnipotente, ci ha promesso la vittoria contro di voi e la vostra sconfitta».
Fragilità psicologiche e sociali di chi si arruola
Il giovane jihadista – la ferocia dell’Is
Il desiderio del martirio, il sentimento di essere parte di una comunità eroica di invincibili, il senso di rivalsa verso un mondo che esclude e procura sofferenze, l’esaltazione religiosa, l’abuso di droghe, sono alcune delle caratteristiche dei giovani combattenti dell’Is, spesso con una vita poco o per nulla religiosa alle spalle.
Essere uccisi, è, per i combattenti dell’Is, una vittoria: «Questo è il segreto. Voi combattete un popolo che non può essere sconfitto», perché non ha paura della morte (cfr. «Dabiq», n. 4, 2015). Anzi, la invoca.
La componente tanatofila (amore per la morte) di questo radicalismo violento cavalca il concetto islamico di «martirio», shahadah, come potente arma di testimonianza e riscatto dei popoli contro l’oppressore, trasformandolo nell’aspirazione massima cui deve tendere il mujahid, il combattente. Diventa un fine, e non più un mezzo, della «teologia della liberazione islamica». In diverse pagine del citato manuale del mujahid viene ripetuta l’idea del sacrificio cui devono aspirare i «soldati» dell’Is: «Il vostro lavoro non finirà finché non otterrete il martirio. E chiediamo ad Allah che avvenga presto».
La martirologia fa parte del retaggio culturale religioso dei popoli musulmani, sia sunniti sia sciiti, e, secondo l’islamologo francese Bruno Etienne, nel suo libro L’islamismo radicale (Rizzoli 2001), ancora oggi termini come fity?n (giovane, eroe), muj?hid (colui che intraprende una lotta interiore, e anche militare, per il bene della comunità), fid?’o sh?hid (sacrificarsi per qualcuno o qualcosa), istishh?d (essere testimone tramite il martirio), «modeizzati dalle guerre di liberazione nazionale e rivoluzionaria, dall’Algeria alla Palestina», hanno una connotazione religiosa ed escatologica molto forte, soprattutto in relazione ad apostati, miscredenti, tiranni, oppressori. E, dunque, un fid?’?, uno che si immola individualmente, o un muj?hid, un combattente, morti, diventano martiri della fede: sh?hid.
Il giovane jihadista: chi è?
Ciò che hanno in comune i terroristi delle Torri Gemelle con quelli di Parigi e di altri attacchi in Europa e in altre regioni del mondo, è il fatto che non corrispondono al modello stereotipato del fanatico religioso: bevono alcornol, almeno fino a poco prima di immolarsi, hanno storie di droga, non frequentano le moschee, vanno con le prostitute e in locali equivoci, non pregano, i conoscenti li descrivono come allegri, socievoli, giovani che si divertono.
Queste considerazioni si applicano tanto ai jihadisti provenienti dalla classe media e alta, quanto a quelli delle classi popolari: sembrano semplici laici, per lo meno fino a poco prima degli attacchi.
Dunque, il jihadismo, tanto per i «nati musulmani», quanto per quelli che lo diventano, rappresenta una «conversione», una rinascita personale, una nuova vita. E ciò accade, in genere, poco prima che essi si arruolino nelle fila di qualche organizzazione.
In un certo senso la trasgressività delle loro vite anteriori alla conversione si trasferisce nella trasgressività di un Islam al di fuori della consuetudine ortodossa. Un fenomeno che assomiglia molto alle conversioni, nell’America Latina, alle sette evangeliche militanti da parte di giovani con dipendenze da alcol o con altri problemi sociali.
Non è un caso che diversi studiosi – tra cui psicologi, sociologi, antropologi e medici – parlino di forme di sofferenza psichica e sociale comuni ai vari jihadisti: depressione, isolamento, instabilità psicologica, ipersensibilità, debolezza, sentimento di alienazione o di non appartenenza a un luogo, un tempo, un territorio, una società.
Questo sembra, dunque, il retroterra comune sia al jihadista che arriva dai borghi ricchi delle città, sia a quello delle periferie, banlieue o bidonville, sia al musulmano di nascita, sia a quello convertito.
In tutti questi casi, la persona disagiata trova nelle reti sociali dell’Islam radicale le risposte che cerca.
Oltre a ciò, una sensibilità e un idealismo particolarmente spiccati, e la rabbia causata dalle ingiustizie sociali (presenti sia nel proprio territorio che nel resto del mondo), rappresentano una spinta per cercare giustizia e legge nell’Islam, percepito come «rivoluzione permanente» e, in particolare, nell’Islam più estremo e politicizzato, al di fuori della società occidentale, o dei regimi arabi corrotti.
Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Russia, Israele, ma anche Iran e alcuni governi arabi, sono considerati da questi giovani (e anche adulti) come il male che infesta il mondo e aggredisce la ummah islamica, e che deve essere combattuto.
Ecco, allora, che l’Is, con la sua propaganda di eroi, «giovani leoni», forti, palestrati, belli, cosmopoliti e «antagonisti» dei corrotti, riesce ad attrarre molti giovani in crisi di identità.
