Cambogia. Ancora pochi sorrisi per i Khmer


Raccolta del riso con sorrisi per il fotografo. Foto Piergiorgio Pescali.

Indice

 

 

1985-2022, nulla di nuovo al potere.

Dispotismo (per il bene del popolo)

La monarchia cambogiana è dominata da Hun Sen e dalla sua famiglia. L’economia del paese asiatico cresce, ma i costi sociali e ambientali sono molto alti.

Dopo le elezioni amministrative, svoltesi nel giugno di quest’anno, la Cambogia si prepara ad affrontare la sfida, ben più impegnativa e importante, del rinnovo del parlamento in un clima di tensione e di incertezza.

Hun Sen, da decenni indiscusso padre padrone dell’intero paese assieme alla sua famiglia (approfondimento pp. 40-41), è al potere, pressoché ininterrottamente, dal 1985, e in questi ultimi due anni, con la scusa del Covid-19, ha rafforzato il suo dispotismo limitando ulteriormente i diritti civili e politici. Nel marzo 2020, sulla base delle restrizioni pandemiche, è stata approvata una legge che prevedeva il carcere fino a 20 anni e 5mila dollari di multa per chiunque violasse le regole restrittive. Approfittando di queste disposizioni, il governo ha abusato del suo già enorme potere colpendo la debole struttura sindacale e i diritti dei lavoratori. Tra il marzo e l’ottobre 2021, con l’accusa di violazione delle leggi sul Covid, sono state arrestate circa settecento persone, la maggior parte delle quali scese in sciopero per chiedere maggiori tutele sui luoghi di lavoro1.

È questa una delle tante (e neppure l’ultima) denunce, fatte dagli organismi internazionali, di abusi e violazioni dei diritti umani che hanno colpito tutti i settori della società del paese del Sud Est asiatico. L’ultima ondata di «repulisti» che ha interessato la parte politica più critica verso il dispotismo di Hun Sen e del suo partito, il Partito del popolo cambogiano (Cambodian people’s party, Cpp), è iniziata nel 2012 concentrandosi verso le due principali figure dell’opposizione, Kem Sokha e l’inaffidabile (ma, a quanto pare, inaffondabile) Sam Rainsy.

Vista parziale della residenza reale, a Phnom Penh. Foto Piergiorgio Pescali.

Ascesa e caduta di Kem Sokha

Sokha è forse il politico più rispettato a livello nazionale: dopo aver fondato il Centro cambogiano per i diritti umani, nel 2012 è entrato prepotentemente in politica fondando il Cnrp (Cambodian national rescue party), un partito nato dalla fusione del Human rights party con il Sam Rainsy party. L’alleanza, criticata da molti per la figura poco limpida, ambigua e ondivaga di Sam Rainsy, ha però trovato il consenso degli elettori, tanto che nel 2013, il Cnrp ha sfiorato il sorpasso sul Cpp2. Sokha ha ravvivato la scena politica nazionale portando una ventata di democrazia diretta, invitando la popolazione ad esprimere liberamente il suo pensiero in incontri settimanali a cui lui stesso partecipava nei villaggi della nazione. È stato anche il primo oppositore di Hun Sen a ricoprire una carica istituzio- nale, divenendo nel 2014 vicepresidente del parlamento. La sua popolarità è cresciuta verticalmente, tanto che in Cambogia, dopo il successo ottenuto nelle elezioni amministrative del 2017, si prospettava addirittura un cambio di governo nelle elezioni generali dell’anno seguente3.

Anche il Cpp, dopo anni di indiscusso potere, si sentiva braccato e così ha allestito la più spettacolare e contorta messinscena dopo quella del 1997 per estromettere il diretto rivale. Kem Sokha è stato prima condannato a 5 mesi di galera per sfruttamento della prostituzione (Khem Chandaraty, la principale testimone ha poi ritrattato le accuse affermando di aver avuto forti pressioni da parte degli investigatori del governo per montare il caso contro Kem Sokha)4, poi, il 3 settembre 2017, in una scenografica operazione di sapore hollywoodiano che ha coinvolto più di cento agenti di polizia, è stato arrestato con l’accusa di aver cospirato con gli Stati Uniti per scalzare Hun Sen dal governo e instaurare un regime asservito a Washington. Dopo aver trascorso più di un anno nella prigione di Trapeang Phlong, nell’isolata provincia di Tbong Khmun, al confine con il Vietnam, è stato posto agli arresti domiciliari il 10 settembre 2018 in attesa di processo.

Nel frattempo, nel novembre 2017, la Corte suprema cambogiana, controllata dal partito di governo5, ha sciolto il Cnrp obbligando molti attivisti a fuggire all’estero e ha vietato a 118 dei suoi membri di fare politica per i successivi cinque anni6. Senza alcuna opposizione, le elezioni del 2018 hanno visto la totalità dei seggi parlamentari andare a favore del Cpp7.

Giornali chiusi e repressione

La dissoluzione del Cnrp è stato l’inizio di una repressione più generale e feroce verso Ong, giornali indipendenti, associazioni per i diritti umani e ambientaliste, tanto che Phil Robertson, vicedirettore della sezione asiatica di Human rights watch, ha detto che «i governi stranieri, le Nazioni Unite e i paesi donatori dovrebbero chiedere la fine di questi attacchi verso oppositori politici e a ciò che rimane della democrazia in Cambogia»8.

Nel settembre 2017 lo storico quotidiano Cambodia Daily è stato costretto a chiudere, mentre nel maggio 2018 l’editore dell’altro quotidiano di punta, il Phnom Penh Post, fondato da Michael Hayes e la moglie Kathleen O’Keefe, è stato acquisito da una compagnia malese di proprietà di Sivakumar Ganapthy, un editore strettamente collegato con Hun Sen e che ha diretto l’ufficio stampa e le relazioni pubbliche del governo cambogiano9.

Non contenta, la Corte municipale di Phnom Penh ha condannato il 17 marzo 2022, venti appartenenti al Cnrp a 5-10 anni di prigione. Tra gli accusati figurano personaggi di spicco dell’opposizione cambogiana, come Sam Rainsy che, assieme a Eng Chai Eang e Mu Sochua, dopo essersi autoesiliati all’estero, nel novembre 2019 avevano affermato di avere intenzione di tornare in Cambogia per preparare la loro partecipazione alle elezioni del 2023. Le accuse verso i venti oppositori coprono un ampio ventaglio di imputazioni: dall’aver creato una rete segreta che avrebbe avuto l’obiettivo di destabilizzare il paese, al rovesciamento violento del potere con l’aiuto di militari, per terminare con l’aver utilizzato la pandemia per minare la credibilità del governo e organizzare sommosse popolari.

Ad oggi più di settanta avversari politici di Hun Sen sono detenuti nelle carceri cambogiane10.

Opposizione frastagliata e divisa

Mappa della Cambogia. Immagine CIA.

A rivendicare il posto occupato dall’ormai defunto (o, per meglio dire, soffocato) Cambodia national rescue party è il Candlelight party (Partito della luce della candela, Cp), voluto da Sam Rainsy dopo che con Kem Sokha, nel 2021, si è consumato l’ennesimo brutto divorzio politico dell’opposizione cambogiana, scandito da insulti e recriminazioni che i due leader si sono lanciati a vicenda11,12. Presidente del Cp è Thach Setha, che si è chiaramente definito leader del movimento successore del Cnrp, ma il cui partito ha adottato un logo ereditato dal Sam Rainsy party.

La partita si deciderà nei prossimi mesi quando la Corte di giustizia sarà chiamata a decidere sulla sorte dei due leader, uno agli arresti domiciliari in attesa di processo, l’altro in esilio. Probabilmente, come già accaduto in passato per altri rivali del Cpp, a Kem Sokha sarà concessa un’amnistia da parte del re Norodom Sihamoni. Questo gli permetterebbe di partecipare alle elezioni del 2023, sebbene monco del suo partito e della sua dirigenza.

Anche il vecchio contendente del Cpp, il Funcinpec, il cui nome – «Fronte unito nazionale per una Cambogia indipendente, neutrale, pacifica e cooperativa» – è più lungo della lista dei suoi elettori, intende ripresentarsi alle elezioni in veste rinnovata dopo un lungo periodo di ibernazione. Nel febbraio 2022, il principe Norodom Chakravuth, è stato eletto presidente del partito, espressione della monarchia cambogiana e fondato dal suo inconcludente padre Norodom Ranariddh che, negli anni Novanta, aveva conteso al Cpp la direzione del governo13.

Durante il suo primo discorso da presidente, Chakravuth ha detto di avere intenzione di riunire «sihanoukisti e ranariddisti» in un’unica compagine politica così da poter competere alle prossime elezioni nazionali con Hun Sen14. Ma il Funcinpec oggi raccoglie pochissimi voti ed è spesso visto più come compagine d’appoggio al Cpp di Hun Sen che come suo avversario.

Un altro partito dell’opposizione, spin off del Funcinpec, è il Partito di unità nazionale Khmer, guidato dall’ex generale Nhek Bun Chhay, ex fedelissimo di Ranariddh, ma oggi in rotta con suo figlio Chakravuth.

Il Cpp probabilmente permetterà a un’opposizione frastagliata e divisa di partecipare alle elezioni: oltre a non rappresentare una minaccia per il monopolio politico di Hun Sen, la presenza di piccoli movimenti indipendenti permetterebbe al primo ministro di presentarsi come politico democratico e ottenere la fiducia economica delle potenze occidentali.

Sempre per «il bene del popolo»

Per prepararsi al meglio, Hun Sen sfrutta ogni apparizione pubblica e, approfittando delle numerose inaugurazioni di strutture statali e private, monopolizza il dibattito per convincere l’elettorato cambogiano sul motivo per cui dovrebbe votare per il Cpp.

«Il Cpp è il partito al governo. Noi non vogliamo sfruttare elettoralmente le manifestazioni pubbliche, ma abbiamo un ritorno di immagine per i risultati che abbiamo ottenuto con la nostra amministrazione», ha detto Sok Ey San, portavoce del Cpp, aggiungendo che «il presidente del Cpp è anche primo ministro, così il presiedere e partecipare a cerimonie è anche un modo per mostrare ciò che abbiamo fatto per il bene del popolo».

Il 30 marzo 2022 il premier giapponese Fumio
Kishida ha visitato la Cambogia chiedendo a Hun Sen che le prossime elezioni politiche siano libere e regolari ponendo termine a cinque anni di monopolio del partito unico e di repressione da parte del Cpp e dei suoi dirigenti.

Due settimane dopo però, un centinaio di membri dell’opposizione del Candlelight party che avrebbero dovuto partecipare alle elezioni comunali tenutesi il 5 giugno 2022, sono stati banditi dalla consultazione elettorale, mentre altri sono stati arrestati e picchiati.

Con l’opposizione alle corde, divisa al suo interno e il clima di intimidazione, l’interesse delle elezioni del 2023 non sarà tanto su chi le vincerà, ma sulla percentuale con quale il Cpp surclasserà gli altri concorrenti.

Da Hun Sen a Hun Manet?

Hun Sen, ormai settantenne, si prepara a espletare quello che, con tutta probabilità, sarà il suo ultimo mandato, e sfrutterà i prossimi cinque anni per assicurare la successione al figlio primogenito, il quarantacinquenne generale Hun Manet, già da lui presentato come futuro primo ministro15.

Diplomato alla West Point e plurilaureato, Hun Manet sembra essere assai differente dal padre, anche se, sino a oggi, si è tenuto ai margini della politica preferendo la carriera militare.

La serie di battaglie combattute nel 2011 con la Thailandia per il controllo del tempio di Preah Vihear (approfondimento a pp.47-48), è stata il suo battesimo del fuoco ed è servita per proiettarlo ai vertici delle forze armate cambogiane.

Per molti, Hun Manet potrebbe essere il giro di boa per un cambio nella politica nazionale: mentre il padre è cresciuto tra le file dei Khmer Rossi in un clima di guerra e di oppressione portando con sé tutto il fardello di violenza e insicurezza in cui si è sviluppata la sua formazione, il figlio ha speso gli anni della maturità negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Nel 2020 è stato nominato membro permanente del Comitato centrale del Cpp e capo della Commissione giovanile del partito16.

Molti si aspettano che con Hun Manet cambi in meglio l’immagine che il governo cambogiano ha dato di sé sino ad ora.

Con le mani sulla Bibbia in lingua khmer. Foto Tep Ro – Pixabay.

Segnali contrastanti

Negli ultimi anni si sono registrati sviluppi che possono far ben sperare: l’economia nel 2021 è cresciuta del 3% rispetto a una contrazione del 3,1% del 202017. Nel 2022 e nel 2023 ci si aspetta un aumento rispettivamente del 5,3% e del 6,5% nonostante l’invasione russa dell’Ucraina18.

Il Pil pro capite, che nel 2000 era di 288 Usd, nel 2020 era salito a 1.543 Usd. Secondo la Banca mondiale, nel 2030 raggiungerà i 3.896 Usd per balzare a 12.056 Usd nel 2050. Un aumento che proietterà la Cambogia tra i paesi a più alto sviluppo nel Sud Est asiatico19.

I progressi economici non vanno di pari passo con quelli dei diritti umani, di cui la Cambogia non rappresenta certo un modello da seguire, ma l’errore è pensare che il Cpp, Hun Sen e il governo siano i soli responsabili di questi problemi. L’opposizione, in particolare quella che fa a capo a Sam Rainsy, al Funcipec e al Cnrp, ha sempre soffiato sulle braci dell’ultranazionalismo Khmer in versione antivietnamita e antiislamica per raccogliere consensi tra l’elettorato.

Nel 2010 Sam Rainsy incitò i contadini cambogiani di alcuni villaggi del distretto di Chantrea, nella provincia di Svay Rieng, a spostare i paletti che marcavano il confine con il Vietnam affermando che funzionari del Cpp cambogiano e del Partito comunista vietnamita si erano accordati per rimuovere i picchetti originari all’interno del territorio della Cambogia20.

Nel 2013 i gruppi di opposizione organizzarono proteste fuori l’ambasciata vietnamita a Phnom Penh che sfociarono in violenti attacchi della folla contro cittadini cambogiani di origine vietnamita e attività da loro gestite.

La messa al bando del Cnrp nel 2017, se da una parte ha portato il regime di Hun Sen a spazzare ogni pericolo di competizione e di controllo sul suo operato nel parlamento e nel paese, dall’altro ha avuto come effetto quello di calmare le proteste e i sentimenti xenofobi all’interno della popolazione khmer.

È indubbio che, negli ultimi 20 anni, sotto l’attuale regime la Cambogia abbia fatto grandi progressi nella riduzione della povertà e nello sviluppo umano21.

Tra il 1990 e il 2019, l’Hdi (Human development index, Indice di sviluppo umano) cambogiano è aumentato da 0,368 a 0,594 con un’aspettativa di vita aumentata da 53,6 anni a 69,8 anni e un indice Gini salito da 1,008 a 4,24622,23. Ci si aspetta che, entro il 2023, la Cambogia diventi un paese con uno stipendio medio di livello medio alto24.

Il governo, da parte sua, ha approfittato delle proteste nazionaliste per arrestare e sopprimere movimenti scomodi, sia in ambito politico, che economico. Nel luglio 2020 il presidente della Confederazione dei sindacati cambogiani, Rong Chhun, che si batte da anni per i diritti dei lavoratori tessili, è stato arrestato dopo aver visitato una comunità lungo il confine cambogiano vietnamita e aver criticato, come aveva fatto Sam Rainsy, il governo per aver rivisto il tracciato di confine facendo perdere terra ai contadini cambogiani. È stato rilasciato il 5 novembre 202125.

Templi ad Angkor. Foto Piergiorgio Pescali.

Giornalisti e Ong in pericolo

Oltre alla gente comune, chi fa le spese di questa situazione sono le Ong e le associazioni che si occupano di diritti umani.

Il 10 luglio 2016 Kem Ley, uno dei più acuti giornalisti politici fortemente critico non solo nei confronti di Hun Sen, ma anche dell’opposizione, venne ucciso in una stazione di servizio a Phnom Penh.

Ai suoi funerali parteciparono decine di migliaia di persone che accompagnarono il feretro al tempio buddhista dove venne esposto con una bandiera cambogiana e letteralmente coperto da fiori.

Ancora oggi, mentre l’assassino (Oeuth Ang) è stato arrestato, non si è scoperto il mandante. Come altri attivisti anche loro uccisi (Chea Vichea nel 2004 e Chut Wutty nel 2012), Kem aveva pesantemente criticato Hun Sen e la sua famiglia per la deforestazione del paese e per essere coinvolti in casi di corruzione. Pochi giorni prima, il giornalista aveva firmato quella che per molti fu la sua condanna a morte commentando Hostile Takeover, il dettagliato rapporto di una Ong, la Global Witness, pubblicato tre giorni prima, il quale rivelava tutti gli intrallazzi politici e finanziari della famiglia di Hun Sen, nonché i collegamenti con alcune delle «principali compagnie internazionali inclusa la Apple, Nokia, Visa, Procter & Gamble, Nestlé e Honda»26.

Phay Siphan, portavoce del governo, disse allora che, mentre la gente è libera di onorare la memoria di Kem Ley, non è accettabile accusare il governo o Hun Sen di essere il mandante della sua uccisione: «Se qualcuno ha delle prove concrete, venga e le mostri al governo e al tribunale. Non vogliamo sentire accuse gratuite verso Hun Sen. Se ci sono delle prove, che vengano mostrate».

Proprio qui sta il problema: dal 2015 una legge permette al governo di chiudere e bandire dal paese le Ong che criticano apertamente la politica cambogiana27.

Inoltre, dopo la pubblicazione di Hostile Takeover, chiunque voglia approfondire notizie e valutare dati riguardanti attività pubbliche e ministeri, deve registrarsi sui relativi siti lasciando così tracce che possano ricondurre all’identità della persona e, quindi, all’identità della persona.
Raccogliere prove significa spesso condannarsi e questo rende più difficile la democratizzazione del paese e la lotta alla corruzione.

L’entrata di Anlong Veng, cittadina al confine con la Thailandia, già ultima roccaforte dei Khmer Rossi. Foto Piergiorgio Pescali.

Il problema ambientale

Questo vale anche nel campo ambientale, un tema particolarmente attuale e scottante, tanto da divenire uno dei principali campi su cui si affrontano i diversi schieramenti del paese.

Nel 2021, dieci Ong che operano in Cambogia, impegnate in questioni e progetti idrici, hanno lodato il governo cambogiano per aver affermato, durante la Conferenza sui cambiamenti climatici Cop 26 di Glasgow, di non volersi impegnare in progetti di costruzione di centrali idroelettriche sul Mekong28.

Il coordinatore del Forum delle Ong, Mak Bunthoeurn ha però aggiunto che l’esempio della Cambogia sarà inutile se non verrà seguito dagli altri stati che hanno progetti simili lungo i tratti del Mekong che scorrono sul loro territorio29,30.

Più ambigua è la posizione del governo nella questione della deforestazione. Sebbene sia difficile quantificare la velocità di disboscamento in Cambogia (i dati variano anche di molto a seconda degli studi), una media approssimativa giunge alla conclusione che nel 2010 il 60% del territorio cambogiano era ricoperto da foreste; nel 2020, la percentuale era scesa al 45,7%31.

Tra il 2000 e il 2019 la perdita di foreste cambogiane è stata di 27mila km2, pari al 14,8% della superficie del paese e al 26,4% delle foreste.

La deforestazione è aumentata a partire dalla fine degli anni Novanta quando i Khmer Rossi furono sconfitti definitivamente e il loro movimento sciolto. Da allora le dispute sui terreni sono cresciute anche in modo violento e i litigi, principalmente tra villaggi, sono stati utilizzati da governo e opposizione per loro fini sia elettorali che economici (la deforestazione arricchisce anche gruppi dell’opposizione cambogiana). Il prepotente ingresso di gruppi economici con ramificazioni internazionali e con appoggi politici sia dell’una che dell’altra parte ha aumentato esponenzialmente questo problema.

Secondo Hun Sen, la perdita di foreste in Cambogia è principalmente dovuta all’aumento demografico: «Il 7 gennaio 1979, quando i Khmer Rossi vennero sconfitti, in Cambogia vivevano circa cinque milioni di persone; oggi la popolazione è aumentata a 16 milioni. […] Negli anni Ottanta la Cambogia aveva un milione di ettari coltivati a uso agricolo; oggi, a causa dell’aumento della popolazione la richiesta di terra per coltivazioni è aumentata a quattro milioni di ettari. Da dove credete che venga questa terra? Alcuni si lamentano che le foreste stanno scomparendo. Ma voi potete ben vedere che le foreste scompaiono perché enormi superfici una volta coperte da foreste, oggi sono diventate terre coltivate dai contadini»32.

Le Ong ambientaliste hanno però accusato il governo di non far nulla per contrastare il commercio illegale di legname verso il Vietnam, che già dal 1986 ha iniziato a sfruttarlo. Secondo l’Eia (la Environmental investigation agency), tra il 2016 e il 2018 più di mezzo milione di metri cubi di legname, per un valore di 290 milioni di dollari, è transitato illegalmente attraverso la Cambogia per raggiungere il Vietnam33,34.

E, a differenza di quanto afferma Hun Sen, tra il 2001 e il 2019, il 92% della deforestazione è stato causato dalle compagnie del legname35.

Il governo cede concessioni a multinazionali, compagnie locali o anche a piccoli proprietari terrieri al fine di generare «sviluppo nazionale, creare lavoro nelle aree rurali e sfruttare le aree non utilizzate» per scopi agricoli o, nella maggior parte dei casi, per sviluppare piantagioni a monocoltura.

Tutte le aree soggette a taglio devono essere all’interno delle Concessioni economiche terriere (Economic land concessions, Elc) e le Concessioni sociali terriere (Social land concessions, Slc) che legalmente non dovrebbero superare i 10mila ettari per ciascuna, limite che spesso viene superato.

È compito del ministero dell’Ambiente identificare le Elc, ma sempre più spesso i funzionari del ministero tracciano i confini anche dentro le aree protette. Fino al 2018 il ministero dell’Ambiente aveva concesso 227 Elc per un totale di 1.225.254 ettari, pari al 6,8% dell’intera superficie cambogiana a cui si devono aggiungere 28 piantagioni di caucciù private per un totale di 176.297 ettari.

Una nuova «tigre asiatica»

La Cambogia si sta avviando verso un ambizioso programma di sviluppo economico. Gli indicatori socioeconomici indicano che il paese sarà la prossima «tigre asiatica». Saranno in molti a beneficiarne, ma se non si pone un limite al degrado ambientale e non si pensa anche agli strati più deboli ed emarginati della società, il progresso rischierà di trasformarsi in instabilità.
E negli anni Settanta la Cambogia ha già sperimentato questa strada.

Piergiorgio Pescali

Bambine cambogiane cercando l’oro. Foto Piergiorgio Pescali.


Note:

  1. Phorn Bopha, Cambodia “bleeding” as space for civil society shrinks, Al Jazeera, 3 novembre 2021.
  2. Election guide, Kingdom of Cambodia, Election for Radhsphea Ney Preah Recheanachakr Kampuchea (Cambodian National Assembly), 28 luglio 2013. Il Cpp ottenne la maggioranza con il 48,83% dei voti, mentre il Cnrp raggiunse il 44,46% dei consensi.
  3. Amaël Vier e Karel Jiaan Galang, The 2017 International Election Observation Mission (Ieom) of the Asian Network for Free Elections (Anfrel) to the Kingdom of Cambodia’s Commune and Sangkat Council Elections – Final Report, §Voter Turnout and Election Results, Asian network for free elections (Anfrel), Bangkok, luglio 2017, p. 25. Il Cpp, che ottenne in totale il 50,76% dei voti, si aggiudicò 6.503 seggi consigliari e la guida di 1.156 comuni. Il Cnrp, con il 43,83% dei voti, ottenne 5.007 seggi consigliari e la guida di 489 comuni.
  4. Khmer Times, Adhoc on Defensive after Accusations, 26 aprile 2016 e Human rights watch (Hrw), Cambodia: Drop Fabricated Charges against “Adhoc 5”, 26 agosto 2018.
  5. Alec Thomson, A fork in the road: a civil rights case study of Cambodia and Somaliland – §Modern Law, Cambridge University – Law Society.
  6.  Human rights watch (Hrw), Cambodia: Supreme Court Dissolves Democracy, 17 novembre 2017.
  7.  Election guide, Kingdom of Cambodia, Election for Radhsphea Ney Preah Recheanachakr Kampuchea (Cambodian National Assembly), 29 luglio 2018. Il Cpp ottenne la maggioranza con il 76,78% dei voti e tutti i 125 seggi parlamentari.
  8. Human rights watch (Hrw), Cambodia, Opposition Politicians Convicted in Mass Trial, 17 marzo 2022.
  9. The Phnom Penh Post, Post senior staff out in dispute over article, 8 maggio 2018.
  10.  Human rights watch (Hrw), Political Prisoners Cambodia, 10 marzo 2022
  11. Ben Sokhean, Sokha slams Rainsy for accusing him of being under threat from PM, Khmer Times, 2 dicembre 2021.
  12. Ananth Baliga e Ouch Sony, Cnrp Rift Out in the Open as Kem Sokha Distances Himself from Rainsy, Vod, 29 novembre 2021.
  13. Khmer Times, Prince Norodom Chakravuth elected as Funcinpec party president, 9 febbraio 2022.
  14. (Yin Soeum, Prince Norodom Chakravuth unanimously elected Funcinpec president, Khmer Times, 10 febbraio 2022.
  15. Sorn Sarath, Hun Manet could be PM as soon as next mandate, Hun Sen, CamboJA News, 20 dicembre 2021.
  16. Mao Sopha e Torn Chanritheara, Hun Manet Appointed Head of CPP’s Youth Wing, Cambodianess, 9 giugno 2020.
  17. Asian development bank, Asia Development Outlook 2022 – Cambodia, § Economic performance, 2021, p. 1.
  18. Asian development bank, Asia Development Outlook 2022 – Cambodia, § Economic prospects, 2021, p. 2.
  19. The World Bank, World Bank Group Country Survey 2021 – Cambodia, 26 gennaio 2022.
  20. Meas Sokchea, PM dismisses possible pardon for Sam Rainsy over VN border charges, The Phnom Penh Post, 6 gennaio 2010.
  21. Asian development bank, Member Fact Sheet – Cambodia, Aprile 2021, p.1.
  22. Undp, Human Development Report 2020 – The Next Frontier: Human Development and the Anthopocene – Briefing note for countries on the 2020 Human Development Report – Cambodia, § 2.1- Cambodia’s Hdi value and rank, p. 2.
  23. L’indice Gini misura la disuguaglianza di reddito della popolazione: maggiore è l’indice Gini meno equamente distribuito è il reddito. Secondo uno studio del World Institute for Development Economics Research, l’indice Gini ottimale è compreso tra 0,25 (paesi del Nord Europa) e 0,40 (Cina, Usa).
  24. Asian development bank, Member Fact Sheet – Cambodia, aprile 2021, p.1.
  25. Front Line Defenders, Cambodian human rights defenders released after more than one year in prison, 16 novembre 2021
  26. Global witness, Hostile Takeover, luglio 2016, p. 13.
  27. Licadho, New Draft Law Reaffirms Culture of Control , 11 giugno 2015
  28.  Le 10 Ong sono Culture and Environment Preservation Association (Cepa); Fisheries Action Coalition Team (Fact); North-eastern Rural Development (Nrd); Nak Akphivath Sahakum (Nas); Ngo Forum on Cambodia (Ngof); Mlup Promviheathor Center Organization (Mpc); My Village Organization (Mvi); Oxfam in Cambodia, Women’s Community Voices (Wvc); 3S Rivers Protection Network (3Spn).
  29. La Cina ha già costruito undici dighe sul corso del Mekong (Wunonglong, Lidi, Huangdeng, Dahuaqiao, Miaowei, Gongguoqiao, Xiaowan, Manwan, Dachaoshan, Nuozhadu e Jinghong), il Laos due (Xayaburi e Don Sahong). La Cina ha in progetto la costruzione di altre tre dighe (Toba, Ganlanba e Mengsong) e il Laos di altre sette (Pak Beng, Luang Prabang, Pak Lay, Sanakham, Pak Chom, Ban Koum, Phou Ngoy). La Cambogia ha cancellato le previste dighe di Stung Treng e Sambor.
  30. Lo sviluppo del bacino del Mekong è deciso dalla cooperazione di 13 organismi appartenenti a sei paesi – Cina, Laos, Myanmar, Thailandia, Cambogia, Vietnam -, che operano in vari campi.
  31. The world bank, World Bank Group Country Survey 2021 – Cambodia, 26 gennaio 2022.
  32. Kouth Sophak Chakrya, Hun Sen blames forest loss on population rise, Phnom Penh Post, 7 giugno 2018.
  33. Environmental investigation agency (Eia), Repeat offender: Vietnam’s persistent trade in illegal timber, maggio 2017.
  34. Environmental investigation agency, Eia responds to Vietnam wood industry over criticism of timber crime exposé, 17 luglio 2018.
  35. Global forest watch, Primary forest loss in Cambodia, 2 maggio 2022.

La chiesa flottante di San Paolo, sul lago di Tonlé Sap (Siem Reap), prima nel villaggio flottante di Chong Khneas, poi a Prek Toal. Foto da siemreapcatholic.com.

