Giordania. Nel paese di Rania


Pur senza vere risorse, la monarchia hashemita è vitale per l’area mediorientale. Da sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra mondo arabo e Occidente, ospita circa tre milioni di palestinesi.

Umm Qays (Gadara). Infuocate dalla luce del sole del tramonto, le antiche facciate di Petra raccontano storie di un tempo passato, mentre le caotiche strade della capitale Amman pulsano di una vita vibrante e moderna. La Giordania è un crocevia di culture e tradizioni, un luogo dove il passato incontra il presente in una danza armoniosa che si interrompe subito al di là del fiume Giordano e del Mar Morto.

I territori di Israele e della Palestina sono sempre ben visibili a chi percorre la strada che da Umm Qays, nell’estremo Nord del Paese, raggiunge Aqaba, quattrocento chilometri più a Sud. Sullo sfondo delle proprie foto, i turisti vedono il lago di Tiberiade, il sito del battesimo di Gesù, la sponda palestinese del Mar Morto, le luci di Gerusalemme. Tutti dovrebbero ricordare che questa terra, spesso trascurata dai pellegrinaggi, è parte integrante di quella che i cristiani chiamano Terra Santa.

I luoghi che rimandano a storie bibliche ed evangeliche, si intrecciano con destinazioni turistiche alla moda, ma anche con castelli arroccati su aride alture che celebrano le gesta degli ordini monastici crociati che, in queste aree, sono nati e hanno scritto la loro storia.

Per i giordani, invece, osservare le Alture del Golan occupate da Israele (dal 1981), la città di Gerico, i grattacieli di Gerusalemme, la recinzione che delimita il confine con Israele ad As Safi, significa ricordare quanto sia precaria la pace sociale e politica che il regno hashemita – dal 1999 guidato da re Adb Allah II e dalla regina Rania – è riuscito a ottenere negli anni Novanta. E questo dopo il conflitto con Israele del 1967 (nota come «Guerra dei sei giorni»), ma anche i massacri e la guerra tra la stessa Giordania e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) del settembre 1970 (passata alla storia come «Settembre nero»).

La famiglia reale hashemita al completo (i coniugi con i due figli e le due figlie). Foto dal sito queenrania.jo.

Tra Israele e Palestina

Se la contrapposizione con Tel Aviv pulsa ancora nel cuore della popolazione giordana, i drammatici fatti del Settembre nero sembra siano stati dimenticati, almeno dalla gente comune. I giordani sono teoricamente solidali con il popolo palestinese (anche se, in realtà, molti palestinesi residenti nel Paese continuano a essere relegati ai margini della società), mentre il governo, conscio della potenziale destabilizzazione che potrebbero portare frange estremiste, è più cauto nell’esprimere il proprio appoggio, anche se la voce più autorevole per la difesa dei diritti dei palestinesi proviene dall’interno della stessa casa reale.

La voce della regina

Nata in Kuwait da genitori palestinesi, la regina Rania, amatissima dai giordani, all’indomani dell’invasione di Gaza, ha sempre criticato la narrazione occidentale affermando che «la maggior parte delle reti televisive sta coprendo la storia con il titolo di “Israele in guerra”, ma per molti palestinesi dall’altra parte del muro di separazione e del filo spinato, la guerra non se n’è mai andata. Questa è una storia vecchia di 75 anni; una storia di morte e di sfollamento per il popolo palestinese. Il contesto di una superpotenza regionale dotata di armi nucleari che occupa, opprime e commette quotidianamente crimini documentati contro i palestinesi è assente dai racconti fatti in Occidente».

Il suo accorato appello, assieme alle posizioni progressiste a favore dell’emancipazione femminile e alle sue campagne per garantire l’istruzione capillare a tutta la popolazione giordana, è un ammonimento che però non ha pieno riscontro nella politica di Amman, sempre attenta a rispettare un equilibrio tra le istanze filoarabe e quelle filoccidentali.

Dromedari nel deserto di Wadi Rum; questi animali sono ancora parte importante dell’economia beduina; oltre a fornire latte e carne, il dromedario è stato inserito nell’industria turistica e nei circuiti delle corse che si tengono a Wadi Rum. Foto Piergiorgio Pescali.

La Giordania è Palestina?

La narrazione secondo cui il piano a medio termine del governo di Netanyahu sarebbe quello di costringere tutta la popolazione di Gaza a trasferirsi nel Sinai egiziano e quella della Cisgiordania (o West Bank) nella Transgiordania (o East Bank) giordana, trova moltissimi sostenitori in Giordania ed è uno dei temi più caldi che oggi il governo di Amman si trova ad affrontare.

Storicamente si basa sulla teoria in voga sin dagli anni Settanta nella destra israeliana, secondo cui «la Giordania è Palestina». Teoria che, agli occhi dei nazionalisti, giustificava la politica di espansione di Israele verso i territori appartenenti ai palestinesi a occidente del Giordano.

Nonostante la regina Rania sia palestinese e la Giordania sia l’unico Stato arabo a concedere la cittadinanza ai palestinesi, la Casa reale non vuole che il regno si trasformi in uno Stato palestinese. Non lo vogliono soprattutto i transgiordani, gli abitanti della vecchia Transgiordania, la parte a est del Mar Morto e del fiume Giordano, che si reputano i legittimi rappresentanti della cultura giordana e, come tali, i legali amministratori politici ed economici della nazione.

Da qui il risentimento dei giordani di cultura palestinese che dal 1970 (dopo Settembre nero), si sono sentiti esclusi dalla vita politica. Mentre i transgiordani dominano il settore pubblico, agricolo e rurale, i cisgiordani palestinesi prevalgono in quello privato e religioso, contribuendo in maniera consistente alle entrate della West Bank e penetrando in modo massiccio i movimenti islamici.

Questa polarizzazione caratterizza la vita sociale giordana.

Da una parte i transgiordani accusano i grandi proprietari privati di alimentare la corruzione che le riforme introdotte dal governo su richiesta del re non sono riuscite a mitigare. Dall’altra, i giordani palestinesi e i rifugiati palestinesi accusano la casa reale di impotenza nella gestione dei luoghi santi di Gerusalemme.

Lo «Status quo», un accordo informale redatto nel 1967 a conclusione della guerra dei Sei giorni che vede il Waqf islamico giordano amministrare la Spianata delle moschee mentre Israele ne controlla la sicurezza e l’accesso, è stato più volte infranto dalle forze israeliane e da gruppi di ebrei che, in violazione dell’accordo, entrano nella spianata a pregare, a volte anche a voce alta. Questo ha causato non solo scontri a Gerusalemme e in Palestina, ma ha minato il prestigio stesso della casa hashemita, impotente di fronte a queste trasgressioni, attirando le critiche dei gruppi palestinesi più radicali.

La piazza principale di As Salt, città in cui nel 1921 i britannici proclamarono l’emirato di Transgiordania ponendo alla sua guida la dinastia hashemita. Foto Piergiorgio Pescali.

Per la stabilità del Regno

Nonostante le enormi divergenze ideologiche e politiche, re Adb Allah II e Netanyahu condividono l’idea che rapporti pacifici fra i due Stati siano indispensabili per mantenere la stabilità della Giordania (e, quindi, della dinastia hashemita) e contenere le minacce iraniane e siriane.

Questo ruolo di mediatore ha trasformato una terra composta da miriadi di tasselli tribali, difficile da governare ed economicamente priva di interesse, in uno dei fulcri nevralgici per la pace in Medio Oriente. «È il miracolo della dinastia hashemita di Giordania che, dopo la Grande rivolta araba, l’assassinio di re Adbullah I da parte di un palestinese, le disastrose guerre con Israele, è comunque riuscita a sopravvivere alle faide tribali diventando un solido punto d’appoggio per gli Stati Uniti nell’area», ci dice Rawan Rawa- shdeh, studentessa alla Irbid national university.

Secondo l’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi del Vicino Oriente, in Giordania vivrebbero 2,2 milioni di palestinesi, ma in realtà, il loro numero raggiungerebbe i tre milioni. In più si aggiungono i 717mila rifugiati, principalmente siriani (643mila) e iracheni (52mila), ma anche sudanesi, yemeniti, somali che fuggono dalle guerre in atto nei loro Paesi e 80mila lavoratrici domestiche, per lo più filippine, srilankesi, indonesiane.

In totale, il governo di Amman deve garantire acqua, cibo, alloggio, servizi essenziali ad altri quattro milioni di persone, oltre agli 11,3 milioni di cittadini giordani. Una percentuale enorme che pesa come un macigno sulla già non florida economia dello Stato arabo e che sarebbe insostenibile senza gli aiuti che provengono dalla comunità internazionale, in particolare da Stati Uniti e Unione europea.

Il Jordan Compact, l’accordo che nel 2016 il governo ha stipulato con i Paesi donatori per garantire l’integrazione nel mondo del lavoro e dell’istruzione ai rifugiati siriani, ha permesso a 252mila di loro di trovare un’occupazione, ma solo al 25% dei rifugiati in età scolare di frequentare una scuola. La maggior parte dei 230mila profughi potenzialmente in diritto di avere un’istruzione, ne è impedito per motivi culturali, logistici (mancano le infrastrutture e i trasporti) ed economici.

Il lavoro minorile è ormai una costante tra le file non solo dei rifugiati, ma tra gli stessi giordani, soprattutto nelle zone rurali.

Il problema parte dalla scuola primaria e dalla differenza di genere. I dati, ricavati dai rapporti della Banca mondiale e delle varie agenzie dell’Onu, sono preoccupanti: solo il 37% degli studenti che affrontano il secondo e terzo grado della scuola primaria sono in grado di leggere e comprendere un testo semplice e se è vero che la carriera lavorativa della donna si prepara sin dalla adolescenza, quando la famiglia deve investire nella scolarizzazione, il 38% della popolazione femminile non è iscritta ad alcun programma scolastico, liste di disoccupazione o di addestramento professionale.

Solo il 13,8% della forza lavoro è composta da donne nonostante esse rappresentino il 50,4% dei giordani in età di lavoro, mentre la disoccupazione femminile è il doppio rispetto a quella maschile. Il 90% delle donne che non ha un diploma di scuola secondaria rimane disoccupata, percentuale che cala al 61% per le donne che ha un diploma di scuola media secondaria o universitario.

Tutto questo pone la Giordania al 126° posto su 146 Paesi nella classifica del Global gender gap index report.

Sebbene questo sia dovuto principalmente a una tradizione discriminante verso la donna, l’emancipazione femminile è in parte frenata anche dai recenti sviluppi del conflitto israelo-palestinese.

Nonostante la Giordania sia un Paese sicuro, il turismo, settore in cui le donne ricoprivano il 20% della forza lavoro pre Covid, ha subito una battuta d’arresto. Nei primi due mesi del conflitto di Gaza, le presenze alberghiere in Giordania sono crollate del 50-75% e il turismo proveniente da Israele, che nel 2023 rappresentava il 17% degli arrivi totali, si è azzerato.

Negli alberghi e nei ristoranti, fatta eccezione per le grandi catene internazionali, il personale è per la quasi totalità maschile, così come le guide che accompagnano i turisti nei luoghi più frequentati come Petra, Wadi Rum, i siti archeologici.

Piergiorgio Pescali


In visita al Sesame

I miracoli (a metà) della scienza

Assieme all’Egitto, Israele è il principale fornitore energetico della Giordania. Tel Aviv invia gas naturale al Paese dal giacimento offshore «Leviathan». Se questo dovesse mancare, la Giordania sarebbe costretta a importare gas attraverso il porto di Aqaba a prezzi decisamente superiori a quelli israeliani.

«Quando parliamo di Paesi del Medio Oriente, pensiamo che siano ricchi di petrolio e non abbiano problemi energetici», mi dice Khaled Toukan, già ministro dell’istruzione, ingegnere nucleare. «In realtà la Giordania è una nazione senza grandi risorse energetiche e ha bisogno di importare quasi tutto il suo fabbisogno dall’estero. È per questo che stiamo progettando di costruire una centrale nucleare, in particolare installando reattori Smr (reattori di piccole dimensioni, installabili nel giro di 2-3 anni dall’approvazione, possono alimentare una città di medie dimensioni e producono poche scorie, ndr). Il nucleare ci aiuterebbe anche ad aumentare la disponibilità idrica desalinizzando l’acqua marina».

Oltre a essere una personalità di spicco nel mondo politico e scientifico giordano, Khaled Toukan è soprattutto il direttore di Sesame (Synchrotron-light for experimental science and application in the Middle East), un fiore all’occhiello della ricerca applicata non solo in Giordania, ma in tutto il Medio Oriente. In questo centro, situato a pochi chilometri da Amman, fondato alla fine del secolo scorso con il decisivo supporto dell’Europa e del Cern, si trova l’unico sincrotrone (acceleratore di particelle che produce radiazione elettromagnetica collimata che serve per analizzare la struttura dei materiali in diversi campi, ndr) dell’intera regione araba, ma la sua importanza trascende il  valore scientifico.

Sesame è, infatti, un esempio di «diplomazia scientifica». Oltre alla Giordania e l’Egitto, tra gli otto Stati membri, vi sono nazioni che non hanno relazioni diplomatiche tra loro: Turchia e Cipro, ma anche Israele, Iran, Palestina, Pakistan. «Sin dalla nascita di Sesame, tutti gli Stati membri hanno partecipato alle riunioni semestrali, nonostante i conflitti che attanagliano la nostra regione – ci spiega Toukan -. Sesame è un posto in cui veramente regna la pace». «Sesame è nato prima di tutto nell’ottica del miglioramento dei rapporti tra Israele ed Egitto e il sincrotrone che oggi è l’anima del centro proveniva da Berlino su proposta di Herman Winick, il padre degli ondulatori», spiega il direttore scientifico, l’italiano Andrea Lausi. «È una storia bellissima: una macchina che da una città divisa, Berlino, va a unire due Paesi come Egitto e Israele che, all’epoca, erano ai ferri corti. Dal punto di vista politico era una storia accattivante che, all’epoca, generò titoli suggestivi sui giornali».

