Narendra Modi è stato ridimensionato. Il leader induista con ambizioni di autocrate ha vinto ma non stravinto le elezioni indiane. Salito al potere nel 2014, questo sarà il suo terzo mandato come primo ministro, ma il suo partito, il nazionalista Bharatiya janata party (Bjp), ha ottenuto molti meno seggi del previsto: 240 (63 in meno delle precedenti consultazioni), insufficienti per governare il paese in autonomia. Dovrà farlo in accordo con i partiti dell’Alleanza democratica nazionale di cui il Bjp è parte.
In prospettiva, una buona notizia e non la sola. Ce n’è una di carattere generale: il paese asiatico, il più popoloso del mondo (in luogo della vicina Cina), ha retto l’urto di elezioni extra large (lunghe 44 giorni e con la bellezza di 640 milioni di votanti) dimostrando di essere una democrazia, anche se fragile. La seconda buona notizia è internazionale: l’India ha mostrato al Sud globale (di cui è uno dei leader) che la strada corretta non è quella indicata da Mosca e Pechino.
Viste le tante variabili in gioco, è difficile dire con certezza perché Modi abbia perso per strada molti voti e seggi rispetto al 2019. Probabilmente hanno avuto un peso sia la sua deriva confessionale sia i problemi sociali ed economici di una parte della popolazione indiana.
Per quanto concerne la religione, nei suoi dieci anni di potere Modi ha spinto sempre più per un rafforzamento dell’identità induista (quasi un miliardo di persone) a scapito delle minoranze, in particolare di quella musulmana (200 milioni) e di quella cristiana (30 milioni), spesso fatte oggetto di violenza (con linciaggi e incendi).
Lo scorso gennaio, il primo ministro ha deciso di recarsi a Ayodhya, nello stato dell’Uttar Pradesh, a inaugurare un tempio indù (Ram Mandir, dedicato a Rama, una delle principali divinità dell’induismo) costruito sulle rovine della moschea Babri Masjid, distrutta nel 1992 da fanatici induisti. Inoltre, in una recente intervista televisiva, il leader del Bjp è arrivato ad affermare: «Paramatma (il dio della teologia induista, ndr) mi ha scelto e mi ha mandato per uno scopo». Con ciò cancellando il confine tra stato laico e stato confessionale.
Con riferimento alla condizione socioeconomica degli indiani, i dati sono oggetto di controversia. Secondo i report governativi, la povertà si è infatti ridotta a un modesto 11 per cento con una caduta di ben 18 punti percentuali rispetto al periodo pre Modi (2013-’14). Questo significa che, negli ultimi nove anni, quasi 250 milioni di persone sono usciti dalla povertà (cosiddetta «multidimensionale» perché considera 12 parametri, dal tipo di nutrizione al conto bancario). Per converso, l’India si colloca al 111.esimo posto su un totale di 125 paesi nell’Indice globale della fame (Global hunger index, Ghi) del 2023. Il governo di Nuova Delhi contesta però questa classificazione.
Pur con meno potere, Narendra Modi si appresta a guidare il Paese per altri cinque anni. Di sicuro, l’India rimarrà centrale nel complicato scenario geopolitico del mondo odierno.
Paolo Moiola
Pakistan. La chimera della libertà
I rapimenti e le conversioni forzate di ragazze cristiane e di altre minoranze religiose sono solo la punta dell’iceberg delle violazioni alla libertà religiosa nel Paese asiatico. L’instabilità politica, le leggi anti blasfemia, le formazioni estremiste rendono pericolosa la vita del 4% di popolazione non musulmana.
Huma Younous, Zarvia Pervaiz, Meerab Mohsin, Arzoo Raja. Sono alcune delle ragazze pachistane che in questi anni hanno subito rapimenti, violenze, matrimoni forzati e conversioni all’islam.
Conosciamo i loro nomi perché le loro famiglie hanno avuto il coraggio di denunciare, ma rappresentano solo la punta di un iceberg. Il fenomeno delle ragazze rapite in Pakistan a causa della loro fede è una piaga enorme della quale non si conosce precisamente la dimensione.
Si tratta di giovani cristiane in un Paese in cui il 96 per cento della popolazione è musulmana. A finire in questa spirale di violenze, però, ci sono giovani anche delle altre minoranze religiose.
Una tragedia inascoltata
Secondo un rapporto del Center for social justice (Csj), Ong guidata dal cattolico pachistano Peter Jacob, nel 2021 si sono verificati 78 casi di donne e ragazze (cristiane e indù) rapite, convertite con la forza e sposate da uomini musulmani. Il 76 per cento di queste erano minorenni.
Il numero di casi registrati nel 2021, afferma il Csj, è aumentato dell’80 per cento rispetto all’anno 2020. Ma le famiglie che, per mancanza di soldi o coraggio, vivono nel silenzio questa situazione sono molto più numerose di quelle registrate.
Una tragedia che spesso si consuma nell’indifferenza della comunità internazionale.
C’è voluto il docufilm The losing side, presentato al Festival di Cannes 2022 e vincitore di un premio nella categoria Best human rights film, per fare conoscere al grande pubblico questo dramma.
Protezione legale
A sostenere da anni i diritti di alcune di queste giovani c’è una coraggiosa avvocata cattolica, Tabassum Yousaf. Lei stessa in passato ha ricevuto minacce e ora è schierata per la difesa dei diritti delle minoranze. «Fornisco assistenza legale alle nostre donne vulnerabili e alle ragazze minorenni che sono state vittime di abusi sessuali, discriminazioni, conversioni e matrimoni forzati», cioè soggetti non adeguatamente tutelati «a causa delle lacune nella legge».
Il Pakistan, spiega l’avvocata che porta avanti progetti sui diritti umani anche con la diocesi di Karachi, è «firmatario di trattati internazionali» per cui «abbiamo fatto leggi, ed emendamenti alle leggi, per dare protezione alle minoranze, alle donne e ai bambini», ma, nonostante ciò, «molti di questi provvedimenti sono rimasti sulla carta».
Le minoranze
Se il fenomeno dei rapimenti e delle conversioni forzate delle giovani donne è tra le questioni più gravi, complessivamente in Pakistan si registrano violazioni della libertà di fede tra le maggiori nel mondo.
La popolazione è quasi interamente musulmana, composta principalmente da sunniti (circa l’85 per cento della popolazione) mentre gli sciiti rappresentano il 10 per cento. Le minoranze religiose, prevalentemente cristiane, indù e ahmadi, più alcuni baha’í, sikh, parsi e una comunità ebraica, sono in calo. Tutte le minoranze messe insieme costituiscono complessivamente tra il 3,6 e il 4 per cento della popolazione. Tutte subiscono discriminazioni, quando non vere e proprie persecuzioni.
La comunità ebraica è praticamente in via di estinzione: secondo le statistiche ufficiali conterebbe tra le 2.000 e le 2.500 persone, ma fonti della stessa comunità ritengono che nel Paese ne siano rimaste circa ottocento, sugli oltre 200 milioni di abitanti complessivi.
Per quanto riguarda la persecuzione relativa alla minoranza cristiana, il Pakistan, nella World watch list della ong Open doors, è collocato al settimo posto nel mondo, ovvero tra i Paesi dove meno è rispettata la libertà di fede (dopo Corea del Nord, Somalia, Yemen, Eritrea, Libia e Nigeria).
Le leggi sulla blasfemia
Lo status delle minoranze religiose è ulteriormente influenzato dalle cosiddette «leggi sulla blasfemia», introdotte nel Paese dal generale Zia-ul-Haq tra il 1982 e il 1986. Non si tratta propriamente di leggi, ma di emendamenti al codice penale pachistano che, di fatto, limitano la libertà di religione e di espressione. I reati punibili includono la «profanazione» del Corano e le offese al profeta Maometto, che comportano rispettivamente come pena massima l’ergastolo e la condanna a morte.
Nonostante i richiami, a dire il vero timidi, della comunità internazionale affinché venga abolita questa normativa, essa, dall’inizio del 2023, ha invece visto un’ulteriore stretta.
Se prima veniva condannato chi era accusato di avere insultato il Corano o il profeta Maometto, «ora può essere applicata anche per sanzionare chiunque è accusato di avere insultato persone legate al Profeta. Il giro di vite è stato disposto dal Parlamento per inasprire le già rigide leggi nazionali», denuncia la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs).
Quanti vengono accusati di avere «insultato» mogli, compagni o parenti del profeta Maometto rischiano, dall’inizio del 2023, 10 anni di carcere, pena che può essere estesa all’ergastolo, oltre a una multa di un milione di rupie.
L’accusa di blasfemia diventa inoltre un reato per il quale non è possibile la cauzione.
L’inasprimento delle pene scaturisce da un disegno di legge presentato da Abdul Akbar Chitrali, parlamentare appartenente a un partito politico religioso.
«L’approvazione del disegno di legge rappresenta un segnale estremamente preoccupante», commenta Alessandro Monteduro, direttore di Acs Italia. «La normativa finora ha di fatto favorito la persecuzione ai danni delle minoranze religiose, a cominciare da quelle cristiana e induista. Ora la situazione inevitabilmente peggiorerà», aggiunge Monteduro. «Spesso i cristiani vengono accusati strumentalmente di blasfemia da soggetti che vogliono semplicemente perseguire interessi privati. Il risultato è che gli accusati o vengono arrestati o diventano preda della reazione violenta delle folle.
La normativa anti blasfemia viene usata anche come arma contro gli avversari politici e il suo inasprimento creerà maggiori opportunità per un suo uso improprio. Così le minoranze religiose, a cominciare da quella cristiana, sono ancora più minacciate».
Il caso di Asia Bibi
Il caso più noto, rispetto all’uso di questa legge sulla blasfemia, è quello di Asia Bibi. Per lei, che ha subito dieci anni di carcere duro per essere stata accusata ingiustamente di blasfemia, e che ha rischiato fino all’ultimo momento la pena di morte, c’è stata una mobilitazione internazionale che ha visto in prima linea l’Italia e la Francia.
Il 31 ottobre del 2018 è stata scagionata dalla Corte suprema del Pakistan, ma la donna e la sua famiglia hanno comunque dovuto lasciare il loro Paese per le minacce degli islamisti. Ora vivono in Canada.
«In Pakistan ci sono ancora troppe “Asia Bibi”, nelle prigioni», fa presente Shahid Mobeen, fondatore dell’associazione Pakistani cristiani in Italia e docente di Filosofia presso la Pontificia università urbaniana.
Mobeen contesta il fatto che, in questi anni, quando si è parlato delle minoranze religiose, in Pakistan si è fatto riferimento al «modello della Carta di Medina dei tempi di Maometto» che stabiliva diritti per gli immigrati di altre religioni. «La protezione ben venga ma noi non siamo immigrati sul territorio – sottolinea Shahid Mobeen -, noi abbiamo fondato il Pakistan insieme a Mohammad Ali Jinnah e siamo figli di quella terra. Come cristiani siamo presenti in quel territorio prima ancora che arrivasse l’islam e quindi chiediamo di essere trattati con uguali diritti, con pari dignità e pari opportunità nell’istruzione e nel lavoro perché vogliamo contribuire alla crescita e allo sviluppo del Paese».
Anche nei casi in cui non ci siano veri e propri atti persecutori, i cristiani e gli altri appartenenti a fedi diverse dall’islam sono comunque discriminati nella quotidianità, dall’accesso al lavoro agli aiuti. Nei mesi del Covid sono stati diversi gli appelli alla comunità internazionale affinché venisse condannata anche la discriminazione sanitaria.
I fedeli non appartenenti alla grande comunità musulmana sono a lungo rimasti privi dei dispositivi di protezione o comunque delle condizioni minime che potevano evitare il contagio da coronavirus.
Ahmadi: musulmani, anzi no
In questa situazione nella quale la libertà di fede in Pakistan risulta essere una chimera, c’è il caso particolare degli ahmadi, comunità nata nel 1898 a Qadian, in India, nel periodo in cui vigeva il potere britannico. Il suo fondatore è Mirza Ghulam Ahmad Ahmad.
Alcuni articoli del codice penale pachistano, promulgati nel 1984, hanno reso un reato penale per gli ahmadi definirsi musulmani o chiamare la propria fede islam.
«Dal punto di vista del culto siamo uguali agli altri musulmani: preghiamo cinque volte al giorno, consideriamo Maometto come profeta, abbiamo il Corano come libro sacro. Il ruolo del nostro fondatore non era di dare vita a una nuova religione, bensì di riformare quella del suo tempo», spiegava Ataul Wasih Tariq, imam della comunità ahmadi in Italia nell’ambito di un incontro interreligioso in Vaticano con papa Francesco il 5 settembre del 2022.
Secondo Omar Waraich, responsabile del Dipartimento dell’Asia del Sud di Amnesty international, «ci sono poche comunità in Pakistan che hanno sofferto tanto quanto gli ahmadi».
«Alcune fonti – afferma Aiuto alla Chiesa che soffre nel Rapporto 2020 sulla libertà religiosa nel mondo – riportano che tra il 1984 e il 2019, 262 ahmadi sono stati uccisi a causa della loro fede, 388 hanno subito violenze e 29 moschee ahmadi sono state distrutte. Per legge gli ahmadi non possono avere moschee proprie, né chiamare alla preghiera e, per poter votare, devono essere necessariamente classificati come non musulmani o aderire a una delle correnti principali dell’islam».
Le tensioni politiche, nuovi rischi per i cristiani
Il Pakistan non ha mai goduto di grande stabilità politica e questo ha consentito negli anni la crescita di formazioni estremiste.
I ripetuti attentati nei luoghi di culto e nei quartieri delle minoranze, compresa quella dei musulmani sciiti, non hanno trovato mai una risposta decisa da parte del governo.
Da aprile 2022, con il cambio della guardia, dal governo di Imran Khan a quello del suo principale avversario Shahbaz Sharif, l’instabilità è aumentata. Le sanguinose manifestazioni, sia pro che contro l’ex premier, accusato anche di corruzione, mostrano che la nuova leadership politica è tutt’altro che salda.