Scheda Cambogia (Kampuchea)

Piccole minoranze in un paese buddhista

  • Superficie: 181mila Km2;
  • Popolazione: 16,7 milioni (2020);
  • Capitale: Phnom Penh (2,2 milioni di abitanti);
  • Orografia: pianura alluvionale attraversata dal Mekong da Nord a Sud; bacino idrografico del Tonlé Sap (lago e fiume);
  • Sistema politico: monarchia parlamentare;
  • Re e primo ministro: re Norodom Sihamoni (dal 2004); primo ministro Hun Sen (dal 1985, Partito del popolo cambogiano);
  • Date essenziali: 802-1431, Impero khmer; 1953 (novembre), indipendenza dalla Francia; 1970-’75, Repubblica khmer; 1975-’79, regime dei Khmer rRossi; 1979-’89, occupazione da parte del Vietnam; 1997, Tribunale speciale per i Khmer Rossi;
  • Principali gruppi demografici: khmer 87% (lingua khmer, religione buddhista theravada), vietnamiti, laotiani, thailandesi;
  • Religioni principali: buddhisti 95% (corrente theravada); musulmani 2% (in particolare, i Cham); cristiani 2% (0,5% cattolici);
  • Economia: principalmente rurale e agricola, la produzione più importante è quella del riso; industria tessile e turistica (in particolare, per Siem Reap che ospita il sito archeologico di Angkor);
  • Regioni contese: la zona del tempio di Preah Vihear contesa con la Thailandia;
  • Problemi principali: grado di corruzione molto elevato; presenza di lavoro minorile e schiavo; traffico di droga; l’organizzazione Freedom House definisce la Cambogia un paese «non libero».

(a cura di Paolo Moiola)

Il primo ministro Hun Sen e la moglie Bun Rany pregano durante una cerimonia buddhista in un tempio di Angkor Wat, a Siem Reap (2 dicembre 2017). Foto Charly Two-AFP.

Il ritratto

Hun Sen e famiglia, i padroni

Il 5 agosto 1952, in un piccolo villaggio della provincia di Kompong Cham, nacque Hun Bunal. Suo padre, Hun Neang, era un monaco di un piccolo tempio locale prima di aderire alla resistenza anticoloniale. La famiglia Hun era una Khmer Kat Chen, cioè di origini cinesi. Ricca, proprietaria terriera, fu costretta a trasferirsi a Phnom Penh a causa di un tracollo economico. Qui Hun Bunal cominciò a frequentare la scuola buddhista cambiando il nome in Ritthi Sen.

Dopo il colpo di stato di Lon Nol, nel 1970, Bunal si unì ai Khmer Rossi facendosi chiamare Hun Samrach e poi, dal 1972, Hun Sen.

Comandante militare della Regione orientale durante il periodo di Kampuchea Democratica, nel 1977 fuggì in Vietnam per scappare dalle purghe che stavano decimando i quadri del partito ostili a Pol Pot.

Assieme ad altri leader militari e politici che disertarono le fila dei Khmer Rossi, partecipò all’invasione vietnamita della Cambogia nel 1979 divenendo vice primo ministro e ministro degli Esteri sotto il governo di Heng Samrin.

Nel lontano 1985

Il primo ministro Hun Sen parla all’inaugurazione di un tratto della strada nazionale 7 (provincia di Kratie) finanziato dalla Cina (7 febbraio 2022). Foto Ly Lay-Xinhua-AFP.

La svolta politica avvenne nel 1985 quando fu eletto primo ministro. Da allora Hun Sen non ha mai smesso di ordire trame e intrallazzi per mantenere il potere, anche quando i risultati elettorali lo vedevano sconfitto, e disporre le sue pedine nei posti chiave delle istituzioni cambogiane.

Già due anni dopo essere stato nominato primo ministro, Amnesty International espresse «preoccupazione per rapporti di torture di prigionieri politici imprigionati senza accuse o processi»1.

Nel 1997, dopo che le elezioni di quattro anni prima avevano consentito al Funcipec di Ranarridh Sihanouk di raggiungere la maggioranza e di dividere la poltrona di primo ministro con Hun Sen, quest’ultimo inscenò un colpo di stato in cui vennero giustiziate almeno cento persone a lui ostili. Recentemente una corte francese2 ha emanato un mandato di arresto per Hun Sen e altri due generali, Huy Piseth e Hing Bun Heang, con l’accusa di aver pianificato, organizzato ed essere mandanti di un attentato compiuto il 30 marzo 1997 durante un raduno del partito di opposizione Khmer nation party di Sam Rainsy che costò la vita a 16 manifestanti e il ferimento di altri 150, tra cui lo stesso leader del movimento3.

Immense ricchezze familiari

La copertina di «Hostile Takeover», duro report di Global Witness sulla Cambogia di Hun Sen (luglio 2016).

La carica di capo del governo, però, garantisce a Hun Sen l’immunità, rendendo impossibile ogni attuazione del procedimento internazionale, come hanno chiaramente fatto sapere sia il ministero degli Esteri che il ministero per l’Europa francese. Fino al 2016, quando la Ong Global Witness pubblicò un dettagliato rapporto, Hostile Takeover, nessuno era riuscito a stabilire con esattezza l’estensione dei gangli della famiglia Hun nell’economia cambogiana e internazionale. A causa di questa inchiesta, il ministero del Commercio cambogiano, ha ristretto ogni accesso alle informazioni delle aziende, nazionali ed estere, che operano sul territorio.

Secondo il rapporto della Global Witness, la famiglia di Hun Sen deterrebbe una ricchezza stimata tra i 500 milioni e 1 miliardo di dollari4.

I ventuno membri della famiglia hanno interessi in 114 compagnie nazionali con un capitale di 200 milioni di Usd5 e detengono il monopolio della produzione di caucciù, la seconda voce agricola del paese dopo il riso, di sei compagnie minerarie, di sette compagnie di costruzioni edilizie, di cinque compagnie energetiche (settore di enorme sviluppo in Cambogia).

Moglie, figli, nipoti in ruoli chiave

La moglie di Hun Sen, Bun Rany, è presidente della Croce Rossa cambogiana ed è stata accusata da più parti di usare la sua posizione per promuovere la politica del Partito popolare cambogiano (Cpp).

Due dei tre figli maschi di Hun Sen, Hun Manet e Hun Manith, sono ufficiali delle Forze armate cambogiane e hanno frequentato l’Accademia di West Point. Hun Manet ha avuto un ruolo prominente nella vicenda di Preah Vihear che nel 2011 ha visto l’esercito cambogiano fronteggiare quello thailandese per il controllo di un’area di 4,6 km2 in cui sorge il tempio di Preah Vihear (approfondimento a pp.46-47). Il terzo figlio, Hun Many, il più giovane, è parlamentare, mentre le due figlie, Hun Mana e Hun Maly, si sono spartite il controllo dei media nazionali (Hun Mana) e dei servizi, come i settori medico-farmaceutico, energetico e del commercio (Hun Maly).

I fratelli di Hun Sen, Hun Neng (morto il 5 maggio 2022) e Hun San controllano le maggiori compagnie nel settore del commercio e dei trasporti, mentre la sorella Hun Seng Ny è direttamente coinvolta nella direzione di compagnie accusate di causare i disboscamenti nel paese e nella repressione degli scioperi nelle industrie tessili.

Hun Seang Heng, figlio di Hun Neng e nipote di Hun Sen, è padrone della compagnia che importa e rivende nel territorio cambogiano i prodotti della Apple. L’altro figlio di Hun Neng, Hun To, oltre a presiedere la compagnia petrolifera Lhp Asean Import Export e la Lhp Asean Investment, proprietaria di catene di stazioni di servizio in Cambogia, è implicato nel traffico di eroina in Australia per un miliardo di dollari. Una delle due figlie di Hun Neng, Hun Kimleng, ha importanti partecipazioni nella Hard Rock Cafè e nella Gloria Jeans Coffee.

Praticamente ogni membro della famiglia Hun Sen ha interessi finanziari, politici, economici, militari con istituzioni cambogiane e, spesso, anche internazionali.

Piergiorgio Pescali

Note

  1. Amnesty International, 1987 Report – Kampuchea (Cambodia), 1987, p. 241.
  2. Il caso è stato portato alla corte francese da Sam Rainsy, che ha doppia cittadinanza (francese e cambogiana).
  3. Human rights watch, Cambodia: French Court Indicts Hun Sen Cronies, 29 marzo 2022.
  4. Global Witness, Hostile Takeover – Executive Summary, luglio 2016, p. 3.
  5. Global Witness, Hostile Takeover – Annex 1 – Our finding in full, luglio 2016, pp. 33-37.

Pescatori sul Mekong. Foto Piergiorgio Pescali.


Storia e religioni

L’islam dei Cham

Dopo il buddhismo, la seconda religione in Cambogia è l’islam. Il 2% della popolazione, secondo il censimento effettuato nel 2019, è musulmano1 e vive principalmente nelle province di Tbong Khmun (11,8% della popolazione), Kratie (6,6%), Kompong Chhnang (5,8%), Stung Treng (4,7%), Koh Kong (4,6%) e Mondulkiri (4,4%)2.

La componente etnica maggioritaria, sebbene non unica, dei fedeli islamici è composta da popolazioni di etnia cham di origine maleo-polinesiana che parlano una propria lingua (il cham). Dopo essere migrati verso le coste vietnamite a partire dal II secolo d.C., i Cham si installarono nel regno induista di Champa, nell’attuale regione centrale del Vietnam per poi convertirsi all’islam nell’XI secolo quando mercanti arabi e indiani del Gujarat, assieme alle loro mercanzie, portarono anche il loro credo e copie del Corano. Nel XII secolo, i Cham riuscirono anche a conquistare Angkor, seppur per soli quattro anni, la capitale dell’Impero khmer (il tempio di Bayon ha pregevoli bassorilievi che illustrano battaglie tra Khmer e Cham). La presenza stabile delle prime popolazioni cham in Cambogia risale proprio a questo periodo e venne rafforzata nel XV secolo dopo la sconfitta del loro regno a favore dei Viet provenienti dal Tonchino. All’interno del gruppo, si distinguono i Chvea che, pur condividendo la provenienza etnica, provengono dalla Malesia e hanno adottato la lingua khmer, e i Jahed, di lingua cham, ma giunti in Cambogia tra il XVIII e il XIX secolo, dopo la completa dissoluzione del regno di Champa da parte di Minh Mang.

Infine, una componente aristocratica si installò nella vecchia capitale khmer, Oudong, dove ancora oggi risiedono i discendenti (circa 20mila) che hanno adottato una forma di sincretismo religioso che ingloba elementi induisti e, a differenza dei loro correligionari, oltre a non usare l’arabo come lingua religiosa, hanno mantenuto la forma scritta della lingua cham.

Sotto i Khmer Rossi

Durante la Seconda guerra del Sud Est asiatico le forze militari in lotta in Cambogia cercarono di accaparrarsi l’appoggio della comunità cham: sia Sihanouk che Lon Nol garantirono la cittadinanza cambogiana ai Cham a differenza dei cambogiani di origine vietnamita e cinese, a cui invece venne negata. I Khmer Rossi, dal canto loro, accettarono i Cham anche perché Sos Man e suo figlio Mat Ly, erano due dei membri più autorevoli del Partito comunista di Kampuchea. Per assimilare i Cham al movimento khmer e nascondere la discendenza Champa, troppo legata al Vietnam, vennero chiamati Khmer islamici.

A partire dal 1972 i Khmer Rossi iniziarono a deportare i Cham in diverse province con l’intento di dividere e indebolire la comunità causando diverse sommosse represse con purghe ed esecuzioni.

Dopo la conquista del potere da parte dei Khmer Rossi e, ancora più, dopo l’ascesa di Pol Pot nel 1976, l’introduzione di cooperative agricole e mense comuni furono oggetto di nuove ribellioni da parte dei musulmani, costretti a mangiare cibo a loro proibito e a seguire tradizioni estranee alla loro cultura e religione.

La moschea di Al-Serkal, a Phnom Penh, la più grande della Cambogia. Foto Piergiorgio Pescali.

L’opportunismo di Hun Sen

Oggi i Cham possono praticare la loro fede anche se i movimenti d’opposizione lamentano un aumento dell’influenza economica della comunità musulmana all’interno del paese, in particolare per i cospicui finanziamenti che le organizzazioni islamiche ricevono da istituzioni e paesi arabi,
Malaysia e, ultimamente, anche da parte della Turchia.

Proprio per attirare investimenti da Ankara, Hun Sen ha recentemente chiesto che, in ogni provincia, vi sia almeno un vicegovernatore cham3.

E proprio il Cpp è il principale sostenitore dei musulmani cambogiani, garantendo loro appannaggi economici e licenze negate ad altre comunità. Il mufti del paese è un okhna4, Kamaruddin bin Yusof che è stato posto dallo stesso Hun Sen a guida degli islamici cambogiani nel lontano 1996. Kamaruddin, oltre a controllare le scuole islamiche madhhabi all’estero, ha anche influenti amicizie politiche ed economiche in Malaysia.

La totalità dei musulmani cambogiani è sunnita; il 90% segue la scuola madhhab, la scuola Shafi’i, mentre il restante, concentrato nella comunità di Oudong, appartiene alla Comunità di imam San (Krom Kan Imam San) che si rifà all’imam Sen, un religioso vissuto nel XIX secolo e particolarmente venerato nella regione. La tradizione islamica malese, introdotta a partire dalla seconda metà del XIX secolo, è quella più seguita e di conseguenza anche i testi religiosi (sia letterari che di istruzione) sono in lingua malay. I fedeli della Comunità di Imam San, guidati da Ong Gnur Mat Sa, si distinguono dai loro confratelli per seguire regole che inseriscono nelle pratiche religiose e rituali islamiche elementi cham e animisti. Nella preghiera del venerdì hanno inserito elementi di possessione degli spiriti ancestrali che prendono origine da testi cham, indiani e arabi.

P.Pes.

Note

  1. Kingdom of Cambodia, Ministry of Planning, National Institute of Statistics, General Population Census of the Kingdom of Cambodia 2019 – Capitolo 2, Population Size, Growth and Distribution, §2.5 Population and religion, Ottobre 2020, p.23.
  2. Idem, §Tabella 2.5.1 Percentage distribution of population by religion, area, and province, Cambodia, 2008-2019, Ottobre 2020, p.24.
  3. UcaNews, Hun Sen wants to appoint Cambodian Muslims to higher office, 24 febbraio 2022.
  4. Titolo onorifico dato a chi si distingue come benefattore o mecenate. Oggi può essere comprato versando al governo una certa somma in denaro.

Comunità di Khmer Krom lungo le sponde del fiume Mekong. Foto Piergiorgio Pescali.

Cambogia versus Vietnam

Il destino dei Khmer Krom

Sono circa un milione e 200mila i Khmer che abitano nel delta del Mekong, nella regione meridionale del Vietnam, discendenti di quelle popolazioni che, seguendo l’onda dell’espansione dell’Impero khmer nel IX secolo, occuparono le fertili aree solcate da innumerevoli corsi d’acqua.

Pur conservando la stessa lingua, cultura, religione dei Khmer delle regioni del Tonle Sap e del corso superiore del Mekong, i Khmer Krom (Khmer meridionali) nel XVII secolo iniziarono a distinguersi dal ceppo originario. La dinastia Nguyen, da Hué dilagò verso Sud prima strappando Prey Nokor, la principale città Khmer Krom all’amministrazione cambogiana e rinominandola Sai Gon, poi favorendo la migrazione dei Kinh1 verso Sud lambendo la catena annamita. Nel 1845 il principe cambogiano Ang Duong fu costretto a cedere al Siam (l’attuale Thailandia) le province di Sisophon, Battambang e Siem Reap e al regno dell’Annam (parte dell’attuale Vietnam) la provincia di Kampuchea Krom. Mentre i territori occidentali, in cui tra l’altro si trovava sito di Angkor, il 23 marzo 1907 vennero riconsegnati alla Cambogia, allora protettorato francese, nulla di simile venne fatto per le 21 province orientali del delta del Mekong.

Le scelte dei colonizzatori francesi

Il 4 giugno 1949 la Francia confermò i confini politici vietnamiti cambogiani che aveva ereditato ed accettato nel 1862 e nel 1874, quando il regno di Annam cedette le province del delta del Mekong ai colonizzatori, che le chiamarono Cocincina.

A nulla valsero le proteste del re cambogiano, il giovanissimo Norodom Sihanouk, che ne richiedeva la restituzione: «La Francia ha ricevuto tutti i territori del Sud Vietnam dalla corte di Hue e con essi il diritto di condurre operazioni militari contro i mandarini annamiti e non contro le autorità khmer. […] La storia contraddice la tesi secondo cui la parte occidentale della Cocincina fosse, al tempo dell’arrivo francese, soggetta alla corona khmer», si legge in un documento inviato a Sihanouk in cui le autorità coloniali respingevano la richiesta avanzata dal monarca.

La colonizzazione francese non fece altro che sancire il definitivo affrancamento della cosiddetta Cocincina dalla Cambogia, che venne confermato nel 1954, quando il Vietnam del Sud ottenne l’indipendenza inglobando la regione meridionale a maggioranza khmer.

La Seconda guerra del Sud Est asiatico divise politicamente anche i Khmer Krom: gli Stati Uniti e il governo di Saigon organizzarono i Khmer del delta nel Mike Force, il corpo militare che comprendeva le minoranze etniche addestrate a combattere i guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale, in cui invece confluirono le «Sciarpe bianche», i Khmer Krom del monaco buddhista Samouk Sen.

Fiori di loto.

Le scelte del Vietnam

Dopo la vittoria del 1975, e ancora più dopo l’unificazione del Sud con il Nord nel 1976, il Vietnam, timoroso che l’omogeneità etnica delle popolazioni del Delta del Mekong potesse portare una rivendicazione delle regioni storicamente reclamate dalla Cambogia, adottò una politica di diluizione demografica, trasferendo milioni di Kinh (vietnamiti) verso Sud e concedendo loro larghe estensioni terriere e di sfruttamento da allevamento ittico che distrussero gran parte delle attività in precedenza appannaggio dei Khmer Krom.

I Khmer residenti in Vietnam iniziarono quindi a vedere i Khmer Rossi come possibile appoggio per le loro rivendicazioni e cominciarono a chiedere aiuto o asilo in Cambogia. Invece di trovare solidarietà, i Khmer Krom, sospettati di essere ormai troppo vietnamizzati, vennero sistematicamente massacrati. Solo dalla metà del 1978, quando Phnom Penh iniziò a guardare sempre con più attenzione quella che era definita dal governo come Kampuchea Krom e gli scontri di frontiera divennero più seri, i Khmer Rossi cercarono appoggi tra le comunità khmer oltrefrontiera.

La guerra che ne scaturì vide il Vietnam scalzare il gabinetto di Pol Pot dalla capitale dando inizio ad una guerra civile che si protrasse fino alla fine degli anni Novanta.

Oggi, dopo le difficoltà e le discriminazioni verso le minoranze compiute dal governo di Hanoi, l’attenzione verso i diritti delle popolazioni minoritarie è cresciuta, grazie anche all’attenzione internazionale portata dalla presenza di diverse associazioni che lavorano nel campo dei diritti umani.

Mancano comunque ancora le garanzie necessarie per la sopravvivenza della nazione Khmer Krom: la sola lingua riconosciuta ufficialmente dal governo è quella vietnamita e i Khmer in Vietnam sono spesso esclusi da posti pubblici. La vietnamizzazione include anche il cambio dei nomi, che devono essere traslitterati in vietnamita con una distorsione fonetica che spesso rende questi nomi difficilmente comprensibili agli stessi Khmer.

Nelle scuole si parla e si insegna vietnamita e con la crescente privatizzazione, le attività produttive appartengono o sono dirette da Kinh, che preferiscono escludere i Khmer dai posti dirigenziali. La percezione dell’inadeguatezza del carattere khmer nel condurre attività di amministrazione o di comando, già presente nella cultura kinh e rafforzata durante il periodo coloniale francese, è ancora comune e allontana sempre più la comunità dei Khmer Krom dalla vita economica, sociale e politica del paese.

La Chiesa buddhista

La Chiesa buddhista khmer, nel tentativo di mantenere vive le tradizioni della comunità khmer in Vietnam, organizza corsi di lingua khmer nei templi. La Costituzione vietnamita, pur garantendo la libertà di credo, aggiunge che «nessuno può utilizzare le fedi per contravvenire la politica e le leggi dello stato»2.

Questo porta a far intervenire le autorità governative che chiudono questi centri e a volte giungono anche a imprigionare gli stessi monaci, alcuni dei quali si sono rifugiati in Cambogia per evitare l’arresto. Inoltre, data la laicità dello stato, le Chiese non sono viste come tali, ma come organizzazioni religiose che devono confluire in associazioni controllate dal governo come la Viet Nam buddhist sangha (Vbs) in cui confluiscono i 454 templi khmer theravada della nazione3. La Vbs ha, tra le altre cose, la prerogativa di scegliere gli abati dei templi.

Il Cambodian people party di Hun Sen, che nel 1978 disertò dai Khmer Rossi rifugiandosi in Vietnam, ha sempre avuto buoni rapporti con Hanoi. Meno idilliaci, invece, sono le relazioni tra il Vietnam e le opposizioni cambogiane, in particolare con Sam Rainsy, il Funcinpec e il Cnrp, i quali hanno sempre soffiato sulle braci dell’ultranazionalismo khmer in versione antivietnamita per raccogliere consensi tra l’elettorato.

Piergiorgio Pescali

Note

  1. I Kinh sono l’etnia maggioritaria del Vietnam, quelli chiamati impropriamente Viet.
  2. Costituzione del Vietnam, Capitolo 5: Diritti fondamentali e doveri di cittadini, Articolo 70.
  3. National Vietnam Buddhist Sangha, The 16th United Nations Day of Vesak Celebrations 2019.

Vista del sito archeologico di Preah Vihear (su un’area di circa cinque chilometri quadrati), oggetto di un lungo contenzioso con la Thailandia. Foto Piergiorgio Pescali.

Cambogia versus Thailandia

Le rovine contese di Preah Vihear

Le rovine di Preah Vihear, al confine settentrionale della Cambogia con la Thailandia, non sono note quanto quelle del sito di Angkor. I resti tra cui possiamo camminare oggi, risalgono principalmente al complesso templare costruito tra il 1000 e il 1150 da Suryavarman I e Suryavarman II. Dedicato inizialmente a Shiva, come lo furono anche la maggior parte dei templi di Angkor, divenne uno dei centri religiosi più importanti dell’Impero khmer.

Arrivarci oggi è abbastanza semplice, ma fino a pochi decenni fa l’accesso dalla Cambogia, entro i cui confini si trova il tempio, era molto più difficoltoso di quanto fosse da quello thailandese. Preah Vihear, infatti, si trova sull’altipiano dei monti Dângrêk e domina la pianura cambogiana da una scarpata alta 500 metri. Questa sua particolare posizione ha fatto sì che il tempio sia stato l’ultimo lembo di terra cambogiana difeso dalle truppe governative di Lon Nol conquistato dai Khmer Rossi nel 1975, ma in più occasioni ha creato anche un contenzioso con la Thailandia che ne reclama il possesso, specie dopo il 2008, quando il sito è stato inserito dall’Unesco nella lista dei patrimoni mondiali dell’umanità.

Bangkok rivendica la continuità geografica dello spartiacque naturale su cui poggia il tempio, mentre Phnom Penh si rivale della linea di confine tracciata dalla commissione francese nel 1907, la cui validità è stata riconosciuta nel 1962 dalla Corte internazionale di giustizia, a cui la Cambogia si era rivolta sperando di porre termine alle pretese del vicino. In totale, l’area contesa è di 4,6 chilometri quadrati, ma il problema ha assunto un carattere di propaganda nazionalista sia dall’una che dall’altra parte.

Nazionalismi e scontri

Nel 2011 le truppe dei due paesi confinanti si sono confrontate per diversi mesi in battaglie che hanno visto l’uso di artiglieria pesante e carri armati causando diversi morti e l’evacuazione di migliaia di civili.

Il conflitto da una parte ha destabilizzato l’Asean (l’Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico fondata l’8 agosto 1967 proprio a Bangkok), a cui appartengono sia Cambogia che Thailandia, tra i cui compiti vi è quello di «promuovere la pace e la stabilità della regione»1, e dall’altra è servito a un terzo paese, l’Indonesia, per promuovere i propri interessi e uscire dal limbo di paese ai margini della politica internazionale, nonostante la sua preminenza geografica e demografica nell’associazione.

Secondo il trattato del 1904 stipulato tra la Francia (a cui la Cambogia era assoggettata come colonia) e il Siam, il confine avrebbe dovuto seguire lo spartiacque naturale, ma la commissione francese, incaricata nel 1907 di tracciare la frontiera, assegnò il tempio di Preah Vihear alla Cambogia.

La zona era allora disabitata, difficilmente raggiungibile e ritenuta poco importante dal Siam che non prestò attenzione al tracciato. Inoltre, mentre il confine dal mare fu marcato da 73 paletti per 600 chilometri, la frontiera lungo la zona di Preah Vihear venne disegnata solo sulle carte, visto che la commissione congiunta franco siamese non si addentrò sino al tempio.

Le prime discordie iniziarono nel 1954, quando le truppe thailandesi occuparono il sito fino al 1962, allorché la Corte internazionale di giustizia assegnò Preah Vihear a Phnom Penh, accettando la linea di confine tracciata dal trattato franco siamese del 19072.

Nei decenni che seguirono ci furono scaramucce e diverbi politici, ma fu principalmente dal 2006 che Preah Vihear divenne un motivo di scontro politico in Thailandia e, di riflesso, con la Cambogia. Il 3 ottobre 2008 iniziarono i primi scontri che si protrassero, tra momenti di pace e distensione, per i successivi tre anni. Hun Sen ne uscì decisamente rafforzato, sia perché sotto il suo governo la Cambogia aveva ottenuto un altro patrimonio Unesco, sia perché veniva visto come garante dell’integrità territoriale del paese3.

In Thailandia, invece, il caos politico in cui era precipitato il paese venne esasperato anche con la propaganda ultranazionalista delle camicie gialle del Pad (People’s alliance for democracy) contro il principale partito avversario guidato dalla famiglia Shinawara, che aveva legami politici ed economici con Hun Sen4.

Situazione in sospeso

Nel gennaio 2011 la Thailandia iniziò la costruzione di una strada carrozzabile sul territorio conteso e gli scontri furono inevitabili. Nonostante la contrarietà dell’Asean, la Cambogia portò la questione al Consiglio di sicurezza dell’Onu che diede all’Indonesia il compito di mediare tra i due contendenti. A causa dell’opposizione della Thailandia, la missione indonesiana non venne mai alla luce e, anzi, gli scontri aumentarono d’intensità. Solo dopo le elezioni thailandesi del 3 luglio 2011, che videro la vittoria di Yingluck Shinawatra, sorella di Thaksin, le relazioni tra i due paesi si fecero meno rigide. La questione di Preah Vihear è oggi di nuovo messa a tacere, ma rimane comunque pronta ad esplodere appena se ne presenterà l’occasione.

P.Pes.

Note

  1. The Asean Declaration (Bangkok Declaration), Bangkok, 8 Agustus (sic) 1967, Articolo 2, paragrafo 2.
  2. Case concerning the Temple of Preah Vihear (Cambodia v. Thailand), ICJ Reports , 15 giugno 1962.
  3. Survey of Cambodian Public Opinion, International Republican Institute, 22 ottobre-25 novembre 2008, 31 luglio-26 agosto 2009.
  4. Thaksin Shinawara, il principale esponente della famiglia, fu per un certo periodo consigliere speciale del governo di Hun Sen e la Cambogia rifiutò la sua estradizione in Thailandia.

Coltivazione del riso in cambogia. Foto Piergiorgio Pescali.


Hanno firmato questo dossier:

Piergiorgio Pescali – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sud Est asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È autore dei libri: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, Nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015), La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019), Capire Fukushima (Lekton, 2021), Cappuccino bollente senza schiuma (Porto Seguro, 2021), Il pericolo nucleare in Ucraina (Mimesis, giugno 2022). Da anni è un assiduo collaboratore di MC.

Dossier a cura di Paolo Moiola.




Comprendere l’Islam

testo di Chiara Brivio


Nato 14 secoli fa, l’islam presenta oggi forme diverse. Di solito facciamo l’errore di non darci il tempo per capire la sua complessità e di pensare di poterlo ridurre a pochi concetti. Ma l’islam non è una realtà monolitica, al suo interno ci sono correnti, dottrine, modi di vivere la religione diversissimi tra loro. Entrare in dialogo con i suoi fedeli è la strada maestra. Ne parliamo con il domenicano Adrien Candiard, studioso di islam residente in Egitto.

Adrien Candiard, domenicano francese, classe 1982, è una delle giovani voci più interessanti della Chiesa di oggi. Oltre a essere un apprezzato autore di spiritualità (in Francia i suoi libri hanno ottenuto numerosi riconoscimenti), è anche un esperto di teologia islamica impegnato «sul campo» nel dialogo interreligioso.