Tra tante difficoltà, non solo finanziarie, Sesame è un progetto di cooperazione che continua ancora oggi. Tuttavia, a dimostrazione di quanto sia difficile superare le barriere culturali anche nella scienza, Khaled Toukan confessa che «non abbiamo progetti di ricerca misti che coinvolgano, per esempio, scienziati turchi con scienziati egiziani o scienziati israeliani con quelli iraniani. Eppure – conclude il direttore -, il valore politico di questa cooperazione  è di grande importanza per il futuro del Medio Oriente».

P.P.

Khaled Toukan, ingegnere nucleare, direttore di Sesame, presidente della Commissione giordana per l’energia atomica e più volte ministro. Foto Piergiogio Pescali.

 




Pakistan-Italia. Gli ahmadi perseguitati incontrano il papa

Nuovo incontro in Vaticano tra il Pontefice e la minoranza musulmana perseguitata in Pakistan.

«Amore per tutti, odio per nessuno»: è il motto degli Ahmadi, una minoranza musulmana molto attiva nel dialogo interreligioso ma tuttora perseguitata in alcuni Paesi, soprattutto in Pakistan che è tra le nazioni a maggiore presenza islamica nel mondo.

Loro, con pazienza, continuano a portare avanti il loro messaggio di dialogo e di pace. Per questo Papa Francesco li ha ricevuti in Vaticano in diverse occasioni. L’ultima è stata lo scorso 26 giugno.

Il Pontefice ha accolto calorosamente i membri della comunità con cui ha da tempo stabilito un filo diretto fatto di incontri e interessi comuni, e creato un momento di profondo scambio interreligioso.

«Tra i temi affrontati, particolare attenzione è stata dedicata ai conflitti in corso e agli sforzi a cui le religioni sono chiamate per promuovere pace e confronto dialogico», riferisce la stessa Ahmadiyya Muslim Jamaat Italia. L’incontro, il terzo nel giro di due anni, è servito a rafforzare il dialogo e la cooperazione interreligiosa e a rinsaldare il rapporto diretto tra il Pontefice e questa comunità musulmana che conta circa cento milioni di fedeli nel mondo.

Durante l’udienza, Papa Francesco ha espresso gratitudine e apprezzamento per il messaggio di amore e tolleranza promosso dalla comunità Ahmadiyya.

«Crediamo fortemente nella libertà religiosa e siamo grati a Papa Francesco per il suo sostegno e l’impegno verso questo principio fondamentale», sottolinea il presidente nazionale della Comunità Ahmadiyya in Italia, Abdul Fatir Malik. L’imam riferisce che con il Papa ha parlato dei tanti conflitti in corso: «Noi abbiamo ribadito la missione della nostra Comunità, quella di avvicinare le persone a Dio nel XXI secolo, nella convinzione che solo attraverso la vicinanza a Dio e la preghiera, potranno prevalere la giustizia e la pace. Su questi temi c’è piena sintonia con il Papa e l’incontro è stato l’occasione per riaffermare i nostri reciproci impegni per promuovere questi valori».

La via della pace passa dunque anche attraverso il dialogo tra le differenti fedi.

Papa Francesco ne è convinto tanto che gli incontri interreligiosi hanno sempre un momento speciale nei suoi viaggi internazionali. È stato così nell’ultimo, quello a Marsiglia del settembre 2023, e sarà così anche nel prossimo, quello annunciato in Asia e Oceania nella prima metà di settembre di quest’anno. Giovedì 5 settembre, a Giacarta (Indonesia), per fare un esempio, Papa Francesco avrà un incontro interreligioso presso la Moschea Istiqlal.

Gli Ahmadi, come l’altra minoranza musulmana perseguitata, i Rohingya, sono molto cari al Papa. È ancora l’Imam Ataul Wasih Tariq a riferire che «durante la nostra ultima visita, il Pontefice ha tenuto a sottolineare di avere ormai stabilito un ottimo rapporto con noi».

La Comunità Ahmadiyya Muslim Jama’at, fondata nel 1889 a Qadian nel Punjab, India, da Hazrat Mirza Ghulam Ahmad, un mistico musulmano autore di oltre 90 testi, è riconosciuta a livello globale per il suo impegno nei principi di pace e tolleranza. La comunità è attualmente presente in ogni continente e conta circa 100 milioni di fedeli. In Italia, gli Ahmadi sono presenti formalmente dal 1993, quando è stato registrato lo statuto dell’associazione, ma la loro presenza risale ai membri arrivati negli anni Venti. La comunità ha messo radici significative nelle città di Bologna, Milano e Roma, ed è composta da sedici comunità locali con nazionalità diverse. Gli Ahmadi sono membri attivi di Religions for Peace.

Manuela Tulli




Pakistan. La casta dei militari.


Una mappa del Pakistan con le sue regioni e le città principali.

Sommario

 

Il Cricket è ancora popolare

Un paese senza pace

Il politico più popolare, l’ex giocatore di cricket Imran Khan, è finito in carcere. A dettare l’agenda sono sempre i militari e, in particolare, l’agenzia di intelligence (Isi). In una nazione a grande maggioranza islamica ma con diverse etnie i problemi certamente non mancano.

Islamabad, gennaio. Quando atterro nella capitale del Pakistan, manca un po’ più di un mese alle elezioni. È stato un anno molto difficile per questa nazione: il Paese asiatico ha registrato il più alto numero di attentati degli ultimi vent’anni. Il governo attuale ha sostituito quello dell’ex campione di cricket, Imran Khan.

Khan era salito al potere nel luglio 2018, ma nell’aprile 2022 è stato sfiduciato. L’ex primo ministro, attualmente in carcere, scontava già una prima sentenza di tre anni; a gennaio 2024, è stato condannato in via definitiva ad altri 10 anni.

Kahn è stato dichiarato colpevole per aver abusato della sua carica politica, acquistando e vendendo illegalmente regali di Stato, doni ricevuti durante le sue visite all’estero. Il valore di questi «regali» si aggira sui 140 milioni di rupie pachistane (circa 500mila euro). Secondo i giudici, si tratta di sette orologi, sei dei quali Rolex, braccialetti e altri oggetti preziosi. Il suo partito, il Pti (Pakistan tehreek-e-insaf), non potrà usare il suo storico simbolo elettorale: la mazza da cricket. Khan è stato, infatti, uno dei più grandi giocatori pachistani di tutti i tempi, considerato come il Cristiano Ronaldo di questo sport. Dopo la sua carcerazione, il Paese sembra ancora più prigioniero dell’Isi (Inter services intelligence), l’agenzia di intelligence militare. Il sostegno segreto a mujaheddin e talebani afghani e la guerra clandestina in Kashmir (regione contesa con l’India) hanno rafforzato il potere e l’autonomia delle forze armate. I «neutrals», così si fanno chiamare per sottolineare la loro (presunta) neutralità, sono oggi l’organo che, di fatto, controlla il Pakistan.

Per queste ragioni, tutti, in particolare gli Stati confinanti, osserveranno attentamente le sorti politiche di questa nazione, soprattutto in vista dell’8 febbraio, giorno delle prossime elezioni (raccontate a pagina 35, ndr). A complicare ulteriormente la situazione c’è il suo tessuto culturale: il Paese è una società frammentata in diverse etnie e religioni minoritarie. In questo contesto complesso, la comunità pachistana fa fatica ad abbattere le barriere tra gruppi e convivere pacificamente.

La città vecchia di Lahore è un dedalo di viuzze e bazar. Foto Angelo Calianno.

I profughi afghani

Una delle questioni che, da tempo, spacca in due l’opinione pubblica pachistana, è quella della gestione dei profughi afghani. Un rapporto delle Nazioni Unite ha registrato, nell’ottobre 2023, tre milioni e 700mila rifugiati provenienti dal Paese confinante. Secondo le fonti governative, oggi, quel numero è salito a quattro milioni e mezzo di persone. È proprio dagli afghani che comincio la mia ricerca itinerante su quello che accade in questo Paese.

Già nell’inverno 2022, partecipando al massiccio esodo dei profughi verso il Pakistan, avevo potuto osservare la tragica situazione dei migranti, soprattutto di quelle etnie perseguitate dai Talebani, come gli Hazara (dossier MC, maggio 2022).

In un tragitto durato giorni, al freddo, in migliaia, picchiati a bastonate dai Talebani, abbiamo attraversato la frontiera passando da Jalalabad a Peshawar. Da allora il flusso di migranti, non si è mai fermato.

La maggior parte degli afghani che arriva qui non ha documenti: se scoperti potrebbero essere rimandati in patria. Patria dove, molto probabilmente, sono ricercati dai Talebani. Questi hanno i loro corrispondenti pachistani che, anche ad Islamabad, cercano i rifugiati segnati nelle loro «liste nere». È il caso, per esempio, di Zohra Wahedi Akhtari, giornalista afghana e attivista per i diritti delle donne. Zohra, oggi vive con la sua famiglia nella periferia di Islamabad. Per via delle minacce che continua a ricevere e per la paura di poter essere rimandata in Afghanistan, dove corre un grave pericolo di vita, Zohra ha cambiato casa quattro volte in 18 mesi.

Mi racconta: «Ho perso tutto quando sono tornati i Talebani. Hanno assassinato mio padre e mio fratello. Mia madre, invece, era già stata uccisa durante un bombardamento da parte degli americani. Per il mio lavoro di giornalista e attivista, sono stata arrestata e torturata con l’elettroshock. Per questo, ancora adesso, soffro di amnesia. Con la mia famiglia siamo dovuti scappare per sopravvivere, l’Afghanistan è la prigione delle donne. Il mio nome è sulla lista dei Talebani delle persone da eliminare. Quando esco di casa, anche qui a Islamabad, sono spesso seguita. Più volte mi sono rivolta all’agenzia internazionale per i rifugiati, ma non ho mai avuto risposta. Nonostante le minacce che ricevo continuamente, le autorità pachistane vorrebbero deportarci in Afghanistan».

Wahid, suo marito, continua: «Anch’io sono stato arrestato, due volte, a causa del lavoro di mia moglie. La prima volta i Talebani mi hanno accusato di non essere un musulmano osservante, perché avevo permesso a Zohra di protestare. Quando ho risposto che, nel Corano, non esiste nessuna legge che lo vieti, mi hanno preso a schiaffi. Al mio secondo arresto invece, sono stato frustato».

Benzir è la figlia di Zohra e Wahid, ha 18 anni. «Io sogno di studiare – mi racconta con la voce rotta dal pianto -, ma questo ci è vietato. Non solo a me ma a tutte le donne afghane. Vorrei dire al mondo che anche noi siamo esseri umani e che vorremmo essere trattate come tali. Per il fatto di non poter uscire o studiare, soffro di depressione».

Vista notturna della moschea di Badshahi, a Lahore; conosciuta anche come la «moschea imperiale», fu commissionata da Aurangzeb, imperatore Moghul, nel 1671. Foto Angelo Calianno.

Hazara, perseguitati due volte

Islamabad ha diversi campi di rifugiati per gli afghani. La maggior parte di loro però, per paura di essere espulsi, affitta illegalmente case di fortuna in alcuni quartieri di periferia.

In uno di questi sobborghi, incontro Qais, afghano hazara che ha vissuto e lavorato in Inghilterra: «Siamo Hazara, saremo sempre perseguitati dai Talebani. Quando sono fuggito, ho pagato il viaggio, per me e per la mia famiglia, 80mila afghani (circa mille euro). Qui viviamo nascosti, se l’intelligence dovesse scoprirci, ci rimanderebbe indietro. Sono riuscito a trovare una scuola per i miei tre figli, dove non ci chiedono documenti e pago in nero. Cerco in tutti i modi di farli studiare. I nostri risparmi però, stanno terminando, la gente che ci vende da mangiare, o chi ci affitta le case, sovraccarica i prezzi. Sanno della nostra paura di essere scoperti e allora ne approfittano. Ho fatto domanda come rifugiato e perseguitato, in quanto Hazara ne avrei diritto, ma dopo un anno e mezzo non ho ancora ricevuto risposte. Essere Hazara è complicato anche in Pakistan, siamo mal visti anche dai Pasthun locali. I miei figli piccoli, spesso, mi chiedono perché non possiamo uscire e fare cose normali come andare al parco o fare una passeggiata.

È molto difficile spiegare a un figlio perché deve nascondersi. Anche se l’Afghanistan cambiasse governo, non penso che riusciremmo mai a tornare. Indipendentemente da chi governerà, per noi Hazara l’Afghanistan rimarrà sempre un luogo troppo pericoloso».

Oltre a quelle di chi si nasconde, sono tantissime le testimonianze di afghani che subiscono abusi da parte delle forze armate pachistane. Human rights watch, in diversi dossier, ha segnalato furti di gioielli e oggetti preziosi ai danni dei rifugiati. In altri casi, si parla di ricatti e tangenti per velocizzare le pratiche di richiesta d’asilo. Tante sono anche le testimonianze di stupri e molestie ai danni delle donne. Sempre secondo la Ong per i diritti umani, dall’ottobre 2023, sono stati più di 400mila gli afghani espulsi e fatti tornare in patria. Quasi sempre, si tratta di persone che rischiano la vita perché non gradite al regime di Kabul.

Angelo Calianno

Giovani in preghiera nella moschea di Wazir Khan Masjid, a Lahore. Foto Angelo Calianno.

Perseguitato, ma Khan resiste

Dopo le elezioni dell’8 febbraio

In dubbio fino all’ultimo, alla fine le elezioni si sono tenute con i candidati di 14 partiti. Abbiamo incontrato lo scrittore B.J. Sadiq. Secondo lui, senza brogli e violenze, il partito di Khan avrebbe vinto, mentre ora si trova a dover convivere con la Lega musulmana e il Partito popolare.