Islamisti radicali in Italia
In una nostra precedente inchiesta, risalente alla fine degli anni ‘90, per la quale intervistammo diversi uomini e donne, musulmani di origine o convertiti, di varie città italiane e distinte classi sociali, era emersa, tra le donne convertite a un Islam più radicale, l’alta incidenza di sofferenze psicologiche o familiari. Molte erano le persone con un passato di instabilità emotiva e affettiva, segnato da droga o etilismo, con esperienze di abbandono familiare, di padri fuggitivi o violenti, madri malate o incapaci di occuparsi di loro. Molte avevano esperienze di militanza in organizzazioni molto militarizzate di estrema sinistra o estrema destra.
Questa vita passata, segnata da sofferenze o rigida disciplina, veniva solitamente raccontata dalle interessate per indicare un prima e un dopo la «conversione» o, meglio, il «ritorno all’Islam», (secondo il concetto islamico per cui tutti, alla nascita, siamo musulmani, nel senso etimologico del termine, ossia creature sottomesse a Dio).
Anche tra diversi uomini emergeva un passato di droga, alcol, violenza personale, ex militanza in partiti estremisti. Le letture principali, per molti di loro, erano i testi classici del salafismo: Ibn Taymiyya, Sayyid Qutb, Albani, Mawdudi.
Negli anni tale situazione non è mutata, e, anzi, si è acutizzata. Spiega il già citato Roberto Aliotta: «Tra i convertiti che ultimamente si presentano nel nostro centro, vediamo soprattutto individui con disturbi gravi della personalità. E ci sono stati vari casi di musulmani immigrati che hanno manifestato attitudini violente nei confronti dei non musulmani, effetto di disordini mentali che la lettura di testi salafiti o l’ascolto di sermoni violenti, via internet, esasperano».
Le persone alla ricerca di un cammino spirituale si avvicinano all’Islam tradizionale e non hanno bisogno di aderire alla visione estremista della dottrina wahhabita neosalafita e delle sue diramazioni come il jihadismo e il takfirismo (cfr glossario).
Disordine mentale o reazione all’emarginazione politica e sociale?
Le testimonianze di 160 famiglie francesi con figli jihadisti costituiscono la base di una relazione redatta dal Cpdsi (Centre de Prévention contre les Dérives Sectaires liées à l’Islam, Centro di prevenzione contro il settarismo in relazione all’Islam)4. La ricerca ha messo in evidenza come una percentuale abbastanza elevata di giovani (40% degli intervistati) che si era unita a gruppi jihadisti soffriva di depressione o mostrava fragilità psicologiche. Ciò ha portato i ricercatori a supporre che «l’indottrinamento funzioni più facilmente con i giovani ipersensibili che si pongono domande sul significato della loro vita».
«Le famiglie che entrano in contatto con il Cpdsi – si legge nella relazione – sono tutte di cittadini francesi. Soltanto il 10% ha nonni che emigrarono o si installarono nella Francia metropolitana, dopo aver vissuto nei territori francesi in America, in Germania, in Algeria, Tunisia, Marocco o in Asia. Questi giovani influenzati dal radicalismo dichiarano di sentirsi “senza territorio”, appartenenti al “niente”, e cresciuti in un “blackout”».
Un altro dato interessante della ricerca, che riguarda l’84% dei jihadisti intervistati, è la loro provenienza dalla classe sociale media o medio alta, con una forte presenza di genitori insegnanti e con una formazione universitaria (50% dell’84%). Il restante 16% è diviso tra la classe popolare e quella alta. Oltre a ciò, l’80% delle famiglie si dichiara atea. Solo il 20% si definisce buddhista, ebrea, cattolica o musulmana.
La fascia di età più colpita è quella tra i 15 e i 21 anni (63%). Quella tra i 21 e i 28 anni corrisponde al 37%.
La ricerca, inoltre, mostra che, rispetto a un tempo passato nel quale le conversioni al radicalismo (islamico o evangelico) erano caratteristiche soprattutto delle classi popolari, con bassa scolarizzazione e instabilità, delle seconde generazioni di immigrati, e delle minoranze, negli ultimi tempi riguardano invece tutte le classi sociali. Come spiega Oliver Roy, esperto di geopolitica islamica e direttore di ricerca al Cnrs (Centre national de la recherche scientifique) di Parigi, nel suo volume Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo islam: «L’islamizzazione della periferia dell’Europa è un fenomeno reale, ma marginale […]. In realtà, non si può vedere nel radicalismo islamico la conseguenza dell’esclusione sociale, non fosse altro che per l’evidenza che molti militanti (e lo stesso Bin Laden, ad esempio) non hanno nulla di marginale, in termini socio economici».
Tuttavia, per altri studiosi, il radicalismo islamico (anche se non necessariamente quello di al-Qaida o dell’Is) rappresenta un potenziale di «rivoluzione» e ribellione contro lo status quo e contro l’emarginazione sociale e politica di masse di persone, sia in Occidente sia in Oriente. Per questo, anche noi crediamo che sia importante tenere accesi i riflettori sul tema dell’esclusione sociale dei musulmani in paesi come la Francia e l’Italia: la patria di «Liberté, Egalité, Frateité», infatti, secondo un’inchiesta di The Telegraph, «emargina, impoverisce e perseguita i musulmani. Delle 67.500 persone attualmente in carcere in Francia, circa il 70% è musulmano. Nelle prigioni, lasciati a se stessi, i giovani più vulnerabili trovano rifugio nei sermoni infiammati di alcuni personaggi radicali».