Dopo gli studi in scienze politiche alla prestigiosa Sciences Po di Parigi, entrato nello staff di Dominque Strauss-Khann per le primarie socialiste in vista delle presidenziali francesi del 2006, lo lascia in corsa a causa di posizioni divergenti sui temi etici.

In quello stesso anno entra nell’Ordine domenicano e oggi vive al Cairo dove insegna all’Ideo, l’Istituto domenicano di studi orientali.

L’abbiamo intervistato a partire da due sue recenti volumi usciti in Italia per l’Editrice missionaria italiana: Pierre e Mohamed. Algeria, due martiri dell’amicizia, titolo anche di uno spettacolo teatrale in scena in questi giorni in diverse località italiane, e Comprendere l’islam. O meglio, perché non ci capiamo niente, un breve e interessante saggio sui pregiudizi, le fake news e le nostre incomprensioni rispetto alla religione musulmana.

Il suo libro Comprendere l’islam parte da un paradosso. Lei scrive: «Più lo si spiega, meno lo si capisce». Perché è così difficile comprenderlo? È vero che non esiste un «unico islam»?

«Non lo possiamo comprendere perché l’islam è una realtà molto complessa. È una realtà sociale, intellettuale, religiosa nata 14 secoli fa in un territorio amplissimo, e che nel tempo ha preso forme diverse. Noi molto spesso non vogliamo prenderci il tempo di capire questa complessità, vorremmo poterla spiegare con pochi concetti. Infatti l’errore che di solito facciamo è quello di considerare l’islam una realtà unica, monolitica, quando invece al suo interno ci sono correnti, dottrine, modi di vivere la religione diversissimi tra loro e che vediamo manifestarsi molto bene oggi nella crisi che l’islam sta attraversando. Parte di queste difficoltà sono causate dalle divergenze tra gli stessi musulmani».

Di recente ha affermato che «prendersi il tempo di ascoltare i nostri vicini musulmani sulla loro fede è un modo per fare esperienza dell’islam». Lei pensa che nell’Europa di oggi, dove soffiano pericolosi venti nazionalisti e sovranisti, si possa superare la reticenza nell’ascoltare, comprendere e accettare chi ha una cultura, una lingua o una religione diversa?

«Nella Bibbia l’espressione “non abbiate paura” è ripetuta oltre 365 volte, forse perché per l’essere umano è normale avere paura. La paura dell’islam, dell’immigrazione, dei cambiamenti che stiamo vivendo in tutta Europa, sono normali, ma non dobbiamo disprezzare chi prova questi sentimenti, al contrario, dobbiamo prenderli sul serio. Queste paure vanno comprese, non devono però dominarci né dettare ciò che pensiamo, per questo è importantissimo incontrare persone diverse, fuori, per vedere che non sono soltanto dei musulmani, ma che hanno tante altre caratteristiche, e che alla fine sono degli esseri umani come noi. Quando si ha la possibilità di fare amicizia, e questo si può fare, non si vede solo un musulmano, si vede un’altra persona. Poi magari si scopre che le nostre paure erano un po’ troppo generiche».

Perché nel suo libro e spettacolo teatrale Pierre e Mohamed ha scelto di raccontare l’amicizia tra il vescovo di Orano in Algeria e il suo autista Mohamed, uccisi insieme nel 1996 da una bomba dei fondamentalisti islamici?

«La loro mi sembrava una bella storia che ci parla di amicizia. Secondo me l’amicizia è una virtù anche cristiana – non solo, ma anche cristiana – ed è ciò che rende possibile l’incontro tra le religioni. A questo proposito: spesso mi viene chiesto se è possibile un dialogo tra le religioni. Io rispondo di no, che il dialogo si stabilisce tra le persone, non tra le religioni. Questa storia di amicizia mi sembrava un bel simbolo da proporre in questi tempi. Ce n’è più che mai bisogno».

Riguardo alla presunta incompatibilità tra islam e democrazia, in Comprendere l’islam lei afferma che «come per ogni trasformazione di grande entità, essa ha bisogno di discussione, le cui conclusioni non possono essere scritte in anticipo». Ce lo può spiegare meglio?

«Mi viene in mente spesso una teoria che è stata popolare in Francia fino al 1945 e che riguardava i tedeschi. Si diceva che era impossibile per loro, a causa della loro germanicità, vivere in uno stato democratico. Poi si è visto che questa germanicità non impediva il processo democratico, anzi. Secondo me non esistono delle impossibilità strutturali essenziali. È ovvio che nelle culture islamiche, che tra l’altro sono diverse tra di loro, ci sono degli ostacoli nei confronti della democrazia, tuttavia questi sono ostacoli umani. Le evoluzioni sono possibili, le abbiamo viste in quasi tutti i paesi musulmani nel ‘900, quando sono nate legislazioni civili, parlamenti, anche se forse in poca democrazia. Guardiamo per esempio alla Tunisia di oggi, che si sta inventando un modello di democrazia in un paese arabo islamico, pur con tutte le difficoltà del caso. Vedremo come questo modello si evolverà».

Da dove viene il terrorismo islamista?

«Il fenomeno del terrorismo non può essere spiegato del tutto solo dalla teologia, perché non è solo un fenomeno religioso, ma anche dalla psicologia, dalla geopolitica e da altre discipline. Però dal punto di vista religioso l’islam di oggi sta attraversando una grave crisi di legittimità. Nell’islam sunnita le autorità tradizionali vengono messe in discussione da un movimento di riforma chiamato salafismo, che è nato nell’800 ma che ha trovato slancio nel secondo ‘900 e che sta creando una fortissima destabilizzazione. Il terrorismo è anche conseguenza di questo».

Il documento sulla fratellanza umana firmato da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyib, grande imam di Al-Azhar, durante il viaggio del santo padre negli Emirati Arabi Uniti, è considerato da molti un documento epocale in termini di apertura e dialogo tra cristiani e musulmani. Che valore ha questo documento e come è stato ricevuto in Egitto, dove lei risiede?

«È un documento molto importante non tanto per il suo contenuto, ma per il fatto di essere stato scritto a quattro mani da due autorità, una cristiana e una musulmana. È una cosa nuova e molto bella che ci dimostra che questo dialogo è possibile. In Egitto è stato preso molto sul serio, e il grande imam l’ha fatto leggere e studiare a tutti i suoi allievi, che rappresentano milioni di persone. Penso comunque che ci vorrà del tempo per comprendere a fondo le conseguenze e le implicazioni del documento».

Chiara Brivio


Comprendere l’islam

Dall’11 settembre l’islam è stato analizzato in centinaia di testi. I talk show ci bombardano di pareri e opinioni. Spesso la discussione pubblica viaggia sulla strada della semplificazione. E semplificare una religione che coinvolge oltre un miliardo di persone non le rende giustizia.

Adrien Candiard, che l’islam lo studia da anni abitando in terra islamica, ci consegna in queste pagine una fotografia più realistica di cosa sono e di cosa significano gli islam: quello sciita, quello sunnita e quello di altre minoranze.

Candiard smaschera tanti pregiudizi e ci apre a un dialogo intelligente insegnandoci il rispetto per la pluralità.

Il libro: Adrien Candiard, Comprendere l’islam. O meglio, perché non ci capiamo niente, Emi, Verona 2019, pp. 128, 13 Euro.

da emi.it


Pierre e Mohamed

Due amici: Pierre Claverie, un vescovo cattolico, Mohamed Bouchikhi, un giovane musulmano. Il primo ha scelto di restare in Algeria per testimoniare Cristo dentro la violenza del terrorismo. Il secondo ha deciso di diventare il suo autista. Intorno a questi due personaggi, reali come la vita e la morte, infuria la guerra civile: siamo nell’Algeria degli anni Novanta, 150mila morti ammazzati nello scontro fratricida fra integralisti islamici e militari.

Le due voci sono quelle del vescovo Pierre che resta a fianco del suo popolo come chi rimane «al capezzale di un fratello ammalato, in silenzio, stringendogli la mano». Per questo motivo oggi la chiesa lo riconosce martire. E dell’autista Mohamed, ben consapevole del rischio, che resta accanto all’amico cristiano in pericolo di vita. Fino alla fine, fino a quel drammatico 1° agosto 1996.

Il libro: Adrien Candiard, Pierre e Mohamed. Algeria, due martiri dell’amicizia, Emi, Verona 2018, pp. 88, 9,50 Euro.

Da questo libro è stata tratta una pièce teatrale replicata 1.400 volte in 7 diversi paesi del mondo. Da settembre 2019 lo spettacolo è anche in Italia.

da emi.it

 




Penisola Arabica:

(Cristiani) Come ospiti tollerati (ma speranzosi)

Nella veste di responsabile del vicariato apostolico dell’Arabia
meridionale, monsignor Paul Hinder conosce le difficoltà di vivere in paesi
dove l’islam è religione di stato e la sharia fonte del diritto. Emirati Arabi,
Oman e Yemen, quest’ultimo devastato dalla guerra civile, sono i paesi dove il
vescovo svizzero si muove. Paesi nei quali l’Arabia Saudita, nazione egemone dell’area,
non fa mancare la propria influenza. Con i soldi o con le armi.

I slam, sharia, petrolio, immigrati. Sono alcuni degli
elementi che hanno in comune i sette paesi che compongono la penisola arabica.
Tutti a parte lo Yemen, che non ha né petrolio né immigrati e che, per di più,
da oltre quattro anni è devastato da una cruenta quanto misconosciuta guerra
civile.

In quest’area domina l’Arabia Saudita, monarchia oscura (e
oscurantista) verso la quale quasi tutti i paesi – in primis, gli Stati Uniti di
Donald Trump – mostrano una deferenza spiegabile soltanto con le enormi
ricchezze di cui essa può disporre. È Riad che guida la coalizione che combatte
in Yemen. È Riad che ha imposto un duro embargo contro il riottoso (ma
altrettanto ricco) Qatar. È Riad che ha fatto assassinare il giornalista
dissidente Jamal Khashoggi. È Riad che, dietro le quinte, trama nella guerra di
Siria e per l’isolamento dell’Iran sciita.
Nella penisola arabica, dal 2011 opera monsignor Paul Hinder, vescovo svizzero
di 76 anni. Il suo ruolo è quello di vicario apostolico dell’Arabia
meridionale, che comprende Emirati Arabi, Oman e Yemen. Lo abbiamo incontrato
prima dell’annuncio della visita di papa Francesco negli Emirati (3-5 febbraio
2019).

© Paolo Moiola

Convivere con la sharia

Monsignor Hinder, in quali paesi della penisola arabica lei sta operando?

«Oggi
sono vicario apostolico degli Emirati Arabi Uniti (nella cui capitale, Abu
Dhabi, risiedo), del sultanato di Oman e della repubblica dello Yemen. Dal 2005
al 2011 ero vicario anche di Arabia Saudita, Bahrein e Qatar. Poi la Santa Sede
ha fatto una riorganizzazione territoriale di tutta la penisola per avere una
suddivisione più ragionevole».

Come si vive in paesi dove la sharia è la principale fonte del diritto?

«Tutto
dipende da come essa è applicata nella pratica. È chiaro che ci sono vari modi
di interpretarla e applicarla. La sharia non è soltanto tagliare le mani o la
testa. Anche se capita ancora. Per esempio, in Arabia Saudita».

Non si tratta quindi di una esagerazione giornalistica?

«Non
lo è, ma questo non significa che sia l’atteggiamento generale. La sharia è
tutto quello che noi consideriamo diritto civile, quello che regola le cose
della famiglia, della proprietà, eccetera. Anche io sono andato alla “Corte
della sharia” per delle firme. Non è una cosa di cui avere paura: è il modo per
regolare i rapporti in una società musulmana. Chiaro che, per noi cristiani, ci
sono dei limiti nella libertà religiosa che, in questi paesi, non è
riconosciuta come una libertà propria della persona. E poi la libertà del
culto, di svolgere cioè le liturgie, è limitata. Come in Arabia Saudita dove
non esistono chiese, che invece esistono in tutti gli altri stati».

Intende dire che, a tutt’oggi, in?Arabia Saudita non esistono strutture
adibite a chiese?

«No,
anche dopo la visita del cardinale maronita (nel novembre 2017 il cardinale
Bechara Rai, patriarca dei maroniti, ha incontrato re Salman a Riad, ndr). Forse un domani, ma personalmente
nutro ancora dubbi. Ci sono – va precisato – delle comunità, formalmente rette
dal vescovo incaricato. Informalmente esistevano anche quando ero ancora
vescovo io. Ci sono messe celebrate in case private in modo discreto. Questo è
tollerato in quanto non disturba altri».

Oman, Emirati Arabi, Yemen sono paesi in cui esistono le chiese intese come
costruzioni?

«Esistono
ma per esempio senza campanili, senza croci esterne visibili dalla strada. Poi
all’interno sono come le chiese di qui, anche se non della stessa qualità
estetica e culturale. La chiesa di St. Mary di Dubai ha posto per 2mila fedeli
ed è ancora troppo piccola. Quella in Qatar, che avevo costruito io quando ero
vescovo, può ospitare 2.700 persone sedute. Nello Yemen, a causa della guerra,
le chiese sono in gran parte o parzialmente distrutte. In questo momento
inoltre non ci sono sacerdoti, e comunque non sono posti sicuri per i fedeli.
Quindi, la vita comunitaria dei pochi cristiani che stanno nello Yemen è
sospesa. C’è una comunità di suore di Madre Teresa che continua a lavorare, a
dare testimonianza a Sanaa in un modo veramente ammirevole».

Monsignore lei ha accennato allo Yemen, un paese dove è in atto una guerra
molto cruenta, anche se ignorata dai media internazionali. Dal suo punto di
vista, come può descrivere la situazione del paese?
Il presidente dello Yemen © UN Photo / Cia Pak

«Anch’io
non so tutto perché è molto difficile avere delle informazioni affidabili di
quella zona. Ovviamente la gente al telefono non parla e anche quelli che
vivono nel paese non conoscono bene la realtà. Da una parte c’è la guerra e
dall’altra una pace relativa o almeno senza guerra. Dobbiamo considerare che lo
Yemen è sempre stato un paese in conflitto in questi ultimi decenni. Ricordo
che se ne parlava già quando io ero ragazzo. Il conflitto attuale si è
complicato dopo l’intervento del 2015 da parte dell’Arabia Saudita e dei suoi
alleati. Un intervento che ha esteso la guerra e che ha fatto cadere sulle
spalle della popolazione yemenita questa contrapposizione con l’Iran, anche se
quest’ultimo non è coinvolto nello stesso modo, cioè in maniera diretta.

Cosa
fare? Io credo che il problema basilare, a parte i conflitti interni, manca la
capacità di arrivare a un compromesso: nella cultura del mondo arabo, o vinci o
hai perso. Questa mentalità impedisce molto spesso di incontrarsi a metà strada
e così si continua pensando di avere la meglio. Nel caso dello Yemen penso che
nessuna delle parti arriverà alla vittoria. Credo che sia necessaria una
soluzione che si elabori a livello di Nazioni Unite, se i grandi poteri vogliono.
Il problema è che finora è mancata la volontà. Lasciano proseguire la guerra.
Mancano le informazioni. I belligeranti non vogliono sia conosciuto troppo bene
ciò che capita nel paese. A questo scopo non è consentita l’entrata dei
giornalisti. Anche se sappiamo che oggi circa 5 milioni di bambini sono a
rischio di morte per fame. Se capitasse che il porto di Al-Hudaydah (il
principale porto sul Mar Rosso, ndr)
dovesse essere chiuso, questa sarebbe la conseguenza. Poi non possiamo
dimenticare le malattie. Le strutture sanitarie sono in parte distrutte. Ci
sono rifugiati all’interno del paese, mentre sono relativamente pochi gli
yemeniti che riescono a espatriare. Una “fortuna” per l’Europa che di certo non
vuole questa gente».

Parliamo di una guerra che riguarda milioni di persone.

«Certo.
Lo Yemen non è un piccolo paese: conta circa gli stessi abitanti dell’Arabia
Saudita (circa 28 milioni, ndr) che però è molto più grande come superficie».

Monsignore, come mai si parla tantissimo della guerra in Siria e, al
contrario, si parla pochissimo di quella in Yemen? C’è una ragione particolare?

«Particolare
non lo so. Di sicuro la Siria è culturalmente più vicina a noi. Molti l’hanno
conosciuta come turisti. Anch’io, quando ero consigliere generale dei
cappuccini, ho frequentato molto la Siria. I poteri inoltre vedono la Siria
come una zona di conflitto più importante. Anche se, a lunga scadenza, lo Yemen
non sarà da meno».

(Photo by Bandar AL-JALOUD / Saudi Royal Palace / AFP)
Monsignore, torniamo sull’Arabia Saudita, il paese più potente della
regione. Ci può dire qualcosa sulla situazione attuale di quel paese? Le
aperture democratiche di cui si è parlato sono reali oppure sono soltanto un
maquillage pensato dai reali?

«Democratiche
non è il termine giusto, perché questa è una monarchia che prende le decisioni
in modo assoluto. Ora stanno avvenendo dei cambiamenti, ma – questo è un mio
giudizio – sono per la facciata, anche per dare l’impressione, a livello
internazionale, di una relativa apertura. Il fatto che le donne possano guidare
l’auto è stato considerato in Occidente come un miracolo. E lo è, ma non cambia
la vita della società. Ci sono delle donne saudite che lottano per una società
più aperta che sono messe in prigione. Una cosa che non possiamo dimenticare è
che c’è un matrimonio tra il wahhabismo (che è l’interpretazione più severa
dell’islam) e la famiglia Saud. È quasi impossibile che arrivino a un divorzio
altrimenti l’Arabia Saudita, nelle forme attuali, avrà grandi problemi. Per
questo non penso che il principe ereditario Mohammad bin Salman, che sembra
essere l’uomo forte, possa andare avanti troppo veloce. Vedremo cosa capiterà.
Piccoli cambiamenti ci sono, che riguardano anche i cristiani. Il potere della
polizia religiosa è stato limitato. Non sono più frequenti le sanzioni che
c’erano prima. Piccoli passi che rendono un po’ meno problematica la vita dei
cristiani. Sarebbe però sbagliato che l’Occidente pensasse che i cambiamenti
avverranno presto. Come accaduto ai tempi della primavera araba quando si pensò
che, nel giro di qualche mese, ci sarebbe stata la democrazia per tutti. Non è
possibile. Diamo il tempo a queste realtà della penisola arabica (come di altre
parti del mondo musulmano) di sviluppare a modo loro il sistema politico».

Monarchie inamovibili

La benevolenza degli Stati Uniti di Trump verso l’Arabia Saudita deriva da
questioni di business, da questioni geopolitiche, o da che altro secondo lei?

«Alla radice secondo me ci sono due cose
principali, una è sicuramente l’economia. Chiaro che essendo il petrolio sotto
il suolo dell’Arabia Saudita (e degli altri stati vicini), c’è un interesse
economico. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno sempre visto nell’Arabia
Saudita un fattore di stabilità, non guardando se il regime garantisce o meno i
diritti umani. Quando ci sono di mezzo politica e business, gli stati
occidentali non guardano molto alla morale. Non voglio dare un giudizio ma fare
una constatazione che vale non soltanto per gli?Stati Uniti ma anche per i
paesi europei».

A suo personale giudizio, in questi paesi, il concetto di democrazia
nell’accezione che se ne dà in Occidente potrà mai esistere?

«Non
direi mai, ma sicuramente non in tempo breve. In questi paesi tutta la
struttura, anche tribale, è un impedimento. Senza dimenticare che queste
monarchie non vogliono perdere il potere. Ci saranno dei passi verso elementi
democratici della Shura, il parlamento islamico, che comunque non rappresenta
tutta la popolazione (i migranti ad esempio sono esclusi). Io mi aspetto una
condivisione più grande da parte della popolazione indigena e cittadina, questo
sì. Non a breve comunque, e come lo faranno non lo so. Non sarà una democrazia
come la conosciamo noi. C’è poi un altro elemento da non dimenticare: loro
guardano quello che succede negli Stati Uniti e in Europa o in altri posti e
non sono necessariamente entusiasti di ripetere quello che ci sta capitando.
Forse anche noi in Occidente dobbiamo riscoprire cosa vuol dire essere
democratici con responsabilità».

Questo discorso che ha fatto vale per tutti i paesi dell’area arabica o
soprattutto per l’Arabia Saudita?

«Direi
per tutti gli stati, ricordando che lo Yemen formalmente è una repubblica e non
una monarchia. Però abbiamo visto che non funziona se non rispettano certi
elementi della tradizione. Dovrebbero trovare il modo di combinare tradizioni
antiche con una modernizzazione nella condivisione del potere».

© Werner Bayer

Prove di dialogo con l’islam

Monsignore lei crede che con l’islam sia possibile dialogare?

«Penso di sì e comunque non c’è altra scelta. Quando si
arriva ai contenuti delle nostre fedi diverse sicuramente si hanno dei problemi
enormi da superare, perché un dialogo comporta le competenze che io per esempio
non ho, dato che non sono esperto in islamologia. Sono capace di fare un
dialogo umano perché vivo in questa situazione, ho delle persone che conosco
che possono discutere su questo, ma non è un approfondimento delle posizioni
ideologiche che posso fare. Ci sono dei tentativi. Prima di tutto ci vuole la
conoscenza propria e dell’altro.?E poi trovare dei campi dove andare avanti
insieme, come la pacificazione in questi paesi che è una preoccupazione di
tutti. Ci saranno possibilità sul campo caritativo dove c’è una certa
collaborazione e dialogo. Poi c’è la questione di avere rispetto per l’altro,
rispettare l’altra religione nella sua qualità malgrado le debolezze che noi
notiamo o pensiamo di notare. Sono 15 anni che sono qui e il vedere come
vivono, come si forma la vita, mi ha fatto crescere il rispetto verso gli
altri, e spero sia viceversa, quando loro vedono come noi viviamo. Ciò può
aiutare a superare pregiudizi e anche elementi di conflittualità. Quando io
conosco qualcuno nella sua diversità e lo rispetto, c’è meno rischio che ci
attacchiamo fisicamente come è successo nel passato».

Sono migranti (non immigrati)

© Andreas Gebert / DPA / dpa Picture-Alliance / AFP

Risponde al vero che la maggioranza dei fedeli cattolici
proviene dalle larghissime fila degli immigrati in questi paesi?

«Dobbiamo essere chiari nella terminologia:
non sono immigrati nel senso stretto, ma migranti. Ci hanno detto questo gli
stessi governi. Non siamo immigrati perché non possiamo rimanere e non possiamo
diventare cittadini. Non esiste possibilità di naturalizzazione, neppure per
quelli che parlano arabo. Pertanto, si parla di migranti che stanno in questi
paesi per un tempo limitato. Tra essi ci sono alcuni di classe media che
potranno rimanere praticamente per la vita, ma che non saranno naturalizzati.
Possono restare se sono in grado di pagarsi il soggiorno che è concesso per 2 o
3 anni. Se poi qualcuno perde il lavoro, deve andarsene. Anche la Chiesa deve
essere molto cauta perché non può promettere ai propri preti di farli restare
per tutta la vita. Essere migranti rimane la nostra sorte. Come ho detto tante
volte, siamo “una Chiesa di migranti per migranti”. Dal vescovo, fino
all’ultimo arrivato a Dubai o ad Abu Dhabi».

Migranti, dunque. Ma da dove provengono?

«Per
quanto riguarda gli Emirati, vengono soprattutto dalle Filippine e dall’India,
ma anche da altri paesi arabi (Siria, Libano, Palestina) e dall’Africa, sempre
di più. E poi dalla Corea e dall’America Latina. Insomma, dal mondo intero.
Nella nostra chiesa abbiamo più di 100 nazionalità diverse».

Queste persone che tipo di professionalità hanno?

«C’è
un po’ di tutto, ma in particolare si tratta di lavoratori del settore delle
costruzioni. Nel 2020 a Dubai ci sarà l’esposizione mondiale, nel 2022 nel
Qatar il campionato mondiale di calcio: c’è e ci sarà bisogno di tanti operai
per due progetti mastodontici. Vivono in zone residenziali a parte. La mattina
sono trasportati con il bus al lavoro per tornare alla sera. Questi non possono
partecipare pienamente alla vita parrocchiale anche se facciamo degli sforzi
per aiutarli un po’. Per esempio, organizzando il venerdì il trasporto alla
chiesa. Poi ci sono le impiegate domestiche che sono legalmente più deboli e
meno protette, anche se dipende molto dal datore di lavoro. Ci sono alcuni che
portano i loro impiegati alla messa, e poi aspettano per riportarli indietro.
Altri invece le trattano come vere e proprie schiave».

Per esempio, un lavoratore dell’edilizia ha uno stipendio adeguato?

«Cosa vuol dire
adeguato? Anche qui ci sono leggi sul salario minimo. Sicuramente rispetto a
quello che guadagnano o potrebbero guadagnare a casa loro è molto di più. Il
grande problema è cosa fare quando non sono pagati o lo sono ma in ritardo di
mesi. Qui iniziano i problemi e un giro legale. Un governo dovrebbe controllare
di più affinché queste cose non capitino. In questi ultimi 15 anni hanno fatto
dei grandi progressi, ma questo rimane un problema serio. Può così accadere che
alcuni partano poveri e ritornino ancora più poveri. Altri che hanno visto la
loro situazione sbloccarsi quando erano già tornati al loro paese lasciando
indietro gli stipendi che per legge gli spettavano. Alle nazioni che esportano
manodopera nei paesi del golfo dovremmo dire: non aspettatevi di arrivare in un
paradiso. Molto spesso è una vita dura o durissima, anche quando le cose vanno
normalmente. Qui si guadagna di più ma questo ha un prezzo umano. Molte
famiglie si sfasciano. Per questo cerchiamo di aiutare i nostri fedeli con la
pastorale».

Se io sono un migrante, in questi paesi ho diritto all’istruzione, alla
sanità, insomma a usufruire dei servizi pubblici?

«Dipende dove sono.
Ad esempio, ad Abu Dhabi l’assicurazione sanitaria è obbligatoria. Quindi, un
datore di lavoro non può fare un contratto di lavoro senza. Anche noi come
Chiesa siamo obbligati. L’accesso alle strutture sanitarie c’è, anche se alcune
strutture sono soltanto per i locali. Spesso gli indiani preferiscono andare a
casa propria dove la sanità è meno cara ed è buona. Quanto alla scuola, è
essenzialmente privata ed è un problema per le famiglie meno abbienti a causa
delle rette. Come Vicariato abbiamo scuole aperte a tutti (anche ai musulmani)
e a prezzi accessibili. Questa è la nostra missione, perché per i ricchi ci
sono scuole sufficienti».

Monsignore, dopo quasi 15 anni nella Penisola Arabica, come giudica questa
sua esperienza?

«Io
sono andato in?Arabia con una certa reticenza. Avevo paura ad accettare la
nomina. Una volta arrivato mi sono dato completamente a questo compito,
nonostante tutti i problemi. I fedeli mi hanno dato gioia, vedendo una Chiesa
non perfetta ma molto attiva, impegnata, motivata, che mi ha aiutato ad
approfondire me stesso e la mia fede. Mi sento felice qui anche se è un mondo
diverso che mi rimarrà sempre un po’ straniero, ma ho imparato molto da questa
cultura e non vorrei mi mancasse. Forse vent’anni fa avrei risposto
diversamente a una simile domanda».

Paolo Moiola

La guerra nello Yemen

(Photo by – / AFP)

Un’arma chiamata indifferenza

Ci sono paesi dove si combattono guerre evidenti e cruente eppure
dimenticate da tutti (comunità internazionale, media, opinione pubblica). Lo
Yemen è uno di essi.

Sono sempre esistite le cosiddette «guerre
dimenticate», conflitti evidenti e cruenti ma che, per una serie di ragioni,
non arrivano o arrivano sporadicamente e parzialmente all’attenzione
dell’opinione pubblica mondiale. In questa situazione l’indifferenza diventa
un’arma micidiale. La guerra civile nello Yemen, paese tra i più poveri del
Medio Oriente, rientra a pieno titolo nella categoria. Una guerra civile
iniziata sulla fine del 2014 quando gli Huthi – un gruppo islamico sciita (di
una variante nota come zaydismo) – prendono gran parte della
capitale Sanaa. Nel marzo del 2015 l’Arabia Saudita, a capo di una coalizione
di 10 paesi (9 dopo il ritiro del Qatar), interviene nel conflitto a fianco del
deposto presidente Hadi, nel frattempo fuggito. Il paese è smembrato: una parte
(quella ad Ovest) in mano agli Huthi, una parte nelle mani della coalizione
saudita e una parte divisa tra al-Qaeda e Stato islamico. A dicembre 2018 le
Nazioni Unite sono finalmente riuscite ad aprire colloqui di pace a Stoccolma.