Islamabad, primi di febbraio. Mancano pochi giorni alle tanto attese elezioni dell’8 febbraio. Tuttavia, per strada, la campagna elettorale è praticamente inesistente. Non ci sono manifesti, non ci sono comizi pubblici. Gli unici indizi che ricordano le imminenti votazioni si trovano online. Molti esponenti, soprattutto quelli supportati dal partito, tengono i propri discorsi su YouTube e Telegram, ma, proprio durante questi interventi, l’intelligence oscura internet. Molte persone pensano che, vista la situazione, le elezioni verranno rimandate. Diversi sono stati, in questa settimana, gli attentati e gli omicidi a Peshawar e Islamabad. La maggior parte degli elettori ritiene che non importa chi andrà al potere, alla fine sarà sempre l’agenzia di intelligence a comandare il Paese.

Compromessi difficili ma inevitabili

È il 13 febbraio. Le complicate elezioni pachistane hanno avuto finalmente un risultato. Il popolo ha scelto, contro ogni pronostico, di votare per i candidati appoggiati da Imran Kahn. Allo stesso tempo, però, anche la Lega musulmana e il Partito popolare reclamano la propria vittoria. In conclusione, nessuno dei tre grandi blocchi politici ha la maggioranza per poter governare, quindi si è formata una coalizione. Il primo ministro scelto è Shehbaz Sharif, esponente della Lega musulmana.

Una persona che, di certo, può fare chiarezza sulla complicata situazione attuale è B. J. Sadiq. Giornalista, poeta, scrittore e intellettuale pachistano naturalizzato inglese, B.J. ha scritto un best seller su Imran Kahn: «Let there be justice: the political journey of Imran Kahn». Il libro oggi, per ragioni ancora poco chiare ma facilmente immaginabili, non si trova più in vendita.

Il Pakistan secondo B.J. Sadiq

B.J. Sadiq è uno scrittore, poeta e giornalista pachistano; la sua biografia sull’ex primo ministro Khan è stato un best seller in Inghilterra, ma in Pakistan è introvabile. Foto Angelo Calianno.

Lo scrittore comincia a raccontarmi gli ultimi eventi, partendo proprio dalla situazione dell’ex primo ministro: «Nel mio libro non cerco di trasformare Khan in una figura divina, ha commesso di certo degli errori. Non è un uomo molto affabile, è molto ostinato e davvero poco diplomatico. Non piace all’élite intellettuale pachistana, anche se questa non smette mai di nominarlo. Però Kahn è un nazionalista di razza, la sua lealtà nei confronti della sua patria non può essere messa in discussione. Per questo è adorato da milioni di persone. Prima della politica, Kahn ha vinto, per il suo Paese, come campione di cricket. A mio parere, il suo sbaglio più grande è quello di non essere riuscito a reprimere la destra radicale, a sconfiggere quell’estremismo che danneggia l’immagine del Pakistan e scoraggia gli investimenti stranieri. In più, un altro problema è stato quello di avere un gabinetto pieno di politici corrotti. Imran Kahn è stato estromesso nel 2022 con un voto di sfiducia; da allora, sta combattendo contro una tempesta giudiziaria. Io penso che tutte le accuse nei suoi confronti siano infondate. Il fatto è che le forze militari pachistane fanno praticamente quello che vogliono.

In queste elezioni, il partito sostenuto da Khan ha conquistato 99 seggi. È stato un chiaro voto contro i militari e quelli da loro sostenuti, persone come Nawaz Sharif. Quasi 60 milioni di persone si sono recate a votare, un numero astronomico per la nostra nazione. La gente è stremata dall’inflazione persistente, dall’élite politica e militare amante di sé stessa che ha reso lo Stato quasi ingovernabile. Il partito di Khan è stato, inoltre, oggetto di diffusi brogli preelettorali. Per esempio, è stato costretto a presentarsi alle elezioni senza il simbolo della mazza da cricket, cosa che, secondo l’intelligence, avrebbe potuto confondere gli elettori. Inoltre, anche nel giorno dello scrutinio ci sono state irregolarità e violenze. Il governo ha ordinato la sospensione delle reti mobili e l’oscuramento di internet in tutto il Paese. Diversi, ancora, sono stati gli episodi di terrorismo nella travagliata provincia del Balochistan. In realtà, si pensa che i seggi conquistati siano stati 175. Se tutto si fosse svolto regolarmente e se fosse stata fatta giustizia, il partito di Khan avrebbe governato senza ricorrere a una coalizione.

Le elezioni in Pakistan – continua Sadiq – sono sempre state truccate, ma questa volta è stato anche peggio. Abbiamo assistito a un massacro della democrazia. I militari pachistani, insieme a una classe politica connivente, hanno toccato nuovi abissi di scorrettezza. L’opinione pubblica è arrabbiata. Ha tutto il diritto di esserlo.

Il Pakistan è un Paese di quasi 240 milioni di persone; i suoi giovani sono alla disperata ricerca di migliori opportunità, ma la sua economia è diventata troppo fragile per offrire loro qualcosa. Le sue imprese locali sono al collasso e i suoi contadini sono allo sbando. In queste circostanze precarie, qualsiasi scorrettezza elettorale non farà altro che provocare un maggiore sconvolgimento sociale. Continuo a credere che il Pakistan abbia un futuro brillante, perché ha una delle popolazioni più giovani del mondo e la gente ha voglia di un vero cambiamento. Ci sono però seri ostacoli. Il Paese è geograficamente situato in una regione da sempre segnata dall’ascesa dell’estrema destra religiosa, e da un regime fascista in India che non mostra segni di conciliazione nei confronti del Pakistan. Questo pone lo Stato in una sorta di crisi esistenziale. Se, in qualche modo, i suoi leader riusciranno a superare questo lungo periodo di incertezza e tristezza, e a introdurre serie riforme economiche, la situazione potrebbe migliorare nei prossimi cinque-sette anni», conclude B.J. Sadiq.

Veduta diurna della moschea di Badshahi, a Lahore; tornata luogo di culto nel 1852, il suo restauro è terminato soltanto nel 2008. Foto Angelo Calianno.

Tanti motivi per scappare

Nonostante la giovane età media della popolazione e la speranza che le cose possano cambiare, il Pakistan è ancora un luogo da dove si cerca di fuggire. Il 2023 ha visto un nuovo record di emigrazione dal Paese: 860mila sono le persone che hanno lasciato la propria nazione. Per numero di presenze, la prima meta è l’Arabia Saudita, Stato che ha accolto più di 400mila lavoratori pachistani. All’Arabia seguono gli Emirati arabi uniti e altre nazioni dell’area come Qatar e Oman.

In Europa (escludendo il Regno Unito), la maggior parte della comunità pachistana risiede e cerca asilo in Grecia, seguita da Italia e Spagna.

Oltre a quelle già elencate, una delle maggiori cause d’instabilità del Paese è il conflitto sul fronte del Kashmir. India e Pakistan si contendono questa regione dal 1947, cioè da quando il Pakistan è diventato uno Stato indipendente. Fino a oggi, sono state tre le guerre per il controllo del Kashmir, in particolare per usufruire delle sue risorse idriche, che peraltro interessano anche la Cina. Oltre ai conflitti ufficiali, centinaia sono gli scontri contro guerriglieri indipendenti, gruppi di estremisti e spie indiane infiltrate.

La tensione tra Pakistan e India preoccupa la comunità internazionale, soprattutto per il numero di armi nucleari a disposizione di queste due nazioni, arsenali tra i più grandi del mondo (quello pachistano dovrebbe contare 170 testate nucleari, mentre quello indiano circa 160, secondo i dati del Bulletin of the atomic scientists).

Durante il suo governo, Imran Khan ebbe modo di dire: «Voglio parlare ai capi di Stato, e portare all’attenzione di tutti la situazione attuale del Kashmir. Se la questione si risolverà con una guerra, ricordate che entrambi i Paesi hanno armi nucleari. E nessuno vincerebbe una guerra nucleare, perché la distruzione non si limiterebbe solo a questa regione: il mondo intero dovrebbe affrontarne le conseguenze».

Angelo Calianno

La cattedrale della Resurrezione, a Lahore, è una chiesa protestante consacrata nel 1887; come tutte le chiese cristiane, anche questa è circondata da alti muri, filo spinato e telecamere di sorveglianza. Foto Angelo Calianno.

Cristiani sotto attacco

L’islam e le minoranze religiose

Muri, filo spinato, telecamere proteggono le chiese. In Pakistan, professare una fede diversa dall’islam è difficile e pericoloso. La storia di Akash Bashir.

Lahore. Chiesa di san Giovanni, quartiere di Youhanabad, 15 marzo del 2015. Migliaia di cattolici si affollano nelle proprie parrocchie per la messa domenicale. Le chiese sono sempre protette da muri, filo spinato, telecamere di sorveglianza. Eppure, nemmeno queste misure di sicurezza sono sufficienti per scacciare la paura di attacchi. La violenza contro i cristiani è, infatti, una costante. Così, molto spesso, accade che volontari della comunità decidano di costituire gruppi di guardia.

Akash Bashir ha 21 anni ed è uno di questi volontari. Nato da una famiglia molto povera, così come praticamente tutte le famiglie cristiane di Lahore, Akash ha studiato all’Istituto tecnico industriale presso la scuola salesiana e, da circa due anni, è membro attivo del gruppo di sorveglianza della parrocchia di San Giovanni. Sono duemila le persone che, tra cortile e interno della chiesa, si radunano in questa domenica di marzo. Pochi minuti fa, è arrivata la notizia di un attentato contro la chiesa anglicana, non lontano da qui. I ragazzi del turno di guardia raddoppiano la sorveglianza.

A un certo punto, Akash vede un uomo correre verso l’entrata della chiesa. Intuendo il pericolo, prima che questo si avvicini troppo alla folla, il giovane gli si getta addosso placcandolo. L’attentatore si fa esplodere. Akash muore insieme ad altre quarantuno persone. L’attacco viene, in seguito, rivendicato da una cellula dei talebani pachistani: il Tehrik-i-Taliban Pakistan, gruppo attivo dal 2007.

L’ennesima strage ai danni dei cristiani innesca la furia della comunità dei fedeli di Lahore. Per i tre giorni successivi, più di quattromila cristiani si radunano sul luogo dell’attentato. La folla distrugge le strade e ingaggia scontri con la polizia. Due fratelli musulmani, accusati di essere militanti del gruppo estremista talebano, vengono linciati.

Per Akash Bashir, esattamente nove anni dopo la sua morte, lo scorso 15 marzo si è chiusa a Lahore l’inchiesta diocesana della causa di beatificazione (aperta il 15 marzo 2022), primo passo ufficiale prima della valutazione degli atti a Roma, da parte del dicastero delle cause dei Santi. Akash potrebbe diventare il primo santo martire pachistano.

Daniel è un cristiano di Lahore; come per molti altri cristiani per lui non esiste sicurezza; molto spesso la sua casa è oggetto di lanci di oggetti da parte dei vicini musulmani più estremisti. Foto Angelo Calianno.

La minoranza cristiana e la blasfemia

A Lahore oggi, gennaio 2024, nove anni dopo il tragico attacco alla chiesa di Youhanabad, per i cristiani la situazione non è per niente migliorata. L’ultimo censimento sul loro numero in Pakistan è del 2018. Pur essendo la terza religione del Paese, i cristiani sono meno del 2% della popolazione totale con circa 2,6 milioni di praticanti. In Pakistan, il 96% della popolazione è rappresentato da musulmani. La seconda corrente religiosa è quella degli induisti, anche loro con una piccola percentuale, leggermente al di sopra del 2%.

La tensione è sempre altissima, le chiese sono ancora più blindate. Si può entrare solo nella propria parrocchia, mostrando dei documenti che ne attestino l’appartenenza. Ripetuti sono gli attacchi e gli atti vandalici. Uno degli ultimi, e più sanguinosi, è accaduto ad agosto 2023 nella città di Jaranwala. Una folla, formata da musulmani sunniti, ha attaccato la chiesa locale, bruciandola. La ragione di quest’atto, nella rivendicazione del gruppo musulmano, era l’accusa di «blasfemia» rivolta ai cristiani. Uno dei testimoni di questa violenza, membro della comunità cattolica di Lahore, è Daniel.

Pericoli e ingiustizie

Daniel è un insegnante di pianoforte. La sua famiglia, cattolica da quattro generazioni, è arrivata qui dall’India. Lo incontro a casa sua, a Lahore. Le festività sono passate da poco, nel soggiorno sono presenti ancora il presepe e l’albero di Natale.

Sul suo divano, Daniel, seduto accanto a suo padre, mi mostra video e foto dell’attacco di agosto a Jaranwala: «Non hanno bruciato solo la chiesa, hanno anche distrutto le case attorno la parrocchia. Si è speculato tanto su questa storia. Si è addirittura detto che fosse colpa di un debito non pagato da parte di un cristiano. Ma ti dico io quello che è davvero accaduto. Un signore, della nostra comunità, aveva prestato dei soldi a un uomo musulmano. Questo debito tardava a essere saldato. La moglie del primo si è ammalata gravemente e, avendo bisogno di soldi, il creditore è andato a sollecitare per riavere il suo denaro, mai ricevuto. Qualche giorno dopo c’è stato l’attacco al quartiere della parrocchia, tra gli uomini a capo della spedizione punitiva, c’era proprio il debitore. È facile aizzare l’odio contro di noi e usarlo per risolvere i propri problemi. Sono tante le cose che non vengono dette o che non si sanno. Non c’è solo la paura per la nostra incolumità, è anche il nostro quotidiano a essere difficile. Per esempio, a Natale, ci è proibito scambiarci gli auguri per strada. Dobbiamo farlo in chiesa o di nascosto. Quando siamo in giro, molti si avvicinano insultandoci. Ci urlano: “Cos’ è questa blasfemia del figlio di Dio. Gesù era un profeta e basta, Dio è solo uno”. Per strada ci lanciano oggetti, anche trovare lavoro per noi è più difficile che per gli altri. Quando riusciamo a ottenerlo, i nostri stipendi sono comunque più bassi di quelli dei musulmani. Ti hanno detto che qui si convive tutti in armonia, ma non è affatto così. Certo, ufficialmente non siamo perseguitati come potremmo esserlo in altri Paesi, ma la realtà è molto diversa da quella che ti hanno raccontato. Poco tempo fa, anche casa mia è stata attaccata da circa quindici persone. Volevano prendere la nostra proprietà. Dicevano che, in quanto cristiani, non avevamo diritto di stare qui. È così che viviamo».