Per l’islamologo Massimo Campanini, docente di storia dei paesi islamici presso l’Università di Trento, il radicalismo islamico è, per sua natura, un’ideologia di opposizione che produce un islamismo politico.
Secondo Hrair Dekmejian, docente di scienze politiche all’Università della Califoia meridionale di Los Angeles, l’Islam radicale, in quanto movimento globale, nei confronti dei giovani europei e arabi può esercitare un potere di attrazione che si basa su sei punti: 1) offre una nuova identità a individui alienati che hanno perso il loro orientamento sociale e spirituale; 2) definisce una visione del mondo in termini inequivocabili, identificando le fonti del bene e del male; 3) offre forme alternative di confronto con un ambiente ostile; 4) fornisce un’ideologia di protesta contro l’ordine stabilito; 5) fornisce un senso di dignità e di appartenenza, e un rifugio spirituale contro l’incertezza; 6) promette una vita migliore in questa Terra e nei Cieli.
Più fragilità psicologica che economica
«Migliaia di giovani lasciano la vita confortevole in Europa per aderire allo Stato islamico, dove fanno addestramento per prepararsi alla guerra, e per morire, poi, in un attentato suicida, come gli attacchi di Parigi». Secondo Lamya Kaddor, autrice del libro Zum Töten Bereit (Pronto per uccidere), il ruolo degli europei – discendenti di immigrati e convertiti – nelle fila dello Stato islamico, è sempre maggiore. Lamya, figlia tedesca di immigrati siriani, vede il terrorismo islamico come un movimento di protesta di una generazione che si sente vittima della società, della scuola o della famiglia. «Cinque dei miei alunni, un giorno scomparvero e furono successivamente localizzati in Siria, dove erano andati a lottare con l’Is. Rimasi perplessa, tentando di capire le possibili cause. In tutti loro c’era una sensazione di esclusione, un deficit emozionale o semplicemente una mancanza di amore nella famiglia, che li rendeva facili vittime di moschee radicali. Gli imam radicali trovano ascolto dove ci sono giovani già disponibili, che tendono al jihadismo come manifestazione di un movimento di protesta di una generazione nata in Europa, che soffre per la mancanza di radici e perché vede i genitori vittime di discriminazione e dell’assenza di possibilità di mobilità sociale».
La voce di Ahmad Mansour (psicologo israelo palestinese, direttore del programma European foundation for democracy, attivo nella lotta contro l’estremismo islamico tra i giovani musulmani in Germania) si unisce a chi afferma che «i problemi che conducono i giovani ad aderire al jihad sono più psicologici che socio economici. Circa il 40% dei nuovi jihadisti soffre di depressione e scopre un’ideologia che va a riempire una vita giudicata come vuota. L’aspetto della violenza arriva successivamente».
La ferocia dell’Is
Tra i giovani seguiti dal Cpdsi per il suo studio, molti presentano sintomi come depressione, anoressia, autolesionismo, isolamento. Non si sono mai sentiti «connessi con il mondo», «capiti dagli altri», ma sempre «differenti», perché «Dio mi ha eletto come persona pura, capace di ricevere la verità per salvare il mondo dalla perversione». I ricercatori francesi spiegano che «in un primo momento, la fragilità dei giovani […] è il terreno fertile per l’ingresso nei movimenti radicali; […] la rottura con la società e la famiglia è una conseguenza dell’indottrinamento settario».
Instabilità e sofferenza, alcolismo e altri vizi, sembra fossero caratteristiche anche dalla personalità della giovane Hasna Ait Boulahcen, morta nell’esplosione provocata dal mujahid con cui stava nell’appartamento di Saint-Denis, a Parigi, durante il blitz della polizia, pochi giorni dopo gli attachi del 13 novembre. Un altro kamikaze di Parigi sembra frequentasse bar di trafficanti di droga.
Certamente i comportamenti border-line, tipici di ambienti di emarginazione sociale, potrebbero far parte anche della «dissimulazione» richiesta dalle regole del bravo jihadista. L’Is, però, mostra una ferocia così spettacolare che è difficile non pensare che i suoi membri non facciano uso di droghe o non siano vittime di qualche patologia.
Esistono diversi ahadith molto chiari in tema di «guerra»5: non si devono uccidere donne, bambini, vecchi; non si deve distruggere la natura; non si devono smembrare i cadaveri, ecc. Anche in questo, dunque, l’Is mostra inquietanti innovazioni verso un uso personale, strumentale della religione.
La diffusione del «Captagon»
In questi ultimi anni stanno emergendo dati sulla distribuzione e il consumo di droghe da parte di jihadisti in Siria e in altre zone di guerra.