A oggi la guerra avrebbe già fatto oltre 12mila morti e
milioni di profughi, come milioni sarebbero le persone a rischio carestia. In
tutto questo s’inserisce anche una storia nella storia che riguarda l’Italia e
in generale l’Unione europea. Secondo il New
York Times
, la Rheinmetall Defence,
una industria d’armi di passaporto tedesco ma con stabilimento in Italia (a
Domusnovas, in Sardegna), è tra i fornitori di bombe dell’Arabia Saudita. La
cosa sarebbe però vietata dalla legge italiana n. 185 del 1990 che vieta
l’esportazione di armi verso paesi in conflitto. Senza dire che, nel settembre
2013, l’Italia ha sottoscritto il Trattato internazionale sul commercio delle armi
(Arms Trade Treaty, Att) che limita
fortemente la compravendita di armi. Nel frattempo, lo scorso 25 ottobre 2018
l’Europarlamento ha approvato una risoluzione che chiede agli stati membri di
imporre un embargo sulla fornitura di armi a Riad, dopo l’omicidio del
giornalista Jamal Khashoggi (un critico dell’intervento saudita in Yemen). La
risoluzione comunitaria non è però vincolante, probabilmente perché Francia e
soprattutto la Gran Bretagna sono importanti fornitori d’armi di Riad. Proprio
come gli Stati Uniti, di gran lunga in testa nelle vendite all’Arabia Saudita (fonte: Sipri).

Nessun conflitto meriterebbe
indifferenza. Visto il coinvolgimento di molti paesi occidentali, la guerra
civile in Yemen la merita ancora meno. 

Paolo Moiola

L’assassinio del giornalista saudita

© al-Jazeera

L’affaire Jamal Khashoggi

Forse il coinvolgimento del principe ereditario non sarà mai provato.
Tuttavia, l’assassinio del dissidente ha messo in grande imbarazzo Riad. E il
presidente Trump.

Il 2 ottobre 2018 il giornalista
saudita Jamal Khashoggi entra nel consolato del suo paese a Istanbul per
sbrigare una questione burocratica relativa al matrimonio con la sua fidanzata
turca. Da quel momento si perdono le sue tracce. Qualche giorno dopo la sua
scomparsa si scopre che è stato ucciso da funzionari sauditi e – pare –
smembrato. Tutto sembra indicare Mohammed bin Salman (Mbs) come mandante
dell’omicidio.

Nato a Medina nel 1958, Khashoggi
era un giornalista moderato ma critico verso il proprio paese e in particolare
verso il principe ereditario Mbs, da molti (frettolosamente) eletto al ruolo di
riformatore della monarchia saudita. Costretto al silenzio, nel 2017 Khashoggi
aveva deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove collaborava come
opinionista al Washington Post.

Qualsiasi sarà l’evoluzione della
vicenda (le accuse della Turchia, della Cia, del senato Usa, ecc.) per il
principe ereditario saudita non ci dovrebbero essere conseguenze. Lo si è visto
anche al summit del G20 di Buenos Aires, all’inizio di dicembre, quando Mbs?ha
stretto mani e dispensato sorrisi. L’assassinio di Khashoggi non potrà certo
fermare l’ascesa del giovane e ambizioso rampollo di re Salman.

Paolo Moiola

© al-Jazeera

I sette paesi islamici

La penisola dell’Arabia Saudita

Nella penisola arabica la Chiesa cattolica è presente con due Vicariati,
uno retto da mons. Camillo Ballin e uno da mons. Paul Hinder.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Settentrionale:

Vicario:
 mons. Camillo Ballin

? Arabia Saudita:

monarchia assoluta, dal 1926 governata dalla famiglia al-Saud,
il paese più importante della penisola arabica è al centro dell’interesse
mondiale per le ricchezze petrolifere, le ambiguità sul terrorismo islamista e
l’alleanza con gli Stati Uniti. Da giugno 2017 è attraversata da faide
familiari a causa della nomina del giovane Muhammad bin Salman (Mbs) come
successore di re Salman. Attualmente capeggia la rivolta contro il Qatar e la
guerra in Yemen.

? Kuwait:

è una monarchia della famiglia al-Sabah; la maggioranza
della sua popolazione è immigrata. 

? Bahrein:

il piccolo arcipelago è una monarchia retta dalla famiglia
sunnita al-Khalifa. Da 2011 è teatro di proteste della maggioranza sciita, il
cui leader, lo sceicco Ali Salman, è in prigione, condannato a vita nel
novembre 2018.

? Qatar:

monarchia ereditaria della famiglia al-Thani, è una penisola
vasta quanto metà della Lombardia, paese ricchissimo e molto attivo sulla scena
internazionale (anche con il network mediatico al-Jazeera), dal giugno 2017
subisce l’embargo diplomatico ed economico da parte di Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. Il 3 dicembre 2018 ha annunciato l’uscita
dall’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio di cui era membro
dal 1961.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Meridionale:

Vicario:
mons. Paul Hinder

? Emirati Arabi:

è uno stato federale composto da 7
emirati; i 2 più importanti sono Abu Dhabi e Dubai.

? Oman:

con meno risorse petrolifere degli
altri (Yemen escluso) il sultanato dell’Oman è il più tranquillo tra i paesi
della penisola arabica; il sultano Qabus è al potere dal 1970.

? Yemen:

il paese più povero della regione
è in guerra dal settembre del 2014; si fronteggiano i ribelli conosciuti come
Huthi (musulmani sciiti legati all’Iran) e una coalizione islamista guidata
dall’Arabia Saudita.




Iran: la situazione nella repubblica islamica sciita

Testi di Maria Chiara Parenzo |


Impegnato nella tragica guerra della?Siria e in quella dimenticata dello Yemen, il governo sciita di Teheran ha problemi anche al proprio interno. Con una lotta senza esclusione di colpi tra conservatori radicali (legati alla Guida suprema Khamenei) e conservatori riformisti (vicini al presidente Rouhani). Nel frattempo, la schiera dei nemici esterni si compatta: Israele, Arabia Saudita e il presidente statunitense Donald Trump non fanno nulla per favorire il dialogo. A pagare il conto di questa situazione è il popolo iraniano.

Teheran. Per giorni – è dicembre 2016 – il reporter della televisione iraniana al seguito dell’esercito siriano tiene i telespettatori con il fiato sospeso: si sta riconquistando la città di Aleppo con un combattimento casa per casa. Man mano che la città viene liberata si rivelano i crimini perpetrati dai terroristi: case saccheggiate, cadaveri abbandonati qua e là, o deposti in fosse comuni. I telespettatori inorridiscono. Quando l’ultimo bastione di resistenza cade, in città è festa grande. Nelle immagini vediamo la gioia delle persone rimaste intrappolate nei quartieri occupati che possono riabbracciare i propri famigliari, ma anche la disperazione di quelli che ritornano alle proprie case devastate, le testimonianze delle atrocità commesse dalle milizie a danno dei civili. Poi vediamo immagini di come, lentamente, la vita in città tenta di riprendere il suo corso normale.

IRAN_Sha-Abbas-Great-(Mosque-Isfahan_AndreaMoroni_2017)

 Quale guerra?

Qualche giorno dopo mi trasferisco in Italia per il periodo natalizio e lì la musica cambia completamente. È quasi unanime il coro di denunce per gli orrori commessi dall’esercito di Bashar Assad durante la riconquista di Aleppo. Ci si rammarica che la comunità internazionale non abbia saputo fermare la strage. Non ho mai sentito i media iraniani parlare del governo siriano in termini negativi, ma mi è noto che il regime guidato da Assad si è macchiato di pesanti crimini di guerra. Poi si accusa l’aviazione russa di aver dato una mano ad Assad e di aver colpito indiscriminatamente obiettivi militari e civili. Anche questi fatti cui la Tv iraniana non ha mai fatto cenno, mi sembra del tutto plausibile. Basta ripensare a come l’esercito russo ha condotto la guerra nel Caucaso.

Scopro, in compenso, che il pubblico italiano non ha molta consapevolezza di un’altra guerra sanguinosa, quella in corso in Yemen dal 2015. Quando ne parlo con alcuni amici vedo il vuoto nei loro occhi: sì, forse qualcosa abbiamo sentito, non so. Invece, la Tv iraniana trasmette quasi quotidianamente immagini di persone che vagano tra le macerie delle loro case, di morti, di bambini feriti, o di madri disperate perché non hanno cibo per i loro figli. Causa di tante sofferenze sono i bombardamenti effettuati da una coalizione di stati guidata dall’Arabia Saudita, con l’appoggio logistico e tecnico di Usa e Regno Unito, e le bombe italiane. Anche in questo caso, non ho motivo di dubitare che le immagini descrivano una situazione reale.

È Iran contro Isis

Questa sensazione di vivere in una realtà doppia si ripete l’anno dopo. Questa volta si tratta della guerra all’Isis. Scopro che gli italiani ne hanno un’idea vaga. Sebbene tutti temano attacchi in casa propria, non s’interessano molto a ciò che succede su un terreno lontano. Chi ha combattuto l’Isis? I più nominano la Russia, l’America, i paesi arabi, qualcuno dei più informati parla di curdi, milizie sciite, Iran.

Se, invece, si fa la stessa domanda a un iraniano la risposta arriva rapida e sicura: l’Iran, innanzitutto. Da subito l’Iran ha sentito di vitale importanza difendersi da questa minaccia, sia per la vicinanza dello Stato islamico ai confini nazionali, sia per la particolare ferocia con cui il gruppo attaccava le comunità e i luoghi di pellegrinaggio sciiti. Dove arrivava l’Isis l’uccisione degli sciiti era sistematica, tanto da far parlare di genocidio, come per altre comunità non islamiche. Non penso che tutti gli italiani lo sappiano. Invece, tutti in Iran sanno che contro questa minaccia il loro paese si è impegnato in un confronto serrato sul terreno. Ci sono state campagne di reclutamento di uomini da inviare a difendere i luoghi santi in Iraq e in Siria (questa era la motivazione ufficiale). I volontari ricevevano lauti stipendi, agli afghani irregolari veniva, inoltre, assicurato il permesso di soggiorno al loro rientro. Hanno cominciato a riportare i «martiri» dalla Siria, dall’Iraq. Poster con le facce dei combattenti caduti sono comparsi nei quartieri dove abitavano i loro famigliari, come è usanza qui in Iran in segno di lutto. Quando dici a un iraniano che anche gli Stati Uniti hanno combattuto l’Isis ti guarda incredulo. La narrativa ufficiale in Iran è che l’Isis è stato creato dagli Usa e sui media nazionali non si fa certo menzione del contributo americano alla lotta.

Pubblici diversi hanno, dunque, percezioni diverse del reale. Non sappiamo quello che non vediamo e udiamo, e viceversa. Il reale che conosciamo attraverso i mass media è più o meno parziale e ci condiziona tutti.  Lo stesso vale per la questione del nucleare iraniano, che da noi ha tenuto banco a più riprese. Proviamo a vedere come l’hanno vissuta gli iraniani1 e come essi vivono la nuova crisi nei rapporti tra Iran e Usa.

(IRAN_Imam-Square-Isfahan-Iran_Ninara)

La questione del nucleare

Se la necessità di combattere l’Isis, in quanto massima espressione dell’odio dell’estremismo sunnita verso gli sciiti, era condivisa e sentita vitale, la questione del nucleare ha avuto e ha per gli iraniani un’importanza di gran lunga minore. Fin dal suo nascere è rimasta marginale, lontana dalle preoccupazioni quotidiane della gente. D’altra parte l’Iran non ha mai avuto i problemi energetici dell’Italia. Fino a circa dieci anni fa gas, elettricità, benzina godevano di sovvenzioni statali, poi eliminate e sostituite da un sussidio fisso versato mensilmente a ogni persona. Da allora il loro prezzo è rincarato, ma rimane ancora molto inferiore ai livelli europei, soprattutto quello di gas e benzina (venduta oggi a circa venticinque centesimi di euro). Né la gente sente la necessità di avere una bomba atomica. Le armi di distruzione di massa sono ritenute un abominio.

Partita in sordina negli anni Novanta, la questione del nucleare iraniano cominciò a salire di tono durante la presidenza di Mahmud Ahmadinajad (2005-2013), soprattutto per voce dello stesso presidente, che ne fece uno dei cavalli di battaglia nelle sue polemiche contro l’Occidente: il popolo iraniano, affermava, ha il diritto di produrre energia nucleare a scopi pacifici, come avviene in altri paesi del mondo. Il presidente batteva su questo tasto e la gente condivideva le sue argomentazioni. Con un senso di orgoglio nazionale si pensava: se gli altri sì, perché non noi. Inoltre, erano allettanti le promesse di avere un’energia elettrica quasi a costo zero grazie al nucleare. Tuttavia, quando cominciarono ad arrivare le sanzioni e a peggiorare i rapporti commerciali con l’estero, quando il prezzo del dollaro cominciò a salire e l’inflazione a galoppare, deprimendo pesantemente la loro già precaria economia domestica, gli iraniani capirono che il costo da pagare era troppo alto, tanto più per qualcosa di cui non si sentiva così bisogno.

Per questo motivo, quando la presidenza Rouhani nel 2013 inaugurò un nuovo corso, quello del dialogo, il sostegno popolare fu ampissimo. Un esito positivo dei negoziati avrebbe fatto ripartire l’economia e restituito un futuro a tante famiglie in difficoltà. Così, almeno, si credeva.

Questa grande speranza conviveva, però, con il grande timore che i negoziati finissero in nulla. Si sapeva, infatti, che incontravano una forte opposizione all’interno dell’apparato del regime, tanto che molti ne davano per scontato il fallimento. La Guida suprema Ali Khamenei aveva a più riprese messo in guardia contro l’inaffidabilità dei negoziatori occidentali, soprattutto degli Stati Uniti, da cui niente di buono poteva arrivare. Del tutto contrarie ai negoziati erano le «Guardie (guardiani, pasdaran) della rivoluzione», qui comunemente dette Sepah2, alle cui tasche aveva fatto bene il regime sanzionatorio. Le sanzioni, infatti, non interrompono il commercio di una nazione con gli altri paesi, ma impediscono che si sviluppi in maniera naturale, coinvolgendo, cioè, tutto il corpo sociale, il settore privato, come quello pubblico, il piccolo imprenditore, come la grande impresa; quindi, ne alterano la natura, privandolo della sua parte «sana» e lasciandolo nelle mani di chi è così potente da aggirarle e operare nell’ombra. Le sanzioni nei confronti dell’Iran hanno impoverito le persone normali e arricchito le organizzazioni che appartengono allo «Stato profondo», innanzitutto i Sepah e i Basij (un corpo paramilitare formato da volontari), che da loro dipendono. I Sepah sono uno stato nello stato, rispondono solo alla Guida suprema e operano, quindi, al di fuori dei normali meccanismi di controllo dello stato, in una zona grigia, inarrivabile, intoccabile. In un mercato bloccato dalle sanzioni, essi hanno continuato a vendere e importare attraverso canali terzi, ottenendo una sorta di monopolio per i propri affari. Le sanzioni, dunque, non fanno che aumentare la poca trasparenza di un sistema economico già di per sé opaco per vizio d’origine3.

(© Frode Bjorshol)

L’accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni

Considerata l’opposizione di forze così potenti, grandi furono la sorpresa e la soddisfazione della gente alla notizia che si era finalmente approdati a un accordo sul nucleare (14 luglio 2015): sembrava di avere vinto una battaglia, non tanto contro un nemico esterno, ma contro il regime interno. Ci furono manifestazioni pubbliche di tripudio. Negli anni l’accordo aveva finito per assumere un significato eccezionale, era considerato la panacea per le moribonde finanze del paese. Ci si aspettava una rapida ripresa dalla stagnazione.

In realtà non è stato così. La ripresa dei rapporti commerciali con i paesi occidentali è stata lenta e, se i dati dicono che l’interscambio è andato aumentando (quello tra Iran e Ue è cresciuto del 79% nel primo anno dall’entrata in vigore dell’accordo4), l’effetto ancora non si è visto granché sulla tavola degli iraniani, anche perché una vera normalizzazione non si è verificata. Altre sanzioni rimangono in essere e il sistema bancario per le transazioni con l’Iran non ha ripreso a funzionare correttamente. Dopo un breve momento di euforia iniziale, che lo aveva fatto risalire rispetto al dollaro, il rial, la valuta iraniana, ha ripreso a svalutarsi, toccando nuovi record alla fine dello scorso anno.

Quindi, per il momento, le tasche degli iraniani rimangono vuote. Tanto vuote che all’inaugurazione del nuovo anno iraniano, il 21 marzo 2017, quando si trattava di lanciare, com’è suo costume, lo slogan che intendeva ispirare l’operato del popolo nell’anno entrante, Khamenei ha pronunciato: «economia di resistenza». A sentire il nuovo motto, la gente si è preoccupata: ahi, la Guida invitava a stringere i denti e tirare la cinghia, ergo nell’anno ci sarebbero stati nuovi aumenti, nuove tasse. E, puntualmente, a dicembre, il governo ha annunciato aumenti di tasse e del prezzo di alcuni beni di prima necessità. La resistenza, però, non riguarda tutti, perché lo «Stato profondo», come si è detto, prospera e quando ha poca liquidità, come in questo periodo di prezzi petroliferi bassi e alti costi di una politica estera espansionistica, mette sotto torchio il comune cittadino, che è chiamato, appunto, a resistere.

Contro Donald Trump e l’Arabia Saudita

Forse anche perché non se ne sono sentiti i benefici, la reazione della gente alla bocciatura dell’accordo su nucleare da parte della presidenza Trump è stata blanda. In compenso la bocciatura ha fatto segnare un punto a favore di Khamenei, che aveva messo in guardia contro l’impossibilità di veri negoziati con gli Usa. Sì, perché l’Iran non è venuto meno agli impegni presi, come hanno confermato tutte le altre parti in causa.

Come spiegano gli iraniani l’ostilità del governo americano nei confronti del loro paese? Sull’argomento condividono quanto affermato dal loro ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, in occasione della visita di Trump in Arabia Saudita: «L’Iran, che ha appena tenuto delle vere elezioni, è attaccato dal presidente degli Stati Uniti in questo (riferendosi a Riyadh, nda) bastione della democrazia e della moderazione. Si tratta di politica estera o di succhiare 480 miliardi di dollari ai sauditi?»5.

Lasciando stare le «vere elezioni» (non tutti vi si possono candidare e il parlamento non è libero di decidere: comanda la Guida), ho spesso sentito esprimere la convinzione che lo spauracchio dell’Iran sia agitato ad arte per vendere più armi agli arabi.

Su un altro punto gli iraniani si trovano d’accordo col loro ministro degli Esteri: l’Arabia Saudita non può insegnare niente all’Iran in quanto a democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti, e il fatto che quest’ultimo continui a essere designato dagli Usa «stato sponsor del terrorismo», insieme a Siria e Sudan, è dettato da ragioni politiche, non certo ideali.

(© Frode Bjorshol)

Terrorista a chi?

Allora, chiedo io, l’Iran non pratica il terrorismo? Non esattamente, i Sepah appoggiano Hezbollah e Assad, mi rispondono (indicando così che percepiscono quell’organizzazione come un corpo estraneo, indipendente dallo Stato), ma che differenza c’è rispetto a quanto fanno altri paesi, tra cui l’Arabia Saudita? È difficile non concordare con loro, se si tiene presente che la maggior parte degli attacchi terroristici vengono dall’estremismo sunnita; che spesso colpiscono comunità sciite; che, sebbene la monarchia saudita non incoraggi esplicitamente il terrorismo, fa propria la dottrina wahhabita, nota per la sua interpretazione estremistica dell’Islam, che, tra l’altro, considera gli sciiti eretici e, quindi, anche passibili di morte. Gli stessi rapporti annuali sul terrorismo stilati dal governo americano denunciano l’utilizzo nelle scuole saudite di «libri di testo con insegnamenti che istigano all’intolleranza e alla violenza, in particolare verso chi è ritenuto politeista, apostata o ateo»6. Insomma, si fa fatica a capire perché quello iraniano debba essere ritenuto peggiore di altri regimi.

Tornando a quanto si diceva all’inizio, si può scegliere di illuminare solo una faccia della realtà e usare alcuni termini pro domo nostra. «Terrorismo» è uno di questi.

«È tutta politica», così reagiscono gli iraniani quando si parla di tali argomenti, intendendo con ciò i propri, come gli altrui politici. Sono stufi di sentire i loro rappresentanti e il clero fare predicozzi agli altri e propaganda a se stessi. La Repubblica islamica non farebbe che pensare al bene dei propri cittadini, migliorare i servizi, soccorrere nelle difficoltà, trasmettere buoni insegnamenti. Ma, se da quarant’anni si va di bene in meglio, perché la gente comune boccheggia nei lacci di una burocrazia pervasiva e arbitraria, vede prosperare una classe politica corrotta e crescere il divario tra poveri e ricchi, osserva lo «Stato profondo» utilizzare le risorse del paese per finanziare se stesso e i propri amici all’estero? Allo stesso tempo gli iraniani sono però anche stufi di vedere l’ipocrita interessamento di altri paesi ai fatti di casa loro. Non gradiscono che li si istruisca su che cosa devono fare.

Durante gli eventi del dicembre 2017 (approfondimento alla pagine 24-25, ndr), quando le proteste contro il carovita hanno portato nelle strade migliaia di persone, diverse voci si sono levate da fuori per incoraggiare gli iraniani alla ribellione. A sentire gli incitamenti di persone al sicuro nelle proprie case, chi ha vissuto la guerra contro l’Iraq si è ricordato di quando Khomeini gridava: «A Karbala! A Gerusalemme! Combattere fino alla vittoria!» e mandava migliaia di giovani a morire in Iraq, mentre lui, i suoi famigliari e gli altri membri del clero se ne stavano a casa tranquilli. Di nuovo bisogna constatare: che differenza c’è?

Subito dopo l’elezione di Trump in Iran è comparsa una serie di aneddoti che lo paragonavano ad Ahmadinejad. Gli iraniani hanno individuato negli atteggiamenti del nuovo capo della Casa bianca una grande somiglianza con quelli del loro ex presidente, uno dei politici che maggiormente solletica il loro senso dell’umorismo. Perché, fortunatamente, gli iraniani amano scherzare su se stessi. Attraverso la rete e gli sms girano decine di aneddoti, sfornati a velocità strabiliante a ogni nuova occasione, anche tragica. È un modo di esprimere critica e disappunto, tollerato (qualcuno dice addirittura utilizzato, facendo circolare aneddoti ad hoc) dal regime, forse perché vi vede una valvola per far sfogare una rabbia altrimenti troppo compressa. Ce n’è per tutto e per tutti. Solo della Guida suprema e delle organizzazioni a lui legate (Sepah, Basij) non si parla mai direttamente. La Guida è il vicario in terra dell’«Imam nascosto», offendere lui è blasfemia e merita la morte.

Maria Chiara Parenzo

Note

  • (1) Anche qui quando si parla di iraniani si dice, in realtà, una verità parziale. Le opinioni che trasmettiamo sono state raccolte nella fascia urbanizzata del nord dell’Iran. Sono trasversali per classe sociale (dal povero al ricco), ma non riflettono il pensiero di chi ha incarichi pubblici o appartiene al clero.
  • (2)  Il nome completo è «Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica». «Sepah» significa corpo.
  • (3)  Vedi anche Annalisa Perteghella, «Due anni dalla firma del Jcpoa: l’accordo funziona ma non è ancora al sicuro», 14 luglio 2017, in www.ispionline.it.
  • (4) Annalisa Perteghella, Tiziana Corda, «Usa e Iran: l’azzardo di Trump sul nucleare», 11 ottobre 2017, in http://www.ispionline.it.
  • (5) Zarif: Trump ‘succhia’ i soldi dell’Arabia saudita, 22/05/2017, in www.asianews.it.
  • (6) «…some textbooks continue to contain teachings that promote intolerance and violence, in particular towards those considered to be polytheists, apostates, or atheists». U.S. Department of State, «Arabia Saudita», in «Country Reports on Terrorism 2016», p. 222.

(RAN_Shazdeh-Hosein-Shrine-Qazvin_AndreaMoroni_2017)


I fatti del dicembre 2017

Dietro «la rivolta delle uova»

Quelli di dicembre sono stati eventi legati alla perenne lotta tra i conservatori moderati del presidente Hassan Rouhani e gli ultraconservatori vicini alla Guida suprema. Da qualsiasi parte si analizzi la situazione, un dato è certo: in Iran la gran parte dei religiosi e delle persone legate al regime vivono nella ricchezza più sfacciata. Alla faccia della Rivoluzione e del popolo.

L’hanno chiamata «la rivolta delle uova» perché proprio in quei giorni il loro prezzo era triplicato, non per motivi politici, ma per una malattia dei polli che le aveva fatte scomparire dal mercato. Un nome scherzoso per qualcosa di molto serio. La scintilla è scoccata il 28 dicembre 2017 a Mashhad, feudo di Ebrahim Raisii, religioso a capo della miliardaria fondazione benefica che custodisce il mausoleo dell’Imam Reza, nonché rivale politico del presidente Hassan Rouhani. Occasione: l’aumento del costo di alcuni generi di prima necessità, tagli di sussidi e altre misure di austerità annunciate dal governo Rouhani. Sembra ormai assodato che sia stata una mossa mal calcolata nella lotta tra Rouhani, espressione dei conservatori moderati che vorrebbero modificare il sistema per permettergli di sopravvivere, e gli ultraconservatori, concentrati tra il clero e le organizzazioni non elettive dello «Stato profondo», cui le riforme sottrarrebbero parte di privilegi e potere. La presidenza Rouhani sta cercando di rendere più efficiente e trasparente il sistema economico. Ciò vuol dire anche ridurre i privilegi di fondazioni e organizzazioni paramilitari religiose, cui la Repubblica islamica concede di vivere in un limbo dove non si pagano tasse e non si è obbligati a spiegare come si utilizzano le ingenti risorse a disposizione. Queste istituzioni, di cui non è possibile stimare con esattezza il giro d’affari, hanno una presenza pervasiva in tutti i settori economici. È, in sostanza, un sommerso autorizzato che, secondo calcoli approssimativi, controllerebbe due terzi della ricchezza del paese. Dai tempi di una Rivoluzione fatta anche nel nome degli ultimi, religiosi e personalità legate al regime hanno accumulato fortune personali notevoli, e ciò è davanti agli occhi di tutti.

Trasparenza e rabbia popolare

Lo scorso 10 dicembre i telespettatori hanno sentito per la prima volta il presidente elencare le voci di spesa contenute nella legge di bilancio. La novità, insieme all’inedita richiesta di rendicontare per il futuro l’utilizzo dei contributi governativi, è stata interpretata come un tentativo di ottenere una maggior trasparenza. Si è venuto, così, a sapere che, se da un lato si programmavano aumenti di tasse e prezzi, dall’altro si destinavano ingenti somme a fondazioni religiose e le spese militari crescevano del 20% (l’inflazione è ufficialmente intorno al 10%). I telespettatori hanno capito che, mentre avrebbero dovuto aspettarsi un peggioramento delle proprie condizioni di vita, il regime concedeva ulteriori risorse a già facoltose istituzioni parassitarie e faceva pagare loro i costi di una politica estera ambiziosa. Nei giorni di dicembre queste novità correvano su tutte le bocche, alimentando una rabbia che già covava. Così è bastato poco per portare la gente in strada. La protesta si è fatta sentire, più che a Teheran, nelle provincie, dove più basso è il livello di vita e maggiori sono le difficoltà economiche. I manifestanti, soprattutto giovani, hanno gridato la propria frustrazione contro il sistema, ma non in nome di qualcosa o qualcuno. Per quanto si è capito, si è trattato di manifestazioni spontanee, organizzate grazie al passaparola e ai social network, non un movimento con chiari obiettivi e riferimenti politici. Ad esempio, a Izeh, nel Khuzestan, i manifestanti hanno occupato stazioni di polizia e uffici governativi, ma poi li hanno evacuati, non sapendo che farne.

Il discredito dei religiosi

C’è da chiedersi: chi ha dato inizio alle proteste per fare un dispetto al presidente non ha capito che avrebbe così anche dato la stura a sentimenti che già ribollivano nella gente, rischiando di trasformare una lotta di potere interna al sistema in una rivolta contro il sistema stesso? Chi è al potere, soprattutto se da lungo tempo, acquisisce una straordinaria incapacità di capire la realtà, perfino nelle sue forme più ovvie. Ed è ovvio che la gente comune è sempre più lontana dai discorsi ufficiali, sempre meno disposta a credere agli esponenti di una classe politica e religiosa, le cui parole anno dopo anno sono state sbugiardate dai fatti. Glielo si legge negli occhi, sempre più foschi di frustrazione e ansia per il futuro. A quegli occhi la classe al potere è caduta in totale discredito, riformisti o radicali che siano. E i più discreditati di tutti sono i religiosi, ai quali piace caricare sulle spalle della gente pesi che essi, invece, non sono disposti a portare. Per fare solo un esempio, consigliano ai malati di andare a impetrare guarigione al santuario dell’Imam Reza. Se loro hanno problemi di salute, invece, intraprendono costosi soggiorni all’estero per cure mediche.

Il predicatore del venerdì a Teheran, l’ayatollah Kazem Seddiqi, ha definito i protestatari «spazzatura». Altre personalità, tra cui la Guida suprema Ali Khamenei, hanno gettato la responsabilità della rivolta sui nemici esterni: Israele, gli Usa, i paesi del Golfo. È vero che da parte di Rouhani e dei moderati si è provato a dare una valutazione più realistica di ciò che è accaduto, ma quanto ciò corrisponda a sentimenti sinceri si capirà solo alla prova dei fatti.