La sorella di Daniel ci prepara la cena, non c’è luce. Lahore è soggetta a blackout programmati, per circa 6-8 ore al giorno, si vive senza corrente elettrica. Chiedo a Daniel se c’è qualcuno che li aiuta, se la chiesa, o la diocesi locale, potrebbero in qualche modo proteggerli.

Mi risponde: «È proprio dalla Chiesa che ci sentiamo abbandonati. Soltanto le famiglie ricche vengono prese in considerazione. Ti faccio un esempio, per i nostri figli non possiamo permetterci una scuola cattolica: è troppo costosa. I nostri bambini vanno nelle scuole musulmane e imparano il Corano. Per noi, è anche complicato ottenere un visto per viaggiare all’estero, ed è pure più costoso che per gli altri cittadini. Scriviamo lettere ai vescovi e alle autorità, ma non cambia mai nulla. È difficile trovare lavoro anche all’interno delle stesse chiese, dove, ad esempio, il personale di scurezza è musulmano. Ci sentiamo come dei bambini che hanno prima battezzato, e poi abbandonato per strada. Per tutte queste ragioni, la maggior parte dei cristiani fugge dal Pakistan. Il mio unico momento di conforto è la notte. Mi sveglio prima dell’alba, leggo il Vangelo e prego. Quel momento di preghiera dove sono solo, in silenzio, quel momento tra me e Dio, è l’unica cosa che mi fa resistere».

Angelo Calianno

Mappa con i numeri (esigui) dei cristiani del Pakistan, minoranza sotto costante attacco, il Paese asiatico ha una popolazione al 96 per cento di fede islamica.


Nel Balochistan, la regione ribelle

Una questione grave ma ignorata

È una regione nella quale sono forti le istanze indipendentiste. E, per questo, sotto costante controllo da parte del potere centrale e dell’Isi. Nonostante i divieti, l’abbiamo raggiunta in treno avendo l’opportunità di parlare con molti «balochi».


N.B. Nel testo è usata la scrittura del nome all’inglese, invece di quella italiana di Belucistan e beluci


Lahore. È una città vibrante e caotica, una delle più popolate in Pakistan con circa 14 milioni di abitanti. L’architettura varia dai palazzi e le stazioni ferroviarie di epoca coloniale, alle grandiose moschee del periodo Moghul. I vicoli della città vecchia richiamano l’India: qui si affollano mendicanti e «medici» (molti, sia per ragioni culturali che economiche, si affidano ancora alla medicina tradizionale, invece che a quella moderna). Per strada, sono decine i curatori che, tenendo tra le mani serpenti o sanguisughe, vendono ogni tipo di medicamento spacciato per miracoloso. Si può trovare davvero di tutto: da chi incolla denti di seconda mano, a chi cura le infiammazioni con il veleno di scorpione.

A ogni angolo è possibile mangiare, ma l’igiene è completamente assente. Il pesce viene sviscerato e venduto per strada, la carne è esposta senza nessuna refrigerazione. Frequenti sono le epidemie di febbre tifoide. Una, in particolare, ha colpito Lahore nel maggio 2023, protraendosi per tutta l’estate e portando gli ospedali al collasso.

Questa città vanta anche il triste primato di essere uno dei luoghi più inquinati del mondo. È al terzo posto dopo Mumbai, in India, e Dacca, in Bangladesh. L’aria è spesso irrespirabile e, soprattutto al tramonto, una coltre di smog avvolge il paesaggio.

Al mercato del pesce di Lahore tutto si fa per strada e, di conseguenza, le condizioni igieniche sono sempre al limite. Foto Angelo Calianno.

Gli abitanti «balochi»

Durante le mie ricerche a Lahore, i suoi sobborghi e villaggi, incontro diverse persone provenienti dal Balochistan. Dalle loro parole traspare un forte nazionalismo, un grande senso di appartenenza ma anche di dolore.

L’Isi, oggi, si scontra continuamente con i separatisti «balochi» che, da 20 anni, reclamano la propria indipendenza. Quello che accade in Balochistan è cruciale per l’equilibro del Pakistan: gli attacchi da parte dell’Iran, l’interesse della Cina, e le continue violazioni dei diritti umani da parte dei militari contro la popolazione locale, fanno di questa regione una delle più pericolose e inaccessibili dell’Asia centrale.

In treno verso Quetta

Mappa del percorso del «Jaffar Express», treno che parte da Peshawar e arriva fino a Quetta; il viaggio completo dura circa 36 ore.

Entrare in Balochistan, da giornalista europeo, è quasi impossibile. Anche riuscendo a ottenere i permessi, si rimane confinati in un hotel e si è costantemente sotto scorta della polizia, quindi impossibilitati a effettuare interviste o, comunque, «pilotati» dall’intelligence.

Alcuni dei miei contatti a Quetta, capitale del Balochistan, mi suggeriscono di provare a entrare illegalmente, in treno, così da evitare i controlli. Vestito con abiti tradizionali pashtun, in modo da camuffarmi, prendo il «Jaffar Express», unico treno che da Lahore porta a Quetta. Il viaggio dura circa 28 ore. I vagoni straripano di persone e bagagli, si dorme su poltroncine a castello poste su tre livelli e con pochissimo spazio.

«C’erano molti più treni fino a poco tempo fa – mi confessa un viaggiatore -, ma ora le compagnie degli autobus, che sono ben ammanicate con il regime dei militari, hanno preso il controllo di quasi tutta la viabilità. Hanno addirittura rubato i binari e demolito le stazioni. Così adesso, per andare in Balochistan, ci è rimasto solo questo treno».

Dopo il lunghissimo viaggio, riesco ad arrivare a Quetta, capoluogo del Balochistan. Entro senza problemi nel centro città per raggiungere uno dei miei informatori. Per passare inosservati, decidiamo di spostarci con una vecchia motocicletta.

Quetta si trova in una valle circondata da montagne, siamo a pochi chilometri dall’Afghanistan. La città è divisa in settori, ogni accesso è presenziato da forze armate locali.

Le ricchezze del Balochistan

Le etnie che oggi abitano il Balochistan sono: i Baloch, quasi tutti musulmani sunniti, i Brahui, gruppo etnico asiatico, anche loro musulmani sunniti. Altre minoranze presenti sono quelle sciite degli Hazara, provenienti dall’Afghanistan, e una piccolissima minoranza cristiana che, data l’instabilità, sta cercando di scappare dalla regione.

Arqam (nome di fantasia), guidandomi per alcune strade fangose, mi racconta: «Il Balochistan è ricco di minerali come il quarzo, la cromite e il carbone. In più abbiamo enormi cave di marmo e pietra. Quello che però fa gola al Governo, e anche a tutti gli altri Stati vicini, sono le nostre riserve di petrolio, oro e rame. Queste ultime due tra le più grandi del mondo. Le nostre ricchezze naturali però, come vedi, non sono per niente commutate in benessere per la popolazione. Viviamo arrangiandoci, sotto la soglia della povertà e in maniera sempre precaria. Paghiamo carissimi anche gas e benzina, pur essendone praticamente circondati. È facile trovare famiglie che, illegalmente, cercano un modo per allacciarsi ai gasdotti. Cosa pericolosissima, come puoi immaginare».

Il Balochistan è la regione più povera del Pakistan. Negli ultimi 20 anni, il governo ha progettato piani e stipulato accordi con aziende e multinazionali, senza mai consultare la popolazione locale. Tantissime terre sono state espropriate per costruirvi infrastrutture, come nel caso del Cpec (China-Pakistan economic corridor). L’enorme progetto cinese, attualmente in costruzione, mira a creare un collegamento di 3mila chilometri dalla Cina fino al porto pachistano di Gwadar. Questo corridoio attraversa tutto il Balochistan. Se il progetto dovesse essere completato, il porto di Gwadar diventerebbe il secondo hub commerciale cinese più grande, dopo quello di Honk Kong.

I luoghi attorno alla costruzione del Cpec, in Balochistan, sono diventati una polveriera. Tantissimi sono gli attacchi e i sabotaggi da parte dei separatisti baloch, contro le infrastrutture cinesi.

«La commissione per i lavori del Cpec ha promesso di portare ricchezza nelle nostre terre – continua Aqram -, di costruire strade e dare lavoro. Ma, per anni, abbiamo visto solo la nostra terra depredata sotto i nostri occhi, è comprensibile che nessuno di noi si fidi più delle promesse. I movimenti di indipendenza vengono dipinti dai giornali, e dal governo, come terroristi. Ci sono attacchi e scontri, è vero, ma questi sono volti a ottenere libertà e diritti per il Balochistan».

I movimenti di ribellione non sono i soli a interferire con la costruzione del corridoio. Tra i principali oppositori c’è anche l’India, rivale storica del Pakistan. Questa, appoggiata dagli Usa (soprattutto durante l’amministrazione Trump), bloccando il progetto danneggerebbe economicamente il Pakistan. Inoltre, frenerebbe un ulteriore espansione cinese, invisa anche agli Stati Uniti.

L’entrata della stazione dei treni di Quetta, capoluogo del Balochistan. Foto Angelo Calianno.

Il Bla, le sparizioni e le fosse comuni

La battaglia per l’indipendenza del Balochistan non è qualcosa di nuovo: i primi gruppi di combattenti sono sorti nel 1948, quando la divisione post coloniale aveva consegnato il Paese nelle mani della maggioranza etnica dei Punjabi.

Oggi, il gruppo più attivo è quello del Bla (Balochistan liberation army), considerato da Pakistan e Usa come organizzazione terroristica. Per la popolazione locale, invece, è un esercito di liberazione. In Balochistan, peraltro, non ci sono solo militanti armati.

Sono tanti i giornalisti, gli intellettuali, gli insegnanti che da anni si battono pubblicamente per far valere i propri diritti. L’agenzia di intelligence militare pachistana, per scoraggiare qualsiasi moto separatista, ha messo in pratica una «sparizione sistematica» degli attivisti e dei loro parenti. Un metodo molto simile a quello usato dalla dittatura argentina a fine anni Settanta.

Secondo i gruppi di attivisti baloch, negli ultimi venti anni, sono state 26mila le persone scomparse in seguito a un arresto da parte dell’Isi. Di nessuno di loro si sono più avute notizie.

Nel 2014, a Tootak, cittadina della regione balochi, sono state trovate le prime fosse comuni. È stato possibile riconoscere i cadaveri: si trattava di persone scomparse, rapite da militari legati al governo. Nel primo sito di scavo, sono stati trovati quindici corpi. Successivamente, un gruppo di cittadini ha deciso di condurre una propria investigazione indipendente, trovando così un’altra fossa comune. In questo secondo caso, si sono scoperti altri 103 corpi. Per prevenire ulteriori ritrovamenti, oggi, questi siti sono sotto il controllo militare: è proibito effettuare qualsiasi scavo senza il permesso delle autorità.

Una protesta lunga 1.600 chilometri

In questa situazione, un gruppo di donne, a cui l’intelligence ha rapito fratelli, mariti e figli, ha deciso di non rimanere più in silenzio. Il 6 dicembre 2023, guidate dalla dottoressa Mahrang Baloch, una delle voci più importanti per i diritti umani in Balochistan, in 150 hanno marciato per 1.600 chilometri da Quetta fino a Islamabad. Il cammino è durato 15 giorni.

Passando per villaggi e città, tanti si sono uniti alla marcia. All’arrivo nella capitale, il 21 dicembre 2023, il gruppo contava 700 persone. Pur essendo una protesta pacifica, la polizia ha attaccato i manifestanti con lacrimogeni, cannoni ad acqua e manganellate. Nel corteo erano presenti anche molti bambini e anziani. Nei primi giorni del sit in di protesta, sono stati arrestati 300 uomini e 70 donne. Per conoscere meglio la storia di questa protesta, voglio incontrare la dottoressa Mahrang.

Per persone come lei parlare con un giornalista è sempre molto pericoloso. Per questo organizzo un’intervista affittando una stanza in un luogo segreto a Islamabad. Mahrang arriva con altre tre donne. A tutte è stato arrestato o rapito un familiare, senza che se ne sia saputo più nulla. Le donne mi mostrano le foto che ritraggono i loro padri e fratelli.

Mahrang Baloch, di professione medico, è la più famosa tra le attiviste per i diritti della popolazione del Balochistan. Foto Angelo Calianno.

Donne coraggiose

Mahrang mi spiega: «Siamo qui per chiedere una negoziazione con il governo. Abbiamo dei punti fondamentali che abbiamo bisogno di affrontare con le cariche dello Stato. Su tutti: la fine del genocidio, lo stop agli arresti extra giudiziali, la cessazione dei rapimenti. I diritti che chiediamo vengano rispettati rientrano tra quelli tutelati dalla Costituzione del Pakistan e dalla dichiarazione sui diritti umani. Inoltre, vogliamo sapere che fine hanno fatto i nostri familiari. Anche se fossero morti, vogliamo sapere dove sono seppelliti, vogliamo che il governo parli con noi. In più, chiediamo che una commissione delle Nazioni Unite venga a investigare su tutte le violazioni contro il nostro popolo. Quello che sta accadendo in Balochistan, da 20 anni, è un genocidio. Ci hanno soprannominato “la piccola Gaza”. La differenza, però, è che la Palestina è sotto gli occhi di tutti, ne sta parlando il mondo. Nessuno invece sa quello che accade in Balochistan. La nostra storia rimane inascoltata».