Secondo quanto riportato dal quotidiano the guardian nel gennaio 2014, indagini realizzate separatamente dall’agenzia di notizie Reuters e dal Time magazine hanno portato alla luce il crescente commercio di Captagon, di fabbricazione siriana, un’anfetamina utilizzata in Medio Oriente, quasi sconosciuta in altre aree del mondo. Il Captagon genera proventi di milioni di dollari, alcuni dei quali sono usati per comprare armi.
In base alle fonti citate, il Captagon fu prodotto per la prima volta negli anni ‘60 per curare la narcolessia, la depressione, ma fu poi proibito negli anni ‘80 perché dava dipendenza. Tuttavia, ha continuato a essere usato in Medio Oriente, compresa la puritana e salafita Arabia Saudita, dove sembra essere molto popolare.
Uno psichiatra libanese, Ramzi Haddad, intervistato dal Time, ha affermato che il Captagon ha «gli effetti tipici di uno stimolante e produce una sorta di euforia. La persona diventa molto comunicativa, non dorme, non mangia, è energica».
Il narcisismo di combattenti «pop star»
Jihad: sesto pilastro dell’Islam radicale
Non sono rari i casi di islamisti militanti riconvertiti in Europa dopo una vita di indifferenza verso la propria religione di origine. È il desiderio di ritrovare un’identità e un’appartenenza. Il problema, in una comunità islamica che a volte si incontra più facilmente su internet che altrove, è la facilità di incappare in versioni fai da te della religione del Profeta.
Secondo Katherine Brown, del Dipartimento di Studi della Difesa al King’s College di Londra, intervenuta sul quotidiano brasiliano O Globo: «Lo Stato islamico non ha mai contato sui “lupi solitari”, come si è supposto recentemente. […] È, invece, molto comune […] la struttura di cellule con relazioni di fiducia stabilite soltanto tra “scelti”». Di un’analoga struttura selettiva, tra fiduciari, all’interno dei gruppi di combattenti in Libia, ci parla anche il libro Soldier for a summer (Soldati per un’estate) di Sam Najjair, ex foreign fighter, non Is, in Libia e Siria.
Nei loro testi, Daniele Conversi (professore presso la Facoltà di Scienze Sociali all’Università dei Paesi Baschi, Spagna) e il già citato Olivier Roy (autore de L’echec de l’Islam politique – Il fallimento dell’Islam politico), sottolineano come il radicalismo islamico rappresenti un veicolo e un prodotto della globalizzazione. In modo analogo, l’islamologo Bruno Etienne descrive la nascita dei movimenti islamici come risposta alla modeizzazione e come «islamizzazione della modeità».
Scrive Roy: «La religione, concepita come un insieme di norme decontestualizzate, può essere adattata a ogni società, proprio perché ha tagliato i propri legami con una determinata cultura e permette alla gente di vivere in una specie di comunità virtuale, deterritorializzata che include qualsiasi credente».
Negli ultimi decenni lo spostamento a Occidente di molte persone provenienti da paesi musulmani e la loro condizione di minoranza, incoraggiano la creazione di comunità religiose slegate dalle realtà islamiche d’origine. L’Islam stesso, come sistema di interconnessioni sociali e religiose, si reinventa: laddove in patria la comunità era il referente supremo, in «diaspora» i musulmani si riscoprono «individui» che operano scelte personali, spesso in rottura con la tradizione e la cultura della terra natale. Il proprio gruppo è percepito come «accerchiato», circondato da un ambiente ostile – dai kuffar -, tra cui è costretto a vivere, e dai quali va protetto, possibilmente chiedendo allo stato di riconoscee l’identità in quanto minoranza. Si vedano, ad esempio, i numerosi tentativi, iniziati già a fine anni ‘90, di «intese» tra Stato e comunità islamiche in Italia, tutti falliti anche per la mancanza di una leadership rappresentativa e «unitaria» dell’Islam italiano6.
In terra d’immigrazione molti musulmani riscoprono «radici» che non sapevano di avere, e un’identità specifica, in contrapposizione e antagonismo con quella dei «miscredenti». La reislamizzazione, la «rinascita» di molti musulmani (spesso laici nel paese d’origine) non è solo un fenomeno identitario, ma anche un processo di occidentalizzazione che, giocoforza, è un lasciare dietro di sé la propria cultura d’origine e le tradizioni.
Il jihad, sesto «pilasto» dell’Islam radicale
La modeità emerge in modo particolare nel rapporto tra l’Islam radicale e l’uso della violenza. Si tratta, come spiegano i musulmani tradizionalisti, di una innovazione, o bid’a, dunque un paradosso per i fondamentalisti. Questa innovazione si esplicita, per esempio, nel concetto di jihad (qui nel suo significato di sforzo minore, cioè militare), manipolato dall’ideologia wahhabita neosalafita, che diviene una priorità, trasformandosi in una obbligazione dell’individuo, fard al-’ayn, e, in questo modo, è imposta a ciascun musulmano, in qualsiasi momento, mentre nella tradizione ortodossa è considerato, invece, un obbligo collettivo limitato nel tempo e nello spazio, e obbligatorio nelle situazione di minaccia, cioè quando il D?r al-Isl?m, il territorio islamico, è in pericolo.