L’11 agosto scorso, poi, Sharif ha sciolto l’Assemblea nazionale al termine della legislatura. Il presidente Arif Alvi, al posto di Sharif, ha nominato primo ministro provvisorio Anwaar-ul-haq Kakar per guidare il Pakistan verso le elezioni nazionali.
Il Paese, tra l’altro, ha vissuto in questi ultimi anni anche rovinose alluvioni causate dai cambiamenti climatici.
Per quanto riguarda le minoranze religiose e, in particolare, i cristiani, questa situazione di incertezza «non aiuta di certo», afferma la ong Open doors. «Negli ultimi anni, con il premier Imran, la radice e i danni del passato sono rimasti intatti, anzi, una certa “narrazione estremista” ha continuato ad essere perpetuata e a far breccia nella popolazione a vari livelli. Quell’estremismo strisciante, spesso sfociato in attacchi alle comunità cristiane oltre [che in] minacce a chiunque difendesse cause [contro le] violazioni dei diritti umani […], non è sparito e purtroppo in momenti di instabilità politica come questo – sottolinea ancora Open doors -, rischia di aumentare la propria influenza».
Presto un giovane santo?
La persecuzione religiosa è talmente radicata in Pakistan che i cristiani di fatto vivono in una perenne trincea. Nella capitale Karachi, la maggior parte dei cristiani vive nel quartiere Essa Nagri (tradotto dall’urdu «il quartiere di Cristo»), dove vivono ammassati e, in qualche modo, trincerati innalzando muri di protezione per sentirsi più sicuri.
Essa Nagri è un quartiere dove le fogne sono a cielo aperto, i collegamenti elettrici precari e anche la sicurezza non è sempre garantita. Nel 2016 qui sono stati uccisi cinque ragazzi cristiani dai fondamentalisti islamici.
Nella città di Lahore, nel nord del Paese, il quartiere cristiano è invece quello di Youhanabad. Qui vivono circa 130mila cristiani tra cattolici e membri di altre confessioni. Nel quartiere si trovano due chiese, la Saint John, cattolica, e la Christ church, protestante, entrambe attaccate in due attentati contemporanei il 15 marzo del 2015.
In quell’attentato persero la vita molte persone tra le quali il giovane cattolico Akash Bashir, proclamato Servo di Dio (il primo nella storia della Chiesa del Pakistan) il 31 gennaio del 2022, festa di San Giovanni Bosco.
Akash Bashir, nato il 22 giugno 1994 a Risalpur, nella provincia pachistana di Nowshera Khyber Pakhtun Khwa, era uno studente del Don Bosco technical institute di Lahore, ed era tra i giovani attivi nella comunità parrocchiale.
Akash era in servizio al cancello d’ingresso della chiesa, quel 15 marzo del 2015, quando notò un uomo che voleva entrare con una cintura esplosiva sul corpo.
Il giovane ha abbracciato l’uomo, bloccandolo e tenendolo fermo al cancello d’ingresso, facendo sì che il piano del terrorista, quello di fare una strage all’interno della chiesa, fallisse.
L’attentatore si è allora fatto esplodere uccidendo se stesso e il giovane Akash.
Nel 2019, durante un nostro viaggio in Pakistan per documentare la situazione dei cristiani, abbiamo incontrato a Lahore Emmanuel Bashir e Naz Bano, il padre e la madre del giovane. «È morto per salvare la vita degli altri, è un martire della Chiesa e noi ne siamo orgogliosi perché questo è testimoniare il Vangelo», ci hanno detto, auspicando che il Papa potesse riconoscere il loro Akash martire e santo, anche per dare coraggio alla martoriata comunità cristiana locale.
Manuela Tulli
Julius Robert Oppenheimer. Anche i fisici hanno conosciuto il peccato
Direttore del «Progetto Manhattan», fu uno dei padri della bomba atomica. Mente geniale e controversa, cercò nei testi sanscriti della «Bhagavad Gita» risposte ai suoi interrogativi etici. Tuttavia, il fisico statunitense tenne sempre separato il ruolo della scienziata da quello del politico che della bomba decide l’utilizzo.
G ià prima della sua uscita (21 luglio 2023), il film Oppenheimer del regista inglese Christopher Nolan ha incuriosito non soltanto il mondo dello spettacolo ma anche quello della scienza. Descrivere una figura così problematica e discussa come il fisico statunitense di origini ebree non è facile, specialmente quando si deve condensare la sua vita in poco più di due ore.
La «Bhagavad Gita»
Dopo il 6 e il 9 agosto 1945, quando le due bombe nucleari furono lanciate su Hiroshima e Nagasaki, Julius Robert Oppenheimer (1904-1967), mente tanto geniale quanto incostante e per molti versi ambigua, fu sempre travagliato da rimorsi e domande etiche sulla sua responsabilità nel «Progetto Manhattan» (riquadro a pag. 17).
Uno degli aspetti forse meno dibattuti nel tentativo di capire questo tormento morale è il rapporto che ebbe con un libro a lui particolarmente caro: la Bhagavad Gita («Canto del Divino»), il poema epico sanscrito che, sin dagli anni Trenta, lo aveva aiutato a trovare risposte alle sue domande esistenziali.
Intendiamoci, Oppenheimer non era una persona religiosa. Infatti, fu sempre attento a non farsi coinvolgere dalla comunità ebraica, non professò mai alcun tipo di fede, ma il testo indiano -assieme ad altri, come l’Amleto, la Divina Commedia, o i libri della scrittrice neozelandese Katherine Mansfield – segnò profondamente parte della sua vita.
Dopo un primo superficiale approccio con la Gita nel 1931, Robert Oppenheimer iniziò a studiarla in modo analitico a partire dal 1933 con Arthur W. Ryder (1877-1938), professore di sanscrito all’Università della California di Berkeley, dove Robert insegnava fisica teorica.
«Ryder – ha scritto William Leonard Lawrence (l’unico giornalista a cui fu consentito di seguire il «Progetto Manhattan», ndr) – sentiva, pensava e parlava come uno stoico… una sottoclasse speciale delle persone che hanno un senso tragico della vita, in quanto attribuiscono alle azioni umane un ruolo decisivo nella differenza tra salvezza e dannazione. Ryder riteneva che un uomo poteva commettere un errore irreparabile e che, di fronte a questo fatto, tutti gli altri erano secondari. Aspramente intollerante verso la pigrizia, la stupidità e l’inganno, Ryder pensava che “Ogni uomo che fa bene una cosa difficile è automaticamente rispettabile e degno di rispetto”».
Forse queste parole furono di parziale conforto per il fisico quando, dopo il 1945, iniziò ad avere dei rimorsi di coscienza per aver dato il suo decisivo contributo allo sviluppo della bomba nucleare.
Con Ryder, Oppenheimer iniziò a leggere la Bhagavad Gita in versione originale trovandola, oltre che «molto facile e meravigliosa», anche «la più bella canzone filosofica esistente in ogni lingua conosciuta». Da allora ne tenne sempre una copia a portata di mano vicino alla sua scrivania e spesso ne regalava una ai suoi amici.
I dilemmi del principe Arjuna
Il racconto indiano inizia con il principe Arjuna impegnato in una battaglia sul suo carro. Vedendo che, nelle file avversarie, militavano parenti, familiari e amici, decise di rifiutarsi di combattere, chiedendo nel contempo consiglio al suo amico e confidente, il cocchiere Krishna, avatar1 di Vishnu.
I successivi capitoli vedono dipanarsi le argomentazioni di Krishna che cerca di convincere Arjuna a non sottrarsi al combattimento perché, essendo un soldato, è suo dovere entrare in battaglia. Inoltre, non sarà Arjuna con il suo arco a determinare chi deve vivere o morire, ma Krishna stesso, in quanto manifestazione di un dio. La morte è solo apparente, perché l’anima continua a sopravvivere e, anche se le frecce del guerriero porranno fine alla vita terrena del corpo dei nemici, la loro anima vivrà in eterno. È la devozione di Arjuna verso Krishna che lo salva dalle sue azioni peccaminose.
Alla fine, il principe Arjuna chiede a Krishna di manifestarsi nella sua forma divina. Questi lo avverte che «con i tuoi occhi non sei in grado di vedermi in questa Forma universale. Ti darò allora degli occhi divini: ora contempla pure la mia Divina Potenza» (Bhagavad Gita, Capitolo 11, verso 8)2.
È in questo contesto che è contenuta la frase che Oppenheimer citò il 16 luglio 1945 durante il primo test nucleare ad Alamogordo, nel Nuovo Messico. Usò la traduzione fatta da Ryder che, per alcuni versi, non coincide con le traduzioni tradizionali.
La prima si riferisce allo sbigottimento di Arjuna di fronte alla manifestazione divina di Krishna: «Se la luce di mille soli si levasse simultaneamente nel cielo, essa sarebbe simile all’effulgenza di questo Supremo Signore» (Bhagavad Gita, Capitolo 11, verso 12).
Lo stesso avatar spiega, alla fine, il motivo per cui lui si è incarnato nel mondo degli uomini proferendo la seconda frase poi passata alla storia come quella espressa dal capo del Progetto Manhattan subito dopo l’esplosione nucleare: «Io sono il tempo che quando giunge a maturazione distrugge l’universo. Qui mi vedi impegnato ad annientare queste stirpi umane. Anche senza di te, tutti questi guerrieri schierati su fronti opposti non sopravvivranno» (Bhagavad Gita, Capitolo 11, verso 32).
I versi ricordati da Oppenheimer furono poi riproposti per la prima volta da William Leonard Laurence che affermò di aver sentito la frase dallo stesso fisico a Los Alamos, dove era rientrato poche ore dopo il Trinity Test.
L’intera storia venne in seguito descritta nel libro dell’austriaco Robert Jungk3.
Secondo questo autore, la prima frase che Oppenheimer pronunciò appena vide il Trinity Test fu un’altra: «Se la luce di mille soli erompesse d’un tratto nel cielo nello stesso momento, essa sarebbe pari allo splendore del Magnifico». Solo in seguito, quando in distanza la nube si levò, pronunciò la frase più celebre: «Sono diventato la Morte, il distruttore dei mondi».
La maggior parte delle traduzioni del libro induista interpretano la parola kālaḥ (कालं) come «tempo», mentre Arthur W. Ryder, nella sua edizione del 1929, probabilmente quella da cui Oppenheimer aveva studiato e, successivamente, ne aveva tratto la citazione, la rende come «Morte».
Oppenheimer potrebbe essersi identificato con Arjuna, con tutti i suoi dubbi e le incertezze sulla moralità di partecipare o meno ad una battaglia che lo avrebbe costretto a uccidere non solo i suoi stessi amici, ma anche i familiari. In quanto soldato, Arjuna aveva un compito ben preciso da compiere, esattamente come il fisico Oppenheimer.
Avrebbe potuto trovare le stesse giustificazioni in altri pensatori occidentali (pensiamo, ad esempio, a Dietrich Bonhoeffer secondo il quale, a volte, per combattere il male maggiore era necessario compiere un male minore), ma per il fisico statunitense era più facile trovare una redenzione in un testo orientale (pur sapendo che l’Oriente indiano non era certo simile a quello giapponese) piuttosto che in un testo della sua cultura di provenienza.
Scienziati e politici
Secondo Oppenhemeir, gli scienziati avevano il dovere di scoprire i segreti dell’universo e – nel suo caso – del nucleo atomico e su come realizzare la bomba, mentre era dovere della classe politica e diplomatica decidere che uso farne.
Questa distinzione di ruoli fu sempre posta in evidenza da Oppenheimer in ogni suo intervento pubblico. Nel 1946, mentre era direttore della Comitato di consulenza (General advisory committee) della Commissione per l’energia atomica affermò che il comitato da lui presieduto non aveva consigliato la Commissione su quante bombe avrebbero dovuto realizzare, «dato che non era un nostro lavoro, ma una decisione che doveva essere presa dall’apparato militare. Noi abbiamo solo evidenziato quali erano i limiti su quante bombe potevano realizzare in base al materiale reso disponibile».
A differenza di Einstein, Oppenheimer non credeva in un dio panteista: l’umanità era fatta da popoli di diverse culture, credi, indirizzi politici e filosofici. I giapponesi non erano suoi fratelli, questo lo aveva bene in mente, eppure, nonostante questi distinguo, dopo gli anni della guerra si sentì responsabile per quello che aveva fatto.
Le notizie dei kamikaze giapponesi che si immolavano per il proprio Paese lanciandosi verso le navi della flotta statunitense nel Pacifico dovevano avergli fatto venire in mente altri versetti del testo indiano: «Colui che pensa che il sé uccida o che possa essere ucciso non lo conosce, poiché esso non può uccidere né essere ucciso.
Esso non è nato né morirà, non è mai iniziato e non cesserà di esistere; non nato, eterno, immutabile e primordiale, non viene ucciso quando un corpo viene ucciso. Colui che conosce il Sé come indistruttibile, eterno e inalterabile, come e che cosa potrebbe mai uccidere? […] Le armi non lo feriscono, il fuoco non può bruciarlo, l’acqua non può bagnarlo e il vento non può seccarlo. Egli è eterno, immutabile, onnipervadente e sempre identico a sé stesso» (Bhagavad- Gita, Capitolo 2, 19-24).
Quindi, se gli stessi giapponesi credevano nella vita immortale, se gli stessi giapponesi uccidevano e si uccidevano con la convinzione che non si viene uccisi quando un corpo viene ucciso, doveva esistere una sorta di filo rosso che giustificava azioni-doveri. In questo senso, Oppenheimer doveva aver trovato nella Gita più spunti di consolazione non solo per i risultati dei suoi studi sulla bomba atomica, ma anche per i dubbi, le delusioni e i dolori che conobbe nel corso della vita.
Nel 1954 arrivò anche ad affermare che far esplodere una bomba dimostrativa in un luogo disabitato, come avevano proposto alcuni suoi colleghi, non avrebbe sortito nessun effetto sui giapponesi. E, ancora, nel 1957, spiegò che non vi era altra possibilità che lanciare la bomba su Hiroshima e Nagasaki perché, dopo il Trinity Test, il meccanismo si era messo in moto ed era impossibile fermarlo .