Sammi Deen, che ha partecipato alla grande marcia da Quetta a Islamabad con la foto del Dr. Deen Mohammad Galoch fatto scomparire dall’esercito pakistano il 28 giugno 2009

Sammi Deen, studentessa di 25 anni e attivista, continua: «Queste sparizioni distruggono le famiglie. Mio padre era un leader politico, è scomparso 15 anni fa. Non abbiamo più avuto sue notizie. La mia vita, da allora, è totalmente cambiata. Ho dovuto prendermi cura della mia famiglia mentre studiavo e mi battevo per la causa di mio padre. Negli ultimi 15 anni, sono andata spesso davanti alla Corte suprema per chiedere giustizia, per avere qualsiasi notizia su di lui. Quando finalmente otteniamo udienza, provano a scoraggiarci, a umiliarci. Ci fanno domande inutili. Arrivano a insinuare che, in realtà, i nostri cari non sono spariti, che ci siamo inventate tutto. Oppure ci dicono che ci hanno lasciate per combattere tra le file dei militanti terroristi. Anch’io sono stata rapita dall’intelligence e detenuta per sette giorni. Molto spesso subisco minacce e intimidazioni. Quello che sto raccontando, la mia storia, è la storia di tutte le famiglie del Balochistan».

 

Alla dottoressa Mahrang chiedo se i giornalisti abbiano mai raccontato queste vicende. «I media rimangono per lo più in silenzio – spiega -. Quando mi intervistano, non sanno nulla di quello che accade e non cercano nemmeno di approfondire la situazione. I network pachistani hanno le mani legate, ma nemmeno i media internazionali raccontano davvero la verità. I giornalisti stranieri sono “pilotati” dal governo e, spesso, le storie che si raccontano sul Balochistan sono solo fatti di costume o di cronaca locale».

Il dialogo respinto

A Islamabad, il sit in di protesta è terminato il 25 gennaio. Per 34 giorni, centinaia di donne e uomini di tutte le età sono rimaste per strada dormendo al freddo. Hanno sopportato le cariche e gli arresti della polizia, contando solo sul supporto della gente locale. Alla fine, il corteo è ritornato a Quetta, marciando ancora per più di mille chilometri. Al ritorno in Balochistan, sono nuovamente scomparse diverse persone. La maggior parte sono familiari di chi ha protestato. A oggi, il governo di Islamabad non ha risposto a nessuna delle richieste delle donne baloch e non ha mai avviato con loro un dialogo.

Angelo Calianno

La valle di Quetta; Quetta è il capoluogo della regione del Balochistan, centro nevralgico del Pakistan per le sue ricchezze e la vicinanza all’Afghanistan. Foto Angelo Calianno.

 




Indonesia, La metamorfosi del generale


La consultazione del 14 febbraio scorso si è conclusa con la netta vittoria del candidato del presidente uscente. L’anomalia apparente è che non fa parte del suo partito. Nella realtà hanno prevalso giochi e alleanze ben consolidate.

Quartier generale delle forze armate indonesiane a Giacarta, 28 febbraio. Il presidente Joko Widodo mette entrambe le mani sulle spalle di Prabowo Subianto (presidente in pectore), gli dice qualcosa e gli conferisce il grado di generale a quattro stelle onorario, il più alto possibile per l’esercito dell’Indonesia. «Questa onorificenza è una forma di apprezzamento – dice Widodo, prima di attaccare i baveri con quattro stelle d’oro sul blazer di Prabowo -, ribadisce la sua devozione al popolo e al Paese. Vorrei congratularmi con il generale». Da qualche giorno è arrivato un messaggio di congratulazioni della Casa bianca per le elezioni del 14 febbraio: il presidente Joe Biden, fervente organizzatore di summit per la democrazia, si dice «ansioso» di collaborare con la nuova leadership e «rafforzare la cooperazione con un partner strategico».

È il 28 febbraio. Eppure, fino a qualche anno fa una scena del genere sarebbe sembrata possibile solo in una sorta di universo parallelo. Già, perché nel 1998 Prabowo era stato costretto a lasciare l’esercito e a venire congedato con disonore per le molteplici accuse di violazioni dei diritti umani a suo carico che sarebbero state perpetrate quando era tenente generale e comandante delle Kopassus, le forze speciali dell’esercito. La tortura di ventidue attivisti, rapimenti e sparizioni, la repressione delle proteste degli oppositori del dittatore Suharto, le violenze contro i movimenti autonomisti di Papua e Timor Est. Un curriculum non proprio scintillante per Prabowo, che di Suharto era peraltro l’ex genero, e che gli era costato la proibizione di recarsi negli Stati Uniti. Il divieto è durato fino al 2020, quando la misura è stata revocata per consentire a Prabowo, in qualità di ministro della Difesa indonesiano, di andarci.

«Dare a Subianto un titolo onorifico a quattro stelle, con i suoi precedenti militari e le accuse di coinvolgimento in casi di violazione dei diritti umani, metterà in imbarazzo l’onore e la dignità delle forze armate indonesiane», ha dichiarato ad Ap (Associated press) Gufron Mabruri, direttore esecutivo dell’organizzazione non governativa Imparsial.

President Joko Widodo (C) walks with Defence Minister Prabowo Subianto (L) and Military Chief General Agus Subianto (R) […] (Photo by BAY ISMOYO / AFP)

Da nemici ad amici

La scena del 28 è oggi nell’ordine delle cose. Prabowo, infatti, due settimane prima, ha stravinto le elezioni presidenziali indonesiane. Non c’è stato nemmeno bisogno del secondo turno come prevedevano quasi tutti gli analisti: l’ex generale ha ottenuto quasi il 60% già al primo turno, superando nettamente il 50,1% necessario per evitare il ballottaggio contro il secondo classificato.

Non si è trattato di un exploit improvviso, ma di un successo costruito con pazienza e in modo meticoloso, giunto peraltro tramite il sostegno di quello che fino a un certo punto era stato il suo acerrimo rivale: Widodo (famigliarmente chiamato Jokowi). Sì, proprio colui che appunta la quarta stella sul petto di Prabowo.

È cambiato davvero tutto dal 2014, l’anno in cui Widodo aveva sconfitto per la prima volta Prabowo alle presidenziali. L’ex generale, ai tempi, si presentava spesso ai comizi in sella a un cavallo, pronunciando discorsi infuocati contro l’avversario paventando politiche protezioni- stiche e suscitando parecchi timori per i suoi stretti legami con le forze islamiste radicali. Un aspetto, questo, non trascurabile nel Paese con la popolazione musulmana più vasta del mondo.

Nel 2019, al secondo tentativo di raggiungere la presidenza, Prabowo aveva nominato l’ex leader dell’ala giovanile del gruppo islamista Muhammadiyah, Dahnil Simanjuntak, come suo portavoce personale.

In entrambe le tornate elettorali, Prabowo aveva rifiutato di ammettere la sconfitta. Nel 2019 aveva accusato Widodo di brogli elettorali, scatenando una delle peggiori ondate di violenza politica degli ultimi decenni in Indonesia. Centinaia di persone erano rimaste ferite durante gli scontri tra i sostenitori di Prabowo e la polizia dopo l’annuncio dei risultati del voto. E almeno sei sono state uccise.

L’Indonesia era sembrata sulla soglia di una guerra intestina. Poi, all’improvviso, era cambiato tutto. Dopo una serie ravvicinata di incontri tra i due, dagli insulti si era passati ai selfie. Dalle accuse di brogli si era passati alla nomina di Prabowo nella squadra di governo di Widodo, come ministro della Difesa. Era parsa una mossa utile a «neutralizzare» politicamente l’ex generale.

Alleanze interne

Il capitale politico di Widodo e la futura eleggibilità del suo partito dipendevano anche dalla sua capacità di mantenere un’alleanza con la società civile islamica, si pensava allora. E aveva bisogno del sostegno di gruppi come Nahdlatul Ulama e Muhammadiyah per governare efficacemente. Insomma, la mossa di Jokowi era stata letta come la risposta alla necessità di dare stabilità al suo secondo mandato. Senza contare che era già emerso lo storico progetto di spostare la capitale da Giacarta a Nusantara (vedi box), nel Kalimantan orientale, sull’isola del Borneo. E Prabowo è una sorta di «zar» di quella zona, dove la sua famiglia possiede vasti terreni per circa 220mila ettari e detiene un’importante capitale politico.

La decisione di Widodo di tenersi vicino Prabowo si sarebbe, invece, rivelata essere più profonda. In vista delle elezioni di febbraio, infatti, il presidente uscente (ancora molto popolare nell’opinione pubblica indonesiana) ha deciso di appoggiare proprio il suo ex rivale e invece del candidato del suo Partito democratico indonesiano di lotta. Widodo ha mollato senza tanti complimenti Ganjar Pranowo, ex governatore di Giava centrale e suo teorico erede designato, lasciandolo completamente spiazzato visto che questi aveva costruito la sua immagine e la sua campagna come l’unico in grado di dare continuità alle politiche del compagno di partito. È arrivato persino terzo, dietro il candidato indipendente Anies Baswedan, ex governatore di Giacarta. Anche lui, in realtà, sperava di ricevere l’appoggio di Widodo, di cui aveva scritto per anni i discorsi prima di venire nominato ministro dell’Istruzione.

E invece Jokowi ha scelto proprio Prabowo. E non si è limitato a dargli un appoggio indiretto, ma ha addirittura piazzato il proprio figlio, Gibran Rakabuming Raka, nel ruolo di numero due del suo ex rivale e dunque eventuale futuro vicepresidente. Mossa, quest’ultima, controversa visto che Gibran ha solo 36 anni e la legge indonesiana indica nei 40 anni l’età minima per candidarsi a presidenza o vicepresidenza. Un ostacolo serenamente superato grazie a una sentenza della Corte costituzionale, che ha rimosso il vincolo di età per chi avesse vinto in precedenza un’elezione locale. E Gibran è sindaco della città di Surakarta. Il sospetto, di una sentenza ad personam è acuito da un particolare non trascurabile: a capo della Corte costituzionale di Giacarta c’è nientemeno che il marito della sorella di Widodo.

Gente al voto a Demak, Central Java, 24/02/2024. (Photo by Akrom HAZAMI / AFP)

L’immagine e i social

Tra gli elettori indonesiani, c’è anche chi è rimasto scandalizzato della netta vittoria di Prabowo. Tanto che sono state organizzate diverse proteste, dopo l’annuncio dei risultati ufficiali, nelle quali centinaia di persone hanno chiesto l’impeachment di Widodo per «interferenze» nel processo elettorale. Eppure, nelle urne non tutti hanno considerato il poco invidiabile passato di Prabowo, forse anche grazie al fatto che questi ha ripulito la sua immagine con una semplice quanto astuta strategia sui social media. A livello ufficiale non ha più utilizzato i toni incendiari del passato, soprattutto sui social più seguiti dai giovani. Instagram e TikTok sono stati invasi dai video di Prabowo in versione affabulatore e con un’immagine da zio o nonno simpatico e un po’ imbranato, ma bonario e ovviamente dotato di tanta saggezza. Balletti improbabili, sorrisi e foto ricordo, aneddoti personali e il gatto Bobby hanno reso simpatica una figura di cui in tanti non ricordano, o nemmeno conoscono, gli scheletri nell’armadio.

D’altronde, la maggioranza degli elettori ha meno di 40 anni. Molti di loro non hanno ricordi nitidi della dittatura di Suharto o delle forze speciali di Prabowo, così come del suo esilio in Giordania.

Si tratta di una dinamica che inizia a essere una tendenza anche in Asia dove spesso dominano le dinastie politiche familiari. E non solo nella Corea del Nord dei Kim. Basti pensare alla Cambogia di Hun Sen (cfr MC luglio 2022), il leader eterno appena tornato presidente del Senato dopo aver lasciato il ruolo di premier al figlio Hun Manet. La strategia «prabowiana» sui social è stata un ingrediente anche del successo di Ferdinand Marcos Junior, figlio del dittatore filippino, alle elezioni presidenziali del 2022 (cfr MC agosto 2022). E anche in India il primo ministro Narendra Modi sta conducendo una campagna elettorale dove la priorità sul fronte comunicativo è data a canali come Instagram rispetto alle tradizionali interviste.

Discorsi moderati

Sul fronte più istituzionale, Prabowo ha assunto (quantomeno ufficialmente) una linea moderata con parole ben più calibrate rispetto al passato. Ha soprattutto promesso di portare avanti le politiche di Widodo sul fronte economico, lasciando aperte le porte agli investimenti esteri. Si tratta di un tema su cui c’è molta attenzione da parte delle grandi potenze, interessate a rafforzare la loro presenza in un mercato dinamico ed emergente come l’Indonesia, peraltro Paese ricco di risorse minerarie fondamentali per lo sviluppo di settori strategici sul fronte tecnologico. Su tutte, il nichel, un minerale fondamentale per le batterie dei veicoli elettrici.

Nel 2014, le esportazioni di nichel ammontavano a un miliardo di dollari, oggi la cifra è arrivata a 30 miliardi. E gli investimenti esteri nel settore estrattivo sono altrettanto esplosi, raggiungendo i 16 miliardi nel 2022, in gran parte provenienti da aziende cinesi.

Politica estera

Gli Stati Uniti stanno provando a recuperare il terreno perduto. Lo scorso novembre Biden ha ricevuto Widodo alla Casa Bianca, cercando di raggiungere un accordo sull’estrazione congiunta delle terre rare. A separare Washington e Giacarta ci sono però visioni diverse sulla crisi in corso in Medio Oriente: il governo indonesiano, infatti, è molto critico con Israele, con cui peraltro non ha mai avviato relazioni diplomatiche ufficiali.

L’Indonesia ha tradizionalmente una politica estera non allineata e particolarmente cauta. Con Prabowo potrebbe però assumere un timbro più deciso, viste le posizioni su temi internazionali da lui espresse in passato, spesso molto lontane da quelle occidentali. Basti pensare alla proposta, avanzata a giugno 2023, di una pace alla coreana per la guerra in Ucraina: congelamento dei confini sulla situazione attuale e referendum nei territori occupati dai russi per far scegliere alla popolazione da che parte stare. Idea respinta con sdegno da Kiev, Bruxelles e Washington.