I pericoli

C’è da augurarsi che i pallidi tentativi di cambiamento cui si è accennato si rafforzino e portino a una seppur graduale ristrutturazione del sistema, altrimenti c’è il rischio che tra qualche tempo ci si trovi ad affrontare altre rivolte. Non c’è da augurarsi che ciò si risolva in reazioni violente. Gli iraniani temono che il loro paese, in cui convivono etnie e confessioni diverse, possa diventare teatro di sanguinose lotte intestine, dove non sarebbe certo la gente comune a vincere.

Un cattivo governo è sempre preferibile alla guerra civile e chi ha incitato gli iraniani alla rivolta, o è un irresponsabile, o, molto più probabilmente, persegue un proprio interesse.

Maria Chiara Parenzo

 




Tunisia: di nuovo in strada (ma non è primavera)

Testo di Angela Lano |


Dopo le rivolte del 2011, a gennaio 2018 i tunisini sono tornati in piazza per una rivolta eminentemente economica. Il partito (laico) al potere sta deludendo le aspettative e tutti i problemi sono rimasti insoluti. Il partito islamico (Ennahda), accusato di essere filoterrorista dai suoi detrattori, rimane in attesa.

I tunisini sono scesi nuovamente per strada, a manifestare la loro rabbia contro le ingiustizie sociali ed economiche, e la mancanza di prospettive e di futuro. La «primavera» del 2011 sembra un lontano ricordo o forse, soprattutto, una grande delusione.

Il bilancio della sommossa popolare di gennaio 2018 è di oltre 800 persone arrestate, centinaia di altre ferite, e negozi saccheggiati, veicoli danneggiati, caserme di polizia incendiate.

Le misure finanziarie dettate al governo dal Fondo monetario internazionale per il prestito di 2,8 miliardi di dollari, hanno scatenato la rivolta: aumento del costo della vita, licenziamenti nel settore pubblico, tagli alle pensioni, inflazione che supera il 6%, disoccupazione giovanile al 30%. La corruzione è dilagante e investe ogni settore, sia pubblico sia privato. La «casta» Ben Ali non è stata estromessa con la rivoluzione del 2010-2011: sono state allontanate le figure più in vista, ma l’estesa rete di «famigli» e «clientes» è rimasta e continua a gestire, in pretto stile mafioso, gran parte degli affari politici ed economici del paese.

Da Ennahda a Nida’a Tunis

Attualmente alla guida del paese c’è un governo del movimento Nida’a Tunis1. Si tratta di un partito laico, ma composto da personaggi dubbi coinvolti nel regime di Ben Ali e riciclati in funzione anti Ennahda, che accusano di appoggio al terrorismo.

«Tuttavia – ci hanno spiegato Kais e Debora, le nostre due interlocutrici -, i dirigenti di Ennahda sono persone colte e con progetti intelligenti. Si sono occupati anche di questioni sociali ed economiche, di diritti individuali, che altri non hanno avuto il coraggio di affrontare: interruzione del digiuno in pubblico, omosessualità, diritti personali. È dalla fine del 2012 che l’opposizione, anche di sinistra, delegittima questo partito. In Tunisia, come era avvenuto anche in Egitto, la sinistra aveva chiesto, paradossalmente, l’intervento dell’esercito per destituire Ennahda. La situazione si era risolta grazie al “Quartetto per il Dialogo nazionale”2». Il sindacato Ugtt si era offerto come mediatore politico per far uscire il paese dalla crisi.

Era stato dunque nominato un nuovo governo provvisorio, con un rimpasto di ministri, e si era evitata la guerra civile, come invece era accaduto in Egitto e in Libia. Nel 2014 Ennahda ha perso le elezioni, e anche il consenso interno. Le decisioni successive sono andate contro «lo spirito rivoluzionario», di cambiamento, richiesto dal popolo, soprattutto dagli strati sociali più giovani: è stata messa in atto una strategia di auto conservazione dei vecchi partiti filo Ben Ali che si sono infiltrati nel processo di cambiamento in corso, dando vita a una contro rivoluzione. E gli effetti si sono visti: disoccupazione, crisi economica, disperazione, fino alle sommosse di gennaio 2018.

In realtà questa fase di «restaurazione» era scattata già subito dopo la fuga di Ben Ali: il vecchio establishment si era subito messo in moto per rimanere all’opera nonostante la rivoluzione.

Ora Ennahda è di nuovo il primo partito, dopo la spaccatura di Nida’a. Nonostante abbia apportato importanti cambiamenti politici e sociali, negli anni di governo, dal punto di vista economico rimane neoliberista, come il resto della Fratellanza musulmana da cui trae le proprie radici politico ideologiche. «Sul fronte del centrosinistra, invece – hanno aggiunto Kais e Debora -, c’è il vuoto: gli attivisti o sono andati all’estero o sono stati assorbiti dalle Ong internazionali. Una parte della popolazione giovanile rivoluzionaria, dopo il 2011, ha iniziato a dedicarsi ad altro, e non più alla politica, perché ne è stata delusa».

Un contadino vicino a Sejnane. (© Arne Hoel)

Tuttavia, ci hanno fatto notare gli attivisti incontrati, qualcosa di positivo è stato messo in atto, ed è la cosiddetta «Istanza della Giustizia di transizione»: un processo sociale, politico e giuridico per accertare le responsabilità del regime dittatoriale e dei suoi esponenti. La «riconciliazione nazionale» deve passare attraverso il riconoscimento dei crimini commessi durante la dittatura e l’ascolto delle storie delle vittime, per evitare che si ricreino le stesse dinamiche. Per questo motivo nel dicembre del 2013 è stata promulgata la legge sulla Giustizia di transizione che ha creato l’«Istanza Verità e Dignità», con mandato fino al 2019: vengono raccolte e valutate le denunce dei cittadini che hanno subito violazioni dei diritti umani dal 1956 in poi.

Sono 63.000 i dossier raccolti – hanno aggiunto Debora e Kais -, e sono relativi a vari tipi di violazione dei diritti – civili, economici, politici – e comprendono anche torture, stupri, sparizioni, decessi in carcere e altre morti sospette, impedimento dell’accesso all’istruzione, matrimoni forzati. I responsabili sono diversi: lo stato e i singoli individui. Nei casi di corruzione viene chiesto ai responsabili la restituzione delle somme rubate. Il processo serve più alle vittime: «è un flusso della coscienza», una rielaborazione della memoria. Le vittime hanno la libertà di nominare pubblicamente i torturatori, gli oppressori, di raccontare le loro storie, durante udienze mandate in onda anche in Tv e che durano diverse ore. Ci sono state anche le testimonianze di membri di Ennahda imprigionati per anni dal regime di Ben Ali.

La Tunisia ha dinamiche europee anche sul fronte della società civile c’è molto attivismo: radio comunitarie, organizzazioni femminili, alternative economiche e lavorative finanziate da Ong, cooperative e donatori internazionali. È molto attiva la cooperazione internazionale, che ha parecchia influenza sulla società: alcune Ong europee o statunitensi orientano determinate politiche, quindi, di fatto, rappresentano una forma di controllo esterno.

L’economia nazionale è improntata sugli investimenti esteri. L’establishment nazionale pone infatti molti ostacoli agli investimenti locali, in quanto, come accennato sopra, rimane dominato dalla corruzione. Se a tutto questo aggiungiamo anche il crollo del turismo, che costituiva una delle risorse economiche tunisine, a seguito degli attacchi terroristici, la situazione è tornata esplosiva, come dimostrano le proteste di gennaio. Le regioni interne del paese, dove la disoccupazione e la povertà sono più forti, sono in continua agitazione, con molte manifestazioni antigovernative.

Al museo del Bardo: da 500 a 10 visitatori giornalieri

Dal centro di Tunisi aspettiamo un taxi che ci porti al museo del Bardo, nell’omonimo quartiere periferico. Dopo più di mezz’ora di vana attesa, si ferma un’auto con due giovani donne a bordo, velate, e ci offrono un passaggio. Sono madre e figlia, ma sembrano due sorelle. La ragazza è una studentessa universitaria di Scienze tecnologiche. L’apparente contrasto è forte: abiti islamici, radio sintonizzata su sure del Corano, e l’aria di due donne indipendenti, aperte al prossimo e molto cordiali, a dimostrazione che esistono tanti e variegati modi di vivere l’islam. Ci lasciano davanti al museo, quasi stupite che vogliamo visitarlo. Le guardie all’ingresso perquisiscono le borse, e blocchi di cemento impediscono l’accesso ad auto e moto. Sono le misure di sicurezza adottate dopo l’attentato terroristico del 18 marzo del 2015, che costò la vita a 25 persone, straniere e locali. Quel giorno i terroristi ebbero facile accesso, sembra. Ora ci sono controlli, ma non ci sono più turisti. In piena estate siamo in tre in tutto il museo. Una tragedia sia per il Bardo sia per lo stato tunisino.

Al-Mat?af al-wa?an? bi-l-B?rd? è l’ampio, modernissimo, organizzato e famoso museo archeologico, situato nella residenza (secolo XIX) del bey (re), che raccoglie reperti di età preistorica, punica, romana, cristiana e arabo-islamica. Si possono ammirare opere come «Ulisse e le Sirene», «Il poeta Virgilio con le muse Calliope e Polimnia», «Il Trionfo di Nettuno» e altre meraviglie. Le sale di arte arabo-islamica sono altrettanto affascinanti.

Prima dell’attentato, i turisti erano almeno 500 al giorno, secondo quanto ci hanno raccontato gli operatori del museo. Dal 2015 in poi, se va bene, ne arrivano 10. Fuori dal complesso, i venditori di souvenir, disperati, svendono per pochi spiccioli le loro mercanzie. Nell’ingresso, una lapide accoglie i visitatori con i nomi delle vittime. Il piano terra è dedicato all’archeologia preislamica: cartaginese, pagano-berbera, ebraica e cristiana. Dal primo piano si accede alle belle sale dell’ex residenza del bey e poi all’ala che ne ospitava il fratello e l’harem.

Ala’ Eddine Hamdi, giovane guida del Bardo e studente di lingua e letteratura russa, ci accompagna nelle sale dove avevano cercato riparo, invano, un gruppo di turisti inseguiti dai terroristi. Quel luogo è carico di contrasti, tra la magnifica estetica degli intarsi, degli azulejos e delle ambientazioni, e la morte di cui sono stati palcoscenico. Ne rimaniamo profondamente colpiti: alcune colonne e pareti portano ancora i segni dei fori, degli sfregi e dei vetri rotti provocati dai proiettili. Due «islam», qui, sono a confronto: quello portatore di civiltà, arte, cultura, scienza, e quello dell’estremismo politico-religioso-ideologico seminatore di morte. Ma questo paradosso è retaggio di tutte le religioni, purtroppo.

Ala’ Eddine ci dice che la presenza del Daesh in Tunisia è iniziata con Ennahda al potere, nel 2011. «Non intendo dire che siano loro i terroristi, ma che hanno fatto entrare predicatori, reclutatori di combattenti, e hanno permesso a molte ragazze di diventare delle prostitute dei jihadisti. Migliaia di giovani si sono uniti al Daesh per andare ad addestrarsi in Libia e poi a combattere in Siria, passando dalla Turchia. C’era una rete ben organizzata, quella della Fratellanza musulmana, che ha funzionato come “distributore di terroristi”. Da qui sono partiti 3.000 combattenti, dai 18 ai 30 anni». Dichiarazioni forti, che noi non possiamo verificare, ma che fanno parte di una diffusa vulgata.

Per questo e altri giovani, la rivoluzione tunisina è stata un disastro, in quanto ha eliminato un tiranno corrotto per sostituirlo con tanti altri. È uno dei tanti delusi che ha perso la speranza di vedere cambiamenti politico-sociali del paese, e come altri, è un forte oppositore dei gruppi islamisti, che vengono percepiti, nella secolare Tunisia, come portatori di arretratezza sociale, in particolare verso le donne.

Piazza del 14 gennaio 2011, a Tunisi. (© Arne Hoel)

Attentati e terrorismo

Dalla rivoluzione del 2011, la Tunisia è stata oggetto di attentati da parte del Daesh: oltre al già citato attacco al Bardo, ricordiamo quello dentro a un resort turistico a Marsa al-Qantawi, nei pressi di Sousse, il 26 giugno del 2015, e rivendicato sempre dal Daesh, nel quale 39 persone vennero uccise a colpi di kalashnikov e altre 39 ferite; quello del 24 novembre 2015, contro un autobus con a bordo guardie presidenziali, che percorreva una strada di Tunisi, sempre rivendicato dal Daesh. A seguito di quella strage, il governo tunisino impose un severo controllo sulle moschee, chiudendo quelle che non risultavano rispettare una normativa che impone agli imam di essere autorizzati dal ministero per il Culto. L’11 maggio 2016, alcuni sospetti terroristi furono uccisi e altri arrestati durante scontri armati con le forze di sicurezza tunisine nel distretto di Mnihla, nella grande Tunisi. Quattro guardie nazionali furono uccise in un attacco suicida durante un’operazione di sicurezza a Tataouine, nel Sud del paese. Infine, quella nota come la «Battaglia di Ben Guerdane», al confine con la Libia, il 7 marzo 2016: forze del Daesh tentarono di mettere sotto assedio la cittadina tunisina, ma furono respinti dai militari. Gli scontri proseguirono anche nei giorni successivi. L’attacco jihadista causò la morte di 52 persone, tra cui 35 aggressori che erano entrati dalla Libia, quattro dei quali erano cittadini tunisini.

La principale minaccia terroristica in Tunisia è rappresentata da «al-Qa’ida nel Maghreb Islamico» (Aqmi) e da estremisti libici collegati allo Stato islamico (Daesh).

La Tunisia ha un confine «aperto» con la Libia, dove permane una situazione instabile e densa di conflitti, e con una forte presenza di bande armate e gruppi terroristici.

Le forze di sicurezza tunisine sono state ripetutamente oggetto di attacchi da parte dei terroristi, soprattutto nelle zone di confine.

Va ricordato che i tunisini costituiscono il gruppo più numeroso del multietnico e globalizzato Daesh: dalla Tunisia, negli ultimi anni, si sono arruolati nelle fila dello Stato islamico migliaia di giovani. Secondo dati ufficiali rilasciati dal governo tunisino nel 2013, circa 3.000 giovani si sono uniti ai gruppi takfiri dello Stato islamico, mentre i rapporti delle Nazioni Unite e altre organizzazioni parlano di 5.000 – 7.000 combattenti.

Inoltre, è balzata tristemente alle cronache la vicenda del Jihad al-Nikah, il «jihad sessuale» chiesto dal Daesh alle giovani donne arabe. Dalla Tunisia ne sono partite diverse decine, destinate alla prostituzione tra i combattenti in Siria. A sostenere l’esistenza di questa tratta ci sono anche le dichiarazioni di politici tunisini, tra cui il ministro dell’Interno Lofti Bin Jeddo.

Il ritorno dei jihadisti tunisini

A settembre 2017, secondo quanto riportato da vari giornali arabi, il governo di Tunisi ha avviato un piano di deradicalizzazione delle diverse migliaia di «jihadisti di ritorno», cioè giovani tunisini che hanno combattuto a fianco di formazioni del Daesh in Libia, Siria, Iraq e in altri paesi. Si tratterebbe di un progetto che prevede la «riabilitazione» dei foreign fighters, o combattenti stranieri. In Tunisia, come in Marocco, la gente non vuole che questi soggetti radicalizzati ritornino a casa, poiché sono un pericolo, una fonte di destabilizzazione e di potenziale terrorismo. Infatti, in occasione degli attacchi sopracitati sono state organizzate diverse marce di protesta. La Tunisia, diversamente dalla Libia postregime di Gheddafi, e dall’Egitto (con una storia notevole di islamismo politico, dal quietista al violento, e formazioni attualmente molto attive nel Sinai), non permette lo sviluppo interno del jihadismo. Dunque, chi si sente attratto da questa visione politica violenta sceglie di andare a combattere fuori dal paese. Ecco perché i jihadisti tunisini del Daesh sono il gruppo nazionale più numeroso, seguito da libici e algerini.

Come abbiamo spiegato su questa rivista in precedenti articoli , a spingere verso la radicalizzazione è, in genere, un insieme di cause. Nel contesto tunisino agiscono l’emarginazione sociale, politica ed economica, la mancanza di prospettive; la delusione provocata in certi strati sociali dalla decisione di Ennahda di limitare i propri riferimenti all’ambito politico: questo ha portato alcuni a rifugiarsi in altre realtà dell’islamismo ideologico per trovare punti di riferimento e motivazioni. Inoltre, non va dimenticato che molti islamici radicali tunisini arrivano dalle aree di confine con Algeria e Libia.

Angela Lano
(sesta puntata – continua)

Note

(1) ?araka Nid?? T?nus, Movimento dell’appello della Tunisia, è stato fondato nel 2012 dal premier di allora, Beji Caid Essebsi. Alle elezioni presidenziali del 2014 diede vita a una coalizione elettorale con il Partito repubblicano: l’Unione per la Tunisia. Le elezioni parlamentari del 2014 furono vinte da Nid?? T?nus (85 seggi su 217). Ennahda ne ottenne 69.

(2) Al-?iw?r al-Wa?an? al-T?nus? è composto da quattro organizzazioni della società tunisina: l’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt); la Confederazione tunisina dell’industria (Utica); la Lega tunisina per la difesa dei diritti dell’uomo (Ltdh); l’Ordine nazionale degli avvocati (Onat). Nel 2015 ha ricevuto il premio Nobel per la pace «per il suo contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralistica in Tunisia, sulla scia della Rivoluzione del Gelsomino del 2011».

La signora Bargua Mechergui, artista vasaia di Senjane. (© Arne Hoel)




Tunisia: la scomparsa dei gelsomini


Lo scorso luglio abbiamo visitato Tunisi, dove eravamo stati in diversi momenti storici del passato, compreso il 2012, per seguire l’evolversi delle dinamiche della «rivoluzione dei gelsomini». Il paese ha attraversato cambiamenti che hanno suscitato grandi speranze, soprattutto tra la popolazione giovanile. Speranze che però sono state presto deluse a causa di instabilità politica, attentati terroristici, crisi economica, corruzione e disoccupazione. In questo contesto dalla Tunisia sono partiti migliaia di giovani (foreign fighters) per unirsi al Daesh.

Luglio 2017. Arriviamo a Tunisi con un volo pieno di cittadini tunisini che tornano a casa per le vacanze. Dopo il primo scambio di battute in arabo e in francese, il tassista che ci conduce verso il centro della città inizia a parlarci in buon italiano. È vissuto in Italia per anni, a studiare e lavorare con il padre commerciante. Si tratta di un’esperienza comune a tanti suoi connazionali. 

Mentre attraversiamo una parte della città, ci accorgiamo del cambiamento di questo stato arabo maghrebino che, alla fine del 2010, diede il via alle cosiddette «primavere arabe»1. È tutto in costruzione: strade, palazzi, interi quartieri. Tunisi è una metropoli, con aree satellite, intorno e verso il mare, bianchissime, pulite e moderne. L’impianto urbanistico francese, con i suoi ampi viali alberati, le sue piazze e chiese, l’appariscente e lunghissima avenue Bourguiba, che conduce fino alle porte della Medina, la rende più simile a una qualsiasi città europea che a una araba.

Sono tanti i giovani per strada, indaffarati, o in pausa in qualche bar o ristorante. La maggior parte di loro è vestita in abiti occidentali e ci stupiamo nel vedere tante ragazze ostentare con disinvoltura minigonne, calzoncini e scollature, e tenere per mano i loro fidanzati. Gruppi di amiche, o di coppie, se ne stanno per ore sedute nei dehor dei caffé, a chiacchierare, studiare e a sorseggiare tè o altre bevande. In altri paesi arabi, dove il luogo privilegiato delle donne è ancora la casa, queste sarebbero scene surreali.

La francofilia delle classi benestanti

Gli anni di protettorato francese hanno lasciato tracce, oltre che nelle strade, anche nella cultura e nelle abitudini, per non parlare delle tante «patisserie» di cui i tunisini vanno fieri. Molti si dicono contenti di essere stati «colonizzati» dai francesi (e non dagli Italiani, come successe ai libici), e ne ostentano la lingua con ottimo accento, il ritmo settimanale di lavoro (festività domenicale) e l’organizzazione scolastica. La classe medio-alta è francofona e rigetta l’identità arabo-tunisina, come ci spiegano attivisti locali. La si nota in aeroporto, in certi locali, negozi o luoghi di riferimento «europei». Ciò riconduce alla «colonizzazione del pensiero», per parafrasare Frantz Fanon di «Pelle nera e maschere bianche», e anche a un’identità di classe economica in cui le famiglie tunisine benestanti si riconoscono. Questo vale anche per libici, egiziani, e forse per tutte le classi alto-borghesi africane e mediorientali.

In realtà, negli anni del lungo mandato francese, iniziato nel 1881 (Trattato del Bardo), ci fu sempre una fortissima resistenza organizzata da studenti e intellettuali e guidata, a partire dagli anni ‘20, dal Partito della Libera Costituzione (?izb al-?urr al-Dust?r?) e poi dal Neo-Destour. Quindi l’accettazione del modello europeo, per i benestanti, è un fatto economico, più che politico, e non differenzia i ricchi tunisini da quelli palestinesi che vivono nelle ville di Ramallah, i sudafricani neri post apartheid o gli europei dei quartieri chic. L’identità di classe è transnazionale e interetnica. O meglio, multietnica.

La storia: indipendenza, dittatura, rivoluzione

Habib Bourguiba, giurista tunisino, educato in Francia, fu la figura principale nella lotta per l’indipendenza, che iniziò nel 1938 e si concluse con successo nel 1956, con la proclamazione della Repubblica l’anno successivo.

Negli anni della sua presidenza, durata dal 25 luglio 1957 al 7 novembre 1987, quando venne destituito da Zine El-Abidine Ben Ali, la Tunisia attraversò profonde e lunghe fasi di cambiamento, di «modernizzazione» e «laicizzazione». Alle donne vennero concessi diritti che neanche in Francia ancora esistevano. Fu diffuso l’insegnamento – pubblico e gratuito -, promulgato il Codice dello Statuto personale, vietata la poligamia, ridotto il potere dei capi religiosi e abolito il doppio regime, coranico e civile, sia in ambito giudiziario sia scolastico.

Lo sviluppo politico, istituzionale, economico e culturale si arrestò, tuttavia, all’inizio degli anni ‘70, dando spazio, come in altri paesi arabi, alla corruzione, al nepotismo e al clientelismo, soprattutto negli apparati pubblici e statali. Nel frattempo, Bourguiba era diventato «presidente a vita», sul modello egiziano, e aveva trasformato la repubbica in una dittatura. Il 26 gennaio 1978, passato alla storia della Tunisia come il «Giovedì nero», il sindacato (Ugtt) organizzò uno sciopero che la polizia caricò con violenza: i morti furono diverse centinaia.

Gli anni ‘80 furono caratterizzati da una profonda crisi politica ed economica e, come successe anche in Egitto e in altri stati arabi maghrebini, il radicalismo islamico crebbe e si diffuse tra quegli strati della popolazione con minori strumenti economici e culturali, ma anche come forma di reazione politica a un regime autoritario e visto come filo occidentale e troppo laico.

Di questa situazione approfittarono il generale Zine El-Abidine Ben Ali e la sua cerchia di familiari e amici, che, nel 1987, deposero il vecchio e malato Bourguiba, con un «golpe medico». La Tunisia era dunque avviata a un lungo periodo di dispotismo e dittatura, con persecuzioni di oppositori e islamisti, che riempirono le prigioni. Il generale diede vita, infatti, a un regime poliziesco e corrotto, assegnando incarichi istituzionali a familiari e collaboratori, con periodiche elezioni-truffa che gli permisero di rimanere al potere fino a quando non fu costretto alla fuga dalla rivoluzione popolare del 2011.

Mohamed Bouazizi e l’inizio della rivolta

Nella «Rivoluzione dei Gelsomini», lo scrittore Tahar Ben Jalloun racconta il sacrificio del giovane venditore e l’inizio della rivolta tunisina che, il 14 gennaio del 2011, dopo 23 anni di dittatura, porterà la fuga in Arabia Saudita del corrotto Ben Ali e a Dubai del resto della sua famiglia. Mohamed Bouazizi diventa «eroe suo malgrado», non immaginando certo l’effetto domino che il suo gesto disperato avrebbe avuto per il suo paese e per diversi altri nel mondo arabo. (Bouazizi si diede fuoco il 17 dicembre 2010 per protestare contro la revoca della sua licenza da ambulante, da parte della autorità, dando inizio alla rivolta, ndr).

La Rivoluzione si scatena, dunque, con proteste e sommosse in numerose città: disoccupazione, carovita, mancanza di prospettive, corruzione endemica, repressione, mancanza di libertà, ecc., ne sono la causa principale.

È una rivolta dei giovani, delle classi popolari, medie e degli intellettuali, e, come nelle altre «primavere» che esploderanno da lì a poco in altri paesi arabi, è organizzata soprattutto via social network. I manifestanti si danno appuntamento attraverso le reti sociali e scendono in strada, incuranti delle cariche delle forze di polizia (l’esercito, invece, si rifiuta di intervenire contro la popolazione, evitando, così, un bagno di sangue e assumendo un ruolo importante nella caduta del regime). Immagini e video delle folle e della repressione vengono diffuse in tempo reale, scatenando altre manifestazioni e la simpatia e il sostegno internazionali. Diversi blogger e internauti vengono arrestati. Un caso noto è quello di Slim Amamou, che diverrà segretario di Stato per lo sport nel governo di transizione post rivoluzione.

Potremmo dire che la «primavera» tunisina è stata autentica, spontanea e popolare, probabilmente come quella egiziana. Su quelle libica e siriana ci sono, invece, dubbi, soprattutto sulla natura interna, autoctona, delle rivolte. Ne parlammo su MC, in un dossier del gennaio 20131, e ne scriveremo di nuovo nei prossimi numeri.

Con la fuga del clan Ben Ali, nel gennaio 2011, inizia dunque una nuova fase, significativa, nella società tunisina, che vede la massiccia partecipazione di studenti, giornalisti, blogger, attivisti vari alla vita politica, sociale e culturale. A ottobre 2011 si svolgono le elezioni, le prime libere, democratiche e multipartitiche, per l’Assemblea del popolo (il Parlamento tunisino): il partito islamista Ennahda si attesta al primo posto, e farà parte di una troika (coalizione parlamentare) insieme a Etakkatol (al-Takattul) e al Partito democratico progressista.

Nel gennaio del 2014 la nuova Costituzione entra in vigore e sancisce libertà ed uguaglianza, e «nuovi diritti» per tutti i cittadini.

Il 2013, tuttavia, è contrassegnato da omicidi politici perpetrati da salafiti e manifestazioni che chiederanno le dimissioni del governo. Il 6 febbraio viene assassinato l’avvocato del Fronte popolare tunisino, Shokri Bel’id: l’omicidio provoca proteste in tutta la Tunisia, e la richiesta delle dimissioni della Troika. Le sedi di Ennahda vengono attaccate in varie città. Il fratello di Bel’id accusa il partito islamista della responsabilità morale dell’omicidio, in quanto l’avvocato denunciava da mesi una forma di «violenza politica» del governo.

Il 25 luglio è assassinato il politico Mohammad Brahmi, leader del Movimento del popolo. Al funerale decine di migliaia di persone chiedono le dimissioni del governo. Entrambi gli uomini erano membri della coalizione di sinistra, all’opposizione presso l’Assemblea Nazionale, che chiede le dimissioni dell’esecutivo e nuove elezioni. Ma bisognerà aspettare fino alla fine del 2014.

Le elezioni presidenziali del 23 novembre e 21 dicembre 2014, segnano la vittoria di Beji Caid Essebsi, del partito Nida’a Tounes, che ottiene il 37,56% dei voti, mentre Ennahda retrocede al 27,79%.

Il 2015 e il 2016 sono contrassegnati da attacchi terroristici2 che lasciano il paese sconvolto e deprivato di un’importante fonte economica: il turismo.

La resistenza della casta

I giovani che abbiamo incontrato a Tunisi, a luglio del 2017, ci hanno parlato del desiderio di cambiamento profondo, di partecipazione attiva alle sorti del paese, ma anche di un sistema di corruzione politica radicata, nonostante la fine del regime: la vecchia casta e le sue tante ramificazioni non è stata spazzata via, ma ha continuato ad occupare i posti che contano e, soprattutto, a bloccare una vera riforma dello stato. Quindi, dal punto di vista politico, anche in Tunisia, la «primavera» è sfiorita subito, ed è tornata inverno, a causa di instabilità, crisi, vecchia classe dirigente ancora al potere, attentati, disoccupazione e frustrazione dei giovani, delusione e mancanza di prospettive, che porta molti, ancora, a emigrare verso l’Europa.

Abbiamo incontrato due attivisti che sono stati tra i testimoni diretti della «Rivoluzione dei Gelsomini»: Kais Zriba, giornalista tunisino, che lavora per Inkyfada3, un noto sito giornalistico di approfondimento, e la sua compagna, Debora Del Pistornia, operatrice di Amnesty International in Tunisia, e laureata in relazioni internazionali.

«La Primavera tunisina – ci hanno spiegato – si è articolata attraverso due processi paralleli: quello rivoluzionario e quello contro rivoluzionario. È in atto un dibattito sociale molto intenso e una negoziazione tra forze contrarie».