Come si legge nella Gita (Capitolo 11, verso 34): «Colpisci dunque Drona e Bhisma, Jayadatha e Karna, e similmente tutti gli altri potenti guerrieri. Essi sono già stati uccisi da Me. Combatti senza paura, e sarai vittorioso nella battaglia».
Nella visione di Oppenheimer uno scienziato deve essere il più neutrale possibile: «Egli siede nella neutralità senza essere turbato dall’agire delle tre qualità. Costui rimane sempre saldo e non vacilla, sapendo che
sono soltanto gli elementi fondanti della natura a modificarsi. Per quell’uomo gioia e dolore sono la stessa cosa, egli non è condizionabile e considera di pari valore la zolla di terra, il sasso e l’oro. Egli rimane uguale nell’onore come nel disonore, uguale con l’amico come con il nemico, e ha abbandonato ogni desiderio personalistico. Questo è l’uomo che ha trasceso i tre guna» (Bhagavad Gita, Capitolo 14, versi 23-25).
La lettera mai firmata
Anche la lettera di Leo Szilard, firmata da sessantasette altri scienziati, in cui chiedeva a Truman (successore di Roosevelt dall’aprile 1945, cioè pochi mesi prima del lancio dell’atomica) di non lanciare la bomba su un centro abitato, non venne firmata da Oppenheimer .
Non sappiamo se questi suoi atteggiamenti furono determinati dall’ignavia o dal fatto che l’amore per la fisica e per la ricerca prevaleva sulla morale umana. Più volte, il direttore di Los Alamos spronò i suoi colleghi a non distrarsi dal lavoro utilizzando un passaggio che nella Bhagavad Gita leggeva spesso: «il frutto del lavoro» o il «frutto dell’azione» . Il messaggio che il fisico voleva inviare a chi lo accusava di collaborazione morale con il genocidio nucleare era chiaro: gli scienziati non potevano orientare il mondo della politica su come utilizzare i risultati delle loro ricerche.
«Non è con l’astenersi dal compiere ogni agire che l’uomo può liberarsi dai legami dell’azione e dalle loro conseguenze. E nemmeno la semplice rinuncia ai suoi frutti può innalzare l’uomo alla perfezione» (Bhagavad Gita, Capitolo 3, verso 4).
Pur essendo un assiduo lettore della Gita, Robert non fu mai portato a diventare un devoto induista e non diede mai a vedere in pubblico che quel libro lo avesse particolarmente influenzato nelle decisioni della sua vita.
Per una persona erudita come Oppenheimer gli interessi spaziavano anche oltre l’universo indiano. Eppure, utilizzò spesso i versi della Gita per interventi pubblici. Durante il ricordo funebre per la morte di Franklin Delano Roosevelt, tenuto a Los Alamos nell’aprile 1945, citò un verso (Bhagavad Gita, Capitolo 17, verso 3) che amava ripetere spesso e che avrebbe ripetuto anche in seguito, quando sentirà che la sua vita stava ormai giungendo al termine a causa di un tumore alla gola: «L’uomo è una creatura la cui sostanza è la fede. Come è la fede dell’uomo, così egli è».
PiergiorgioPescali
Note
(1) L’avatar è la manifestazione di una divinità sulla Terra.
(2) I versi riprodotti in questo articolo sono trascritti dalla traduzione in italiano de La Bhagavad-Gita, il canto del beato, dal sito www.labhagavadgita.it.
(3) «Brighter than a Thousand Suns: A Personal History of Atomic Scientists», pubblicato per la prima volta in lingua tedesca nel 1956 e poi tradotta in inglese nel 1958.
La risposta Usa alla Germania nazista
1942-1947, il Progetto Manhattan
Il Progetto Manhattan fu conseguenza della scoperta nel 1938 della fissione nucleare da parte degli scienziati tedeschi Otto Hanh e Fritz Strassmann. Timorosi che gli sviluppi potessero portare alla preparazione di una bomba nucleare da parte della Germania nazista, Leo Szilard e Eugene Wigner scrissero una lettera, firmata anche da Albert Einstein, in cui si chiedeva al presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt di avviare un programma che anticipasse la ricerca tedesca. Mentre il coinvolgimento di Einstein nel progetto si fermò qui, nel giro di qualche anno migliaia di altri scienziati nel campo della fisica, chimica, tecnici, ingegneri e impiegati amministrativi vennero coinvolti nel più ambizioso programma di ricerca mai avviato sino ad allora.
Il 19 gennaio 1942, Roosevelt avviò lo Sviluppo dei materiali surrogati (Development of substitute materials), e nel giugno dello stesso anno, presso il diciottesimo piano di un edificio al 270 di Broadway, a Manhattan, New York, venne fondato il Manhattan engineering district, l’ufficio militare in cui si imbastirono i primi piani di quello che, in seguito sarebbe stato conosciuto con il nome di «Progetto Manhattan».
Per mantenere l’assoluta segretezza dell’operazione, che in una città come New York avrebbe potuto essere compromessa, si spostarono laboratori e uffici in vari piccoli e isolati centri degli Stati Uniti: Oak Ridge, Hanford e il sito di Los Alamos, nel New Mexico, alla cui guida venne posto Robert Oppenheimer, furono i principali, ma nel corso degli anni la ragnatela si arricchì di un’altra quindicina di siti, alcuni dei quali in Canada.
Il 2 dicembre a Chicago, Enrico Fermi riuscì a compiere la prima reazione di fissione nucleare al mondo e nel 1944, dopo aver studiato vari tipi di materiali da utilizzare, venne scelto di sviluppare i disegni delle due bombe «Little Boy» e «Fat Man».
Il 16 luglio 1945 venne svolto il Trinity Test, che vide esplodere «Gadget», la prima bomba nucleare. Tutto ormai era pronto per l’operazione sul campo: il 6 agosto 1945 Hiroshima venne bombardata e tre giorni dopo fu la volta di Nagasaki.
Il 1° gennaio 1947 il Progetto Manhattan venne ufficialmente chiuso. L’intera operazione era costata 1,9 miliardi di dollari (equivalenti a 23 miliardi attuali) e aveva impiegato 120mila persone.
P.P.
Bombe a fissione e bombe all’idrogeno
Da «Little Boy» a «Ivy Mike»
La bomba nucleare a fissione ha portato a uno sviluppo della stessa verso la bomba termonucleare, o bomba a idrogeno, inventata da Edward Teller e Stanislaw Ulan. Il primo test del genere venne svolto il 1° novembre 1952 sull’atollo di Eniwetok, nelle Isole Marshall, con la «Ivy Mike». La potenza sprigionatasi dallo scoppio, pari a 10,4 milioni di tonnellate di tritolo, fu circa 700 volte superiore a quella della bomba di Hiroshima.
Mentre la bomba nucleare a fissione basa la potenza distruttiva solo sull’energia sprigionatasi dalla parziale fissione dell’uranio o del plutonio (solo una piccola parte del combustibile nucleare si fissiona), la bomba termonucleare addiziona alla scissione nucleare la fusione di due isotopi dell’idrogeno, il trizio e il deuterio incapsulato in un involucro di uranio. Nelle bombe moderne, il deuterio, facile ed economico da ottenere, ma problematico da utilizzare perché deve essere raffreddato in forma liquida a circa 250°C sotto lo zero, è sostituito dal deuterio di litio che, essendo un solido, è più facile da maneggiare.
Una bomba termonucleare è formata da due parti: la parte primaria, che è il detonatore (uranio o plutonio che viene fatto fissionare) e la parte secondaria, che è la sezione che contiene il materiale di fusione.
La fissione del nucleo di uranio o plutonio sprigiona raggi X che comprimono il deuterio o il deuterio di litio, che produce trizio. La compressione riscalda il combustibile nucleare sino a una temperatura (circa 100-150 milioni di gradi) tale da provocarne la fusione del deuterio e del trizio che libera energia fissionando anche l’intero involucro in cui è contenuta, formato da uranio, responsabile dello sviluppo dell’energia distruttiva liberata durante la detonazione.
In questo modo l’energia rilasciata dal processo di fissione-fusione-fissione è maggiore di quella della sola fissione. A parità di massa, la bomba termonucleare sprigiona circa dieci volte l’energia prodotta da un ordigno a fusione, ma negli ordigni moderni la potenza può essere anche migliaia di volte superiore.
P.P.
Il ruolo della religione nell’India di Modi
l’intolleranza dell’induismo nazionalista
Nel più popoloso paese del mondo, con la presidenza di Modi, è tornata prevalente l’ideologia «hinduvta» che predica la superiorità degli hindù sulle altre comunità. A farne le spese sono soprattutto musulmani e cristiani.
Con il termine «induismo» si è soliti indicare l’insieme di credenze e pratiche religiose nate e sviluppatesi nella vasta regione del fiume Indo (Sindhu, in sanscrito). Storicamente, soltanto nel 1893, a Chicago (nel primo «Parlamento mondiale delle religioni»), il termine iniziò a essere utilizzato come identificativo confessionale specifico della maggior parte delle popolazioni (che oggi contano oltre un miliardo di persone) che abitano l’India. Tuttavia, già tra il VI e il V secolo a.C. gli abitanti del territorio bagnato dalle acque dell’Indo, ad est dell’Impero achemenide, venivano identificati con il termine di hindù (o indù), passato poi nella terminologia greca e latina.
Oltre che una religione, possiamo definire l’induismo come una serie di stili di vita e di pratiche etiche che costituiscono contemporaneamente un sistema sociale.
Per parte loro, gli hindù definiscono la propria religione come sanatana dharma, «legge eterna» o «morale eterna», anche questa espressione recente, visto che ha iniziato a essere utilizzata solo nel secolo scorso.
Premesso che miti, credenze, fedi dell’induismo si sono sedimentate in oltre tremila anni di storia, è possibile descrivere questa confessione seguendo quattro grandi ere storiche:
il periodo vedico (1500-500 a.C.);
il periodo del brahmanesimo, o induismo antico (500 a.C.-500 d.C.);
il periodo induista recente (500 – fine XIX secolo);
il periodo induista attuale (dal XIX secolo a oggi).
È essenzialmente questa la linea comune che lega le varie forme di induismo presenti nel subcontinente indiano dato che la mancanza di dogmi e di una figura religiosa che sovrasta le altre rende difficile una definizione univoca della religione.
Alcune delle idee inserite in epoca tarda (IX-IV secolo a.C.) nei Veda (testi sacri) tramite le Upanishad (commentari dei Veda), portarono all’idea della reincarnazione e che questa sia governata dalla legge del karma, che il samsara, il ciclo delle rinascite, dovesse essere interrotto tramite una serie di azioni che portavano a dissipare l’ignoranza verso la nostra vera essenza raggiungendo il moksha, la salvezza.
Il modo per rompere il ciclo di rinascite è l’osservazione del dharma, una serie di comportamenti morali e rituali che porta l’atman, l’anima individuale, a unirsi alla divinità.
Dal punto di vista cosmologico, l’induismo accetta dunque l’universo proposto dai Veda, dove diversi regni sovrapposti uno sull’altro rappresentavano svariati gradi di esistenza e di sviluppo in cui gli esseri si reincarnavano.
Le divinità induiste, pur essendo molteplici, si possono raggruppare nelle Trimurti che vedono in Brahma, il creatore, Vishnu, il conservatore e Shiva, il distruttore, i principali dèi. Altri esseri soprannaturali abitano il pantheon induista, ma per la maggior parte questi sono emanazioni delle Trimurti, o i loro avatar (ad esempio Krishna, avatar di Vishnu).
Oggi il movimento induista si è incarnato in un movimento nazionalista, l’hindutva («induità»), nato negli anni Venti del XX secolo, che predica la superiorità etnica, morale, religiosa e culturale degli hindù sulle altre comunità presenti in India. Sviluppatosi per opera del bramino Vinayak Damodar Savarkar (1883-1966), l’hindutva ha come suo fondamento la distinzione tra le religioni nate all’interno dell’India (come il giainismo, l’induismo, il buddhismo e il sikhismo) e quelle nate fuori dall’India (islam e cristianesimo, in particolare), definendo queste ultime come estranee al corpus indiano. Fu però solo con il colonialismo britannico che si tracciò un netto spartiacque tra le fedi: nei censimenti voluti dalla Corona inglese nella colonia asiatica, gli indiani dovevano scrivere a quale religione appartenessero. Fino ad allora, la mentalità indiana non trattava giainismo, induismo, buddhismo e sikhismo (le quattro religioni dell’hindutva) come separate tra loro: l’appartenenza a una tradizione non escludeva l’altra.
Oggi l’ideologia hindutva è rappresentata da un ombrello di partiti raggruppati nel Sangh Parivar (famiglia del Rss, Rashtriya swayamsevak sangh, l’Organizzazione nazionale di volontariato) di cui fa parte il Bharatiya janata party (Bjp) di Narendra Modi, dal 2014 primo ministro della nazione.
Durante il suo mandato sono state emanate diverse leggi atte a opprimere le comunità musulmane e cristiane. Quattro Stati dell’Unione indiana (Karnataka, Haryana, Madhya Pradesh e Uttar Pradesh) hanno vietato le conversioni all’islam attraverso il matrimonio (secondo il diritto islamico una donna musulmana non può sposare un uomo di altra religione se prima questi non si converte), mentre la stampa di destra indiana continua a dare resoconti (molte volte non verificati) di islamici che uccidono vacche (sacre per l’induismo), stuprano donne, violano le leggi induiste.
Con il nuovo governo, denominato Modi 2.0, l’hindutva sembra aver preso una piega ancora più radicale, soprattutto con la nomina di Amit Shah a ministro dell’Interno. La proposta di legge sulla cittadinanza avanzata da Shah intende dare la cittadinanza solo a quei profughi provenienti da Nepal, Bangladesh, Pakistan e Afghanistan che non siano musulmani.