Eppure, quando il prossimo 20 ottobre Prabowo inizierà il suo incarico presidenziale, gli Stati Uniti, e non solo, dovranno costruire con lui un rapporto solido. Sulle relazioni con la Cina potrebbero parzialmente interferire le dispute sul mar Cinese meridionale, su cui Prabowo potrebbe assumere una linea meno conciliante di quella di Widodo. A Pechino si ricordano ancora il ruolo dell’ex generale nelle purghe anticomuniste di Suharto. Ma gli scheletri di Prabowo sembrano ormai destinati a restare ben sigillati nel suo armadio.

Lorenzo Lamperti

Human rights activist Maria Catarina Sumarsih, […] (Photo by Afriadi Hikmal / NurPhoto / NurPhoto via AFP)


La valenza politica ed economica di Nusantara

In Borneo la nuova capitale

In lingua giavanese significa «arcipelago». Si trova nella remota regione orientale del Kalimantan sull’isola del Borneo. Per costruirla si prevede una spesa di circa 32 miliardi di dollari, ma anche un aumento del disboscamento di una delle foreste pluviali più antiche del mondo. È questo l’identikit di Nusantara, destinata a diventare la nuova capitale dell’Indonesia. Per completarla ci vorrà ancora diverso tempo, forse fino al 2045. Ma l’inaugurazione è prevista già per il prossimo 17 agosto, in occasione del 79simo anniversario dell’indipendenza del Paese dai Paesi Bassi. In prima fila ci sarà il presidente uscente Joko Widodo, che proprio in Nusantara identifica la sua eredità politica.

Il progetto è partito nel 2019, all’alba del secondo mandato di Widodo, quando è emersa la necessità di decongestionare Giacarta. L’attuale capitale soffre di inquinamento e traffico, e, secondo diversi studi, si sta persino parzialmente inabissando. Non a caso le alluvioni sono diventate sempre più frequenti. Il Borneo invece è meno esposto a disastri naturali e si trova geograficamente al centro del Paese. I lavori sono ufficialmente partiti nel 2022, rallentati all’inizio dalla pandemia da Covid-19, oggi proseguono in una sorta di corsa contro il tempo per consentire a Widodo di partecipare all’inaugurazione prima di lasciare la presidenza a Prabowo Subianto. Sul posto sono impiegati circa centomila operai, in un’area grande quattro volte quella di Giacarta.

Lo spostamento della capitale ha una valenza fortemente politica ed economica. L’obiettivo è infatti anche quello di favorire lo sviluppo di una regione rimasta meno popolata, diversificando la crescita interna e riducendo la centralizzazione che ha contraddistinto il modello di sviluppo indonesiano.

L’apertura di Nusantara significa anche lanciare una nuova rete di infrastrutture ed edifici pubblici, con la speranza di attrarre una pioggia di investimenti esteri. In realtà, su questo fronte i risultati sono stati meno brillanti del previsto.

Il colosso giapponese SoftBank ha ritirato la sua partecipazione a causa di preoccupazioni sulla sostenibilità economica del progetto e delle 300 aziende globali, citate dal governo come interessate, molte non hanno ancora firmato alcun accordo. Restano diversi dubbi anche sul fronte ambientale, dato il possibile contraccolpo sulla ricca biodiversità dell’area. C’è poi chi teme che Nusantara possa tramutarsi in una sorta di «cattedrale nel deserto», quasi un corpo estraneo rispetto al resto del Paese. Il tempo lo dirà. Ma intanto Widodo ha fretta per lasciare il suo marchio e tagliare il nastro.

L.L.

Moschea di Ambon (di Claudia Caramanti)

Le religioni in Indonesia

Il più grande paese musulmano

L’Indonesia è il più grande Paese musulmano al mondo per numero di credenti. I fedeli sono peraltro in costante crescita, visto che dal 2011 al 2022 sono passati da 202,9 milioni a 277,3. Si tratta dell’87,2% della popolazione totale. La quasi totalità dei musulmani indonesiani, pressoché il 99%, è sunnita. L’islam indonesiano è caratterizzato da una forte influenza della cultura locale, tanto da venire chiamato islam Nusantara. Nel giugno 2015, Joko Widodo ha espresso apertamente il suo sostegno a questa forma che molti giudicano più moderata di islam e secondo il presidente uscente «compatibile coi valori culturali indonesiani».

Ma nel Paese sono presenti anche altre religioni. Il 9,9% della popolazione è cristiano, con il 7% protestante e 2,9% cattolico. C’è poi un 1,7% di indù e uno 0,7% di buddhisti. Si stima che circa 20 milioni di persone, soprattutto a Giava, Kalimantan (Borneo) e Papua, pratichino vari sistemi di credenze tradizionali, spesso indicati collettivamente come aliran kepercayaan.

La Costituzione afferma che la nazione indonesiana «è basata sulla fede in un unico Dio supremo», ma garantisce a tutte le persone il diritto di praticare il culto secondo la propria religione e il proprio credo. Il decreto presidenziale del 1965 sulla prevenzione della blasfemia e dell’abuso delle religioni proibisce le «interpretazioni devianti» degli insegnamenti religiosi e qualsiasi organizzazione blasfema. Non mancano però i casi controversi. La provincia di Aceh prevede la sharia (legge islamica, ndr) applicata dai tribunali islamici, fino dal 2001, con la promulgazione della legge sull’autonomia speciale. Queste leggi, in alcuni casi, prevedono fino a 100 frustate come punizione. Negli ultimi anni alcuni gruppi islamisti, anche radicali, hanno guadagnato spazio nel dibattito politico e pubblico, tanto da essere corteggiati dal presidente eletto Prabowo Subianto.

L.L.




Italia. Un Ramadàn di polemiche

Con circa tre milioni di persone, i musulmani d’Italia costituiscono la seconda comunità religiosa dopo quella cattolica. Anche loro – al pari di tutti i fedeli islamici del mondo – hanno rispettato il mese del Ramadàn, che quest’anno è caduto tra il 10 marzo e il 9 aprile. Durante questo mese, dall’alba al tramonto, è fatto obbligo ai musulmani di astenersi da cibi, bevande e rapporti sessuali. Il primo giorno dopo il Ramadàn si tiene l’«Eid al-fitr» (ci sono diverse traslitterazioni dall’arabo), la festa di rottura del digiuno, quest’anno celebrata dal 10 aprile e per tre giorni.

In Italia, le polemiche attorno alla ricorrenza islamica sono state copiose e hanno coinvolto politici e mezzi di comunicazione, evidenziando ancora una volta le difficoltà del Paese ad accettare la convivenza con culture diverse. I casi più eclatanti sono scoppiati a Pioltello (Milano), Renate (Monza) e Monfalcone (Gorizia).

A Pioltello, involontario protagonista della polemica è stato l’Istituto comprensivo statale Iqbal Masih, un istituto che, sul proprio sito, si presenta con queste parole: «La scuola si propone di garantire il successo formativo a tutte le alunne e gli alunni secondo il principio guida di Don Milani “Non uno di meno!”. Coordinate valoriali chiave per la realizzazione di tale ideale sono: l’equità dei percorsi e degli esiti, l’inclusività dei modelli, la flessibilità delle pratiche, la partecipazione attiva della comunità scolastica». A marzo, una delibera del consiglio d’istituto ha deciso di chiudere la scuola nella giornata del 10 aprile 2024, in coincidenza con la festa di fine Ramadàn, prevedendo un «altissimo tasso di assenza» tra i molti alunni di fede islamica (circa il 40 per cento del totale). Insomma, una misura di buon senso assunta in conformità alle proprie prerogative in materia di calendario scolastico. Invece, la polemica è subito divampata con titoli infuocati da parte di alcune trasmissioni televisive (Fuori dal coro su Rete 4, ad esempio) e di alcuni quotidiani (la Verità e Libero, in primis). «È una pessima iniziativa. Non dobbiamo indietreggiare sui nostri valori, sui valori dell’Occidente» ha sentenziato la ministra Daniela Santanchè. Mentre il presidente Mattarella e la Curia di Milano hanno espresso solidarietà alla scuola.

Non troppo lontano da Pioltello, a Renate, don Claudio Borghi ha concesso la disponibilità del cortile dell’oratorio per una cena (gratuita e aperta a tutti) di Ramadàn, anche qui generando una sequela di polemiche. Più a Nord, a Monfalcone, la sindaca leghista Anna Maria Cisint ha scelto, invece, lo scontro con la folta comunità islamica della città alla quale – a fine 2023 – aveva imposto la chiusura dei due centri che fungevano da moschea. Anche in questo caso sono stati due esponenti della locale Chiesa cattolica don Flavio Zanettie don Paolo Zuttion – a intervenire per difendere la libertà di culto. Mentre, in occasione del Ramadàn, monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia, ha inviato un messaggio di auguri alle comunità islamiche cittadine.

Nel frattempo, da poche settimane è in vendita un libro-intervista della prima cittadina di Monfalcone con la prefazione del ministro Matteo Salvini. Il titolo è molto esplicativo: «Ora basta. Immigrazione, islamizzazione, sottomissione».

Paolo Moiola

 




Marocco. Il pane brucia


C’è una siccità che brucia i campi e l’esistenza delle persone. C’è stato il terremoto più devastante nella storia del Paese. Non c’è lavoro né futuro per i giovani. Ecco perché quasi tutti cercano di fuggire all’estero. Costi quel che costi.

Ouled Kichou. È un piccolo villaggio agricolo nei dintorni di Beni Mellal, capoluogo dell’omonima regione del Marocco centrale, tra le più colpite dalla siccità che sta mettendo in ginocchio il Paese. Dal minareto di una moschea, udiamo un muezzin dalla voce sgraziata richiamare gli abitanti alla preghiera dell’alba (salat-al-fajr).

La gente del posto rimpiange il suo predecessore che si cimentava in virtuosismi canori – prima si diventava muezzin per fede, e non per lo stipendio, seppur modesto, che attualmente ricevono – e il tempo in cui l’acqua, che scendeva abbondante dalla diga di Ben Ouidan (realizzata dai francesi nel 1955), sull’antistante catena dell’Atlante, rendeva fertile la terra e nei campi c’era lavoro.

Una spianata con alberi di olivo secchi e il sidr che avanza. Foto Silvia Zaccaria.

Una siccità mai vista e l’abbandono dei campi

A Ouled Kichou oggi manca anche l’acqua potabile e la quotidianità è fatta di donne e bambini che si alternano davanti alle poche cisterne allestite nel douar («villaggio» in darija, il dialetto marocchino). I campi sono quasi abbandonati e il sidr, albero del deserto citato nel Corano (chiamato «spina-christi» da ebrei e cristiani che l’associano alla corona di spine di Cristo), sembra tornare ad avere la meglio sugli ulivi centenari, in uno scenario apocalittico che un anziano descrive come il «giudizio universale».

I pochi che hanno risorse economiche provano a scavare un pozzo profondo almeno cento metri ma non è detto che si trovi la falda. Per questo si affidano ancora ai poteri divinatori del moul Al ouidet (letteralmente «il padrone delle bacchette di legno»), il rabdomante.

Qualcun altro presagisce il ritorno delle piaghe d’Egitto e sette anni di carestia.

In effetti i segni ci sarebbero tutti, visto anche il terremoto devastante, il più forte della storia del Paese, che nel settembre dello scorso anno ha colpito la provincia di Al Haouz e il suo capoluogo Marrakech, provocando almeno 2.900 morti (il bilancio non è ancora definitivo).

La zona dell’epicentro, svantaggiata dal punto di vista geografico ed economico, era nota per ospitare siti con una forte connotazione culturale e spirituale, come Tinmel, antica capitale della dinastia amazigh (berbera) degli Almohadi, e il mausoleo di Moulay Ibrahim, un santo locale.

A Tinmel, oltre al villaggio, è stata distrutta anche la moschea risalente all’XI secolo e appena ristrutturata, mentre il santuario, meta di pellegrinaggio e luogo di ricovero per persone con disturbi psichiatrici, è stato gravemente danneggiato.

Due testimoni di Ijoukak, uno dei villaggi lungo la strada R203, tornata solo da poco percorribile, raccontano: «Il terremoto è venuto a darci la caccia», paragonando il boato che ha preceduto la prima scossa al rumore sordo provocato dagli spari dei cacciatori.

Malgrado la perdita di familiari, compaesani e di tutti i propri beni, malgrado i contributi ricevuti siano modesti (le indennità statali ammontano a 14mila euro per chi ha perso la casa e a 4mila euro per chi ha subito danni, più 250 euro mensili per un anno elargiti, secondo alcuni testimoni, in modo casuale), questa gente di montagna, in tende adibite anche a scuole e moschee (solo alcuni villaggi hanno ricevuto container), resiste grazie a una fede incrollabile e alla solidarietà dei cittadini accorsi da ogni angolo del Paese.

C’è anche chi grida al miracolo. Uicha («piccola Aïcha») è uscita illesa dal crollo del mausoleo di Moulay Ibrahim; la bottega di Baha, lo speziale, è rimasta intatta. Si dice che a Tajghaout si sia salvato solo l’imam.

Inoltre, il sisma ha innescato un fenomeno geologico straordinario: con la frattura e lo spostamento delle rocce, le acque sotterranee hanno trovato nuovi spazi per fluire e salire in superficie e così in diversi luoghi, compreso l’epicentro, Ighil, dalle montagne anch’esse asciutte per l’assenza di pioggia e neve, sono sgorgate sorgenti d’acqua pura che gli abitanti hanno interpretato come una benedizione.

Tendopoli allestita dalla Protezione civile nel pressi di Ighil, epicentro del sisma. Foto Silvia Zaccaria.