«Qual è l’identità tunisina? – hanno raccontato Kais e Debora -Africana? Mediterranea? Francese? La questione identitaria religiosa è stata strumentalizzata a livello politico – c’è una forte islamofobia, soprattutto tra le classi alto-borghesi – che fa perdere di vista le questioni principali».

Angela Lano
(quinta puntata – continua)

Note

(1) Angela Lano, E dopo la primavera arrivò l’inverno, dossier MC, gennaio-febbraio 2013.
(2) I principali attacchi terroristici risalgono al 26 giugno 2015, 4 novembre 2015 e 11 maggio 2016. La principale minaccia terroristica in Tunisia è rappresentata da al-Qa’ida nel Maghreb Islamico (Aqmi) e da estremisti libici con collegamenti al Daesh. La Tunisia ha un confine «aperto» con la Libia, dove permane una situazione instabile, dovuta a una forte presenza di bande armate e gruppi terroristici. Le forze di sicurezza tunisine sono ripetutamente oggetto di attacchi da parte dei terroristi, soprattutto nelle zone di confine.
(3) Sito: http://inkyfada.com.


Arabi e Berberi

La Tunisia è uno degli stati del Maghreb, insieme a Marocco, Algeria e Libia, e ha un’estesa superficie (40%) occupata dal Sahara. La maggioranza dell’odierna popolazione tunisina – circa 12 milioni di persone – parla una variante dialettale dell’arabo, con influenze berbere e francesi. Esistono anche etnie berbere arabizzate, soprattutto nel Sud. Altre lingue parlate sono il francese, dialetti berberi e l’italiano.

I tunisini residenti all’estero sono circa 1 milione, la maggior parte dei quali in Europa, principalmente in Francia e in Italia. Oltre il 90% della popolazione è di religione musulmana, con una minoranza di cristiani ed ebrei.

I primi, storici, abitanti furono qabilas (tribù) berbere. Nell’814 a.C. i Fenici fondarono Cartagine. Nel VII secolo d.C., quando iniziò la penetrazione araba e dell’Islam, l’area era territorio bizantino, e la popolazione locale berbera oppose parecchia resistenza ai nuovi invasori, ponendo molti ostacoli alla conversione: furono necessarie ben sei spedizioni (647, 661, 670, 688, 695 e 698-702). Con il passaggio dei Berberi all’islam, questa provincia divenne l’Ifriqiya. È interessante notare il fatto che i Berberi adottarono l’ideologia religiosa islamica kharijta, quella, cioè, dei primi ribelli anti sistema dell’islam. Le popolazioni berbere e la loro fede kharijita costituirono una costante spina nel fianco di tutti gli invasori, dagli Arabi fino agli Ottomani, organizzando rivolte periodiche contro governi imposti dall’esterno.

Nel 1881 la Tunisia divenne un protettorato francese, ma sotto l’autorità formale di un Bey (signore delle tribù). L’Italia aveva una folta colonia di contadini, soprattutto siciliani, e la Francia, accapparrandosi il dominio su quella regione del Nordafrica, impedì eventuali pretese italiane. Nel 1956 ottenne l’indipendenza.

A.La.

 




Germania e la questione migratoria


Per navigare questo dossier

Dal nazionalismo all’accoglienza.
Germania: ieri, oggi, domani

«Wir schaffen das» («Ce la facciamo»).
Le sfide dell’immigrazione.

Il lungo percorso del dialogo.
Immigrazione e fedi religiose in Germania.

Schede.
Dati demografici

Le Chiese.
Alcune date storiche.

 


Dal nazionalismo all’accoglienza

Germania: ieri, oggi, domani

Dopo gli orrori nazisti, la Germania è cambiata in maniera profonda e sorprendente. Potenza economica e politica, è la seconda destinazione a livello mondiale per le migrazioni, subito dopo gli Stati Uniti. Nonostante alcune tensioni e la presenza di movimenti xenofobi («Alternativa per la Germania» e «Pegida»), la Germania di oggi è un paese aperto, plurale e inclusivo. Anche se ora occorre attendere le (inevitabili) conseguenze del voto del 24 settembre 2017.

La Germania è il paese europeo dove l’ideologia nazionalista, portata alle sue più estreme conseguenze, ha messo in atto i crimini più feroci contro l’umanità. Il mito della razza ariana propugnato dai nazisti, quello di una presunta purezza etnica da conseguire e preservare a ogni costo, l’eugenetica e lo sterminio sistematico degli ebrei e di altre minoranze, rappresentano un’onta di infamia che, volenti o nolenti, sarà legato ancora a lungo al nome di questo paese.

Questo anche in ragione del fatto che, a dispetto di casi straordinari ma episodici come quelli di un Dietrich Bonhoeffer e degli studenti della Rosa Bianca, l’opposizione interna al Reich hitleriano e alla messa in opera della soluzione finale ha riguardato solo un numero assai esiguo di individui, incapaci di impensierire in alcun modo la colossale macchina della morte messa in piedi dal regime nazista e dalla sua propaganda. A fronte di ciò, come scriveva nella sua «Storia della Shoah» lo storico Georges Bensoussan, furono un milione i tedeschi coinvolti direttamente o indirettamente nello sterminio degli ebrei, fra campi di concentramento ed esecuzioni di massa delle Einsatzgruppen (le famigerate «unità operative» guidate da Reinhard Heydrich), soprattutto nei territori dell’Europa orientale, dove trovarono in molti casi terreno fertile anche fra le popolazioni locali. Assai più numerosi, inevitabilmente, i tedeschi che sapevano, oppure fingevano di non sapere, pur avendo avuto di fronte a sé segni inequivocabili e avvisaglie chiarissime rispetto a quanto avveniva.

Ciononostante, chi conosce bene questo paese dall’interno, non può che guardare con sincera ammirazione al cambiamento sociale e culturale avvenuto nella Repubblica Federale dal dopoguerra ad oggi. Un mutamento che ha investito il mondo della politica e della cultura, nonché le coscienze di milioni di tedeschi che prima hanno riconosciuto gli errori e orrori compiuti nel passato e poi hanno tentato di cambiare se stessi e il paese senza reticenze e compromessi. Il risultato che abbiamo di fronte a noi è per molti versi sorprendente. La Germania odierna è un paese aperto, plurale e inclusivo, a dispetto delle sfide della convivenza e dell’accoglienza, e delle inevitabili tensioni che ne sono sorte negli ultimi anni.

Non solo: forse più di ogni altro paese, la Germania di oggi ambisce a rappresentare un baluardo della tolleranza nel mondo, in anni – quelli che stiamo vivendo – dove le campagne elettorali europee (e non solo: basti pensare a Trump negli?Stati Uniti) paiono segnate in modo sempre più netto da rigurgiti nazionalisti e razzisti, che si fanno avanti in modo rapido e spaventoso anche nei nostri media e nelle coscienze di molti di noi. Ed ecco allora che quella che è stata senza dubbio una tragedia e un’onta, quella dei crimini compiuti dai nazisti, si è trasformata per molti versi, inaspettatamente, anche in una risorsa e in un antidoto sicuro contro l’odio sempre più imperante nei confronti dei rifugiati e degli stranieri.

La Germania dopo il 24 settembre 2017

Certo, non è tutto oro quel che luccica. Anche in Germania si è fatta avanti una destra populista e xenofoba, quella del partito «Alternativa per la Germania» (Alternative für Deutschland, Afd). Nelle elezioni del 24 settembre l’Afd ha raccolto il 12,6 per cento dei voti e ben 94 seggi nel Bundestag. Un partito, questo, che come il movimento anti-islamico di Pegida (Patriotische Europaeer Gegen die Islamisierung des Abendlandes, Europei patriottici contro l’islamizzazione dell’Occidente), ad esso per molti versi associabile, raccoglie però consensi in modo assai più marcato nell’ex Germania orientale, dove gli spettri del totalitarismo comunista continuano a pesare. Ma non si tratta, purtroppo, in molti casi, solo di slogan e vuote parole. Crescono di frequenza anche le aggressioni, gli episodi di intolleranza e di violenza nei confronti del diverso, poco importa se si tratti di un rifugiato, di un musulmano o di un ebreo, tutti ugualmente colpiti negli ultimi anni. Eppure, considerando le sfide che il paese si è trovato ad affrontare soprattutto dal 2015 in poi, non si può che trarre un bilancio positivo, con una punta di invidia nei confronti di una macchina statale che è stata capace di reggere all’urto dei tempi, senza cercare facili capri espiatori o piegarsi, per mero interesse politico, agli slogan razzisti anche da noi fin troppo noti.

La crisi dei rifugiati (2015) e gli attentati (2016)

Dicevamo poc’anzi dello spartiacque epocale rappresentato per la Germania dal 2015. Ebbene, proprio da qui si deve partire per comprendere la situazione attuale: nel 2015 si era nel pieno della crisi dei rifugiati, quando erano in tanti – o, meglio, la quasi totalità – i giornalisti nostrani che, dal caldo delle loro poltrone a Roma e a Milano, davano politicamente per spacciata la Merkel, «colpevole», secondo molti di loro, di aver spinto troppo avanti la sua politica dell’accoglienza, nota come Willkommenskultur in tedesco. Le cifre degli arrivi, a ben guardare, sono davvero impressionanti, anche se oggi sappiamo essere un po’ inferiori a quelle gonfiate e diffuse dai media in quei mesi.

Sono stati 865.374 gli individui entrati illegalmente in Germania nel 2015, secondo i dati ufficiali riportati dalla polizia federale tedesca lo scorso anno. Fra questi, primi per paese d’origine sono stati i siriani (73.920), seguiti da afghani (38.750), iracheni (22.394) ed eritrei (17.225). Tutti, com’è facile notare, fuggiti da luoghi segnati da terrorismo, guerre o dittature feroci. Notevoli anche i dati di comparazione rispetto all’anno precedente. Dal 2014 al 2015 l’immigrazione dall’Afghanistan alla Germania è aumentata del 877%, dall’Iran del 1.005% e dall’Iraq (dove era in piena espansione lo Stato islamico) addirittura del 2.155%. Dati che rendono bene l’entità di un fenomeno che ha cambiato il volto del paese, ponendolo di fronte anche a una sfida politica e culturale di vaste proporzioni.

In Germania il 2015 non sarà ricordato solo per la crisi dei rifugiati. Anche il terrorismo, da molti anni assente, ha fatto il suo macabro ritorno nel paese provocando un mutamento dello scenario politico e della sicurezza altrettanto importante. Ricordiamo, su tutti, gli attacchi dell’estate di quell’anno, da Ansbach a Würzburg, entrambi rivendicati dall’Isis. L’anno successivo, invece, è stato funestato da episodi di ancor più vasta portata: la strage di Monaco di Baviera del 22 luglio 2016, dove hanno perso la vita 10 persone, e l’attacco terroristico al mercatino di Natale a Berlino, il 19 dicembre, costato 12 vittime. Non si è trattato in tutti i casi di attentati a sfondo religioso. Tutti, invece, i protagonisti di questi macabri eventi erano, almeno per origine, stranieri. Ebbene, il clima che si respirava nelle strade, il dibattito sui media e su internet di quei giorni, non è minimamente paragonabile all’odio e alla tensione che hanno segnato la brutta estate italiana che ci siamo appena lasciati alle spalle.

L’odio non fa breccia

Quali sono le ragioni di questa differenza, che sempre più si configura a livello europeo come un’eccezione? Perché l’odio non fa breccia che in modo marginale nella Germania odierna? La prima risposta, come detto, va ricercata forse nella storia. La Germania risorta dalle macerie del Terzo Reich, sopravvissuta al terrorismo della Raf e agli anni di piombo, ha in sé più di altre nazioni gli anticorpi per resistere alla spirale cieca della violenza islamista e del razzismo. A Berlino, a Dresda, a Amburgo, a Stoccarda – città che solo pochi decenni fa erano un cumulo di macerie – sono ancora in pochi ad essere disposti a invertire l’orologio della storia, a subire il fascino del sangue e ad auspicare un ritorno ai proclami di guerra e alle crociate.

Ma non basta. Un altro punto fondamentale da ricordare, a mio avviso, anche in termini comparativi rispetto all’Italia e ad altri paesi dell’Europa orientale, dove le sirene dell’intolleranza trovano oggi orecchie più recettive, è che qui l’integrazione di milioni di cittadini di origine straniera è ormai un fatto compiuto da decenni, almeno nelle grandi città del Sud e dell’Ovest. Là dove la presenza è più recente, come nell’ex Ddr, servirà inevitabilmente più tempo, come d’altronde da noi in Italia. Non dimentichiamo infine che ad Est, punto da non trascurare, i dati sulla povertà e sull’emarginazione sociale sono ancora assai più alti che in altre parti del paese, con il solito, triste profilarsi di una guerra fra poveri.

Le paure dei tedeschi: una classifica

Dati alla mano vediamo com’è articolata la società tedesca di oggi, dove la componente legata all’immigrazione, come detto, è in continua crescita. Sono 18,6 milioni i residenti di origine straniera in Germania, pari a oltre un quinto della popolazione totale, che ammonta a 81 milioni di individui. Si è avuto, a tal proposito, un aumento record nell’ultimo anno, il 2016: +8.5% secondo i dati dell’Ufficio statistico federale, ovvero il più alto in oltre un decennio. Un fenomeno ancor più marcato nei grossi centri urbani dove le opportunità di impiego sono assai maggiori. Prendiamo ad esempio Stoccarda, dove l’anno prima, nel 2015 – e sono gli ultimi dati disponibili – il 42,2% dei residenti era di origine straniera, con punte del 58,2% per i minorenni. Numeri importanti, tali da mutare profondamente il volto di una città, dalle scuole fino al lavoro e al tempo libero. Eppure, anche a livello di percezione diffusa, le città sono sicure, assai più che in Italia, e l’immigrazione non risulta oggi al primo posto fra le preoccupazioni dei tedeschi. Il cambiamento climatico (71%) e il timore di nuove guerre (65%) la fanno da padrona, secondo una recente ricerca riportata sul quotidiano Westdeutsche Allgemeine Zeitung, staccando la paura del terrorismo (63%) e, di molto appunto, quella degli immigrati (45%).

Un mosaico multiculturale (con tanti cittadini comunitari)

Ma vediamo ora quali sono, fra i cittadini stranieri residenti in Germania, i gruppi nazionali più rappresentati all’interno del mosaico multiculturale tedesco. Secondo i dati ufficiali dell’Ufficio statistico federale, primi sono i turchi, che nel 2016 toccavano quota 1 milione e 492mila, seguiti dai polacchi a 783mila unità. Terzi i siriani, pari a 637mila residenti, quarti invece noi italiani, 611mila (con una crescita di 15 mila individui rispetto all’anno precedente). Seguono rumeni, greci, croati, bulgari, afghani, russi e iracheni. Interessante notare come dal 2016 ad oggi il numero di migranti provenienti dagli altri paesi dell’Unione europea sia più che triplicato. In un solo anno, il 2016 appunto, risulta che siano stati 634mila i cittadini Ue che hanno scelto di vivere in terra tedesca. Non sono quindi solo i cittadini cosiddetti extracomunitari a immigrare. Una Germania che rappresenta la seconda destinazione a livello mondiale per l’immigrazione, seconda solo agli Stati Uniti, stando a una ricerca dell’Oecd pubblicata nel 2014.

Numeri a parte, se visto dall’interno, il melting pot in salsa tedesca sembra funzionare piuttosto bene. Se forte è l’impegno delle scuole e delle istituzioni religiose nel fronteggiare la diffidenza nei confronti dell’altro e il razzismo, è anche il mondo del lavoro a fare la differenza. Sono sempre di più le aziende che scelgono come lingua di lavoro l’inglese nei loro uffici, ed è grande la richiesta di manodopera in alcuni Land, come quelli del Sud, dove si è raggiunta quasi la piena occupazione. All’ingresso del quartier generale della Mercedes, che ha sede qui a Stoccarda, e dove si usa sempre di più la lingua di Shakespeare per lavorare, si legge in un banner: «Qui non c’è posto per il razzismo». Certo, ancora una volta, non è tutto oro quello che luccica, e non vi è dubbio che siano in molti a sfruttare i nuovi arrivati, cui vengono proposti a volte contratti da precari e con retribuzioni sempre più basse, con il risultato che le diseguaglianze avanzano rapidamente, creando sacche di povertà sinora sconosciute soprattutto in provincia, nelle periferie e nelle città del Nord e dell’Est del paese.

Non si può tuttavia trascurare, ed è il dato di gran lunga più incoraggiante, come la risposta più efficace alla crisi dei rifugiati e all’insorgere del razzismo sia giunta proprio dalla società civile tedesca, che ha dato il suo meglio mobilitandosi dopo il 2015. In Germania, le persone in vario modo impegnate nel volontariato sono 31 milioni (pari al 38% della popolazione), in Italia invece – per fare un raffronto – solo 6 milioni (pari al 10%). Una differenza che si spiega anche con la grande generosità dimostrata dalle associazioni, dalle chiese e da tanti semplici cittadini che hanno sentito il bisogno di impegnarsi in prima persona per fronteggiare quella che forse è la più grande sfida del nostro tempo: la sfida dell’accoglienza.

Simone Zoppellaro


«Wir schaffen das» («Ce la facciamo»)

le sfide dell’immigrazione

Si dice che l’immigrazione rappresenti per la Germania solo un’occasione per avere manodopera a basso costo. Questo probabilmente valeva ai tempi dei Gastarbeiter («lavoratori ospiti»). Oggi la situazione è diversa. Anche se i problemi non mancano. Come l’esistenza di profonde diseguaglianze e la scarsa mobilità sociale. Senza dimenticare la questione della vasta minoranza turca, divisa su Erdogan, il dittatore di Ankara su cui la stessa Europa rimane incerta.

Siamo alla fine di dicembre del 2015, in Germania, nel pieno della crisi dei rifugiati. Nel suo discorso di capodanno, il verde Winfried Kretschmann, governatore del terzo Land più popoloso della Federazione tedesca, quello del Baden-Württemberg, nell’affrontare il tema spinoso e dibattuto dell’immigrazione rievoca la sua esperienza familiare. I suoi genitori, racconta nel messaggio ai suoi concittadini, furono costretti a lasciare la Prussia orientale, ovvero l’odierna Polonia, alla fine della seconda guerra mondiale, e giunsero in Germania come profughi fra grandi stenti e perdendo anche un figlio, un fratello maggiore del governatore, allora appena nato. Kretschmann, politico navigato e fra i maggiori esponenti del suo partito a livello nazionale, ben lungi dal cadere nella mera aneddotica, sapeva di toccare con le sue parole una corda profonda per molti tedeschi. Come a dire: i drammi di ieri e di oggi, in fondo, non sono così diversi.

Si stima che furono fra i 12 e i 14 milioni i tedeschi espulsi o fuggiti nell’immediato dopoguerra dai paesi dell’Europa orientale occupati dal Terzo Reich. La larga parte di loro si rifugiò in Germania, ma furono in molti a cercare fortuna negli Stati Uniti, in Australia, e in altri paesi. Un dramma di proporzioni bibliche, inevitabilmente oscurato ieri come oggi dal collasso militare tedesco e dai crimini compiuti dal nazismo, ma non per questo meno doloroso. In?Germania sono tantissime le persone che hanno ancora nei ricordi familiari dei loro genitori o nonni episodi come questi. Un dramma che si è riproposto con l’arrivo a Ovest di circa 4 milioni di profughi provenienti dalla Ddr, l’ex Germania comunista, nel corso della sua storia quarantennale.

Questi due eventi insieme, che investirono nell’arco di pochi decenni – come si desume dalle cifre appena riportate – una fetta enorme della popolazione tedesca, contribuiscono a dare oggi una connotazione diversa, meno astratta, più personale e simpatetica, al fenomeno migratorio, e in particolare nei confronti di quanti – e sono tantissimi – fuggono da guerre e persecuzioni, rischiando spesso la vita. E non sarà un caso, allora, come ci ha raccontato in un’intervista la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad, che lo stato del Baden-Württemberg sia uno dei pochi luoghi al mondo ad aver fornito rifugio e assistenza a circa duemila fra donne e bambini appartenenti alla minoranza degli yazidi, in fuga dalla persecuzione messa in atto dallo Stato Islamico. Una decisione, come ci ha spiegato la stessa Murad, dovuta a un interesse personale del già ricordato Kretschmann, cattolico praticante e figlio di profughi di guerra, che ha preso a cuore questa causa dimenticata da tutti. Non è difficile immaginare che per lui, come per tanti tedeschi, storie come questa risultino fin troppo famigliari, difficili da accantonare con una scrollata di spalle o con uno sbadiglio.

Neuer Markt, Hansestadt Rostock

Il precedente storico dei «Gastarbeiter»

Il peso della storia, di una storia tragica e ingombrante, ancora una volta, fa la differenza. Il movimento per la pace, quello per il disarmo e contro la vendita di armi (specie se alle dittature), le manifestazioni di piazza e le attività organizzate dal basso, dalla società civile, per l’accoglienza e per contrastare il razzismo, sono oggi realtà assai più diffuse in Germania che in molti paesi europei. Uno fiorire straordinario che parte dalle parrocchie, dalle feste di quartiere, dalle scuole e da quella galassia sconfinata che è rappresentata dall’associazionismo tedesco. Sbaglia, affidandosi spesso a un ottuso cinismo, chi afferma che l’immigrazione per la Germania rappresenti solo un’occasione per avere manodopera a basso costo per le imprese. Semmai si dovrebbe sottolineare, cosa spesso ignorata da molti, come l’afflusso di profughi e immigrati negli ultimi anni abbia creato – parallelo all’impegno del volontariato – anche moltissimi nuovi posti di lavoro per i tedeschi, dall’insegnamento della lingua, al campo sociale, fino alla mediazione culturale.

Ammirevole anche la qualità dei servizi offerti da centri informativi e uffici per l’immigrazione, dove il personale risulta disponibile, ben attrezzato a interagire con persone di diversa cultura, e parla diverse lingue. Un altro mondo, rispetto alle esperienze spesso frustranti e umilianti che devono subire molti stranieri in Italia o nelle nostre rappresentanze all’estero, dove il servizio risulta in tanti, troppi casi davvero scadente, quando non lesivo per l’immagine dell’Italia nel mondo. Certo, a nostra parziale discolpa bisogna sempre ricordare che il fenomeno migratorio in Germania ha radici più profonde rispetto a quelle del nostro paese, dove l’esperienza è ancora acerba e limitata. Radici che risalgono agli anni Cinquanta e al boom economico di una Germania federale risorta delle ceneri morali e materiali della caduta del nazismo.

Li chiamavano Gastarbeiter, «lavoratori ospiti», con un eufemismo neanche troppo velato che stava a significare che sarebbe stato meglio se, una volta compiuto il lavoro, se ne fossero tornati al loro paese. Ma ciò, come ben noto, nella larga parte dei casi non è avvenuto, e furono anzi in molti a portare con loro in Germania partenti e amici. Fra i primi ad arrivare come manodopera per l’industria tedesca ci siamo proprio noi italiani, insieme a greci, turchi, marocchini e portoghesi. Si trattava in molti casi di accordi bilaterali stretti fra l’allora capitale Bonn e i governi di questi paesi. Dopo l’erezione del muro di Berlino, nel 1961, che ebbe l’effetto di far diminuire i profughi provenienti dalla Germania orientale, aumentò ulteriormente la richiesta di manodopera e, di conseguenza, l’arrivo di immigrati necessari soprattutto alla crescita dell’industria.

L’altra faccia della medaglia: grandi diseguaglianze, scarsa mobilità sociale

Storie di sacrifici e di fatica, di umiliazioni, riscatti o fallimenti, come lo sono sempre quelle legate all’immigrazione, in qualsivoglia tempo e paese. Storie difficili, che solo in rari casi portano a un’ascesa sociale nelle file della borghesia per la generazione successiva. Un divario sociale, culturale ed economico che, inevitabilmente, continua a pesare anche negli immigrati di seconda e terza generazione, ovvero nei figli e nei nipoti degli operai arrivati in Germania nel dopoguerra e negli anni del boom. Come dichiarato in una recente intervista dalla cancelliera Merkel: «C’è ancora un divario significativo tra i giovani che hanno una storia d’immigrazione e i giovani che non ce l’hanno». Certo, esistono eccezioni importanti in tal senso, e sono sempre più frequenti. Ne ricordiamo due, brevemente: il leader del partito verde Cem Özdemir, di origine turca e circassa (regione storica del Caucaso, ndr), che è fra i protagonisti indiscussi della scena politica odierna; o, ancora, il nostro Giovanni di Lorenzo, direttore del settimanale Die Zeit, uno dei più prestigiosi del paese, cresciuto in Italia fino all’età di undici anni.

Eppure, come sottolineato anche dalla cancelliera, tanto resta ancora da fare. La Germania, dati alla mano, è uno dei paesi in Europa dove le disuguaglianze fra ricchi e poveri sono più alte e la mobilità sociale risulta ridotta ai minimi termini. Date queste premesse, la prospettiva di una completa parificazione sociale ed economica per le comunità di immigrati pare essere un obiettivo ancora lontano, innestando nei segmenti più fragili della popolazione, anche se in piccola parte, il germe dell’intolleranza, mentre parallelo, come vedremo, fra alcuni giovani immigrati cresce quello del radicalismo religioso. Ecco allora spiegata l’ascesa del partito «Alternativa per la Germania», che è riuscito per la prima volta nella storia del dopoguerra tedesco a riportare alla ribalta una politica, almeno in parte, riferibile alla galassia dell’estrema destra, infrangendo un tabù sociale e politico molto forte. Ma si tratta pur sempre, a ben vedere, di un unico partito, a fronte di uno schieramento politico – destra inclusa – che si mantiene compatto nel voler combattere la propaganda xenofoba e populista. Emblematico anche il panorama dei media, dove lo spazio dato a populisti e predicatori d’odio è incomparabilmente più basso che da noi.

Turchi che manifestano per Erdogan a Colonia. OLIVER BERG/dpa

Il caso della minoranza turca (e kurda)

Passiamo ora ad analizzare quello che è il fenomeno più rilevante, ma anche il più complesso e difficile, nella sfida dell’integrazione. Ci riferiamo al caso dei turchi tedeschi, la minoranza più rappresentata in Germania, come detto. Una comunità che, dopo la deriva autoritaria intrapresa dal presidente Erdogan nel loro paese, sta pagando oggi in prima persona, vuoi le tensioni interne alla comunità, sempre più marcate, vuoi i rapporti sempre più tesi fra Berlino e Ankara. Punto di svolta, da questo punto di vista, è stato il tentativo di colpo di stato in Turchia del luglio 2016, cui è seguita un’ondata di repressione senza precedenti contro giornalisti, politici, intellettuali e forze dell’ordine, che ha trasformato un paese relativamente liberale in una dittatura spietata.

Dopo il fallito golpe in Turchia, migliaia di turchi si sono riversati nelle strade di molte città tedesche – da Berlino a Monaco, da Hannover a Stoccarda – per festeggiare lo scampato pericolo. Ma, dopo l’euforia, è arrivata l’ora della vendetta, e tutti i nodi irrisolti sono venuti al pettine. Puntuale e immediata, la resa dei conti contro i sostenitori di Fethullah Gülen – predicatore turco in autoesilio negli Stati Uniti, accusato di essere l’uomo ombra dietro al colpo di stato – si è allargata anche alla Germania. Una tensione che si è manifestata ovunque, dalle associazioni alle piazze, fino anche alle moschee e alle scuole. Il tutto mentre lo scontro contro la minoranza kurda, dopo un periodo di parziale riavvicinamento, è tornato a precipitare, quando si moltiplicavano ancora una volta gli arresti e le vessazioni. Un dato non irrilevante per il nostro discorso, data la fortissima presenza kurda in Germania, che ha anche, al suo interno, una componente assai politicizzata, che è scesa in piazza più volte in diverse città tedesche, arrivando in alcuni casi allo scontro verbale e fisico con i sostenitori di Recep Tayyip Erdogan, altrettanto numerosi.

Il risultato è una comunità a tratti lacerata, costretta – volente o nolente – a scegliere fra una fedeltà sempre più esigente alla madrepatria turca e al suo dittatore, e quella a una Germania che guarda con sempre più sospetto ad Ankara, anche a causa dell’arresto di diversi cittadini tedeschi. Fra questi, ricordiamo il noto giornalista con doppia nazionalità Deniz Yücel, imprigionato il febbraio scorso con l’accusa di essere una spia. Emblematico anche il caso del già ricordato Cem Özdemir, che ha ricevuto continue minacce di morte, e proprio da membri della comunità turca tedesca, a causa delle sue posizioni politiche di supporto all’opposizione turca colpita e repressa, e che oggi è sotto scorta. Il politico verde, fra l’altro, è stato anche fra i promotori della risoluzione del parlamento tedesco sul genocidio armeno, approvata il 2 giugno 2016. Un riconoscimento che ha creato ulteriori tensioni e fratture nella comunità, dato il persistente negazionismo di Ankara nei confronti del genocidio perpetrato nell’allora Impero Ottomano. Senza dubbio, un momento di crisi dura come l’attuale la comunità dei turchi tedeschi non l’aveva mai vissuto nella storia recente.