L’hindutva rivolge le sue attenzioni anche al cristianesimo, che ha una doppia colpa: quella di essere una religione straniera e di avere come fedeli i «fuoricasta». L’80% dei cristiani appartiene, infatti, alla casta dei dalit (un tempo si diceva «intoccabili»), in particolare nell’Orissa. Anche se non raggiungono ancora i livelli di odio e violenza a cui sono sottoposti i musulmani, gli episodi di intolleranza verso i cristiani si stanno moltiplicando: cappelle date alle fiamme, autorità che impongono alle comunità di non mostrare in pubblico i simboli della fede. I dalit che si convertono al cristianesimo o all’islam perdono ogni forma di protezione sia nazionale che locale, trasformandosi in potenziali bersagli dell’intransigenza hindutva.
Tutti i rapporti concordano sulla pericolosa deriva di intolleranza intrapresa sia da organizzazioni che si rifanno al Sangh Parivar, sia dalle stesse istituzioni statali che dovrebbero garantire la salvaguardia dei diritti umani di tutti i cittadini indiani senza distinzione di appartenenza etnica, culturale, linguistica e religiosa. Per esempio, è significativo che lo scorso 28 maggio il premier Modi abbia inaugurato la nuova sede del parlamento indiano con una cerimonia religiosa induista.
Da anni in Nigeria, soprattutto dove vige la Sharia, le milizie di Boko Haram, gli estremisti fulani e, sempre più, generici predoni, compiono violenze, stragi, rapimenti. Spesso contro le comunità cristiane. Centinaia di migliaia di sfollati interni vivono nella paura. Tutto nell’indifferenza della comunità internazionale.
Il gruppo di pastori fulani, popolazione nomade di fede islamica, è arrivato nella notte da diverse direzioni. È entrato nel campo per sfollati gestito da padre Remigius Ihyula nello Stato di Benue, nel centro nord della Nigeria, e ha sparato all’impazzata: 38 morti e 51 feriti. Tra loro diversi cristiani.
È successo lo scorso aprile, durante la Settimana santa: «Un sabato santo nero», afferma il religioso che dirige la sezione di Benue della Commissione per la giustizia, lo sviluppo e la pace (Jdpc), organizzazione cattolica nigeriana che cerca di rendere meno difficile la vita delle persone scacciate dalle loro terre.
Pochi giorni prima, la Domenica delle palme, era stata assalita la chiesa pentecostale di Akenawe, sempre nello Stato di Benue.
Gli assalitori, anche in questo caso si sospetta una banda di pastori fulani, avevano ucciso un uomo, ferito diverse persone e rapito il pastore della chiesa con alcuni fedeli.
Sono solo alcuni degli ultimi episodi di violenze e persecuzioni in Nigeria, uno dei paesi più pericolosi al mondo per i cristiani.
Le cifre della persecuzione
Secondo uno studio del 2022 di Genocide watch, intitolato Nigeria is worst in the world for persecution of christians, tra gennaio 2021 e giugno 2022, in Nigeria oltre 7.600 cristiani sono stati uccisi e più di 5.200 sequestrati. Nel 2021 si sono registrati più di 400 attacchi a luoghi cristiani.
In base ai dati Onu, si stima che 36mila persone siano morte e due milioni sfollate a causa di due decenni di violenze da parte di Boko Haram.
Il Comitato internazionale della Croce Rossa ha riferito che la metà delle oltre 40mila persone scomparse in tutta l’Africa in questi anni, provengono dalla regione nord orientale della Nigeria, teatro di attacchi e rapimenti da parte di Boko Haram.
Se da una parte ci sono i terroristi di Boko Haram, jihadisti che nel 2015 hanno giurato fedeltà allo Stato islamico, dichiarando di fatto guerra a tutte le comunità cristiane, dall’altra i villaggi soffrono quotidianamente l’incursione dei pastori fulani, popolazione nomade appartenente alla comunità islamica. Alcuni fattori, tra i quali i cambiamenti climatici, hanno spinto questi allevatori a cercare nuovi terreni per i loro pascoli. Di fatto si impossessano, a mano armata e perpetrando ogni genere di violenza, dei terreni degli agricoltori appartenenti per lo più alla comunità cristiana. Omicidi, devastazioni, rapimenti di sacerdoti e cristiani, sono all’ordine del giorno nel paese affacciato sul Golfo di Guinea. Nonostante la gravità della situazione, però, le notizie riguardanti questi eventi faticano a trovare spazio nel circuito dell’informazione internazionale.
La Via Crucis delle donne
Ci sono storie di violenza contro i più indifesi, a partire dalle donne, che per la loro efferatezza sembrano inverosimili, ma che invece sono reali e lasciano ferite difficili da rimarginare.
Lo sanno bene al Trauma center della diocesi di Maiduguri, Stato di Borno, nato grazie al sostegno della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs).
«Arrivano qui dopo aver subito le violenze più terribili, dopo essere state anche torturate», dice padre Joseph Fidelis, responsabile del centro che offre cure e sostegno psicologico, e che vaglia, caso per caso, se sia necessario un supporto più specialistico, a livello psichiatrico e ospedaliero.
Quando hai visto qualcuno uccidere davanti a te un figlio, un fratello o un padre, quando sei stata violentata e torturata, quando hai vissuto in una gabbia come un animale per mesi, fai fatica anche a trovare le parole.
Per questo al Trauma center opera personale formato ai massimi livelli in grado non solo di accogliere le donne che hanno subito violenze, la maggior parte delle quali cristiane, ma anche di indicare un futuro di speranza.
Maria e Janada
Arrivano proprio dal Trauma Center di Maiduguri le storie di Maria e Janada, due giovani donne vittime di Boko Haram che, nel marzo scorso, sono state in Italia. Esse hanno incontrato papa Francesco per fare conoscere al mondo che cosa significhi essere cristiane oggi in Nigeria, quale scelta difficile sia resistere alle violenze per mantenere la propria fede in Cristo e non abbracciare, come i terroristi chiedono, quella islamica.
Le abbiamo incontrate a Roma, in occasione dell’8 marzo, la giornata internazionale della donna. Minute, con lo sguardo triste, una voce flebile che si sentiva a fatica. La testa bassa per il dolore e la paura delle violenze subite, e anche la vergogna.
Nei loro occhi abbiamo visto soprattutto le lacrime che, a distanza di mesi dalla loro liberazione, Maria e Janada non riescono ancora a trattenere.
Maria Joseph, 19 anni, e Janada Markus, 22, sono state vittime di Boko Haram, il gruppo jihadista che imperversa in Nigeria grazie anche alla sostanziale inerzia delle autorità locali.
Maria ha vissuto nel bosco con i terroristi per nove anni: «Avevo sette anni – ci ha raccontato -. Sono arrivati nel nostro villaggio in silenzio, senza sparare, e ci hanno catturati tutti. Io sono stata messa in una gabbia. Poi ci hanno insegnato a leggere il Corano». Le hanno dato un nome islamico e hanno anche provato a farla sposare con uno dei capi del gruppo terrorista, ma lei si è rifiutata. Dopo nove anni di prigionia, violenze e torture è riuscita a scappare.
Janada Markus aveva invece 17 anni quando è stata rapita da Boko Haram: era in ospedale, dove aveva appena subito un intervento. «Mi hanno portata via dall’ospedale che non mi ero neanche ripresa dall’anestesia. Mi sono risvegliata nelle loro mani». Dopo un po’ è riuscita a scappare, ma in seguito è stata di nuovo catturata. È scappata un’altra volta ed è stata ripresa.
Ci ha raccontato che il secondo rapimento l’ha subito mentre era nella sua fattoria con la famiglia: «All’improvviso siamo stati circondati dagli uomini di Boko Haram. Hanno puntato un machete contro mio padre e gli hanno detto che ci avrebbero rilasciati se lui avesse fatto sesso con me davanti a tutti. Lui si è rifiutato, e loro gli hanno tagliato la testa». La terza volta è accaduto a novembre del 2020, quando i miliziani di Boko Haram l’hanno rapita e torturata per sei giorni.
Segni di rinascita e speranza
Entrambe, Maria e Janada, ora sono accolte dal Trauma Center di padre Fidelis. «Quando sono arrivate non riuscivano neanche a parlare», racconta il sacerdote.
Ma anche lui, a volte, davanti alle storie che incontra, resta senza parole e si chiede: «Perché l’uomo è diventato un lupo, un animale? Questi terroristi fanno violenze in nome di una religione? Non è possibile: la religione ci aiuta ad avvicinarci a Dio, non a infliggere sofferenze. È il male, questo, non è Dio».
Il sacerdote nigeriano, che dopo avere studiato alla Pontificia Università Gregoriana a Roma, ha deciso di tornare nella sua terra proprio per aiutare i cristiani perseguitati, ammette: «La mia fede è stata provata. A volte mi chiedo dove sia Dio. In quei momenti, però, cerco di avere fiducia e gli chiedo aiuto. E Lui, nel silenzio e nella sofferenza, mi risponde attraverso le persone che cerchiamo di aiutare».
Le ragazze accolte del Trauma Center, infatti, tornano un po’ per volta, cura su cura, a riprendere in mano la loro vita.
Alcune vengono anche aiutate a trovare un lavoro: imparano a cucire, a cucinare, a realizzare cosmetici con prodotti locali.
«Piano piano i segni del trauma cominciavano a sparire – ci ha detto Maria -, e ho iniziato a relazionarmi con gli altri. Potevo parlare, e quello che i terroristi mi avevano inculcato nella testa ha cominciato a sparire».
Janada, invece, dopo aver lentamente superato il trauma, ha chiesto di andare a scuola: oggi studia al college e sogna di diventare un medico specializzato in medicina tropicale.
Rapimenti e indifferenza
In Occidente, il tema della persecuzione dei cristiani fatica a entrare nel dibattito generale, «come se la libertà religiosa fosse un diritto di serie B», argomenta Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) Italia. In Nigeria ci sono violenze, ma anche frequenti sequestri di religiosi e cristiani che poi, in molti casi, finiscono in omicidi. Secondo i dati diffusi a fine marzo dalla Conferenza episcopale nigeriana, dal 2006 al 2023 nel paese sono stati rapiti 53 sacerdoti, dodici aggrediti e sedici uccisi: un totale di 81 sacerdoti in diciassette anni.
È il nord della Nigeria l’area dove i rapimenti sono legati alla presenza di varie formazioni terroristiche, a iniziare da Boko Haram. Da questo gruppo jihadista, a causa di diverse scissioni, ne sono nati altri, il più importante dei quali è l’Islamic state of west Africa province (Iswap).
Il fenomeno dei rapimenti, però, negli ultimi anni si è esteso a diverse altre zone della Nigeria, compreso il sud (a maggioranza cristiana, ndr).
In tutti i casi non è facile distinguere tra i sequestri compiuti dai terroristi e quelli compiuti da gruppi criminali che cercano solo un ritorno economico. Terroristi e banditi hanno modi simili di operare: assaltano villaggi saccheggiandoli alla ricerca di cibo e bestiame, e rapiscono le persone. L’unica differenza è che i banditi comuni non rivendicano le loro azioni su basi ideologiche.
Sta di fatto che la comunità cristiana, a partire dai sacerdoti, è la più bersagliata dai sequestri. «Ma su queste vicende impera il silenzio – osserva Monteduro -. Non sono considerate meritevoli di attenzione da parte della comunità internazionale e della maggior parte dei media occidentali. Ma soprattutto sono ignorate dalle autorità civili, politiche e militari della stessa Nigeria. A urlare il proprio dolore, a chiedere aiuto, è solo la Conferenza episcopale della nazione».
Che siano estremisti appartenenti all’etnia dei fulani, o terroristi aderenti a gruppi jihadisti come Boko Haram, oppure semplici gruppi criminali interessati al riscatto, importa poco. Ciò che importa, spiega Monteduro, è che «in Nigeria oggi è terribilmente pericoloso professare la propria fede. Importa la sostanziale incapacità e inadeguatezza delle autorità e istituzioni federali e locali. Importa l’altrettanto sostanziale disinteresse che registriamo in Europa.
Ora, poiché non possiamo e non dobbiamo considerarlo un fenomeno irreversibile, abbiamo il compito far sentire in Occidente, in quell’Europa dalle radici cristiane, la nostra indignazione. Certamente sarà un modo sincero per esprimere la nostra vicinanza alle vittime».
Al top della classifica
Nel gennaio 2023 Porte aperte (un’organizzazione evangelica, www.porteaperteitalia.orgndr) ha pubblicato il suo ultimo dossier sulla libertà religiosa nel mondo. La Nigeria risulta al sesto posto nella classifica dei paesi che negano questo diritto umano fondamentale, soprattutto per i cristiani, dopo la Corea del Nord, la Somalia, lo Yemen, l’Eritrea e la Libia. «La Nigeria sale ancora nella classifica – si legge -, confermandosi la nazione dove si uccidono più cristiani al mondo: 5.014, mai così tanti».
Nonostante i cristiani siano quasi metà dei circa duecento milioni di abitanti del paese, ci sono zone, come ad esempio lo Stato di Kaduna nel Nord, dove è impossibile costruire nuove chiese o insegnare il catechismo.
«I cristiani vivono sotto schiavitù», dice l’arcivescovo di Kaduna, Matthew Manoso Ndagoso.
In alcuni stati a maggioranza musulmana vige la Sharia (la legge islamica), ed è sempre più difficile costruire chiese o altre strutture per i cristiani negli stati settentrionali di Kano, Sokoto, Katsina e Zamfara.
«Da oltre sessant’anni – aggiunge l’arcivescovo – non viene rilasciato ufficialmente nessun certificato alle comunità cristiane per costruire una chiesa. Solo nei primi anni Novanta, quando ci fu un governatore cattolico, venne rilasciato un singolo permesso.