Calamità presenti e future

Il presente è grigio: scarsità d’acqua, post terremoto da gestire, aumento dei prezzi, sistema sanitario e scolastico a pezzi (da settembre è in corso uno sciopero dei maestri a contratto), disoccupazione, soprattutto giovanile (15-24 anni), ai massimi storici (38,25% nelle zone rurali e 49,7% in quelle urbane). E il futuro all’orizzonte è ancora più fosco: lunghi periodi di siccità e conseguente avanzata della desertificazione. Per questo non sorprende che la gente comune paragoni le calamità, naturali e non, che stanno colpendo il Paese a quelle bibliche. Ma è l’ultima delle piaghe d’Egitto, la morte dei primogeniti maschi, quella che più si presta a una lettura attualizzata se messa in relazione con l’esodo dei più giovani che, intraprendendo il viaggio migratorio lungo rotte sempre più pericolose, accettano implicitamente il rischio di morire.

D’altronde un detto popolare recita «il pane brucia» (kkubz hār in darija) e per guadagnarselo bisogna soffrire, mettendo anche a repentaglio la vita.

I giovani in fuga, una scelta obbligata

Nei villaggi non si parla di altro. Della pioggia che non arriva, delle preghiere nelle moschee per invocarla, e dei giovani che vanno via. Solo Ouled Kichou, villaggio con una popolazione stimata di duemila persone, negli ultimi sei mesi ne sono partiti più di sessanta, tutti tra i ventiquattro e i trent’anni. Un primo gruppo, composto da una quarantina di persone, è arrivato a destinazione (l’Italia). Il secondo, composto da ventiquattro, ha avuto meno fortuna: quattro hanno desistito lungo il viaggio, diciassette sono stati rimpatriati. Tre, avendo in mano dei passaporti falsi, sono bloccati in Turchia.

Scartata la rotta del Mediterraneo orientale (dopo l’intensificazione dei respingimenti in mare da parte della Grecia dal 2019) e quella del Mediterraneo occidentale verso la Spagna, vista l’ulteriore stretta del Marocco nel controllo delle frontiere a seguito della nuova pioggia di finanziamenti europei (500 milioni di euro, stanziati dopo la tragedia – era il 22 giugno 2022 – a Melilla in cui morirono 37 persone), sempre più marocchini tentano – assieme a iracheni, afghani, pachistani, bengalesi, siriani e palestinesi – la rotta balcanica.

Arrivati con l’aereo in Turchia (per i marocchini non c’è l’obbligo di visto), i migranti devono attraversare ben sette frontiere: turco-bulgara, serba, bosniaca, croata e slovena-italiana.

Raggiungere la prima, con la Bulgaria, è la parte più difficile e rischiosa. Quelli più fortunati sono accompagnati in auto a pochi km dal confine anche se poi è difficile superarlo per via della border police che non esita a impiegare armi da fuoco, cani e mazze da baseball e a denudare le persone.

Altri, come il gruppo dei 24 di Ouled Kichou, sono lasciati anche a decine di km di distanza. Devono dunque proseguire a piedi, nei boschi, guidati da un rehber («guida», in turco).

Il rehber – come il ra’ìs, il capitano o «scafista» che guida la barca sulla rotta mediterranea – è un connazionale, spesso coetaneo che, dopo vari tentativi, conosce i punti di controllo e di incontro per essere presi in consegna dal successivo gruppo di trafficanti. Se riuscirà a passare, non dovrà pagare nulla (secondo le testimonianze, il viaggio può costare sino a ottomila euro).

Mentre si attraversa il bosco si può, inoltre, cadere nelle imboscate di banditi curdi che estorcono denaro, anche sotto forma di riscatto.

Due anziani di Ouled Kichou davanti alla macelleria del paese, distrutta e abbandonata. Foto Silvia Zaccaria.

L’odissea di chi fugge

Se si viene intercettati dalla polizia turca, si viene condotti in centri di detenzione amministrativa (sarebbero almeno 30, secondo asylumineurope.org), gestiti dalla Direzione generale per la gestione della migrazione, dove attendono – per un tempo indefinito – il rimpatrio.

I giovani rimpatriati che abbiamo intervistato a Ouled Kichou, sono stati portati nel centro di Kirklareli, al «Pehlivanköy Reception and Removal Centre».

Finanziato nel 2011 all’85% da fondi europei, per accogliere 750 richiedenti asilo, in seguito dell’accordo Turchia-Ue del 2016, esso è stato trasformato in centro per il rimpatrio che ospiterebbe circa 5mila persone. I testimoni lo descrivono come una vera e propria prigione: i cellulari vengono sequestrati, non si può uscire e non possono entrare organizzazioni umanitarie o legali.

«Nel centro – raccontano i giovani – si dorme almeno in otto per stanza. Non ci sono interpreti o mediatori per cui puoi ottenere informazioni sulla tua situazione solo tramite connazionali che stanno lì da tempo. Abbiamo visto anche persone con le gambe in cancrena per il freddo o lacerate dai morsi dei cani o doloranti per i lividi provocati dalle bastonate, non ricevere assistenza medica adeguata. Ci sono anche delle celle sottoterra e ci hanno detto che lì sono detenuti i terroristi».

Uicha, sopravvissuta al crollo del santuario di Moulay Brahim. Foto Silvia Zaccaria.

Il sogno europeo resiste

Per coloro che sono stati rimpatriati, la legge marocchina prevede che non possano lasciare il Paese per cinque anni. I giovani di Ouled Kichou però non vogliono mollare.

Seppur nessuno si sogna di intraprendere una seconda volta il viaggio lungo la rotta balcanica, qualcuno come Y., che di tentativi via terra e via mare ne ha già fatti una decina, sta già pensando ad altre vie di fuga: «Magari la prossima volta prendo un biglietto per il Brasile. Poi nello scalo esco e scappo». Per qualcuno non sono che degli incoscienti, per altri degli eroi.

Per Mohammed, studente di diritto all’università di Marrakech, i giovani nascono già con l’idea di migrare e quindi non sviluppano un senso di appartenenza al Paese, mentre è ancora forte, malgrado i fallimenti o le fatiche delle generazioni precedenti che sono emigrate, l’idea che l’Europa sia un posto pieno di opportunità, e per raggiungerla sono pronti a tutto.

«È anche vero che qui un laureato guadagna non più di 400 euro al mese e che per studiare all’università, o diventare giudice, come sogno di fare io, devi corrompere qualcuno. Quindi, se il Paese non lo puoi cambiare, lo devi solo lasciare. Se le frontiere fossero aperte, qui non rimarrebbero che donne e vecchi».

Silvia Zaccaria

Baha, lo speziale, davanti alla sua erboristeria, a Moulay Brahim. Foto Silvia Zaccaria.

Un uomo prega alla fermata del taxi di Moulay Brahim, con alle sue spalle la moschea distrutta dal terremoto. Foto Silvia Zaccaria.




India. Modi, l’autocrate induista

 

Con 1,4 miliardi di persone l’India è il paese più popoloso al mondo. Un paese in rapida crescita economica e politica, dal 2014 guidato con mano ferma da Narendra Modi. Per la sua abilità a muoversi su fronti opposti, il primo ministro indiano può essere paragonato a Recep Erdoğan. E, come il presidente turco, Modi utilizza la religione – nel suo caso, l’induismo – per consolidare il proprio potere. Il primo ministro ha gioco facile essendo il leader del «Bharatiya janata party» (Bjp), partito della destra nazionalista e induista, che detiene solide maggioranze in entrambe le camere del Parlamento indiano.

Nel paese gli induisti sono circa l’80 per cento del totale, i musulmani il 14 per cento e i cristiani il 2,3 per cento. Da anni i cristiani – circa 30 milioni, concentrati soprattutto nel Kerala e nel Tamil Nadu – sono oggetto costante di violenze e attacchi. Nel maggio 2023, soltanto nello stato di Manipur (India del Nordest) sono state distrutte 249 chiese.

Per i musulmani – che comunque sono circa 200 milioni (la più consistente minoranza religiosa al mondo) – non va meglio. Anzi, le discriminazioni nei loro confronti iniziarono già nel 1947, quando l’Impero britannico divise il subcontinente indiano nell’India (a maggioranza induista) e nel Pakistan (a maggioranza islamica), quest’ultimo nel 1971 scissosi dalla sua parte orientale divenuta Bangladesh (anch’essa islamica).

A fine luglio 2023, ci sono stati gravi incidenti tra induisti e musulmani nello stato di Haryana (India settentrionale). Il risultato è stata la distruzione di circa 1.200 tra case e negozi appartenenti alla minoranza islamica.

La Costituzione indiana parla della libertà di religione negli articoli dal 25 al 28. In particolare, l’articolo 25 afferma: «[…] tutte le persone hanno ugualmente diritto alla libertà di coscienza e al diritto di professare, praticare e diffondere liberamente la religione». Nonostante questo, l’ultimo attacco alla parità sancita dalla carta costituzionale arriva da una norma dello Stato, il «Citizenship amendment act», legge approvata nel dicembre 2019, ma entrata in vigore soltanto in questo mese di marzo. Essa prevede una corsia preferenziale verso la naturalizzazione per indù, parsi, sikh, buddisti, giainisti e cristiani fuggiti in India da Afghanistan, Bangladesh e Pakistan prima del 31 dicembre 2014. La legge esclude i musulmani, che sono maggioranza in tutte e tre le nazioni.

La presidente dell’India è Droupadi Murmu, donna di etnia Santhal. La carica è altisonante, ma il potere effettivo è inconsistente. Il paese è saldamente nelle mani di Narendra Modi che, a partire dal 19 aprile, cercherà di ottenere il suo terzo mandato. Come sempre accade per gli autocrati, il successo è assicurato.

Paolo Moiola




Pakistan. Sotto scacco dei militari

Venerdì 5 gennaio, alla periferia di Islamabad, in pieno giorno, una motocicletta con due uomini dal volto coperto si avvicina a un’auto. Uno degli uomini spara una raffica di proiettili contro la vettura. L’ attacco uccide il passeggero e ferisce gravemente l’autista.

L’uomo deceduto si chiamava Masoodur Rehman Usmani, leader e portavoce del movimento Sunni ulema council (Suc), organizzazione sunnita molto attiva nella politica pachistana. Leader carismatico per i religiosi del suo Paese, terrorista per gli Stati confinanti, Usmani era stato più volte accusato di fomentare l’odio verso l’India. Rivalità, quella tra Pakistan e India, che sembra ben lontana da una soluzione.

Dopo questo ennesimo attentato, e in vista delle elezioni dell’8 febbraio, la tensione in Pakistan cresce giorno dopo giorno. Continui sono gli arresti. Il 13 gennaio, a Peshawar sono stati fermati due sospetti terroristi, mentre pianificavano un attacco suicida contro una scuola sciita. L’opinione comune, largamente condivisa, è che le elezioni non si potranno tenere a febbraio, ma verranno posticipate a data da destinarsi.

La Moschea di Masjid Baadshahi conosciuta anche come la Moschea Imperiale, è uno dei simboli religiosi del Pakistan. (Foto Angelo Calianno)

Adam (nome di fantasia) è un imam della moschea di una piccola comunità alle porte di Islamabad. Mi spiega il perché: «Se ci fossero davvero le elezioni, le strade sarebbero piene di manifesti elettorali e volantini. Ci sarebbero comizi e camion con bandiere ovunque. Non hai idea di quanto chiasso e fermento c’è nel Paese durante questi eventi. Non vedi nulla perché, anche se si dovesse votare, nessuno ha speranza che le cose possano cambiare. Chiunque andrà al potere, sarà sempre sotto il controllo militare, sono loro che comandano. Lo vedi quello che accade: omicidi, rapimenti, attacchi terroristici. Il Paese ha tante risorse, ma vengono tutte controllate dai militari. L’inflazione è altissima e la gente è arrivata al limite della sopportazione».

I principali candidati alle elezioni di febbraio saranno (o dovrebbero essere): Bilawal Bhutto Zardari, esponente del Partito popolare di centrosinistra (Ppp), e Nawaz Sharif, leader del Partito conservatore islamico (Pml-n). Nawas Sharif è stato già primo ministro, per tre volte. Si è ricandidato in Pakistan dopo quattro anni di autoesilio all’estero.

Nessun candidato, però, ha rimpiazzato nel cuore dei pachistani l’ex primo ministro Imran Khan. Il carismatico leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Movimento per la giustizia in Pakistan) dal 2023 si trova in carcere. Kahn è accusato di oltre 150 reati, tra cui quello di corruzione. Crimini da lui sempre negati.

A Lahore, incontriamo un giovane ricercatore universitario. Sostenitore di Kahn, mi racconta: «Non crediamo che possano esserci elezioni regolari. I militari, in diverse forme, sono ovunque: intelligence, polizia, esercito. Non può esserci una democrazia così. Ufficialmente possiamo anche avere un presidente, un primo ministro, un parlamento. Ma sono trent’anni che chi governa davvero il Paese è lo Stato maggiore militare. Controllando le forze armate e la sorveglianza, questi possono fare tutto quello che vogliono e nessuno ha il coraggio di andargli contro. Chi ci prova fa una brutta fine: guarda cosa è successo a Imran Kahn o a chi ha supportato la causa dell’indipendenza del Balocistan: la gente sparisce, senza lasciare traccia».

Il 2023, per il Pakistan, è stato l’anno record dei morti legati a terrorismo e conflitti interni. Un report del The Hindu, testata che monitora la geopolitica in Asia, riporta oltre 1.500 morti e 789 attacchi terroristici negli ultimi 12 mesi.

Nel frattempo, in questi giorni, un’enorme marcia è arrivata a Islamabad da Quetta. Migliaia di persone hanno camminato dal Balocistan, per protestare contro il governo per le violenze e le sparizioni, avvenute nella regione ai confini con l’Afghanistan. Oltre a quest’ultimo caso, lo Stato dovrà affrontare il problema di migliaia di profughi afghani che arrivano qui ogni giorno, il malcontento generale per l’economia in crisi e la presenza del terrorismo. Con questi presupposti, pochissimi credono nella possibilità di elezioni regolari e in sicurezza.

A Islamabad, sono lunghissime le file di persone fuori dalle ambasciate straniere. L’obiettivo di tantissimi, e unica soluzione per il loro futuro, sembra soltanto quella di cercare asilo in un altro Paese.