Tale innovazione, come sottolineano Roy e altri studiosi, fu introdotta da islamisti come Sayyed Qutb, teorico della Fratellanza Musulmana, un movimento neosalafita creato nel 1928 in Egitto, e da altri. Il jihad divenne, nel corso degli anni, un obbligo, il sesto «pilastro dell’Islam» da aggiungere ai cinque tradizionali: professione di fede, preghiera, digiuno nel mese di Ramadan, pellegrinaggio alla Mecca ed elemosina.
I gruppi del neofondamentalismo – sviluppatosi a partire dagli anni ‘80, di cui al-Qaida è una delle organizzazioni più note e a cui si aggiunge, oggi, anche l’Is -, che fanno del jihad un obbligo individuale vengono chiamati, appunto, jihadisti.
Tuttavia, come afferma Roy, la maggior parte dei conflitti definiti «religiosi» sono, in realtà, «etnico-nazionali», e in vari casi, non ultimi quelli in Iraq e in Siria, il jihad viene strumentalizzato dai neofondamentalisti così come dai governi occidentali, i quali esagerano la dimensione islamica per questioni di politica intea o estera. Spesso la violenza «islamica» è, in realtà, antimperialista e antiamericana (e antisionista). Sono, come spiega Roy, «i postumi della decolonizzazione».
I mezzi utilizzati dai jihadisti – ad esempio gli attentati suicidi – sono considerati antislamici dalla tradizione ortodossa, e sono un’introduzione modea mutuata da altre tradizioni e dalle lotte secolari di movimenti e gruppi nazionalisti. I militanti di al-Qaida, come quelli dell’Is, hanno tagliato i contatti con la famiglia di origine e con la propria patria (elementi anche questi in totale contrasto con la tradizione sociale e culturale dei paesi islamici), e sono molto criticati anche per questo dai musulmani tradizionalisti. Molti combattenti jihadisti, infatti, come dicevamo, si sono reislamizzati in Occidente o in paesi considerati «laici», come la Tunisia (da dove arriva la maggior parte degli aderenti ai gruppi del jihad uniti all’Is o alle reti di al-Qaida). Qui l’Islam è individuale, «fai da te», costruito attraverso i sermoni ascoltati in certe tv o siti internet, prodotti da predicatori improvvisati e con scarsi studi alle spalle. «Questi neofondamentalisti – scrive Roy – non riconoscono alcun maestro nell’Islam e, del resto, conducono spesso una vita molto poco conforme ai precetti della religione. […] È impressionante la continuità dell’azione di Bin Laden (e del “califfo” al-Baghdadi, leader dell’Is, nda) con il movimento antimperialista e terzomondista occidentale degli anni sessanta e ottanta». Probabilmente, ipotizza Roy, i giovani proletari o della buona borghesia che ora entrano nell’Is, sarebbero stati membri di gruppi rivoluzionari antimperialisti solo pochi decenni addietro. Tant’è che capita di leggere, nei social network, commenti ammirati di donne e uomini, un tempo militanti antisistema, di fronte alle gesta delle truppe dell’Is.
Tecniche di seduzione
Secondo il Cpdsi, quasi 20mila stranieri si sono uniti ai jihadisti in Siria e in Iraq: quattromila sono Europei. Come già accennato, raramente la radicalizzazione avviene nelle moschee o nei centri islamici: non è nei centri religiosi che i giovani si incontrano, ma nei cyber-café, nelle università, nelle librerie, nella rete internet.
Nei libri diario scritti da combattenti di ritorno dalla Libia o Siria, si apprende che uno dei percorsi comuni a molti giovani è l’incontro e la sensibilizzazione alla «causa» in un internet-café in qualche grande città europea o araba. La «riconversione» religiosa e la militanza politica arrivano quasi simultaneamente con la decisione di arruolarsi. È quanto è avvenuto con molti «ribelli» europei o arabo europei andati a combattere in Libia e in Siria a fianco di una delle formazioni della galassia di al-Qaida alleate della Nato.
Questi diari trasudano narcisismo, autoesaltazione e autoreferenzialità, e sono intrisi di racconti di violenza e abuso di armi. Gli autori si dipingono come «leoni», eroici guerrieri senza macchia e senza paura. Sono invece persone violente, amanti del potere, coinvolte in traffici loschi e retribuite generosamente. Infatti, un elemento comune a molti jihadisti è quello di essere arruolati come mercenari.
È proprio a partire dall’elemento narcisistico che Nazir Afzal, ex procuratore del Regno Unito, sentito dal The Guardian, descrive i terroristi dell’Is come persone disposte a correre dietro alla gloria vendendosi tramite video professionali che li fanno apparire affascinanti e sexy. Essi perseguono una propria autornaffermazione allontanandosi da amici e famiglia. Afzal vede una somiglianza emotiva tra gli adolescenti radicalizzati adescati on line dal jihadismo e quelli che in internet cercano un partner sessuale: «Le tecniche di seduzione sono le stesse». La radicalizzazione è veicolata on line e attraverso predicatori carismatici, che incentivano i ragazzi ad «andare verso il proprio lato oscuro». L’ex procuratore britannico crede, dunque, che tale fenomeno debba essere affrontato con l’aiuto di specialisti, come si fa con una dipendenza psicologica. E aggiunge che una delle questioni importanti è che i giovani attratti dal radicalismo considerano i predicatori salafiti e i leader dell’Is come «stelle» del cinema o pop-star.