In questa parte del nostro paese, nonostante le garanzie della Costituzione, i cristiani non sono liberi di praticare la loro fede. Perché se non posso costruire una chiesa, se non posso comprare un terreno, non potete dirmi che sono libero. Ai bambini cristiani non si può insegnare la loro religione. Nelle scuole non vengono assunti insegnanti cristiani, ma nelle stesse scuole il governo non solo permette l’insegnamento dell’islam, ma vengono anche utilizzati fondi pubblici per assumere insegnanti per insegnare la fede islamica. C’è una chiara discriminazione e persecuzione», conclude.
Un grido inascoltato
A lanciare il proprio grido di aiuto è, ogni volta che si verifica un crimine contro la comunità cristiana, la Conferenza episcopale nigeriana.
Come il 5 giugno di un anno fa, quando un gruppo di uomini armati ha aperto il fuoco e lanciato ordigni contro i fedeli riuniti nella chiesa di San Francesco a Owo, nello stato di Ondo, mentre si celebrava la veglia di Pentecoste. Una cinquantina i morti, tra i quali diversi bambini.
Il presidente dei vescovi cattolici nigeriani, monsignor Lucius Ugorji, sottolineava dopo quell’attacco che «nessun luogo sembra essere al sicuro nel nostro paese, nemmeno entro i sacri recinti di una chiesa. Condanniamo con la massima fermezza lo spargimento di sangue innocente. I criminali responsabili di tale atto sacrilego e barbaro dimostrano la loro mancanza del senso del sacro e del timore di Dio».
«Il governo – ha aggiunto ancora – dovrebbe assumersi la sua responsabilità primaria di garantire la vita e la proprietà dei suoi cittadini. Il mondo ci sta guardando. Soprattutto, anche Dio ci guarda».
Papa Francesco, il giorno dopo, ha inviato un messaggio ai vescovi: «Prego per la conversione di coloro che sono accecati dall’odio e dalla violenza e perché possano scegliere la strada della pace e della giustizia».
Appelli che si ripetono ciclicamente dopo ogni massacro o rapimento. Ma restano di fatto inascoltati, non solo dalle autorità locali, ma anche dalla comunità internazionale.
Manuela Tulli*
*Giornalista dell’Ansa, si occupa di Vaticano e informazione religiosa. Autrice, tra gli altri, di Eroi nella fede (Acs), sui cristiani in Egitto, e de Il grande tema del senso della vita (Shalom), per la collana dei Quaderni del Giubileo del Dicastero vaticano per l’Evangelizzazione.
Martirio, Vangelo vivo
Aveva 10 anni Blanca, 12 sua sorella Lilliam e 17 Bryan José. Tre ragazzi del Nicaragua, i più giovani tra i venti «martiri» del 2020 che ricorderemo durante la 29a giornata dei missionari martiri il 24 marzo, anniversario dell’uccisione di San Oscar Arnulfo Romero. Otto
sacerdoti, un religioso, tre suore, due seminaristi e sei laici. Le due sorelline, gioiose testimoni della loro fede, facevano parte dell’Infanzia missionaria.
Venti nomi, otto dall’America, sette dall’Africa, tre dall’Asia e due dall’Europa, che non esauriscono certo la lista di chi ha dato la propria vita per il Vangelo nel 2020. «All’elenco se ne deve aggiungere un altro […] che comprende operatori pastorali o semplici cattolici aggrediti, malmenati, derubati, minacciati, sequestrati, uccisi, come anche quello delle strutture cattoliche a servizio dell’intera popolazione, assalite, vandalizzate o saccheggiate. Di molti di questi […] non si avrà mai notizia, ma è certo che in ogni angolo del pianeta tanti ancora oggi soffrono e pagano con la vita la loro fede in Gesù Cristo» (Agenzia Fides).
Oggi si parla di oltre 300 milioni di cristiani che vivono negli oltre 50 paesi nei quali è più facile essere perseguitati, ostacolati nell’esercizio della fede, emarginati, discriminati e imprigionati. Sono quasi tremila quelli uccisi ogni anno (più di otto al giorno). È alto il numero delle donne, dei giovani e giovanissimi cristiani che subiscono violenza.
Le storie che arrivano da Nigeria, Siria, Pakistan, Libia, India, e ora anche Cabo Delgado in Mozambico, e da molti altri paesi, lasciano l’amaro in bocca. E non è solo l’integralismo islamico, segno della crisi interna allo stesso Islam, che preoccupa. L’intolleranza religiosa e il suo uso politico si manifestano anche, ad esempio, in un paese induista come l’India, o in uno buddhista come il Myanmar, dove vengono perseguitati sia cristiani che musulmani, come pure in quei paesi nei quali gruppi settari e ultra tradizionalisti di cristiani si legano a leader più o meno populisti e antiliberali (come sta accadendo nelle Americhe e anche in alcuni paesi europei).
Pure la cosiddetta cultura laica della nostra Europa, ufficialmente paladina della libertà, non è immune da tale virus, quando promuove idee verso le quali non è ammessa nessuna critica, mettendo a rischio la libertà di pensiero e quindi anche la libertà religiosa.
Un’altra forma di esclusione e ostracismo nei confronti dei cristiani è praticata attraverso i social e i media, con la promozione di modelli di vita centrati sull’io, sull’autorealizzazione della persona tramite denaro, divertimento, consumi, gioco, rischio, sesso. L’attacco a valori cristiani come la sobrietà, la castità, l’altruismo, il perdono, la famiglia, la vita, anche quando non è esplicito, è pervasivo e potente, soprattutto su chi lo subisce, più in modo emotivo che razionale, durante il delicato processo di formazione della sua personalità.
I cristiani, oggi, sono perseguitati come e più di quanto non lo fossero nei primi secoli dopo Cristo. Non è un dato felice. Eppure, paradossalmente, è un bel segno, un segno di grande vitalità. Nonostante la crisi di fede, molto forte soprattutto in Europa e nelle Americhe, il Vangelo non ha perso sapore. I cristiani continuano a imitare il loro Maestro, abitando le periferie del mondo, in mezzo ai poveri, agli esclusi, ai marginali. Il Vangelo continua a dar fastidio agli Erodi e ai grandi sacerdoti del nostro tempo. Continua a contestare una logica politica ed economica che dimentica la dignità della persona, indipendentemente dalla sua cultura o stato sociale, una politica che preferisce investire in armi invece che su pace, salute ed educazione, un’economia che depreda il pianeta a vantaggio di pochi. «Fratelli tutti», ha scritto papa Francesco. Parole semplicissime, ovvie forse, ma non per tutti. Parole che portano al martirio.
Se da una parte la conta delle vittime, le terribili violenze, le umiliazioni sistematiche, gli imprigionamenti ingiustificati, la distruzione di chiese, il bavaglio all’informazione, spezzano il cuore, dall’altra lo rinvigoriscono, perché sono segni di quanto sia ancora viva e forte la buona notizia di Gesù. Se milioni di cristiani, ancora oggi, sono disponibili a pagare di persona per la fede, una fede che non chiama alla vendetta, che promuove il perdono, che ama i nemici, che fa crescere la vita, possiamo avere speranza.
Innamorati e vivi
testo di Gigi Anataloni, direttore di MC |
È il tema della prossima «giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri» che si celebrerà il 24 marzo nel 40° anniversario del martirio di sant’Oscar Arnulfo Romero.
Scrive Missio Italia sul suo sito: «Secondo i dati raccolti da Fides, nel corso dell’anno 2019 sono stati uccisi nel mondo 29 missionari […]: 18 sacerdoti, 1 diacono permanente, 2 religiosi non sacerdoti, 2 suore, 6 laici. Dopo otto anni consecutivi in cui il numero più elevato di missionari uccisi era stato registrato in America, dal 2018 è l’Africa ad essere al primo posto di questa tragica classifica. In Africa nel 2019 sono stati uccisi 12 sacerdoti, 1 religioso, 1 religiosa, 1 laica (15). In America sono stati uccisi 6 sacerdoti, 1 diacono permanente, 1 religioso, 4 laici (12). In Asia è stata uccisa 1 laica. In Europa è stata uccisa 1 suora. Un’altra nota è data dal fatto che si registra una sorta di globalizzazione della violenza: mentre in passato i missionari uccisi erano per buona parte concentrati in una nazione o in una zona geografica, nel 2019 il fenomeno appare più generalizzato e diffuso. Sono stati bagnati dal sangue dei missionari 10 paesi dell’Africa, 8 dell’America, 1 dell’Asia e 1 dell’Europa» (www.missioitalia.it).
La «globalizzazione della violenza» contro i cristiani, è un fenomeno a cui stiamo assistendo con stupore e preoccupazione. Non siamo abituati e non ci abitueremo mai alla violenza contro chi vive la sua fede, ma che in Cina si mettano in prigione senza processo credenti di diverse religioni e si distruggano chiese, è ben noto da anni. Che in Pakistan ragazze cristiane siano rapite giovanissime e costrette a cambiare religione e a sposare il loro rapitore, è storia triste che quasi lascia indifferenti. Pure ben nota è la violenza contro i cristiani in Iraq, Siria e Indonesia, e poi in Libia, Nigeria, Somalia, Mali, Centrafrica e in tanti altri paesi dove il fondamentalismo islamico ha messo radici con Al Qaeda, Isis, Boko Haram e gruppi simili. Niente di nuovo anche circa la situazione in Nicaragua e altri paesi centro americani, dove regimi tutt’altro che democratici non accettano critiche. Stupisce un po’ di più il fondamentalismo induista che è emerso in questi ultimi anni ed è diventato aggressivo e violento contro le minoranze cristiane, islamiche e di cultura tradizionale. Per molti è una sorpresa ancor più grande la violenza del fondamentalismo buddista che si sta estendendo a macchia d’olio nel Sud Est asiatico.
Ma quello che sorprende oggi è la violenza di casa nostra contro chiese, preti e cristiani. Gli attacchi mafiosi contro gli scout in Sicilia, la devastazione dei centri Caritas o di aiuto ai poveri e migranti, le scritte blasfeme sulle chiese, i post ingiuriosi sui social, l’intolleranza verso le posizioni della comunità cristiana e dei suoi pastori sui temi come la vita, la famiglia, la sessualità, l’accoglienza. Questa violenza verbale, e anche fisica, non viene da fondamentalisti di altre religioni, ma da
individui che si ritengono addirittura dei buoni cristiani.
Tutto questo lascia certamente perplessi, ma è anche un segno positivo della vitalità della nostra Chiesa, anche in Italia, capace ancora di testimoniare, senza lasciarsi intimorire, il vero volto di Dio che è amore senza barriere e confini.
Scienza e religione
«La teologia e la religione entrano in gioco quando la scienza non è in grado di spiegare ciò che accade nel mondo». Trovate questa frase a pag. 55 nel contesto di un bell’articolo su religione e scienza. Come ho scritto al nostro collaboratore, la frase è ambigua perché potrebbe essere la base per questa conclusione: quando la scienza riuscirà a spiegare tutto, non ci sarà più bisogno della religione.
L’autore ha concordato sull’ambiguità dell’espressione che voleva invece sottolineare la complementarità e la differenza tra religione e scienza, ciascuna con un proprio ruolo specifico, diverso ma non contrapposto.
Ritengo che la scienza abbia il compito di capire e spiegare il come funziona questo nostro mondo e di dare gli strumenti per una sua corretta gestione. La religione risponde invece ai perché e alle domande di senso, cioè le ragioni e
lo scopo per cui il mondo e l’uomo esistono.
È vero che nel passato la religione ha preteso di controllare la scienza, ma è anche vero che senza gli uomini di religione noi oggi non avremmo la scienza che conosciamo.
La religione da tempo ha smesso di volersi imporre alla scienza e ne rispetta l’autonomia, ma non sembra che tutti gli uomini di scienza si siano resi conto che la scienza non deve diventare una religione, bensì restare tale senza aver la pretesa di avere la risposta a tutto, compreso il senso, lo scopo e lo stile dell’esistenza dell’uomo e del mondo.
Dalla Cina all’Italia, rifugiati per religione
Testo di Luca Lorusso
Quella cinese è la terza comunità extra Unione europea in Italia: 277mila a fine 2017. Tra questi, i rifugiati e richiedenti asilo sono sempre stati poche decine. Fino al 2015, quando il loro numero è cresciuto d’improvviso. Motivo: le persecuzioni religiose in patria. In Italia nove domande d’asilo su dieci vengono rigettate, a volte per semplice incomprensione del fenomeno.
Ne abbiamo parlato con l’associazione A buon diritto e con Massimo Introvigne, esperto di nuovi movimenti religiosi e di persecuzioni in Cina.
«Sia la mia religione, sia le chiese domestiche sono proibite [in Cina] e le persone vengono arrestate e picchiate», dice Quian (nome di fantasia), donna cinese di 49 anni, al funzionario italiano che la interroga per valutare la sua richiesta di protezione internazionale in Italia. «Nel 2009 mi sono ammalata, una parente mi ha fatto avvicinare alla religione del Quan Neng Shen, mi ha dato il testo sacro, da lì ho scoperto che l’uomo è stato creato da Dio, e ho cominciato a credere. Tutte le malattie che avevo sono passate […], ho cominciato a parlare della Bibbia ai miei parenti e agli amici. Dal dicembre 2012 […] il governo ha cominciato a perseguitarci […]. Quando hanno scoperto che appartenevo a questa religione hanno iniziato a fare una cattiva propaganda negativa, dicendo che appartenevo a una setta. Mio marito […] mi ha picchiata e non mi ha più creduto, abbiamo litigato, abbiamo divorziato […]. Sono andata in una casa di accoglienza che riuniva persone dello stesso credo; ci riunivamo e recitavamo il nostro testo sacro. Un giorno, insieme a una sorella, sono stata arrestata. […] Ci hanno portate in cella, il mattino dopo sono venuti e ci hanno chiesto a che religione appartenessimo, noi non abbiamo risposto, ci hanno picchiato sul volto e sulle gambe. Nel pomeriggio del secondo giorno hanno pagato la cauzione di mille yuan e siamo state scarcerate. […] Ho pagato e mi hanno fatta uscire, quei poliziotti erano corrotti».