Sicurezza e benessere per tutti

Ma la sfida per l’accoglienza e l’integrazione in Germania risulta più ampia, e per molti versi meno drammatica. Superata al meglio la crisi del 2015, ci sono ottime ragioni per poter sperare in uno sviluppo armonico della società, eludendo i rischi e le tensioni sempre insiti, volenti o nolenti, in una società aperta e multiculturale. Su tutto, continuano a risuonare nelle orecchie dei tedeschi, come in un ritornello, le celebri parole con cui Angela Merkel ha più volte commentato la crisi dei rifugiati: «Wir schaffen das», «Ce la facciamo».

La Germania, vuoi per la sua storia tragica e insieme di riscatto, vuoi per il ruolo politico ed economico sempre più rilevante che riveste a livello internazionale, ha in sé tutte le carte in regola per riuscire a offrire una prospettiva di sicurezza e relativo benessere a tutte le componenti di una società sempre più plurale, senza rischiare di ricadere in un passato che nessuno, almeno da queste parti, sembra oggi più rimpiangere.

Simone Zoppellaro


Il lungo percorso del dialogo

Immigrazione e fedi religiose in Germania

Nel variegato panorama religioso tedesco, le due principali Chiese, la cattolica e la protestante, sono in prima fila nella battaglia per l’integrazione degli immigrati e per l’accoglienza dei profughi. Con l’immigrazione è arrivata una crescita a due cifre dell’islam. In esso, accanto a una minoranza estremista vicina alla Stato islamico, si trova una maggioranza che ha accettato le regole della democrazia occidentale.

Il 19 ottobre 1945, a pochi mesi dalla capitolazione del regime hitleriano, i rappresentanti della Chiesa evangelica tedesca si riunirono a Stoccarda per riflettere sul ruolo e sulle complicità dei cristiani, e in particolare di una delle due anime principali del cristianesimo tedesco, quella protestante, rispetto agli orrendi crimini compiuti dal nazismo. Ne risultò un documento importante, noto come «Dichiarazione di colpa di Stoccarda» (Stuttgarter Schuldbekenntnis), in cui per la prima volta la Chiesa evangelica assunse la sua parte di responsabilità storica, per quanto non soffermandosi ancora in termini specifici sull’olocausto. Leggiamo nel documento: «Attraverso di noi infinita sofferenza è stata portata a molti popoli e paesi». Da parte sua, anche la Chiesa cattolica tedesca ebbe responsabilità importanti, fra cui quella di aver agevolato la fuga dalla Germania (soprattutto verso il Sud America, ndr), dopo la fine della guerra, a centinaia di criminali nazisti, grazie al rilascio di documenti di viaggio sotto falso nome.

Dietrich Bonhoeffer

Certo, non soltanto ai protestanti e ai cattolici tedeschi va attribuita la responsabilità di quanto avvenuto all’epoca del Terzo Reich, responsabilità che deve essere senz’altro condivisa ed estesa a ogni segmento sociale. Né è possibile tralasciare, d’altra parte, come già accennato, l’eroico sacrificio del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer o dei giovani cattolici del movimento studentesco della Rosa Bianca, che pagarono con la vita l’opposizione al nazismo. Eppure, come dimenticare che le vie dell’odio e del sangue passarono anche da qui, attraverso una distorta interpretazione e stravolgimento del messaggio cristiano?

Tutto ciò premesso, ancora una volta, è giusto riconoscere come il cambiamento avvenuto in seguito non sia stato affatto una semplice formalità, una svolta determinata esclusivamente dalla contingenza di una sconfitta militare. Ad ammissioni di colpa come quella di Stoccarda corrispose dunque in seguito un mutamento sociale e culturale profondo ed effettivo, tale da risultare per molti aspetti, se visto in prospettiva storica almeno, sorprendente. E stupisce così vedere come le Chiese tedesche, la cattolica come la protestante, siano oggi in prima fila a battersi per l’integrazione degli immigrati e per l’accoglienza ai profughi. Sintomo che un percorso si è ormai concluso, e che la storia – quando affrontata con serietà e coraggio – può essere davvero maestra di vita. Un’apertura che ha portato, come avvenuto negli ultimi mesi, a esempi radicali in cui si è vista la chiesa, in questo caso quella evangelica, offrire alloggio e protezione a richiedenti asilo afghani e iraniani respinti e minacciati di espulsione dallo stato.

Le Chiese tedesche e gli ebrei

Le chiese in Germania hanno poi avuto, sin dall’immediato dopoguerra, un ruolo importante per un tema delicato e difficile: quello del ripristino di un rapporto di fiducia e collaborazione con gli ebrei dopo gli orrori della Shoah. Esistono oggi in Germania, a livello locale, oltre 80 associazioni per la cooperazione ebraico-cristiana (Gesellschaft für christlich-jüdische Zusammenarbeit), in cui sono impegnati sia protestanti che cattolici. Le prime erano state create proprio nel 1948 a Monaco, Stoccarda e Wiesbaden con il fine di promuovere un nuovo dialogo fra le chiese cristiane e gli ebrei. La dichiarazione Nostra aetate, di cui sono da poco ricorsi i cinquant’anni, aveva dato poi ulteriore impulso da parte cattolica anche in Germania, per un ritorno al dialogo con la cultura ebraica dopo tanti, troppi secoli di misfatti e incomprensioni.

Anche grazie al contributo delle diverse chiese, si è potuto così assistere nel dopoguerra alla lenta rinascita dell’ebraismo in terra tedesca. Una comunità che è rimasta numericamente molto esigua ancora fino agli anni Ottanta, quanto nell’allora Germania Ovest gli ebrei erano fra i 25 e i 30mila. Assai più ridotto il numero, invece, nella Ddr comunista, dove gli ebrei erano poco più di un migliaio ed ebbero, in quanto comunità, possibilità assai limitate – anche a causa del pregiudizio ideologico del regime contro le religioni – tali da inibire ogni tentativo di dare vita a una rinascita culturale dopo il genocidio. Un notevole incremento si è avuto invece, nella Germania ormai riunificata, dopo la caduta del muro di Berlino, e questo soprattutto grazie all’arrivo di decine di migliaia di ebrei dall’ex Unione Sovietica. Sono così saliti a più di 100.000 gli ebrei in Germania, in larga parte residenti nei grandi centri, e sono tante le nuove iniziative volte a far risorgere una presenza culturale ebraica, almeno nelle maggiori città.

Immigrazione e islam

Tra le comunità religiose tedesche legate all’immigrazione, la maggior crescita degli ultimi anni spetta senza alcun dubbio all’islam. Un islam non meno vario e diversificato del cristianesimo tedesco, dove convivono sunniti e sciiti, seguaci del predicatore turco in esilio Gülen e mistici sufi, insieme a infinite altre denominazioni, che in molti casi hanno anche finito per attrarre nuovi fedeli fra i nativi tedeschi. Ed ecco allora che i musulmani rappresentano oggi, secondo gli ultimi dati ufficiali, il 4,9% della popolazione tedesca, pari a poco più di 4 milioni di persone, con una crescita annua che si attesta in un solo anno, fra 2015 e 2016, al 12,5%. Una crescita che corrisponde, sul versante cristiano, a un leggero calo su base annua, cosa che fa temere ad alcuni un sorpasso nei prossimi decenni come prima religione del paese: rispettivamente -0,8% per i cattolici, e -1,5% per i protestanti, che sono rispettivamente 23 e 21 milioni. Una differenza che si spiega, ancora una volta, con l’immigrazione: assai più numerosa è infatti quella proveniente dai paesi di confessione cattolica che protestante. Non vanno infine dimenticati i 2 milioni di cristiani ortodossi e gli oltre 800mila appartenenti ad altre denominazioni cristiane. Quanto al calo progressivo del cristianesimo in genere, questo si spiega anche in base a una caratteristica peculiare della legislazione tedesca, che prevede l’esenzione dal pagamento della tassa destinata alle chiese (e alle diverse fedi non cristiane) per chi rinunci formalmente alla sua appartenenza a esse, dichiarandosi non religioso. Una scelta, questa, sempre più gettonata, vuoi per il risparmio economico che ne deriva, vuoi perché si assiste oggi a una progressiva e sempre più rapida secolarizzazione della società tedesca.

Le molte facce dell’islam tedesco

Tornando all’islam tedesco, dicevamo – ed è un punto fondamentale da ricordare – che questo non è riducibile a un’unica matrice, ma è al contrario assai composito e multiforme. Se questo è vero per la religione musulmana in generale, che è nella realtà ben lungi dalle semplificazioni a cui ricorrono troppo spesso i nostri media, nel contesto tedesco questa pluralità risulta per molti versi ancora più accentuata. Da un lato, troviamo così luoghi e istituzioni all’avanguardia del mondo musulmano per modernità e apertura; dall’altro, un islam più tradizionale e ancorato nelle sue consuetudini nelle comunità immigrate più o meno recenti, da quella turca a quella siriana; infine, non manca una porzione, assai piccola da un punto di vista numerico, ma significativa perché senza dubbio pericolosa, di musulmani radicalizzati e spesso connessi, in modo più o meno diretto, alla galassia del terrorismo internazionale.

Ma, anche qui, ancora una volta, è importante combattere i pregiudizi e le facili semplificazioni. Estremismo religioso di matrice salafita e crisi dei profughi sono questioni distinte, che non vanno poste in diretta relazione. A spiegarcelo è Yan St-Pierre, esperto di antiterrorismo fra i più importanti in Germania e direttore del Modern Security Consulting Group di Berlino, che abbiamo interpellato: «La scena salafita in Germania è molto variegata. Mentre gli elementi stranieri svolgono un loro ruolo – sia tramite i migranti residenti a lungo termine, sia tramite la comunicazione internazionale – la maggior parte degli individui appartenenti a questi movimenti sono nati e cresciuti in Germania».

Il caso di Seyran Ates

Sempre per voler contrastare comode semplificazioni e luoghi comuni, ricordiamo come il luogo di culto musulmano più aperto in Germania, in tutti i sensi, sia iniziativa di un immigrata di prima generazione. Ci riferiamo a Seyran Ates, avvocata femminista di fede musulmana, nata in Turchia, che ha fondato a Berlino una moschea dove sono le donne a guidare la preghiera e la congregazione è mista e non separata. Un luogo di preghiera aperto a tutti, anche ai gay, ma curiosamente non alle donne che portino un velo integrale, dato che questo è ritenuto un modello di religiosità non auspicabile da questa congregazione, in quanto simbolo del patriarcato e non rimandabile in alcun modo direttamente al dettato coranico. Cosa peraltro verissima, quest’ultima, come sa bene chiunque abbia studiato il testo sacro dei musulmani.

Eppure, come testimoniano anche le continue minacce e intimidazioni subite dalla coraggiosa Seyran Ates, l’intolleranza e il fanatismo religioso hanno radici anche in Germania. E ciò in ragione di una piccola minoranza il cui operato viene naturalmente amplificato dagli strumenti dell’odio e della violenza, assai più visibili e percepibili, purtroppo, del quietismo che contraddistingue la vita religiosa di larga parte dei musulmani tedeschi.

Islam e terrorismo

La violenza fa notizia, l’opera paziente dell’integrazione e della pace molto meno, come sappiamo. Abbiamo già parlato degli attentati di matrice religiosa compiuti in Germania in tempi recenti. A dispetto delle stime assai variabili e in parte contraddittorie, sono diverse centinaia i combattenti che negli ultimi anni hanno lasciato la Germania per unirsi ai miliziani del sedicente Stato islamico. Molti di loro, ricordiamolo, sono giovanissimi o persino adolescenti, che – in diversi casi attestati – non hanno nulla a che fare con un retroterra di immigrazione. Una storia, quella radicalismo islamico in terra tedesca, che in Germania ha radici profonde. Già sul finire anni ’90 era infatti attiva la cosiddetta «cellula di Amburgo», il cui leader, Mohammed Atta, è noto in tutto il mondo per aver guidato l’attacco dell’11 settembre.

Una sfida importante, quella contro l’estremismo. affrontata dalla società e dalle istituzioni tedesche. Importante perché investe non solo la sfera della sicurezza, ma inevitabilmente anche l’educazione e la prevenzione del radicalismo. Temi e questioni, questi, che spesso si intersecano gli uni alle altre, e che non possono restare separati. Come ci ha raccontato ancora l’esperto di antiterrorismo Yan St-Pierre: «La Germania è notevolmente migliorata nel suo modo di rapportarsi a tale questione. Ha adattato la sua strategia, passando da un puro sistema di forze di sicurezza a uno che risulti più inclusivo e flessibile, e preveda l’utilizzo di organizzazioni private, Ong e l’integrazione di approcci e idee provenienti sia dalla sfera civile che da quella delle organizzazioni di sicurezza». Una sfida su cui si gioca il futuro del paese, ma anche dell’Europa intera, dato il pericolo concreto di nuovi attentati e la centralità della questione nelle agende politiche del vecchio continente.

Ma non sono solo le tre religioni abramitiche, ovvero ebraismo, cristianesimo e islam, a contraddistinguere il panorama religioso della Germania di oggi. A parte gli oltre 29 milioni di tedeschi che dichiarano di non avere alcuna affiliazione religiosa, e rappresentano il 36,2% della popolazione, ovvero una fetta assai consistente e in continua crescita, troviamo altre minoranze religiose legate spesso alle migrazioni. Fra questi, ricordiamo almeno buddhisti, induisti e sikh. Da menzionare è anche il caso degli yazidi, minoranza religiosa perseguitata e sterminata dal sedicente Stato islamico, che secondo l’ultimo censimento risultano essere 60.000. In Germania si trova oggi, come dimostrato da una recente indagine demografica, più della metà della diaspora di questo popolo sofferente. Un’oasi di pace per una cultura che rischia di scomparire, ma anche un segno che la solidarietà in Germania ha dato buoni frutti.

La speranza di «House of One»

Per concludere con un altro segno di speranza, cosa quanto mai utile in un’epoca in cui alle religioni si associano sempre più di frequente intolleranza e violenza, parliamo di un progetto importante di convivenza e condivisione fra differenti culture e fedi: un unico edificio che raccolga sotto uno stesso tetto una chiesa, una sinagoga e una moschea, permettendo ai fedeli di diverse religioni di pregare fianco a fianco. Un sogno che diventerà presto realtà a Berlino, dove le tre grandi religioni di Abramo avranno per la prima volta uno spazio comune. Il progetto – realizzato dallo studio di architettura Kuehn Malvezzi che ha vinto il concorso indetto nel 2012 – sorge sul sito dove si trovano i resti della più antica chiesa di Berlino, la chiesa di San Pietro (Petrikirche), risalente al tredicesimo secolo e distrutta negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale. Questo è il messaggio della House of One, «la Casa dell’Uno», così chiamata in onore del Dio unico che contraddistingue e accomuna i tre monoteismi: un simbolo di pace, in un mondo dove fanatismo e odio avanzano in modo sempre più deciso. Ma, insieme, anche un segno concreto di rinascita e riscatto per una nuova Germania risorta dalle ceneri del nazismo.

Simone Zoppellaro


Schede

Dati demografici

Popolazione – 82 milioni di persone.

Stranieri – I residenti di origine straniera che vivono oggi in Germania sono 18,6 milioni, pari a oltre un quinto della popolazione totale, con un aumento record dell’8,5% nel 2016 rispetto all’anno precedente.

Nazionalità – I cittadini stranieri residenti in Germania in ordine per nazionalità: primi sono i turchi, che nel 2016 toccavano quota 1 milione e 492mila, seguiti dai polacchi a 783mila unità. Terzi i siriani, pari a 637mila residenti, quarti invece gli italiani, 611mila (con una crescita di 15mila individui rispetto all’anno precedente). Seguono rumeni, greci, croati, bulgari, afghani, russi e iracheni.

Comunitari – L’immigrazione in Germania non riguarda solo i cittadini cosiddetti extracomunitari. Dal 2016 ad oggi il numero di migranti provenienti dai paesi dell’Unione europea è più che triplicato. Nel solo 2016, risulta che siano stati 634mila i cittadini Ue che hanno scelto di vivere in Germania.

Illegali – Numero di ingressi illegali nel paese nel 2015, nel pieno della cosiddetta crisi dei rifugiati: 865.374 (dati ufficiali riportati dalla polizia federale tedesca). Fra questi, primi per paese d’origine sono stati i siriani (73.920), seguiti da afghani (38.750), iracheni (22.394) ed eritrei (17.225).

Le Chiese

Chiese e fedeli – Le prime due chiese per numero di fedeli sono la Chiesa cattolica con 23,6 milioni e la Chiesa evangelica 21,9 milioni.?Seguono la Chiesa ortodossa 2 milioni e altre Chiese cristiane 851mila. I musulmani sono 4,5 milioni, gli ebrei 99mila, i senza confessione o non religiosi 29,8 milioni.

1945, 19 ottobre: la Chiesa evangelica di Germania pronuncia la «Dichiarazione di colpa di Stoccarda».

Alcune date storiche

  • 1945, 30 aprile: Adolph Hitler si toglie la vita nel suo bunker a Berlino.
  • 1945, 7 maggio: il generale Alfred Jodl firma a Reims, in Francia, i documenti della resa tedesca.
  • 1945, 26 giugno: nascita dell’Unione cristiano-democratica (Cdu), il partito più importante della scena politica tedesca, di cui farà parte anche l’attuale cancelliera Angela Merkel.
  • 1945, 20 novembre: si inaugura il processo di Norimberga contro alcuni dei maggiori criminali del regime nazista.
  • 1949: la Germania viene divisa. Nascita della Repubblica federale tedesca ad Ovest, il 23 maggio, sotto l’influenza degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia, mentre il 7 ottobre nasce la Repubblica democratica tedesca (Ddr) ad Est, che gravita nell’orbita sovietica.
  • 1950: ha inizio il boom economico della Germania federale.
  • 1953, 17 giugno: un’ondata di scioperi nella Germania orientale viene soppressa nel sangue.
  • 1955, 9 maggio: la Germania federale entra a fare parte della Nato.
  • 1961, 13 agosto: costruzione del muro di Berlino.
  • 1989, 9 novembre: caduta del muro di Berlino.
  • 1990, 3 ottobre: la Germania viene ufficialmente riunificata.
  • 2005, 22 novembre: Angela Merkel viene eletta cancelliere in un governo di coalizione fra i partiti della Cdu-Csu e della Spd (partito socialdemocratico).
  • 2015: la crisi dei rifugiati tocca il suo punto più alto. La Germania della Merkel sceglie una politica delle porte aperte.
  • 2016, 19 dicembre: attacco terroristico rivendicato dall’Isis al mercato di Natale a Berlino.
  • 2017, 24 settembre: elezioni federali in Germania e rielezione di Angela Merkel (Cdu-Csu). Il partito Alternative für Deutschland (Afd) diventa però la terza forza nel Bundestag.

Simone Zoppellaro

Website: tinto|graphy // instagram: @tintography

 




Islam: Finché il jihadismo rimane «halal»


Eravamo stati a Manchester, prima dell’attentato jihadista dello scorso maggio (che ha fatto 22 morti). Qui avevamo incontrato molti giovani libici dalle esistenze complicate e dalla testa confusa. Oggi tanti quartieri delle città inglesi sono degli stati nello stato, delle realtà parallele, aliene dal mondo circostante. Rappresentano visivamente il fallimento dell’integrazione. E un futuro di incertezze e paure. Come anche Barcellona (con 16 morti) dimostra.

Manchester, settembre 2015. Arrivo in città in autobus, da Londra. Ho appuntamento per interviste con alcuni simpatizzanti e ex combattenti libico-britannici e libico-irlandesi, contigui a movimenti dell’islamismo politico, in un quartiere ad alta densità di immigrati musulmani. Mentre mi dirigo verso il luogo dell’incontro, d’improvviso mi sembra di essere catapultata a Islamabad, a Kabul o chissà dov’altro, ma non certo in Gran Bretagna. È una sensazione strana, di proiezione spazio-temporale in realtà lontane migliaia di chilometri. Donne, uomini, bambini di varie provenienze geografiche, indossano abiti delle loro tradizioni islamiche locali, e veli di ogni tipo, dallo hijab fino al niqab1. Sono rare le apparizioni di giovani non in abiti lunghi o foulard. I ragazzini, anche loro in vestiti tradizionali, si recano nelle scuole coraniche. Noto uomini, tra cui molti africani subsahariani, con lunghe barbe, tipiche di chi si riconosce nelle dottrine neo salafite, cioè di un’interpretazione radicale dell’islam, spesso politicizzata. I negozi, i ristoranti, i supermercati sono tutti «halal», cioè «islamicamente leciti»: sono pachistani, mediorientali, turchi, indiani, ecc. La varietà delle lingue che si sentono va dall’urdu, all’arabo, al turco, in quanto l’inglese è semisconosciuto, come mi dimostra il cameriere del bar dove mi siedo ad aspettare i miei interlocutori.

A Manchester sono numerose le moschee, le scuole coraniche e i centri islamici dove viene diffusa la dottrina neo salafita. Interi quartieri della città, ma anche di Londra e di altre aree della Gran Bretagna, sono state trasformate in ghetti di cittadini musulmani provenienti da paesi, culture e tradizioni totalmente diverse e spesso «nemiche» tra loro, che vanno ad aumentare la tensione sociale.

Manchester, il «melting pot» e il suo fallimento

Se è vero che barba e abito non fanno il monaco, è anche vero che la concentrazione di persone con stili e visioni della vita, dei rapporti umani e sociali totalmente e intenzionalmente alieni rispetto a quelli della società ospite, può essere un vero azzardo. È permettere uno stato nello stato. Una realtà parallela. E in questa città, perlomeno in certe zone, è ciò che si percepisce in modo molto forte: il fallimento del melting pot (da non confondersi con l’assimilazione, retaggio coloniale francese) e della cittadinanza paritetica, dove il cittadino immigrato o di seconda-terza generazione viene integrato nel tessuto sociale, relazionale e lavorativo del luogo di residenza, pur mantenendo radici religiose e culturali proprie.

Girando per queste aree di Manchester ho la sensazione che ci sia una bomba ad orologeria pronta a esplodere alla prima occasione, innescata da un forte detonatore sociale e politico fatto di rabbie represse (per le politiche coloniali passate e neo coloniali presenti della Gran Bretagna in molti dei paesi di provenienza dei cittadini immigrati), di fallimenti esistenziali e sociali, di debolezze umane, a cui si aggiunge il fenomeno socio-politico dei cosiddetti «jihadisti» che ritornano da fronti bellici, ad esempio di Libia e Siria. Si tratta di cittadini britannici, britannico-arabi o arabi che in Libia hanno collaborato anche con le forze Nato e occidental-arabe, o che sono passati dai campi di addestramento di al-Qa’ida e del Daesh, dove hanno appreso tecniche della guerriglia urbana, della dissimulazione tra la folla di inermi cittadini, della costruzione di ordigni e altro ancora, pronti all’azione in Europa, in Nordafrica o Medioriente.

A Manchester, come in altre città britanniche, è facile, infatti, incontrare giovani e adulti di varie origini geografiche uniti da quella dottrina politica radicale che è stata sostenuta, armata, finanziata dall’Occidente e da certi paesi del Golfo, Arabia Saudita in primis. Spesso si tratta di giovani esaltati, depressi, borderline, mal integrati oppure cittadini e studenti di classe media, ma con problemi di inserimento sociale. Ne parla diffusamente una ricerca di un gruppo di psichiatri, sociologi, antropologi e giuristi francesi2. Ciò che accomuna tutti, spesso, è la rabbia per l’ingiustizia, il fallimento sociale, cui si aggiungono il vuoto esistenziale, la fragilità o instabilità psicologica. Su questi individui fanno particolare presa i predicatori radicali, che li indottrinano in centri islamici o, sempre più spesso, via web. Le prediche infuocate (non molto diverse nei modi da quelle di certi evangelici in America Latina) canalizzano la loro collera e delusione, dirigendola verso obiettivi politici e concreti, dando un senso di missione e dunque di scopo nella vita3.

Le testimonianze che raccolgo durante il mio soggiorno a Manchester vanno in questa direzione, anche se i miei intervistati non sono giovani che hanno commesso atti di terrorismo in Europa.

Riscoperta della fede islamica e «rinascita»

Yusuf è un ragazzo simpatico, sembra più giovane dei suoi 23 anni. È figlio di madre irlandese e padre libico, e vive a Manchester da qualche anno. Il marito di sua sorella è un famoso combattente libico che partecipò, nel 2011, alla rivolta contro Muammar Gheddafi, e appartenente al Lifg  – Libyan Islamic Fighting Group – un gruppo di al-Qa’ida. Yusuf e suo fratello maggiore, Sami, hanno avuto un’infanzia difficile, a causa di problemi familiari e sociali, che li hanno resi, in certi momenti, dei borderline. Entrambi hanno preso parte alla guerra contro il regime libico, a fianco della Nato, nel 2011, e insieme a gruppi dell’islamismo politico. Durante l’addestramento nei campi militari in Libia, hanno riscoperto la fede e sono «rinati», come raccontano i due giovani. Yusuf è tornato a vivere in Inghilterra, e ogni tanto va in Libia a trovare la famiglia, mentre Sami vive a Tripoli, dove ha trovato lavoro come reporter.

Casi come quello dei due fratelli di Manchester sono numerosi, ormai, nel panorama europeo. Tuttavia, il loro esito esistenziale e lavorativo è differente da altri che, lasciando i campi di addestramento e la guerriglia, si sono trasformati in «jihadisti di ritorno», come la cronaca degli ultimi sei anni purtroppo ci mostra.

Manchester-Libia: andata e ritorno

Manchester, 23 maggio 2017. Alle 22:30 esplode una bomba all’arena cittadina affollata di adolescenti che assistono al concerto di una famosa star dei teenager. È una strage degli innocenti. I video mostrano in tutto il mondo gente presa dal panico: bambini e genitori che cercano le uscite di sicurezza, urlando terrorizzati. Un kamikaze s’è fatto esplodere in mezzo ai ragazzini. È Salman Abedi, 23 anni, cittadino britannico, figlio di genitori libici oppositori del regime di Gheddafi. Ultimo di quattro fratelli tornati in Libia con padre e madre, Abedi era iscritto all’università Salford di Manchester, ed era noto alle forze dell’ordine e dell’intelligence, secondo quanto ha affermato la polizia.

Nei giorni successivi all’attacco, The Independent e The Guardian spiegano, riferendo testimonianze e dichiarazioni di compagni di università e testimoni, che Abedi era appena ritornato dalla Libia, paese dove qualunque potenziale jihadista terrorista può trovare campi di addestramento. Il giovane faceva la spola con la Libia. Come consueto, il Daesh rivendica anche quest’ultimo orrore.

Il legame tra Manchester e la Libia è molto forte, in quanto la città britannica ospita migliaia di libici e relative famiglie che hanno svolto un ruolo importante nella rivolta contro Gheddafi, nel 2011. Diversi di questi erano collegati al Lifg4.

Le guerre in Libia e in Siria hanno scatenato un Vaso di Pandora: la promiscuità con dottrine radicali violente e un «humus» umano potenzialmente esplosivo fatto di tanti soggetti, gruppi, «società» parallele e poco o per nulla comunicanti e integrate.

Esiste ormai una fitta e dettagliata documentazione, anche di dispacci di intelligence desecretati, che evidenzia la collaborazione tra combattenti radicali, la Nato e alcuni stati europei come Francia e Gran Bretagna, e il ruolo di movimenti dell’islamismo politico nelle cosiddette primavere arabe5. Uno degli effetti di tali partnership, oltre alle evidenti destabilizzazioni regionali e locali, è il fenomeno del «jihadismo di ritorno», cioè di giovani combattenti indottrinati e addestrati nei campi militari in Libia o in altri Stati arabi, finanziati dalla Cia e da altre agenzie e dai paesi del Golfo, e tornati nel proprio paese o in quello di residenza, e poi coinvolti in attacchi terroristici.

Cui prodest?

Come detto, Salman era britannico: nato nel 1994 a Manchester da genitori libici.

«Suo padre, Ramadan Abedi, era un ufficiale dei servizi segreti libici, prima di essere reclutato dagli inglesi – scrive il sito Vietatoparlare.info6 -. La sua copertura fu bruciata accidentalmente da un parente della moglie, Samia Tabal, poco dopo il fallimento di una vasta cospirazione dell’esercito libico per uccidere Muammar Gheddafi. Quest’ennesima congiura contro Gheddafi innescò non solo una delle più grandi purghe nei servizi di sicurezza, ma la dissoluzione delle Forze Armate libiche, sostituite da ciò che Gheddafi chiamò “popolo in armi”, concetto vagamente ispirato ai sistemi svizzeri e svedesi di difesa logistica e che si rivelerà fatale nel 2011, quando la Libia fu attaccata dalla Nato. Fu il servizio segreto inglese che si occupò dell’esfiltrazione o fuga della famiglia Abedi dalla Libia. Ufficialmente, Abedi fuggì dalla dittatura di Gheddafi rifugiandosi nel Regno Unito. Gli Abedi risiedettero prima a Londra, per poi trasferirsi nel sobborgo di Manchester dove risiedettero per oltre un decennio. Come molti giovani delle periferie delle città europee, Salman crebbe senza riferimenti e mostrò particolare entusiasmo verso la cosiddetta “primavera araba” al punto di voler unirsi ai ribelli libici. Ciò naturalmente attirò subito l’attenzione dei servizi segreti inglesi responsabili della perlustrazione della periferia cercando candidati disposti a sacrificarsi in battaglia contro i nemici di Sua Maestà, in nome di Allah. (…) La polizia inglese rivelava rapidamente l’identità del presunto terrorista, suggerendo che non fosse solo conosciuto, ma supervisionato dagli agenti che seguivano l’ambiente da cui proveniva».