Angelo Calianno da Islamabad

 




Cisgiordania, vita e morte nei campi profughi

Tulkarem (Cisgiordania) – Sabato scorso, 25 novembre, nel campo profughi adiacente la città di Tulkarem, sono stati giustiziati due uomini palestinesi. L’accusa era quella di aver collaborato con l’Idf (Israeli defence force).

Mappa della Palestina con Gaza (retta da Hamas) e la West Bank o Cisgiordania (retta dall’Autorità nazionale palestinese). In alto. a sinistra, è segnata la città di Tulkarm (Tulkarem), di cui parla questo nostro servizio. (Immagine di World Atlas)

Il campo di Tulkarem è nato nella periferia dell’omonima città nel 1950. Esso è stato allestito dalle Nazioni Unite subito dopo la «Nakba» (la catastrofe, in arabo) del 1948, quando l’occupazione israeliana costrinse all’esodo circa 750mila arabi palestinesi.

Immagine della «Nakba», l’esodo palestinese del 1948. (Foto Eldan David/Pressebüro der Regierung Israels/picture alliance /dpa)

Oggi qui vivono diecimila persone. Da sempre, ma soprattutto dall’arrivo delle colonie nel 1967, i campi profughi sono i più attaccati dalle forze israeliane. I movimenti di resistenza all’occupazione e le brigate armate nascono quasi sempre in questo contesto.

Quello di Tulkarem in particolare è stato uno dei più colpiti di tutta la Cisgiordania tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023. Un gruppo di giovani, a volte giovanissimi, si è armato formando una propria squadra di combattenti che, con il passare dei mesi, è diventato sempre più grande: la brigata Tulkarem.

A differenza di quello che accade in altri campi, per esempio a Jenin, dove i «fighters» sono braccia armate di partiti politici (come le brigate Aqsa per il partito di Al-Fatah), la brigata Tulkarem è indipendente e non segue alcuna ideologia. In questo caso, essa è nata esclusivamente a difesa della città e del campo e per questo non sposta mai il suo raggio d’azione.

I simboli di Al-Fatah e di Hamas, fazioni palestinesi contrapposte.

Qui, soprattutto a partire da marzo 2023, la resistenza ha pian piano respinto le truppe israeliane che hanno smesso di entrare nel centro abitato, limitandosi ad attacchi con droni e artiglieria. Questo almeno fino a settembre, quando, i soldati dell’Idf sono tornati a fare irruzione con più regolarità. I raid, in città, così come in tutta la Cisgiordania, sono poi diventati operazioni quasi giornaliere dopo l’offensiva di Hamas del 7 ottobre.

Hamas-Iran: il leader di Hamas, Ismail Haniyeh (al centro), con l’ayatollah Ali Khamenei, leader supremo della Repubblica islamica dell’Iran, a Teheran, lo scorso 21 giugno 2023.

Almeno secondo le prime notizie trapelate, i due uomini giustiziati sono stati accusati di aver facilitato queste nuove ondate di raid, fornendo ai servizi segreti israeliani preziose informazioni logistiche. Sono stati ritenuti responsabili di tradimento e accusati di aver causato la morte di tredici palestinesi all’interno del campo.

Bandiera d’Israele. (Foto Taylor Brandon-Unsplash)

I network locali si sono divisi sul metodo di esecuzione. I media israeliani hanno parlato di morte tramite impiccagione eseguita da Hamas. Secondo un’altra versione, i due uomini sarebbero stati uccisi e in seguito appesi alle porte della città come monito. Nella mattinata successiva sono arrivate notizie più precise: Hamas non è stato mai coinvolto in questa operazione. Al momento, non ci sono prove e video che mostrano i corpi esposti. L’unica cosa certa è che i due uomini accusati di tradimento sono stati fucilati e, in seguito, portati in giro per la città per mostrarne il volto. Le autorità palestinesi non si sono espresse sull’accaduto.

Con il passare del tempo, i gruppi armati stanno proliferando e reclutando sempre più giovani nelle proprie file. Per molti, vista la totale assenza delle autorità governative, questi gruppi sono l’unica forza di resistenza riconosciuta. Terroristi per Israele, liberatori per il popolo palestinese, i combattenti spesso ingaggiano battaglie anche contro la stessa Autorità nazionale palestinese (Anp), accusata di collaborare più con Israele invece che essere dalla parte del proprio popolo.

Angelo Calianno, da Ramallah

 




Cristiani e musulmani: una parola comune


A partire dal documento firmato nel febbraio 2019 da papa Francesco e dal grande imam Ahmad Al-Tayyeb, un libro che segue le recenti tappe del dialogo tra le due più diffuse religioni al mondo, ricco di sfide difficili, ma belle.

Anche nel nostro tempo segnato da secolarizzazione e pluralismo, le religioni hanno un ruolo importante per la costruzione di un rapporto pacifico tra le culture.

Un segno di questo è la rilevanza assunta dal Documento di Abu Dhabi, poche pagine firmate da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb, grande imam di Al-Azhar, il 4 febbraio 2019, nell’ottavo centenario dell’incontro di san Francesco d’Assisi con il sultano d’Egitto.

Ne parlano nel loro volume: Per una fratellanza umana. Cristiani e musulmani uniti nella diversità, edito da Paoline nel 2021, Paolo Branca, docente di lingua e letteratura araba, e Antonio Cuciniello, assegnista di ricerca in studi islamici, entrambi presso l’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano.

I due autori rileggono quel documento sotto il profilo dei rapporti tra la Chiesa cattolica e i musulmani, e lo inquadrano nel percorso compiuto negli ultimi decenni, indicandone gli orientamenti di fondo: il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità, la sincerità delle intenzioni (papa Francesco); il «proclamare con chiarezza ciò che abbiamo in comune» (Benedetto XVI); infine i quattro livelli della solidarietà spirituale enucleati da padre Maurice Borrmans, islamista francese e missionario dei Padri Bianchi: il dialogo dei cuori; il dialogo della vita; il dialogo audace su Dio e sull’uomo; il coraggioso dialogo del silenzio, in cui Dio parla al cuore di ciascuno.

Gli autori Barca e Cuciniello ripercorrono, quindi, alcune delle tappe del dialogo islamocristiano che hanno fatto maturare il Documento di Abu Dhabi.

Scrivono della Lettera aperta a sua santità papa Benedetto XVI inviatagli da trentotto sapienti musulmani nel 2006 dopo il suo famoso discorso di Ratisbona (per il quale il trascendentalismo islamico separava fede e ragione). In essa ribadivano che «l’unità di Dio, la necessità di amarlo e la necessità di amare il prossimo sono il terreno comune tra islam e cristianesimo», ricordando che Corano 16,125 invita i musulmani al dialogo con ebrei e cristiani.

I due studiosi della Cattolica ricordano poi la lettera indirizzata nel 2007 da 138 esponenti musulmani a capi religiosi cristiani, intitolata Una parola comune tra noi e voi, citazione del Corano 3,64: «Veniamo a una parola comune tra noi e voi». In essa si sostiene che le differenze tra le religioni non devono provocare odio e conflitto, ma il «gareggiare nelle opere buone» (Corano 5,48).

Nel 2016, trecento personalità musulmane da centoventi paesi, nella Dichiarazione di Marrakech sui diritti delle minoranze religiose nei paesi a maggioranza musulmana, auspicavano una «giurisprudenza della cittadinanza» come base comune per superare le discriminazioni religiose.

Infine, nel Documento di Abu Dhabi, breve e semplice, cristiani e musulmani hanno indicato insieme i valori che li accomunano e che appartengono anche all’etica laica delle dichiarazioni moderne dei diritti.

La fratellanza umana, in tutte le spiritualità, sostiene la dignità di poveri, deboli, vittime.

«In nome di Dio», musulmani e cristiani riconoscono questa fraternità e la cultura del dialogo.

Il pluralismo religioso è parte della volontà di Dio. I linguaggi religiosi orientano, più che definire. Il concetto occidentale di laicità è espresso col termine arabo che significa «civile», né militare, né confessionale.

In particolare, «Dio ha proibito di uccidere, perché chiunque uccide una persona è come se uccidesse tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se salvasse l’umanità intera», detto ebraico, poi islamico, ora anche cristiano, che suggerisce oggi l’illiceità di ogni guerra, incapace di realizzare giustizia.

Nel Documento sono affermati anche i diritti della donna.

Nasce un islam europeo che non è più solo importato. In Italia sono 2,7 milioni i musulmani residenti, tra cittadini italiani e stranieri.

Le giovani donne musulmane a scuola studiano più degli uomini, rispettano i genitori, ma non si riconoscono nel modello materno: cercano un compagno di vita da pari a pari. Se mettono il velo, lo fanno per scelta.

Nello stesso 2019, la dichiarazione, Una fratellanza per la conoscenza e la cooperazione, delle maggiori rappresentanze musulmane di Italia e Francia, ha aderito al Documento di Abu Dhabi e ha istituito, in scuole e università, consigli culturali per un patto educativo globale interreligioso.

Enrico Peyretti

Per approfondire

 

 

 

 

 

 

 

  • Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale. Guida alla lettura di Giacomo Costa, Elledici 2021.
  • Teologia del pluralismo religioso, Pazzini Editore 2013.
  • Il Corano. A cura di Layla Mustapha Ammar. Introduzione, traduzione e commento di Alessandro Bausani, BUR, 2006.
  • Cristianesimo e Islam in dialogo, Claudiana 2004.
  • Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi 2003.
  • Storie italiane di buona convivenza, EDB 2004.
  • Vite e detti di santi musulmani, TEA 1988.
  • Detti e fatti del profeta dell’Islām, Utet 2009.
  • Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 2004.
  • Per un consenso etico tra culture, Marietti 1995.

 

 

 

 

 

 

 


Librarsi per la pace

Inizia con questo numero una nuova collaborazione tra Missioni Consolata e il Centro studi Sereno Regis. In un tempo di generale «chiamata alle armi», sentiamo il bisogno di tutti i contributi possibili per far crescere la cultura della pace.

I l Centro studi Sereno Regis (Cssr) è uno spazio culturale nato a Torino nel 1982 dall’iniziativa di alcune persone impegnate nei campi della pace, nonviolenza, obiezione di coscienza, disarmo, ma anche dell’ambiente, educazione e partecipazione dal basso (ad esempio con il sostegno al sorgere dei comitati di quartiere).

È oggi uno dei più importanti e riconosciuti centri italiani di documentazione e promozione della cultura della nonviolenza e della trasformazione nonviolenta dei conflitti con un patrimonio archivistico unico nel suo genere.

La «mission»

La mission del Cssr si declina in tre ambiti trasversali: ricerca, formazione e azione, e prevede un forte investimento nella condivisione del suo patrimonio archivistico e dei suoi studi, attraverso un programma di attività mirate a intensificare la relazione con il territorio e al coinvolgimento di ampi settori della società con un approccio libero, inclusivo e cooperativo.

La programmazione culturale, che si fonda sull’utilizzo di discipline diverse in dialogo tra loro (tra cui, ad esempio, le arti e il cinema, oltre alle iniziative educative, alle analisi offerte in convegni, e così via), è indirizzata all’approfondimento, alla discussione, al confronto sui temi cardine dell’ambiente, della pace, del dialogo, della partecipazione democratica.

Domenico Sereno Regis

Il Centro studi prende il nome da uno dei suoi fondatori, scomparso prematuramente nel 1984, Domenico Sereno Regis, partigiano nonviolento e, tra le altre cose, instancabile animatore dei primi comitati di quartiere nella Torino del dopoguerra. Il tema della partecipazione consapevole e diffusa, infatti, è da sempre una cifra della vita associativa del Centro. Facilitare i processi partecipativi, dare voce a chi non ne ha, accompagnare lo sviluppo di associazioni e movimenti verso il raggiungimento dei loro obiettivi, fa parte delle competenze che negli anni l’associazione ha sviluppato insieme all’approfondimento delle «tecnologie sociali» che permettono a questi processi di raggiungere i propri obiettivi con inclusività ed equità.

Nonviolenza e riconciliazione

Le figure di Domenico Sereno Regis (1921-1984) e di Nanni Salio (1943-2016), quest’ultimo presidente del Centro studi fino alla sua scomparsa, hanno dato le radici culturali e impersonato le motivazioni politiche e filosofiche dell’associazione.

L’ambito socioculturale di riferimento nel quale il Centro studi si riconosce è quello più ampio e complessivo del Movimento internazionale della riconciliazione (Mir) e del Movimento nonviolento (Mn), a livello internazionale rappresentato dall’Ifor (International fellowship of reconciliation, sei premi Nobel per la pace), di cui il Mir è la sezione italiana, e dalla War resisters’ international, di cui è sezione italiana il Movimento nonviolento.

Luca Lorusso e Cssr

MIR E MN

Il Mir (Movimento internazionale della riconciliazione) opera congiuntamente al Mn (Movimento nonviolento).
Sulla base dell’insegnamento dei maestri della nonviolenza (Gandhi, M. L. King e Aldo Capitini) il Mir è impegnato nella contestazione radicale della guerra e della dottrina militare, di un modello di sviluppo piramidale basato sulla rapina di risorse umane e naturali, di una democrazia formale che sancisce di fatto il sopruso del forte sul debole.

Persegue il fine di una società pacificata più che pacifica, dove cioè il conflitto venga risolto in modo nonviolento, ma non negato o rimosso. Per questo è attento alle dinamiche sociali, ai fatti politici locali e internazionali, a quanto si muove dal basso nella direzione di una crescita del «potere di tutti».
Gli strumenti del suo agire, in base al principio gandhiano della connessione tra mezzi e fini, rispondono integralmente ai criteri di verità, gradualità, lealtà verso l’avversario.
Il Mir, pur essendo di matrice religiosa, rispetta e valorizza la tradizione laica. Il Mn, pur essendo di matrice laica, rispetta e valorizza ogni fede religiosa.

Cssr

https://serenoregis.org
https://www.ifor.org
https://www.wri-irg.org