Il 4 luglio 2016, quando Quian affronta il colloquio con la Commissione territoriale che giudicherà la fondatezza della sua richiesta d’asilo, la donna è in Italia da quasi un anno. Le tre ore di domande in italiano e di risposte in mandarino, mediate da un interprete, condurranno la commissione a rigettare la sua richiesta.
Il successivo 8 novembre Quian viene informata dell’esito. Esattamente come succede a 9 richiedenti asilo cinesi su 10, entro 30 giorni dovrà ricorrere in tribunale, altrimenti verrà espulsa.
Fenomeno nuovo
Il 2016 è l’anno del picco: ben 870 nuove domande d’asilo di persone cinesi. Il numero non è elevato, ma impressiona se confrontato a quelli degli anni precedenti: 355 nel 2015, 85 nel 2014 e mai sopra le 45 prima del 2014. Mentre nel 2017 e nel 2018 saranno rispettivamente 315 e 365.
Di questo aumento improvviso si rendono conto alcuni soggetti che operano nell’ambito del diritto d’asilo. Tra questi l’associazione A buon diritto (www.abuondiritto.it) con sede a Roma che, non solo registra l’aumento dei richiedenti asilo cinesi, ma sottolinea la specificità del fenomeno in un rapporto del 2017 intitolato Manicomio religioso.
Di persone provenienti dalla Cina ce ne sono molte in Italia. È una comunità straniera «antica», registrata fin da inizio ‘900. Oggi è la terza comunità extra Ue, dopo Marocco (391.388) e Albania (382.829), per numero di permessi di soggiorno rilasciati: 277mila a fine 2017 (ultimo dato Istat disponibile). I richiedenti asilo cinesi però sono sempre stati pochissimi.
«Manicomio religioso»
«A buon diritto ha una serie di sportelli legali su Roma. La responsabile dell’area legale aveva iniziato a notare l’aumento del numero di persone di nazionalità cinese che venivano a chiedere consulenza. Parliamo del 2015-16. Erano soprattutto ragazze che facevano il passa parola e venivano a informarsi su che cosa fosse la domanda di protezione internazionale, come potessero farla e quali fossero i loro diritti», ci dice Francesco Portoghese, uno degli estensori del rapporto pubblicato nel giugno 2017, operatore legale che si occupa di diritto d’immigrazione e d’asilo per A buon diritto.
«L’arrivo di due donne cinesi nel 2015 è stata un’assoluta novità – è scritto nell’introduzione del report -, fino a quel momento per noi l’Asia era rappresentata dai pakistani, dagli afghani e dai bengalesi. […] Da subito lo strumento utilizzato fu google traduttore senza il quale sarebbe stato impossibile anche solo immaginare la loro richiesta. […] La sorpresa arrivò quando sullo schermo apparve in italiano la frase da loro digitata in cinese, che diceva letteralmente “chiediamo un manicomio religioso”. […] probabilmente la parola era stata tradotta dal cinese in asylum e da qui in italiano in manicomio». Le due ragazze chiedevano protezione internazionale per motivi religiosi.
«Con questa sorta di equivoco linguistico abbiamo poi giocato per fare il titolo del report – aggiunge Portoghese -. Quando chiedevamo quali fossero i motivi della domanda di protezione, loro ci rispondevano sempre “motivi religiosi”».
Culti vietati e perseguitati
Tutti i casi seguiti dall’associazione di Roma riguardano persone perseguitate per il loro credo. «Non c’è un riconoscimento sostanziale della libertà di religione in Cina – continua Francesco Portoghese -. Nonostante nella sua Costituzione sia prevista, vi è un articolo del codice penale cinese, il 300, che mette al bando diversi culti ritenuti pericolosi». Quando una persona è indiziata di fare parte di un credo religioso vietato «possono scattare anche misure restrittive della libertà personale, come ad esempio l’arresto, e, nel cento per cento dei casi delle persone che ci hanno raccontato le loro storie, non c’è stata la possibilità per loro di vedere un avvocato, di comparire davanti a un giudice. Venivano prese e portate dentro prigioni o strutture per limitare la loro libertà. Alcune hanno riferito anche di essere state percosse in maniera molto violenta».
Portoghese ci racconta che dalle storie riportate dai cinesi richiedenti asilo, emergono due forme di persecuzione subite: «Una fisica: la violenza perpetrata da parte delle forze dell’ordine. E una psicologica: perché una volta che il tuo nome si conosce, non puoi più stare tranquillo, sai che in un modo o nell’altro potranno arrivare a te o alla tua famiglia. Ed è anche questo il motivo per cui a volte queste persone tranciano di netto i legami famigliari e abbandonano il paese».
I «mercati» religiosi in Cina
Per capire meglio la questione delle religioni perseguitate in Cina, abbiamo parlato con Massimo Introvigne, considerato uno dei maggiori conoscitori a livello internazionale di quelli che lui chiama «nuovi movimenti religiosi»: «Mi occupo della questione tutti i giorni. Ho recentemente scritto un libro per Elledici sulla Chiesa di Dio onnipotente: la chiesa cinese che attualmente conta il maggior numero di richiedenti asilo in Italia». L’avvocato torinese, fondatore del Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni, www.cesnur.org), ci spiega che i culti professati in Cina si possono suddividere in tre gruppi, chiamati dal sociologo Fenggang Yang «mercato rosso, grigio e nero». Del «mercato rosso» fanno parte le cinque associazioni patriottiche alle quali è consentito operare pubblicamente sotto il controllo del Pcc, il partito comunista cinese: la Chiesa delle tre autonomie (che raggruppa i cristiani protestanti), l’associazione buddista, quella islamica, quella taoista e la chiesa cattolica patriottica (della quale abbiamo parlato recentemente nel dossier MC marzo 2019, ndr).
Le religioni del «mercato nero» sono quelle presenti nella lista dei cosiddetti xie jiao (cioè degli «insegnamenti non ortodossi», tradotto spesso con «sette malvagie»), considerate pericolose per il governo ed esplicitamente vietate e perseguitate.
I culti del «mercato grigio» sono tutti gli altri, tra cui, ad esempio, la chiesa cattolica sotterranea.
Se i membri di un xie jiao rischiano il carcere, oltre a torture e vessazioni arbitrarie da parte delle autorità, anche i fedeli del «mercato grigio», da poco più di un anno subiscono limitazioni sempre più frequenti alla loro libertà di culto: chiese, templi, moschee non riconosciuti, che erano sopravvissuti per la tolleranza di alcune autorità locali, ora vengono chiusi in gran numero.
Massimo Introvigne, tra le altre cose, ha fondato nel maggio 2018 un quotidiano online sulla libertà religiosa in Cina: bitterwinter.org. In esso sono frequenti i resoconti di chiese, templi, moschee distrutti, di arresti di massa e detenzioni arbitrarie, di torture subite da membri dei culti xie jiao. Anche a causa del comprensibile uso di pseudonimi da parte degli articolisti (una quarantina dei quali – ci informa Introvigne – sono stati arrestati), la verificabilità delle notizie è difficile, ma la lettura di diversi rapporti di Amnesty international, Human right watch, Pew research center e altri, nonché del Report on international religious freedom 2018 del Dipartimento di stato Usa, uscito a fine giugno, che cita tra le fonti proprio Bitter Winter, affiancata all’opacità che circonda la vita del paese asiatico, rendono credibili molti di quei racconti.
Rifugiati cinesi nel mondo
L’aumento del numero di cinesi richiedenti asilo per motivi religiosi non è un fenomeno solo italiano, ma mondiale.
«Nel 2018, i cinesi che nel mondo hanno chiesto asilo per ragioni religiose è stato di 2.571 – ci informa Introvigne, citando dati dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati -. Il numero complessivo di nuovi richiedenti asilo cinesi è stato di 21.754». Circa un cinese su dieci che l’anno scorso ha fatto richiesta di protezione internazionale nel mondo, quindi, non aveva motivi di persecuzione etnica o politica, ma religiosa.
Questi dati, che riguardano le nuove richieste d’asilo del solo 2018, non sono da confondere con i dati complessivi che riguardano anche i rifugiati già riconosciuti e tutti i richiedenti asilo in attesa già da prima. A fine 2018, infatti, i cinesi rifugiati nel mondo erano in totale 212.050, quelli richiedenti asilo 94.367.
«Ho tenuto la relazione introduttiva a un incontro alle Nazioni Unite, qualche settimana fa a Ginevra, sui rifugiati provenienti dalla Cina in tutto il mondo. Il fenomeno è esploso negli ultimi anni, in particolare dopo il 2014, con un picco nel 2018. L’anno scorso, la Cina è diventata il nono paese al mondo per numero complessivo di rifugiati, e questa è una novità, perché per molti anni non figurava tra primi venti».
Pare che nel 2019 il numero di persone in fuga stia scendendo. Questo, per Introvigne, probabilmente a causa dell’avanzamento delle tecnologie usate dal governo per impedire, ad esempio, il rilascio tramite la corruzione di passaporti regolari.
Accoglienza schizofrenica
In Italia e in Europa, viene accolta in prima istanza circa una richiesta d’asilo su dieci, mentre in altri paesi l’accoglimento è maggiore.
«L’atteggiamento nei confronti dei rifugiati per motivi religiosi, nel mondo, è abbastanza schizofrenico – afferma Introvigne -, nel senso che vari paesi hanno atteggiamenti diversi. Canada e Usa hanno una percentuale di accoglimento delle domande dell’80 per cento, la Nuova Zelanda si avvicina al 100 per cento. Giappone e Corea, invece, non accolgono quasi nessuno. Il Giappone, su 20mila domande negli ultimi cinque anni, ne ha accolte 19. Non dalla Cina, ma da tutto il mondo. La Corea tende ad accogliere solo quelli della Corea del Nord. L’Europa è un po’ nel mezzo».
Ma perché allora i 6.095 cinesi che hanno fatto domanda d’asilo politico in Europa nel 2018, non sono andati in Canada, negli Usa o in Nuova Zelanda, dove è più facile ottenere asilo? «Negli Usa è più facile ottenere asilo – risponde Introvigne -, ma è molto più difficile ottenere il visto».
Per quanto riguarda il picco di richieste del 2016 in Italia, in effetti, un elemento importante da tenere in conto è quello che il nostro paese nel 2015 rilasciava il visto turistico con molta facilità in occasione del Giubileo straordinario e dell’Expo di Milano.
«Non escludo – aggiunge Introvigne – che nel caso della Chiesa di Dio onnipotente ci sia anche un’idea di distribuirsi nel mondo per fare attività missionaria, benché al momento essa non abbia dato grandi risultati».
Insufficienza d’informazioni
Il caso dei richiedenti asilo cinesi in Italia può essere un punto di osservazione interessante per capire qualcosa di più su come vengono valutate le domande di protezione internazionale. Al netto delle storie di persecuzione palesemente false, infatti, molti dinieghi sembra siano dipesi più dalle informazioni parziali in possesso delle commissioni territoriali, e dalle traduzioni cinese-italiano, a volte molto carenti, che dalle storie personali dei richiedenti.
A giudicare dagli atti di diniego, come quello consegnato a Quian nel novembre 2016, in alcuni casi l’asilo pare essere stato negato anche a causa delle informazioni parziali o vecchie in possesso dei funzionari sulla Cina e sui movimenti religiosi perseguitati: «La riunione a Ginevra di cui ho parlato, aveva anche lo scopo di migliorare le banche dati di informazioni sulle minoranze religiose in Cina usate dalle commissioni. Erano, infatti, molto vecchie – conferma Introvigne -. Per esempio sulla Chiesa di Dio onnipotente e sugli Uiguri (minoranza musulmana perseguitata dal Pcc, – vedi i link a fine articolo – ndr) dicono cose che erano vere dieci anni fa, se lo erano».
Un altro problema è poi quello della lingua: «L’asilo viene negato in parte per difficoltà di comunicazione – prosegue lo studioso torinese -. Per esempio, abbiamo notato che la qualità degli interpreti utilizzati dalle commissioni è molto bassa. In Italia è un problema particolare, perché sono pagati poco. Io conosco una ragazza a Torino che lo fa molto bene, per passione. Ma se uno non lo fa per passione, è chiaro che preferisce fare l’interprete per una multinazionale cinese.
C’è poi anche un problema culturale, nel senso che queste persone spesso non sanno come raccontare la loro storia in un modo coerente e credibile a chi non è abbastanza informato. Questo è un problema che riguarda tutti i rifugiati. Nel caso dei cinesi che, in Italia, sono in gran parte della Chiesa di Dio onnipotente, fino a qualche tempo fa nessuno sapeva di cosa si trattasse. Si andava su internet e si trovavano informazioni derivate dalla propaganda cinese. Questa cosa è migliorata con la comparsa, ad esempio, del mio libro, che ho depositato in parecchie cause».
La questione dei passaporti
Un altro problema, legato al tema delle informazioni sulla Cina, è quello del passaporto. Come mai, si domandano i funzionari italiani, e lo domandano in modo insistito ai richiedenti asilo, le autorità cinesi hanno rilasciato un regolare passaporto a un perseguitato?
«La questione del passaporto va studiata molto attentamente – risponde Introvigne -. Possiamo provare a dare delle risposte. La prima è che molti scappano prima di essere scoperti e quindi è chiaro che non figurano in nessun data base di ricercati. Qui si pone un problema di interpretazione delle leggi sui rifugiati: il perseguitato non è solo quello che è già stato arrestato, ma anche quello che, se fosse scoperto, sarebbe arrestato. L’altro fattore è che in Cina ci sono milioni di casi di corruzione ogni anno. Comperarsi un passaporto credibile non è difficile. È vero che il riconoscimento facciale, che le impronte digitali, rendono la cosa ogni anno un po’ più difficile, ma è anche vero che, pagando, tutto si può alterare. Si può acquistare, ad esempio, la complicità di uno che a una certa ora all’aeroporto non ti controlla.
Quello che secondo me spiega la questione passaporti è la massiccia corruzione. Pagando il giusto a un poliziotto corrotto, non c’è tecnologia che tenga».