A tal riguardo, una musulmana italiana ha scritto su Facebook: «Il problema è che i giovani di origine francese o algerina, o molti altri come loro, non apprendono l’Islam con l’aiuto di un imam vero, con una solida preparazione teologica, ma preferiscono ascoltare dei matti su YouTube. Questo succede in tutta l’Europa. Quando un centro islamico invita un teologo di al-Azhar, del Cairo, poche persone vanno ad ascoltarlo, ma quando è invitato un tele-predicatore, una “stella” radicale di YouTube, che usa un linguaggio violento e incolto, con scarsa conoscenza dell’arabo dotto e un uso massiccio della parola kuffar (miscredente), moltitudini di giovani affluiscono nelle moschee. Ci sono pure donne che sognano di diventae la terza o quarta moglie, sbavando come altre ragazze davanti a divi della musica. C’è un vuoto nelle comunità islamiche che va colmato da veri sapienti e sottratto agli shaykh fai-da-te».
Inteet, la nuova «ummah»
Inteet è un mezzo di comunicazione, uno spazio di sostituzione di una comunità, ummah, che è rimasta virtuale a lungo. È uno spazio virtuale sacro, divenuto l’unico territorio reale dal punto di vista del gruppo radicale, a partire dal quale è possibile proteggersi e lottare contro il «caos del mondo perverso».
Come rileva il Cpdsi, i giovani «infettati» da questo discorso, prima vivevano come individui globalizzati, ma non si sentivano parte di una cultura e di una comunità nazionale. E, così, il califfato dello Stato islamico, proclamato a giugno del 2014, «ha aperto il cammino per il riconoscimento di uno spazio territoriale comune, accettato dalla ummah globale», anche se internet continua a essere comunque il principale mezzo di comunicazione per il «passaggio dal territorio virtuale a quello specifico», dovunque l’Is si sia radicato fino a ora, dalla Libia all’Iraq.
Inteet è un potente mezzo di reclutamento e di scambio di informazioni per comunità con «valori» condivisi. Ed è solo dopo la seduzione virtuale che arriva il momento del sospirato incontro fisico con il gruppo jihadista, là, nel territorio dell’Is, dove il war-game si trasforma in realtà.
Angela Lano
Diritto di libertà interiore
La tensione alla libertà interiore, ricercata comunitariamente, è uno dei cardini del sufismo, e anche uno dei motivi per cui è sempre stato considerato pericoloso, sia dal potere teocratico che da quello laicista. Una storia raccontata dal «santo» sufi Jalâl al-Dîn Rûmî, detto Mawlânâ, illustra, come una parabola, la strada per realizzarla.
La purificazione interiore è l’obiettivo verso cui tende il sufi nel suo rapporto con il Dio Altissimo, Onnipotente e Misericordioso (che è lo stesso Dio del musulmano «ordinario»). Raggiungere uno stato di «annientamento», di spoliazione da tutto, dall’individualismo, dall’egoismo, dalle passioni disordinate che possono governare l’uomo, e divenire libero di innalzarsi verso Dio. Si tratta del fanâ’, di quella condizione che talvolta viene confusa con una specie di nirvana. Ma nel nirvana non si sa dove sia l’anima o la creatura, mentre il sufi sa perfettamente dove si trova, anche quando è sospeso tra il cielo e la terra, in quello stato particolare definito «tra i due mondi», la barzakh.
Il sufismo, nella sua tensione verso la purificazione mistica, è un fatto della vita pratica, vissuta: riguarda l’esistenza concreta del fedele. Non si può percepire in profondità cosa sia questa corrente mistica dell’Islam, se non si scende nel concreto della vita, se non si assiste, ad esempio, alla pratica dello zikr, la ripetizione del nome di Dio, se non si partecipa alla danza dei dervisci rotanti. E non si può partecipare della sua forza liberatrice se non si vive comunitariamente: perché quella dei sufi non è una ricerca individualista, ma bensì comunitaria. Ricercano insieme la liberazione interiore. È questo il motivo per cui la loro esistenza fa temere i diversi poteri, tanto quelli religiosi integralisti quanto quelli politici laicisti (cfr MC ago.-sett. e nov. 2015). Il fatto che esistano dei gruppi di ricerca interiore, mette in scacco, da un lato la frammentazione della società voluta dai regimi laicisti, e dall’altro il conformismo uniformante dei regimi teocratici, tra cui quelli musulmani. La ricerca di una spiritualità della libertà interiore può infatti sfociare anche in una ricerca di libertà sociale.
La poesia di Dio
Per comprendere come avviene l’elevazione dell’animo e della persona del sufi, c’è una complessa rete di pratiche rituali che sarebbe utile conoscere. Ma per comprendere il cuore delle aspirazioni mistiche dei sufi, di liberazione interiore, può bastare leggere alcuni dei suoi testi tradizionali.