La lunga citazione solleva vari interrogativi. Questi giovani esaltati sono «asset», strumenti umani da utilizzare all’occorrenza? Si tratta, come abbiamo visto, di persone note, che hanno partecipato a rivolte arabe, che entrano e escono dai paesi dove risiedono e da quelli dove vanno a fare il «jihad» per anni appoggiato dall’Occidente.

Ora, l’aver pensato che questi giovani – con la loro visione radicale e estrema di una politica religiosizzata o di una fede politicizzata, condita con problemi sociali e personali – non costituissero un «problema» anche in loco, è davvero poco credibile.

L’esito, come sempre, è la morte di innocenti. Nel caso di Manchester, adolescenti e bambini.

Al di là dell’orrore e della rabbia che tali azioni suscitano, dovremmo continuare a porci la sana domanda: cui prodest?

Angela Lano
(quarta puntata – continua)

Note

(1) Lo hijab è il foulard che copre il capo incorniciando il viso; il niqab è il velo nero integrale, che copre anche il volto lasciando scoperti solo gli occhi.

(2) Fonte: Dounia Bouzar. Link: http://www.bouzar-expertises.fr/metamorphose

(3) Dossier MC, Sventola bandiera nera 2, marzo 2016.

(4) Fonte: Jon Sharman, Kim Sengupta, Salman Abedi: Police probe Libyan links of Manchester bomber who killed 22, 23 maggio 2017, www.independent.co.uk/

(5) Nelle prossime puntate parleremo dei casi della Tunisia e della Libia.

(6) Fonte: L’attentatore di Manchester era vicino ai servizi segreti inglesi, 24 maggio 2017, www.vietatoparlare.it (traduzione di un testo apparso su strategika51.wordpress.com).

 

 




Arabia Saudita – Usa: Trump d’Arabia


All’Arabia Saudita, paese ritenuto il principale sponsor (ideologico e finanziario) del terrorismo jihadista, Donald Trump ha venduto armi per miliardi di dollari. Il presidente e il re saudita hanno indicato l’Iran sciita come l’unico responsabile del terrore. Pochi giorni dopo la visita l’Isis ha attaccato Tehran.

Riyadh, Arabia Saudita, 21 maggio 2017. Nessuno dimenticherà presto quell’inquietante immagine, rimbalzata nei media e nei social network di tutto il mondo, che ritrae intorno a un globo luminoso il presidente Usa Donald Trump, il re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud, padrone di casa, il presidente egiziano al-Sisi e, ai loro lati, i leader di altri 50 paesi islamici. La scena pare evocare rappresentazioni di fratellanze occulte per il dominio sul mondo.

Armi e miliardi

Il primo viaggio estero di Donald Trump aveva obiettivi politici, ma soprattutto economici a tutto vantaggio degli Stati Uniti. L’accordo stipulato con Riyadh prevede una vendita di armi all’Arabia Saudita per un valore di 110 miliardi di dollari da pagare subito e altri 350 miliardi in dieci anni. Un accordo elefantiaco che – come scrive John Wight (counterpunch.org, 23 maggio) – potrebbe essere un «incentivo che la politica e i media statunitensi richiedono per girarsi dall’altra parte quando [l’Arabia Saudita] decapita, crocifigge, cava gli occhi pubblicamente, e esegue altre punizioni crudeli e barbare su base regolare». Tale arsenale di distruzione dovrà difendere il già ben difeso Israele e rappresenterà una minaccia sia per l’Iran, uno dei bersagli preferiti della propaganda bellica di Trump, sia per tutto il Vicino e Medio Oriente e Nordafrica.

Trump: Iran terrorista

Nella sua visita, Trump non ha lesinato elogi per il regime di Riyadh, esaltandolo, paradossalmente, per la «lotta al terrorismo» e lanciando, allo stesso tempo, dure accuse all’Iran. Visti gli ampi studi e la documentazione al riguardo, non è un segreto per nessuno che la dottrina salafita wahhabita dell’Arabia Saudita sia la matrice ideologica e metodologica del jihadismo sia di al-Qa‘ida sia del Daesh, e responsabile del sostegno materiale all’estremismo cosiddetto islamico.

Appare dunque un chiaro segno di appoggio alle politiche di Riyadh, il discorso aggressivo e manipolatorio di Trump verso l’Iran: «Dal Libano all’Iraq allo Yemen, l’Iran finanzia, arma e addestra terroristi, milizie e altri gruppi estremisti che diffondono distruzione e caos nella regione. Per decenni, l’Iran ha alimentato il fuoco dei conflitti settari e del terrore. È un governo che parla apertamente di omicidi di massa, promettendo la distruzione di Israele, la morte dell’America, e la rovina per molti leader e nazioni riunite in questa stanza. Tra gli interventi più tragici e destabilizzanti dell’Iran c’è la Siria. […] Le nazioni responsabili devono lavorare insieme per porre fine alla crisi umanitaria in Siria, sradicare l’Isis, e riportare la stabilità nella regione. […] Finché il regime iraniano non diventerà un partner per la pace, tutte le nazioni con coscienza devono lavorare insieme per isolarlo, impedirgli di finanziare il terrorismo e pregare per il giorno in cui gli iraniani avranno il governo giusto che si meritano».

Trump attacca un paese che due giorni prima, il 19 maggio, era andato alle urne e aveva rieletto il moderato e filo occidentale Hassan Rohani (vedi sotto).

AFP PHOTO / Saudi Royal Palace / BANDAR AL-JALOUD

Re al-Saud: l’Iran è il colpevole

Ancora più grottesta la dichiarazione di re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud: «L’Arabia Saudita rifiuta ogni estremismo e lotterà per fermarne il finanziamento. Vogliamo una vera collaborazione con gli Stati Uniti per perseguire la via dello sviluppo e della pace, così come chiede la nostra religione. L’islam sarà sempre la religione della pietà e della tolleranza. Oggi, tuttavia, alcuni presunti musulmani vogliono presentare un quadro distorto della nostra religione. L’Arabia Saudita non ha mai conosciuto il terrorismo fino alla rivoluzione khomeinista. L’Iran interferisce negli affari interni di altri paesi, come dimostra il suo intervento nello Yemen (Riyahd è protagonista in quella guerra, ndr). Noi non consideriamo nemico il popolo iraniano ma il regime iraniano. Con l’accordo di Sua eccellenza Trump colpiremo il terrorismo, divulgheremo inoltre la cultura della tolleranza contro il terrore e la sua propaganda».

Pecunia non olet

La chiave di lettura di tutta l’operazione di propaganda Usa-Saudita sta qui: «Vi ringraziamo per la creazione di questo grande momento storico – ha affermato Trump -, e per il vostro massiccio investimento in America, nella sua industria e lavoro. Vi ringraziamo anche per i vostri investimenti nel futuro di questa parte del mondo».

Pecunia non olet (il denaro non puzza): questo vale per qualsiasi potente, ma ancora di più per Trump, che, oltre a essere un capo di Stato è anche, o soprattutto, un uomo d’affari miliardario. In qualche modo, è quanto ha fatto notare il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, che, secondo quanto ha riportato l’agenzia iraniana ParsToday, ha sottolineato come uno degli obiettivi di Trump è «mungere i sauditi». Zarif ha ricordato che Riyadh è il più importante acquirente delle armi americane e, con Israele, il primo alleato di Washington nel Medio Oriente .

Probabilmente, come diversi analisti indipendenti hanno rilevato, le accuse di Trump, e di tutti gli altri presidenti Usa, contro l’Iran sono parte di una strategia volta a creare timori e minacce in Medio Oriente, e a vendere costosi arsenali bellici ai paesi arabi e islamici della regione.

Il «pacchetto di armamenti» (oltre 450 miliardi di dollari per tank, navi militari, sistemi missilistici di difesa, radar e comunicazioni, e tecnologia della sicurezza cibernetica) servirà – secondo quanto affermato dalla Casa Bianca – a «promuovere la sicurezza del Regno e della regione del Golfo di fronte alle minacce iraniane». Servirà anche a espandere le attività delle aziende statunitensi in Medio Oriente e a creare decine di migliaia di posti di lavoro nell’industria della «difesa», come si legge nella dichiarazione.

Sunniti contro sciiti

Il gotha dell’islam sunnita riunito in Arabia Saudita, tra sabato 20 e domenica 21 maggio, aveva l’aria minacciosa di una coalizione anti-sciita in procinto di organizzare una guerra a tutto campo contro gli odiati avversari religiosi, ma soprattutto geopolitici, nel Vicino e Medio Oriente. Infatti, il terrorismo mediorientale, cioè al-Qa‘ida e le sue filiazioni (compresa quella definita «moderata» di Jabat al-Nusra), e il Daesh (Isis), hanno origine e supporto nel paese ospite del vertice arabo e non certo in Iran. Una farsa pericolosa, dunque, portata avanti da leader irresponsabili.

Da parte sua, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha perseguito due obiettivi importanti allo stesso tempo, e interconnessi tra loro: quello del business miliardario e dell’affondo all’Iran, in una prospettiva di conflitto totale tra i due schieramenti mediorientali: il sunnita – con i paesi del Golfo e la Turchia, determinati a dominare nella regione -, e quello sciita – con l’Iran, il Libano degli Hezbollah e la Siria di Assad. Fondamentale, in questo risiko giocato sulla pelle di milioni di esseri umani, sarà il ruolo della Russia di Putin e della Cina, che per il momento mantengono una certa compostezza.

Attraverso il business degli armamenti e di tutto l’indotto bellico l’economia statunitense prenderà fiato. Inoltre, gli Usa forniranno ulteriore protezione e sicurezza incondizionate a Israele – nonostante i crimini di cui continua a macchiarsi contro gli autoctoni Palestinesi -, e stabiliranno un predominio sul sempre strategico Medio Oriente. Insomma, siamo in una nuova fase del neocolonialismo occidentale, con gli Stati Uniti di Trump a ricoprire il ruolo di attore principale, in competizione o alleanza conflittuale con Gran Bretagna e Francia, e in antagonismo con Russia e Cina.

Il tornaconto dei leader arabi

Come storicamente hanno già dimostrato più volte, a partire dalla fine del secolo XIX e proseguendo nel XX, i leader arabi si distinguono per la totale incapacità di guardare oltre il loro tornaconto personale e familiare, e di seguire una politica estera autonoma, unitaria e in contrasto con quella delle potenze coloniali. Per comprendere la situazione odierna, infatti, è fondamentale ritornare alla storia dei paesi arabi dei primi decenni del Novecento e ai fallimentari accordi tra sceicchi arabi e potenze europee per la spartizione del Vicino e Medio Oriente, e alle vicende coloniali europee in Libia. Insomma, gli errori arabi si ripetono all’infinito, senza lasciar intravedere una maturazione.

La storia è ciclica, soprattutto nel mondo arabo e islamico e quando ci sono di mezzo potere e affari. Speriamo che questa nuova e macabra farsa non si trasformi in un’altra tragedia.

Angela Lano

1 / Il terrorismo e la «svolta» del 5 giugno 2017

Arabia Saudita contro Qatar

Lo scorso 5 giugno Arabia Saudita, Egitto, Bahrein ed Emirati arabi uniti hanno rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar. L’Arabia Saudita, genitrice ideologica e materiale di ogni forma di devianza dottrinale, e i suoi alleati accusano Doha di «finanziare il terrorismo». E qui s’intende l’Iran e le sue relazioni con Siria e Hezbollah che, secondo il Trump-pensiero, sono all’origine del terrorismo, e non – invece – al-Qa’ida e il Daesh, come noto finanziate da Arabia Saudita e altri paesi del Golfo. Riyadh investe soldi a palate in Europa, Asia, Africa e Americhe sia per «business» sia per attività di «catechesi» (wahhabi). Il Qatar ha comprato mezza Europa e anch’esso finanzia qua e là per diffondere la stessa ideologia wahhabi. Tra i due paesi è in atto da tempo una guerra per procura che si allarga sempre di più, e il cui obiettivo è il controllo di vaste aree di Africa e Medio Oriente. Entrambi sono appoggiati da potenze occidentali (Stati Uniti, Israele, Gran Bretagna, Francia) che vedono in certe dinamiche l’«utile caos» per continuare a colonizzare militarmente ed economicamente ampie regioni del mondo. La crisi tra i paesi del Golfo sembra essere precipitata dopo la visita del businessman nonché presidente Usa, Trump, in Arabia Saudita.

Angela Lano

2 / Iran: le prime conseguenze

Tehran sotto attacco

Mercoledì 7 giugno terroristi dell’Isis hanno attaccato il parlamento di Tehran facendo almeno 12 morti. Il fatto è avvenuto dopo la rielezione di Hassan Rohani e dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e suoi alleati con il Qatar (notizia a lato). Con Razie Amani, giornalista iraniana e docente all’Università di Tehran, abbiamo parlato delle accuse di Trump all’Iran.

«Le dichiarazioni di Trump sono in linea con la creazione di una Nato araba e con la presenza massiccia delle armi statunitensi in Medio Oriente, a difesa di Israele. L’attacco contro l’Iran è anche contro il Libano di Hezbollah e la Siria di Assad (cioè, gli “assi della resistenza”). Il Daesh, come fu per al-Qa‘ida, è stato creato per destabilizzare il Vicino e Medio Oriene, in particolare il Libano e la Siria».

A livello geopolitico che esiti avrà l’alleanza economico-militare tra Usa e Arabia, rafforzata dai recenti accordi? «Secondo me non esiste una vera alleanza, ma un affare enorme che gli Usa hanno fatto in Arabia Saudita, non solo a livello economico ma anche per rendere più forte la presenza statunitense in Medio Oriente. L’unica reale conseguenza geopolitica è il rafforzamento del regime di Riyadh in quanto suddito di Stati Uniti e Israele, e il tentativo di indebolimento dell’Iran nella regione. Dobbiamo comprendere che la Nato non gioca più a scacchi con la Russia sul territorio europeo, come decenni fa. Lo fa in Medio Oriente».

Rohani è stato rieletto. Quali sono le motivazioni e le prospettive? «È la figura che rappresenta la parte “moderata” e filo occidentale del paese. Rohani ha basato la sua propaganda elettorale sulla paura: “Se non voterete me, ci saranno guerra e sanzioni occidentali”. Come se le sanzioni non fossero in atto già da lungo tempo. La sua missione è realizzare un’apertura e una maggiore obbedienza dell’Iran agli Usa e alla grande finanza mondiale. Ma sappiamo che ciò non servirà a nulla, anzi, sarà dannoso». L’attentato del 7 giugno lo dimostra.

Angela Lano




Islam 3: I motivi della deriva islamica


Il radicalismo islamico ha le sue ragioni. Quelle endogene: le correnti del rinnovamento non hanno mai trovato sbocchi. E quelle esogene: i grossolani errori dell’Occidente come l’appoggio incondizionato a Israele, la corrività con regimi reazionari, le ingerenze neocoloniali. Incontro con il professor Massimo Campanini, islamologo.

Prosegue la nostra inchiesta sul radicalismo islamico, o «islam politico», per cercare di capire quali sono i termini, gli attori e le dinamiche in gioco, sia a livello storico che attuale, che coinvolgono popoli e aree travalicando frontiere e culture. Per una miglior comprensione del complesso fenomeno è importante definire sia una terminologia appropriata sia il contesto ideologico e storico.

Ne abbiamo parlato con il prof. Massimo Campanini, uno dei maggiori studiosi e islamologi contemporanei del Vicino e Medio Oriente arabo, docente associato di Storia dei paesi islamici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento e autore di numerosi e interessanti saggi sull’islam e il mondo arabo-islamico.

L’uso politico dell’islam

Prof. Campanini, fondamentalismo, integralismo, radicalismo, islam politico, islamismo: qual è il termine più corretto per definire l’uso politico dell’islam?

«La definizione di una terminologia precisa per definire un fenomeno sfuggente è naturalmente molto importante. Tutti quelli suggeriti sono nomi potenzialmente utili che catturano almeno un aspetto del fenomeno; ma ciò dimostra come tale fenomeno sia poliedrico e vario, e niente affatto monolitico, come perlopiù la stampa e i mass-media lo dipingono. Proprio per la complessità del fenomeno i termini elencati risultano comunque insoddisfacenti. Che l’islam nelle sue espressioni radicali sia fondamentalista è vero, ma è anche una verità ovvia: quale religione o ideologia non sono fondamentaliste? Un ebreo farebbe a meno di ricorrere alla Torah? O un cristiano ai Vangeli? O un comunista al Capitale di Marx? Dunque dire che l’islam è fondamentalista perché ricorre al Corano e alla sunna del Profeta è un’ovvietà che non spiega nulla. Oltre a questo, c’è da dire che la definizione di fondamentalismo è derivata dai cristiani radicali, soprattutto anglosassoni, per cui non è immediatamente applicabile a contesti storici e culturali diversi.

Il termine islam radicale è altrettanto corretto se si indicano le tendenze estremiste, magari di lotta armata, ma l’islamismo, cioè l’idea fondamentalista dell’islam, non è per ciò ipso facto radicale dal punto di vista politico, né automaticamente votato al jihad. Molte correnti che possono dirsi “islamiste” come i salafiti di al-Albani o Ibn Baz o l’organizzazione di origine palestinese di Nabhani sono a-politiche e/o quietiste. D’altro canto, islamismo in sé è troppo generico, poiché rappresenta un ombrello troppo ampio. A mio parere quindi, la locuzione migliore è quella di “islam politico” in quanto indica la volontà da parte degli islamisti riformatori di impegnarsi in politica mirando a ricostituire una società e uno stato islamici. Tuttavia, i suddetti salafiti quietisti non rientrano in questa prospettiva, per cui, per esempio, sono avversari dei Fratelli musulmani che partecipano all’agone elettorale o alle lotte sindacali. Insomma bisogna adattarsi a scelte terminologiche perlopiù soggettive, con la consapevolezza che nessun termine è davvero soddisfacente e onnicomprensivo».

Le correnti islamiche

Islam politico come «alternativa islamica»: è una lettura che decostruisce diversi luoghi comuni. Ce ne vuole parlare?

«La tesi che ho sostenuto in diversi libri tra cui, appunto, L’alternativa islamica è che l’islamismo riformista o riformismo islamista (le due locuzioni funzionano entrambe e sono speculari) hanno rappresentato per un breve periodo di tempo, diciamo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, una tendenza potenzialmente costituente di un nuovo ordine politico. Mi riferisco, ovviamente, in primo luogo al Khomeinismo, prima che degenerasse in clericalismo e autocrazia, e a realtà di grande complessità teorica e organizzativa come Hezbollah, ma anche alla cosiddetta “Sinistra islamica”, sunnita, che si è espressa spesso in “teologia islamica della liberazione” (Hasan Hanafi) in paesi come l’Egitto o la Siria-Libano. Gli stessi Fratelli musulmani, riemersi dalle persecuzioni durissime dell’epoca del nasserismo, o quantomeno gruppi di azione politica e sociale che provenivano da quell’ambiente, come la cosiddetta Wasatiyya (“Via Mediana”) studiata soprattutto da Raymond Baker, hanno saputo esprimere per qualche tempo una vena di rinnovamento endogeno all’islam che richiamava quella di Muhammad ‘Abduh agli inizi del Novecento. Tutte queste tendenze sono poi state purtroppo neutralizzate sia dall’emergere di correnti jihadiste violente, sia dal loro stesso elitarismo, sia dall’indifferenza o ostilità di cui li ha circondate l’opinione pubblica occidentale che ha continuato a vedervi forze “terroristiche” e dunque non ne ha appoggiato lo sforzo modernizzante pur espresso nel quadro dell’islam. Un grave errore politico da parte dell’Europa».  

Gli errori dell’Occidente

Quali sono, secondo lei, i contesti politici e culturali in cui si è sviluppato il radicalismo islamico?

«Il radicalismo islamico ha rappresentato la reazione esasperata a tre fattori: a) l’inasprirsi della crisi economica a partire dagli anni Settanta che ha pauperizzato le classi medio-basse e proletarie; b) il soffocamento della società civile da parte di regimi autocratici o francamente tirannici, sortiti dai processi di decolonizzazione, i quali, invece di condurre una funzione egemonica in favore delle popolazioni, si sono alleate alle lobby economiche; c) last but not least, l’infinita serie di errori della politica occidentale euro-americana in Medio Oriente, dall’incondizionato e pregiudiziale appoggio a Israele – a prescindere da qualsiasi legittimità delle richieste arabe -, al saccheggio delle risorse energetiche, dalla corrività con regimi reazionari come l’Arabia Saudita (o l’Egitto di Mubarak o la Tunisia di Ben ‘Ali), all’ingerenza neocoloniale, o neocrociata, nelle dinamiche geopolitiche della regione mediorientale. Più difficile dire se il richiamo ad aspetti come il jihad, costitutivi della tradizione politico teologica islamica siano stati il motore o non piuttosto l’effetto della strumentalizzazione della religione di cui si è imbevuto il messaggio terrorista ed estremista. Quest’ultimo ha certo trovato nell’ideologia giuridica classica del jihad un sostegno teorico, ma altrettanto certamente l’ideologia del jihad è stata interpretata in modo conveniente ai fini politici dei gruppi eversivi».

La Fratellanza musulmana

Quale ruolo ha avuto e ha tuttora la Fratellanza musulmana nelle dinamiche geopolitiche attuali e, in specifico, nei movimenti radicali?

«Dipende dai contesti. In Egitto, dopo la feroce repressione di al-Sisi tra il 2013 e il 2014, la Fratellanza musulmana è temporaneamente fuorigioco, ma certo starà lavorando sottacqua e probabilmente cercando di riorganizzarsi anche all’estero. In molti altri paesi arabi operano gruppi che si richiamano a una matrice comune alla Fratellanza musulmana transnazionale, ma che non sono più Fratellanza musulmana in senso stretto. Penso al partito Justice et Développement in Marocco, attualmente al governo, o ad Ennahda in Tunisia, che ha governato e che ora, pur non essendo più il partito di maggioranza, lavora ancora attivamente e proficuamente nel sociale e nel campo politico. Non credo sia possibile oggi divinare quale sarà il futuro di queste organizzazioni: stanno vivendo una fase di transizione e di trasformazione anche ideologica i cui esiti saranno tutti da verificare».

Al-Qa’ida e Daesh

Lei afferma che al-Qa‘ida e Daesh, in quanto deriva terroristica del radicalismo, hanno interrotto il processo di costruzione dell’«alternativa islamica». Quali sono gli scenari del prossimo futuro?

«Ridurre al-Qa‘ida e l’Isis a puri fenomeni terroristici, siano essi causati dall’irrazionalismo nichilista, come vuole Oliver Roy, o dalla radicalizzazione ideologica dell’islam, come vuole Gilles Kepel, è insufficiente: essi sono i prodotti delle circostanze che ho chiarito poco sopra, per cui, sconfitti loro, e lo saranno certamente prima o poi, riemergeranno altre organizzazioni estremiste. Per affrontare l’estremismo armato bisogna sanare le ferite che lo hanno provocato: dalla crisi economica all’autoritarismo violento dei regimi dei paesi islamici agli incredibili errori dell’Occidente. Ma non mi pare di vedere segni positivi in questa direzione. Le strategie sono sempre le stesse, almeno per ora».

Alcuni studiosi ritengono che già alla sua nascita l’islam si fosse manifestato come «anti-sistema» – se pensiamo al potere esercitato dal clan Quraish ai tempi del profeta Muhammad -, che poi la sua carica rivoluzionaria si sia persa dopo il periodo dei «califfi ben guidati» (VII?secolo d.C.), che successivamente sia stata ripresa dai kharijiti e poi dal pensiero radicale di Taymiyya e altri. Cosa ne pensa?

«Ali Shariati (sociologo iraniano, 1933-1977, ndr) affermava che l’islam è una religione per natura rivoluzionaria, e con lui i teologi della liberazione della alternativa islamica, come Hasan Hanafi. È proprio in tal senso che essi consideravano il profeta Muhammad o suo nipote Husayn come leader anti-sistema. Il periodo successivo alla fitna (dissenso, ndr), allorché la guerra civile tra alidi (i seguaci del califfo ‘Ali, ndr) e omayyadi (un potente clan meccano, ndr), ha frantumato la Comunità e “falsificato la coscienza islamica” (espressione di Nasr Abu Zayd) attraverso la strumentalizzazione politica della religione, ha in certo senso deviato, senza più possibilità di ritorno, almeno finora, il percorso storico ideologico dell’islam. Ibn Taymiyya (giurista e teologo, 1263-1328, ndr) ha proposto una sorta di rinnovamento dello stato sulla base della sharia, la legge religiosa, ma non può essere considerato il responsabile dell’esclusivismo che, nel corso dei secoli, ha spesso caratterizzato l’islam conservatore e tradizionalista. Era un pensatore intransigente, ma i qaidisti o gli estremisti dell’Isis che lo evocano utilizzano il pensiero di Ibn Taymiyya, enfatizzandone gli aspetti di rigore estremo, e senza cogliere la novità di una proposta di metodo prima ancora che di merito che era utile nel periodo (XIV secolo) successivo alla scomparsa del califfato».  

Il fallimento delle «primavere arabe»

«Primavere arabe»: nate da uno slancio di cambiamento e ricerca di giustizia sociale e politica, si sono trasformate in conflitti permanenti o in instabilità. Cos’è, secondo lei, che non ha funzionato? Quale è stato il ruolo dell’islam o dei movimenti radicali nelle rivolte arabe?

«A mio parere le “primavere arabe” sono fallite per molti motivi: a) lo spontaneismo acefalo delle prime fasi delle rivolte che non si sono coagulate in proposte politiche effettive; b) l’incapacità dei partiti islamici che hanno gestito la fase centrale della transizione rivoluzionaria di esercitare “egemonia” in senso gramsciano, e dunque di essere veramente le guide intellettuali, morali e politiche delle masse in cerca di una direzione, c) il prevalere di forze centrifughe tribali (Libia, Yemen) o alimentate da attori esterni ambigui (Siria, dove l’Arabia Saudita e il Qatar hanno favorito l’affermarsi di gruppi radicali armati); d) il fatto di essere “scoppiate” in un contesto storico indebolito dalla crisi dei regimi così come dalle precedenti infiltrazioni qaidiste e dalle ingerenze interessate delle grandi potenze che spesso si sono tradotte in stallo invece che in dinamismo (le rivalità aspre tra Arabia Saudita e Iran, ma soprattutto tra Stati Uniti e Russia). D’altra parte, le primavere arabe hanno rappresentato un potenziale laboratorio politico per l’islamismo, ma i Fratelli musulmani sono stati ferocemente repressi; Ennahda in Tunisia ha negoziato una transizione democratica che l’ha assorbita in un quadro politico tradizionale; le tensioni tribali tra sunniti e sciiti in Yemen hanno in breve tempo neutralizzato gli effetti di riforma istituzionale della “rivoluzione”».

Oltre i gruppi radicali

Osservando gli sviluppi in corso in Libia e Siria viene da pensare che ci sia stata un’alleanza «tattica» tra agende occidentali e certi gruppi radicali islamici. Cosa ne pensa?

«La domanda, allo stato delle cose, mancando documentazione certa e certezze interpretative, può avere una risposta solo “dietrologica”. Mi limito perciò a dire che con tutta probabilità Gheddafi in Libia è caduto più per l’intervento diretto dell’Occidente che per la forza dei rivoltosi; mentre l’affermazione dell’Isis in Iraq e Siria deve essere stata “aiutata” se non addirittura “preorganizzata” da qualcuno che ha lavorato in incognito approfittando del marasma seguito alla sciagurata guerra di George Bush nel 2003: e i paesi occidentali, più, ovviamente, Israele su cui sempre si tace, sono i candidati naturali per ricoprire questo ruolo».

Il caso della Libia

Qual è stato il ruolo della Fratellanza musulmana e di altri movimenti dell’islamismo politico in Libia?

«Al momento della rivolta contro Gheddafi, apparentemente minimo. Quando Gheddafi è stato ucciso e la Libia è stata “liberata” è ovvio che le organizzazioni dell’islamismo politico abbiano trovato terreno fertile dove intervenire e consolidarsi, magari dietro il paravento di governi più o meno legittimi».

Angela Lano
(terza puntata – continua)

I libri di Massimo Campanini

  • Storia del pensiero politico islamico, Mondadori / Le Monnier, 2017;
  • Storia dell’Egitto dalla conquista araba ad oggi, Mulino, 2017;
  • Storia del Medio Oriente, Il Mulino, 2014;
  • Le rivolte arabe e l’islam: la transizione incompiuta, Il Mulino, 2013;
  • L’alternativa islamica, Bruno Mondadori, 2012;
  • Ideologia e politica nell’islam: fra utopia e prassi, Il Mulino, 2008;
  • I sunniti, Il Mulino 2008;
  • Arcipelago Islam, Laterza, 2007;
  • Storia del Medio Oriente 1798-2006, Il Mulino, 2006;
  • Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, 2005;
  • Storia dell’Egitto contemporaneo, Edizioni Lavoro, 2005;
  • Islam e politica, Il Mulino, 1999.