Il terrore della delazione
Secondo gli ultimi dati analizzati dal Pew research centre risalenti al 2016, la Cina è il paese al mondo nel quale sono maggiori le restrizioni alla libertà religiosa da parte del governo, mentre l’ostilità sociale, da parte dei privati cittadini, è tra le più basse. Non si registra un numero elevato di episodi di intolleranza o violenza privata nei confronti dei membri delle minoranze religiose. Per questo forse il governo deve ricorrere a incentivi economici per indurre le persone a denunciare i membri delle religioni vietate: «Ci sono delle taglie economicamente interessanti per chi denuncia un appartenente a uno xie jiao. Sono più alte per i leader, ma esistono anche per i semplici fedeli», conferma Introvigne.
Quando i cinesi fuggono dal loro paese per timore di essere arrestati e arrivano in Italia, sono generalmente molto spaventati e vivono nel costante timore della delazione. «È chiaro che quando uno arriva – ci dice Introvigne -, ha molta paura e una tendenza un po’ paranoica a vedere agenti cinesi dappertutto che “mi spiano, mi vogliono rimandare in Cina, metteranno in pericolo i miei famigliari”. Dopo un po’ che vive in Italia, però, e dice qualche parola in italiano, comincia a prendere un po’ di sicurezza».
La rete comunitaria
Normalmente, comunque, fanno in fretta a inserirsi nella comunità dei loro concittadini. Dice Francesco Portoghese: «La comunità cinese presenta molte peculiarità, prima di tutto perché c’è una forte componente di persone cinesi arrivate in Italia per lavoro. C’è una rete etnica molto presente. Le persone, anche prima di ottenere la protezione, erano già in contatto con altri connazionali, tanto è vero che in alcuni casi rifiutavano anche di entrare nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo, preferendo dimorare da amici. Questo da un certo punto di vista ha rischiato di creare una sorta di ghettizzazione perché erano persone terrorizzate che si fidavano, ma neanche tanto, solo dei loro connazionali, e avevano molte difficoltà a rapportarsi con le forze dell’ordine per il semplice fatto di vedere una persona in divisa, e quindi era molto difficile approcciarle». Introvigne, sulla vita dei richiedenti asilo cinesi in Italia, aggiunge: «Diciamo che i richiedenti asilo cinesi un lavoro lo trovano, magari non completamente regolare. Perché poi, nella comunità cinese, c’è quello dello stesso paese o della stessa etnia che ti dà un lavoro in nero. È evidente però che, anche se possono vivere in Italia in modo irregolare, si battono per ottenere almeno una protezione sussidiaria. Tra l’altro i membri della Chiesa di Dio onnipotente e anche degli Shouters (altro movimento religioso cinese, ndr), hanno una morale tradizionale protestante fondamentalista, per cui a loro non piace violare la legge. Se potessero avere un lavoro regolare, non clandestino, sicuramente preferirebbero. E poi è una comunità che non pesa sullo stato, che ha delle forme di aiuto interne, nella quale chi è benestante aiuta gli altri. Sono comunità autosufficienti. E da questo punto di vista sono dei buoni cittadini».
Rompere i legami famigliari
Nei loro racconti, i richiedenti asilo cinesi spesso parlano della necessità di rompere tutti i legami con le loro famiglie rimaste in Cina. Nel report di A buon diritto viene raccontato di una donna che, per mantenere la propria fede, è scappata dalla Cina lasciando in patria il figlio tredicenne senza nemmeno avvisarlo, e troncando ogni contatto.
«Questo è un tasto doloroso – afferma Introvigne -. Spesso cercano di evitare i contatti per paura di mettere nei pasticci i propri famigliari. C’è chi telefona ma cerca di evitare qualunque argomento sensibile perché sa che esiste una sorveglianza, e c’è chi non telefona neppure.
Di tornare, naturalmente, non se ne parla. Primo perché in Italia, con il decreto sicurezza, se uno torna anche per una breve visita dopo aver ottenuto asilo, glielo tolgono, ma poi perché ci sono diversi casi di persone che pensavano di non essere note al Pcc come membri della Chiesa di Dio onnipotente o di un altro gruppo, e che, invece, tornati in Cina, magari per un’operazione chirurgica che lì costa meno, sono stati arrestati. Il che conferma che una sorveglianza della Cina sui profughi all’estero c’è».
La religione è un pretesto?
Nel report di A buon diritto si esprime il dubbio che la persecuzione religiosa, a volte, possa essere falsa e che venga usata come pretesto per ottenere lo status di rifugiato e aggirare così la chiusura degli ingressi in Italia stabiliti con il decreto flussi, oppure per nascondere un fenomeno di tratta di persone: «Sì, ci sono stati anche dei casi di prostituzione – afferma Introvigne -. Prostitute che sono entrate con false storie di persecuzione religiosa. Questo è sempre possibile. Quindi, il consiglio che, da una parte, si può dare alle commissioni territoriali e, dall’altra, si può dare ai movimenti religiosi, è di affinare un sistema di certificazione di chi è membro del movimento e di chi non lo è. Ci sono stati casi, ad esempio in Australia, in cui la stessa Chiesa di Dio onnipotente ha smascherato dei falsi rifugiati che dicevano di essere suoi membri».
Quando le commissioni che devono verificare se il richiedente è veramente membro di un movimento religioso perseguitato, fanno domande sulla sua teologia, ma basandosi su informazioni spesso vecchie o parziali, il rischio di sbagliare è alto. Sono diversi i casi nei quali le risposte dei cinesi richiedenti asilo erano giuste, ma non combaciavano con le informazioni a disposizione della commissione.
L’obbligo di proteggere
Nel clima di aspra propaganda sui migranti che si respira in Italia, può essere utile soffermarsi su una tipologia così particolare di persona: il rifugiato per motivi religiosi. Se non altro per constatare che il fenomeno «immigrazione» è complesso e vario, almeno quanto sono complesse a varie le singole storie personali di quelli che chiamiamo «immigrati».
«Sappiamo che in Italia, nei confronti dei rifugiati non c’è un atteggiamento di accoglienza, e nell’opinione pubblica vi è una grandissima confusione tra rifugiati e immigrati, mentre è chiaro che sono due categorie giuridiche diverse – afferma Introvigne -. Esiste il problema, come ci ricorda papa Francesco, di accogliere gli immigrati, però, mentre accogliere gli immigrati è una questione politica, accogliere i rifugiati è un obbligo che deriva dai trattati internazionali che abbiamo sottoscritto».
Oggigiorno è facile imbattersi in qualcuno convinto che «l’Islam vuole distruggere il Cristianesimo e quindi bisogna tenere lontani i migranti che ne sono la testa di ponte». Espressioni come questa, scritte in modo meno educato, ricorrono con frequenza impressionante nei commenti sui social o nelle interviste Tv. Apparentemente sembrano dichiarare una seria preoccupazione per il futuro della nostra religione, in realtà rivelano un atteggiamento in aperto contrasto con la nostra fede.
Non voglio sottovalutare il pericolo e l’aggressività di un Islam radicale e fondamentalista, come quello promosso e finanziato da diversi paesi del Golfo, i quali continuano a essere sostenuti dall’attuale governo americano che pure ha tra i suoi sponsor le ali più integraliste e tradizionaliste del cristianesimo cattolico ed evangelico. Questo tipo di Islam, di cui l’Isis, Al Qaeda e altre organizzazioni fondamentaliste sono espressione, sta portando terrore e lutti in molte parti del globo, e non sono solo i cristiani a soffrirne, ma anche i musulmani stessi, oltre ai fedeli di altre religioni.
Sono anche ben cosciente che l’Islam si ritiene l’unica religione vera, ma condivide questa certezza con Ebraismo e Cristianesimo, che – pur in modi diversi – considerano Abramo come loro padre nella fede. Questa convinzione è stata abbondantemente usata nella storia come una liberatoria anche dai cristiani per giustificare guerre di religione e conquiste.
Tornando alla nostra Italia: secondo le statistiche dell’Istat, elaborate dall’Ismu, nel 2018 quasi il 58% degli oltre 5 milioni di immigrati in Italia sono cristiani e poco più del 28% sono musulmani.
Ovviamente non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte al pericolo costituito dal fondamentalismo o dal terrorismo islamico (o di altre religioni e sette). Però dire che l’Islam vuole distruggerci come cristiani – e che quindi occorre difenderci con tutti i mezzi dai suoi fedeli invasori – rischia di essere non solo una fake news ma soprattutto un alibi alla crisi di fede in Europa e una scelta, quella dell’odio del nemico, che Gesù ha decisamente condannato sia col suo esempio personale che con le sue parole.
In realtà i primi nemici del Cristianesimo siamo proprio noi cristiani. Guardiamoci con oggettività. Analizziamo le nostre scelte quotidiane di vita, le priorità che abbiamo, l’uso del nostro tempo, l’immagine ideale che abbiamo di noi stessi, i sogni che trasmettiamo ai nostri figli. Forse, pur chiamandoci cristiani, in realtà siamo diventati degli idolatri e seguiamo molti dei. Al primo posto c’è il dio denaro e poi i suoi molti accoliti come il benessere, il successo, l’affermazione personale, il prestigio, il potere, il desiderio di eterna giovinezza, l’avere tutto senza fatica. Così la domenica non è più il giorno del Signore ma il weekend, al centro dei nostri interessi non c’è più la persona ma il profitto, la comunità è resa vana da indifferenza e individualismo, il lavoro diventa sfruttamento, il divertimento sostituisce allegria e felicità, il bullismo corrompe le relazioni di amicizia… In casa non si prega più insieme, ma neanche si mangia insieme e ci si parla poco: dominano la Tv sempre accesa, il computer e il cellulare. Chi ti considera se dici che vai a messa, che preghi, che fai servizio nella comunità, aiuti i poveri, hai cura dell’ambiente? Un’ora di messa la domenica è lunga e pizzosa, ma fare la coda per ore in autostrada per andare al mare e ai monti o davanti a un certo negozio per avere l’ultimo gadget tecnologico non fa problema. Fare allenamenti estenuanti per imparare uno sport o altre attività è un impegno necessario se si vuole essere qualcuno, stare bene o essere accettati, andare al catechismo con fedeltà e partecipazione per diventare una persona migliore è un peso. Poveretto poi uno che pensasse di diventare sacerdote o suora o missionario: deve rinunciare a tutto.
È fin troppo facile fare la lista degli atteggiamenti idolatrici che mettono in evidenza come siamo proprio noi i primi nemici della nostra stessa fede. Piangerci addosso non serve, neppure alimentare le paure. La strada è quella della conversione per dare una bella scossa alla nostra fede, per amare davvero il Dio Misericordioso e gli altri (tutti gli altri) e per porre la nostra speranza in ciò che
ci costruisce come uomini a immagine di Gesù.
Penisola Arabica:
(Cristiani) Come ospiti tollerati (ma speranzosi)
Nella veste di responsabile del vicariato apostolico dell’Arabia
meridionale, monsignor Paul Hinder conosce le difficoltà di vivere in paesi
dove l’islam è religione di stato e la sharia fonte del diritto. Emirati Arabi,
Oman e Yemen, quest’ultimo devastato dalla guerra civile, sono i paesi dove il
vescovo svizzero si muove. Paesi nei quali l’Arabia Saudita, nazione egemone dell’area,
non fa mancare la propria influenza. Con i soldi o con le armi.
I slam, sharia, petrolio, immigrati. Sono alcuni degli
elementi che hanno in comune i sette paesi che compongono la penisola arabica.
Tutti a parte lo Yemen, che non ha né petrolio né immigrati e che, per di più,
da oltre quattro anni è devastato da una cruenta quanto misconosciuta guerra
civile.
In quest’area domina l’Arabia Saudita, monarchia oscura (e
oscurantista) verso la quale quasi tutti i paesi – in primis, gli Stati Uniti di
Donald Trump – mostrano una deferenza spiegabile soltanto con le enormi
ricchezze di cui essa può disporre. È Riad che guida la coalizione che combatte
in Yemen. È Riad che ha imposto un duro embargo contro il riottoso (ma
altrettanto ricco) Qatar. È Riad che ha fatto assassinare il giornalista
dissidente Jamal Khashoggi. È Riad che, dietro le quinte, trama nella guerra di
Siria e per l’isolamento dell’Iran sciita.
Nella penisola arabica, dal 2011 opera monsignor Paul Hinder, vescovo svizzero
di 76 anni. Il suo ruolo è quello di vicario apostolico dell’Arabia
meridionale, che comprende Emirati Arabi, Oman e Yemen. Lo abbiamo incontrato
prima dell’annuncio della visita di papa Francesco negli Emirati (3-5 febbraio
2019).
Convivere con la sharia
Monsignor Hinder, in quali paesi della penisola arabica lei sta operando?
«Oggi
sono vicario apostolico degli Emirati Arabi Uniti (nella cui capitale, Abu
Dhabi, risiedo), del sultanato di Oman e della repubblica dello Yemen. Dal 2005
al 2011 ero vicario anche di Arabia Saudita, Bahrein e Qatar. Poi la Santa Sede
ha fatto una riorganizzazione territoriale di tutta la penisola per avere una
suddivisione più ragionevole».
Come si vive in paesi dove la sharia è la principale fonte del diritto?
«Tutto
dipende da come essa è applicata nella pratica. È chiaro che ci sono vari modi
di interpretarla e applicarla. La sharia non è soltanto tagliare le mani o la
testa. Anche se capita ancora. Per esempio, in Arabia Saudita».
Non si tratta quindi di una esagerazione giornalistica?
«Non
lo è, ma questo non significa che sia l’atteggiamento generale. La sharia è
tutto quello che noi consideriamo diritto civile, quello che regola le cose
della famiglia, della proprietà, eccetera. Anche io sono andato alla “Corte
della sharia” per delle firme. Non è una cosa di cui avere paura: è il modo per
regolare i rapporti in una società musulmana. Chiaro che, per noi cristiani, ci
sono dei limiti nella libertà religiosa che, in questi paesi, non è
riconosciuta come una libertà propria della persona. E poi la libertà del
culto, di svolgere cioè le liturgie, è limitata. Come in Arabia Saudita dove
non esistono chiese, che invece esistono in tutti gli altri stati».