Il sufismo si esprime eminentemente in poesia, e non è un caso che nei paesi musulmani la poesia sia ancora oggi un mezzo di contestazione sociale. Alcuni mistici trasmettono l’anelito alla libertà interiore e, spesso, a quella civile, proprio tramite la poesia. Lo si intuisce bene da una storia contenuta nel poema Mathnawî di Jalâl al-Dîn Rûmî, quasi una parabola con un pappagallo e il suo padrone come protagonisti, in cui è contenuta tutta la tensione del sufismo verso la purificazione e liberazione.
C’era un mercante che aveva un pappagallo
«C’era un mercante che aveva un pappagallo; un bel pappagallo imprigionato in una gabbia1. Il mercante si preparò per un viaggio: decise di andare in India. Generosamente disse ad ogni schiavo […]: “Che cosa vuoi che ti porti?”. Ognuno gli chiese ciò che più desiderava: il brav’uomo si impegnò con tutti. Poi disse al pappagallo: “Che regalo ti piacerebbe che ti portassi dal paese dell’India?”. Il pappagallo rispose: “Quando laggiù vedrai i pappagalli, spiega loro la mia sventura e dì loro: ‘Il tal pappagallo, che ha nostalgia di voi, per desiderio del Cielo è nella mia prigione. Vi saluta, chiede giustizia, e desidera conoscere da voi un rimedio e un modo per essere ben guidato’. E dice ancora: ‘È bene che, avendo nostalgia di voi, io renda lo spirito e muoia nella separazione? È giusto che mi trovi in una crudele prigionia, mentre voi siete sui teneri arbusti o sugli alberi? È questa la fedeltà degli amici?’”. […] Il mercante accettò quel messaggio e promise di portare il saluto del pappagallo ai suoi simili.
Giunto ai limiti più estremi dell’India, scorse nella pianura un gruppo di pappagalli. Fermò il suo cammello, poi trasmise il saluto, adempiendo così al suo incarico. Ed ecco che uno dei pappagalli si mise a tremare violentemente, il suo respiro si fermò e cadde morto. Il mercante si rammaricò di aver dato quelle notizie, e disse: “Sono venuto a distruggere questa creatura. Certamente era un parente del mio pappagallino […]. Perché ho fatto questo? Perché ho portato quel messaggio? Con una parola stupida ho distrutto questa povera creatura”. […].
Il mercante concluse le sue faccende e toò a casa col cuore lieto. Portò un dono a ogni schiavo, fece un regalo a ogni schiava. “Dov’è il mio regalo? – chiese il pappagallo -. Raccontami ciò che hai detto e che cosa hai visto”. “No – egli rispose – veramente mi pento, torcendomi le mani e mordendomi le dita. Perché mai, per ignoranza e follia, ho portato un messaggio tanto stupido?”. “Padrone – disse il pappagallo – di che cosa ti penti? Che cosa mai ti provoca collera o dolore?”. “Ho riferito i tuoi lamenti – rispose – a un gruppo di pappagalli simili a te. Uno dei pappagalli capì il tuo dolore, che gli spezzò il cuore, tremò e morì. Mi sono addolorato. Pensavo: ‘Perché ho detto ciò?’ Ma a che serve pentirsi dopo aver parlato?” […].
Quando l’uccello udì ciò che quel pappagallo aveva fatto, tremò violentemente, cadde e rimase stecchito. Il mercante, vedendolo cadere così, diede un balzo e gettò in terra il suo berretto; si buttò per terra e si lacerò il vestito […]. Gridava: “Oh, bel pappagallo dalla voce soave! Che cosa ti è successo? Perché sei diventato così? Oh! Ahimé per il mio uccello dalla dolce voce! Oh! Ahimé per il mio amico intimo e mio confidente! Oh, ahimé per il mio uccello melodioso, vino del mio spirito, mio giardino e mio dolce basilico!” […]. Il mercante, logorato dal dolore, dall’angoscia e dalla nostalgia, pronunciava centinaia di frasi, a volte in polemica con se stesso, a volte giustificandosi, a volte supplicando, a volte appassionato di verità, a volte di irrealtà […].
Dopo di ciò, lo buttò fuori dalla gabbia. Il pappagallino volò via fin su un alto ramo. Quel pappagallo morto prese il volo come quando il sole balza in avanti da Oriente. Il mercante rimase stupefatto per ciò che l’uccello aveva fatto; senza capire, improvvisamente intuì i segreti dell’uccello. Alzò il volto e disse: “Oh, fammi la grazia di spiegare questo fatto. Che cosa ha fatto quel pappagallino laggiù perché tu imparassi il modo di preparare questo cocente stratagemma per me?”. Il pappagallo disse: “Con la sua azione, mi ha consigliato: ‘Rinuncia al fascino della tua voce e al tuo affetto, poiché è stata la tua voce che ti ha condotto alla schiavitù’. Esso ha fatto finta di essere morto per darmi questo consiglio intendendo: ‘Tu che sei divenuto un cantore per il fior fiore della società e per la gente comune, per ottenere la libertà muori come faccio io’”. Così il pappagallo gli diede uno o due consigli pieni di saggezza, poi gli rivolse il saluto della separazione. Il mercante gli disse: “Va’, che Dio ti protegga! Adesso mi hai mostrato una nuova via”, e disse a se stesso: “Questo consiglio è per me; seguirò la sua via, poiché quella via è radiosa. La mia anima sarebbe forse inferiore a quella del pappagallo? Ogni anima deve seguire una via così buona”».
Commento al racconto
Si tratta di un testo con intenti performativi: leggendolo si ha l’impressione di crescere nella libertà e si può immaginare il sufi che si lascia portare dalle sue parole aprendosi sempre più a Dio.
Il pappagallo incarna l’anima del sufi, o anche il desiderio umano di vera pace e di vera liberazione. È anche il simbolo dell’essere che ripete senza una vera logica le parole ascoltate: esso ripete, ma senza capire necessariamente i suoni che pronuncia. La storia inizia con la presentazione della situazione: il pappagallo è imprigionato, come l’anima dell’uomo. Il mercante è il suo padrone incontestato. C’è in questo passaggio tutta la visione del sufismo: l’anima profonda e autentica dell’uomo è in gabbia, imprigionata in mille lacci che la tengono legata al mondo. Il mercante è simbolo della più bassa mondanità dell’uomo che viaggia per il mondo in cerca di godimento. La sua logica tiene in scacco tutti, servi e pappagallo: «Cosa vuoi che ti porti dall’India?». Per mantenere i servi asserviti e il pappagallo in gabbia, promette regali. Ma il pappagallo ha un guizzo di profonda intelligenza interiore, e chiede al padrone di portare il suo lamento e la sua domanda di liberazione ai suoi simili.
Il pappagallo è attanagliato dalla domanda più lancinante che abita l’animo umano: la condizione in cui si trova, e che gli sembra naturale, è una condizione che porta alla libertà?
Il pappagallo della storia ci dice che il sufi si domanda in continuazione se quel che sta vivendo è una prigione dell’anima che porta alla libertà, oppure è inganno. Se la gabbia fosse davvero la sua situazione naturale – si potrebbe dire metafisica -, allora perché desiderare uscire di gabbia? Il pappagallo, in fondo, non desidera uscire di prigionia, ma soltanto conoscere la verità. È la verità, in realtà, che rende liberi, e se il pappagallo conoscerà la verità grazie ai suoi amici dell’India, sarà pago e felice.
La storia ci dice inoltre che la verità si conosce anche grazie alla compagnia degli amici. La ricerca, che tende a una spiritualità della libertà interiore, è comunitaria, è possibile solo in gruppo, ha quindi dei risvolti sociali.
Il racconto prosegue con il mercante che si reca in India, e qui trova dei simili del suo animale domestico. Dopo aver comunicato loro il messaggio del suo pappagallo, uno di essi cade morto. Il mercante è assalito dalla tristezza, ma sembra che essa non provenga dalla compassione per la sorte dell’animale, quanto piuttosto dal pensiero della morte in sé, e quindi della propria morte, tant’è vero che poi se ne torna a casa «lieto». Si scoprirà poi che il pappagallo indiano non è morto davvero, ma il mercante non sa andare al di là delle apparenze terrene che lo tengono schiavo.
In contrasto con la stupidità mondana del mercante, il pappagallino sa interpretare correttamente la morte bizzarra del compagno indiano. Egli intuisce immediatamente la comunicazione profonda che il suo simile gli invia tramite il mercante. E applica quanto gli è stato suggerito: fa finta di morire.
Se il pappagallo capisce subito il segreto inviatogli, il mercante invece rimane ingabbiato nel suo più profondo egoismo individualistico: piange e si dispera, ma dalle parole che pronuncia si capisce che non è il pappagallo a interessargli, quanto piuttosto la sua voce soave, e «l’intimo confidente, giardino e dolce basilico». Il suo amore è tutto intriso di motivi individualistici. Nel suo soliloquio si accusa e si giustifica, supplica e chiede di vedere la verità. Il suo agitarsi dipende dal fatto che non accetta che il suo io sia scosso da un fatto apparentemente privo di logica umana: il mercante non sa andare al di là dell’apparenza della morte.
Allora ecco il colpo di scena: il pappagallo «morto» trova la libertà proprio attraverso la morte. Ha appreso ciò che cercava, la verità della sua situazione, cioè che non è libero, che viene tenuto imprigionato dalla sua stessa voce melodiosa. Ha capito che deve morire a se stesso per trovare la totale liberazione. Il sufi ama ripetere la parola del profeta Muhammad: «Morire prima di morire», che significa proprio questo, sopprimere da sé, dal proprio animo, tutto quanto è negativo e impedisce la liberazione e la purificazione.La storia si conclude con le parole del mercante che esprimono la sua nuova consapevolezza: tutto ciò che è successo con il suo pappagallo è un insegnamento per lui, perché anche lui possa trovare la libertà. La libertà interiore infatti è contagiosa, e diffonde libertà attorno a sé.
I sufi grazie al loro intimo anelito alla liberazione totale diffondono quindi un messaggio di libertà, del diritto di ciascuno alla salvezza da tutto ciò che tiene ostaggio l’animo umano.
Alberto Fabio Ambrosio
Note
1 – Per tutta la storia, si veda: Jalâl al-Dîn Rûmî, Mathnawi. Il poema del misticismo universale, Bompiani, Milano 2006, vol. 1, pp. 187-210.