Intende dire che, a tutt’oggi, in?Arabia Saudita non esistono strutture
adibite a chiese?
«No,
anche dopo la visita del cardinale maronita (nel novembre 2017 il cardinale
Bechara Rai, patriarca dei maroniti, ha incontrato re Salman a Riad, ndr). Forse un domani, ma personalmente
nutro ancora dubbi. Ci sono – va precisato – delle comunità, formalmente rette
dal vescovo incaricato. Informalmente esistevano anche quando ero ancora
vescovo io. Ci sono messe celebrate in case private in modo discreto. Questo è
tollerato in quanto non disturba altri».
Oman, Emirati Arabi, Yemen sono paesi in cui esistono le chiese intese come
costruzioni?
«Esistono
ma per esempio senza campanili, senza croci esterne visibili dalla strada. Poi
all’interno sono come le chiese di qui, anche se non della stessa qualità
estetica e culturale. La chiesa di St. Mary di Dubai ha posto per 2mila fedeli
ed è ancora troppo piccola. Quella in Qatar, che avevo costruito io quando ero
vescovo, può ospitare 2.700 persone sedute. Nello Yemen, a causa della guerra,
le chiese sono in gran parte o parzialmente distrutte. In questo momento
inoltre non ci sono sacerdoti, e comunque non sono posti sicuri per i fedeli.
Quindi, la vita comunitaria dei pochi cristiani che stanno nello Yemen è
sospesa. C’è una comunità di suore di Madre Teresa che continua a lavorare, a
dare testimonianza a Sanaa in un modo veramente ammirevole».
Monsignore lei ha accennato allo Yemen, un paese dove è in atto una guerra
molto cruenta, anche se ignorata dai media internazionali. Dal suo punto di
vista, come può descrivere la situazione del paese?
«Anch’io
non so tutto perché è molto difficile avere delle informazioni affidabili di
quella zona. Ovviamente la gente al telefono non parla e anche quelli che
vivono nel paese non conoscono bene la realtà. Da una parte c’è la guerra e
dall’altra una pace relativa o almeno senza guerra. Dobbiamo considerare che lo
Yemen è sempre stato un paese in conflitto in questi ultimi decenni. Ricordo
che se ne parlava già quando io ero ragazzo. Il conflitto attuale si è
complicato dopo l’intervento del 2015 da parte dell’Arabia Saudita e dei suoi
alleati. Un intervento che ha esteso la guerra e che ha fatto cadere sulle
spalle della popolazione yemenita questa contrapposizione con l’Iran, anche se
quest’ultimo non è coinvolto nello stesso modo, cioè in maniera diretta.
Cosa
fare? Io credo che il problema basilare, a parte i conflitti interni, manca la
capacità di arrivare a un compromesso: nella cultura del mondo arabo, o vinci o
hai perso. Questa mentalità impedisce molto spesso di incontrarsi a metà strada
e così si continua pensando di avere la meglio. Nel caso dello Yemen penso che
nessuna delle parti arriverà alla vittoria. Credo che sia necessaria una
soluzione che si elabori a livello di Nazioni Unite, se i grandi poteri vogliono.
Il problema è che finora è mancata la volontà. Lasciano proseguire la guerra.
Mancano le informazioni. I belligeranti non vogliono sia conosciuto troppo bene
ciò che capita nel paese. A questo scopo non è consentita l’entrata dei
giornalisti. Anche se sappiamo che oggi circa 5 milioni di bambini sono a
rischio di morte per fame. Se capitasse che il porto di Al-Hudaydah (il
principale porto sul Mar Rosso, ndr)
dovesse essere chiuso, questa sarebbe la conseguenza. Poi non possiamo
dimenticare le malattie. Le strutture sanitarie sono in parte distrutte. Ci
sono rifugiati all’interno del paese, mentre sono relativamente pochi gli
yemeniti che riescono a espatriare. Una “fortuna” per l’Europa che di certo non
vuole questa gente».
Parliamo di una guerra che riguarda milioni di persone.
«Certo.
Lo Yemen non è un piccolo paese: conta circa gli stessi abitanti dell’Arabia
Saudita (circa 28 milioni, ndr) che però è molto più grande come superficie».
Monsignore, come mai si parla tantissimo della guerra in Siria e, al
contrario, si parla pochissimo di quella in Yemen? C’è una ragione particolare?
«Particolare
non lo so. Di sicuro la Siria è culturalmente più vicina a noi. Molti l’hanno
conosciuta come turisti. Anch’io, quando ero consigliere generale dei
cappuccini, ho frequentato molto la Siria. I poteri inoltre vedono la Siria
come una zona di conflitto più importante. Anche se, a lunga scadenza, lo Yemen
non sarà da meno».
Monsignore, torniamo sull’Arabia Saudita, il paese più potente della
regione. Ci può dire qualcosa sulla situazione attuale di quel paese? Le
aperture democratiche di cui si è parlato sono reali oppure sono soltanto un
maquillage pensato dai reali?
«Democratiche
non è il termine giusto, perché questa è una monarchia che prende le decisioni
in modo assoluto. Ora stanno avvenendo dei cambiamenti, ma – questo è un mio
giudizio – sono per la facciata, anche per dare l’impressione, a livello
internazionale, di una relativa apertura. Il fatto che le donne possano guidare
l’auto è stato considerato in Occidente come un miracolo. E lo è, ma non cambia
la vita della società. Ci sono delle donne saudite che lottano per una società
più aperta che sono messe in prigione. Una cosa che non possiamo dimenticare è
che c’è un matrimonio tra il wahhabismo (che è l’interpretazione più severa
dell’islam) e la famiglia Saud. È quasi impossibile che arrivino a un divorzio
altrimenti l’Arabia Saudita, nelle forme attuali, avrà grandi problemi. Per
questo non penso che il principe ereditario Mohammad bin Salman, che sembra
essere l’uomo forte, possa andare avanti troppo veloce. Vedremo cosa capiterà.
Piccoli cambiamenti ci sono, che riguardano anche i cristiani. Il potere della
polizia religiosa è stato limitato. Non sono più frequenti le sanzioni che
c’erano prima. Piccoli passi che rendono un po’ meno problematica la vita dei
cristiani. Sarebbe però sbagliato che l’Occidente pensasse che i cambiamenti
avverranno presto. Come accaduto ai tempi della primavera araba quando si pensò
che, nel giro di qualche mese, ci sarebbe stata la democrazia per tutti. Non è
possibile. Diamo il tempo a queste realtà della penisola arabica (come di altre
parti del mondo musulmano) di sviluppare a modo loro il sistema politico».
Monarchie inamovibili
La benevolenza degli Stati Uniti di Trump verso l’Arabia Saudita deriva da
questioni di business, da questioni geopolitiche, o da che altro secondo lei?
«Alla radice secondo me ci sono due cose
principali, una è sicuramente l’economia. Chiaro che essendo il petrolio sotto
il suolo dell’Arabia Saudita (e degli altri stati vicini), c’è un interesse
economico. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno sempre visto nell’Arabia
Saudita un fattore di stabilità, non guardando se il regime garantisce o meno i
diritti umani. Quando ci sono di mezzo politica e business, gli stati
occidentali non guardano molto alla morale. Non voglio dare un giudizio ma fare
una constatazione che vale non soltanto per gli?Stati Uniti ma anche per i
paesi europei».
A suo personale giudizio, in questi paesi, il concetto di democrazia
nell’accezione che se ne dà in Occidente potrà mai esistere?
«Non
direi mai, ma sicuramente non in tempo breve. In questi paesi tutta la
struttura, anche tribale, è un impedimento. Senza dimenticare che queste
monarchie non vogliono perdere il potere. Ci saranno dei passi verso elementi
democratici della Shura, il parlamento islamico, che comunque non rappresenta
tutta la popolazione (i migranti ad esempio sono esclusi). Io mi aspetto una
condivisione più grande da parte della popolazione indigena e cittadina, questo
sì. Non a breve comunque, e come lo faranno non lo so. Non sarà una democrazia
come la conosciamo noi. C’è poi un altro elemento da non dimenticare: loro
guardano quello che succede negli Stati Uniti e in Europa o in altri posti e
non sono necessariamente entusiasti di ripetere quello che ci sta capitando.
Forse anche noi in Occidente dobbiamo riscoprire cosa vuol dire essere
democratici con responsabilità».
Questo discorso che ha fatto vale per tutti i paesi dell’area arabica o
soprattutto per l’Arabia Saudita?
«Direi
per tutti gli stati, ricordando che lo Yemen formalmente è una repubblica e non
una monarchia. Però abbiamo visto che non funziona se non rispettano certi
elementi della tradizione. Dovrebbero trovare il modo di combinare tradizioni
antiche con una modernizzazione nella condivisione del potere».
Prove di dialogo con l’islam
Monsignore lei crede che con l’islam sia possibile dialogare?
«Penso di sì e comunque non c’è altra scelta. Quando si
arriva ai contenuti delle nostre fedi diverse sicuramente si hanno dei problemi
enormi da superare, perché un dialogo comporta le competenze che io per esempio
non ho, dato che non sono esperto in islamologia. Sono capace di fare un
dialogo umano perché vivo in questa situazione, ho delle persone che conosco
che possono discutere su questo, ma non è un approfondimento delle posizioni
ideologiche che posso fare. Ci sono dei tentativi. Prima di tutto ci vuole la
conoscenza propria e dell’altro.?E poi trovare dei campi dove andare avanti
insieme, come la pacificazione in questi paesi che è una preoccupazione di
tutti. Ci saranno possibilità sul campo caritativo dove c’è una certa
collaborazione e dialogo. Poi c’è la questione di avere rispetto per l’altro,
rispettare l’altra religione nella sua qualità malgrado le debolezze che noi
notiamo o pensiamo di notare. Sono 15 anni che sono qui e il vedere come
vivono, come si forma la vita, mi ha fatto crescere il rispetto verso gli
altri, e spero sia viceversa, quando loro vedono come noi viviamo. Ciò può
aiutare a superare pregiudizi e anche elementi di conflittualità. Quando io
conosco qualcuno nella sua diversità e lo rispetto, c’è meno rischio che ci
attacchiamo fisicamente come è successo nel passato».
Sono migranti (non immigrati)
Risponde al vero che la maggioranza dei fedeli cattolici
proviene dalle larghissime fila degli immigrati in questi paesi?
«Dobbiamo essere chiari nella terminologia:
non sono immigrati nel senso stretto, ma migranti. Ci hanno detto questo gli
stessi governi. Non siamo immigrati perché non possiamo rimanere e non possiamo
diventare cittadini. Non esiste possibilità di naturalizzazione, neppure per
quelli che parlano arabo. Pertanto, si parla di migranti che stanno in questi
paesi per un tempo limitato. Tra essi ci sono alcuni di classe media che
potranno rimanere praticamente per la vita, ma che non saranno naturalizzati.
Possono restare se sono in grado di pagarsi il soggiorno che è concesso per 2 o
3 anni. Se poi qualcuno perde il lavoro, deve andarsene. Anche la Chiesa deve
essere molto cauta perché non può promettere ai propri preti di farli restare
per tutta la vita. Essere migranti rimane la nostra sorte. Come ho detto tante
volte, siamo “una Chiesa di migranti per migranti”. Dal vescovo, fino
all’ultimo arrivato a Dubai o ad Abu Dhabi».
Migranti, dunque. Ma da dove provengono?
«Per
quanto riguarda gli Emirati, vengono soprattutto dalle Filippine e dall’India,
ma anche da altri paesi arabi (Siria, Libano, Palestina) e dall’Africa, sempre
di più. E poi dalla Corea e dall’America Latina. Insomma, dal mondo intero.
Nella nostra chiesa abbiamo più di 100 nazionalità diverse».
Queste persone che tipo di professionalità hanno?
«C’è
un po’ di tutto, ma in particolare si tratta di lavoratori del settore delle
costruzioni. Nel 2020 a Dubai ci sarà l’esposizione mondiale, nel 2022 nel
Qatar il campionato mondiale di calcio: c’è e ci sarà bisogno di tanti operai
per due progetti mastodontici. Vivono in zone residenziali a parte. La mattina
sono trasportati con il bus al lavoro per tornare alla sera. Questi non possono
partecipare pienamente alla vita parrocchiale anche se facciamo degli sforzi
per aiutarli un po’. Per esempio, organizzando il venerdì il trasporto alla
chiesa. Poi ci sono le impiegate domestiche che sono legalmente più deboli e
meno protette, anche se dipende molto dal datore di lavoro. Ci sono alcuni che
portano i loro impiegati alla messa, e poi aspettano per riportarli indietro.
Altri invece le trattano come vere e proprie schiave».
Per esempio, un lavoratore dell’edilizia ha uno stipendio adeguato?
«Cosa vuol dire
adeguato? Anche qui ci sono leggi sul salario minimo. Sicuramente rispetto a
quello che guadagnano o potrebbero guadagnare a casa loro è molto di più. Il
grande problema è cosa fare quando non sono pagati o lo sono ma in ritardo di
mesi. Qui iniziano i problemi e un giro legale. Un governo dovrebbe controllare
di più affinché queste cose non capitino. In questi ultimi 15 anni hanno fatto
dei grandi progressi, ma questo rimane un problema serio. Può così accadere che
alcuni partano poveri e ritornino ancora più poveri. Altri che hanno visto la
loro situazione sbloccarsi quando erano già tornati al loro paese lasciando
indietro gli stipendi che per legge gli spettavano. Alle nazioni che esportano
manodopera nei paesi del golfo dovremmo dire: non aspettatevi di arrivare in un
paradiso. Molto spesso è una vita dura o durissima, anche quando le cose vanno
normalmente. Qui si guadagna di più ma questo ha un prezzo umano. Molte
famiglie si sfasciano. Per questo cerchiamo di aiutare i nostri fedeli con la
pastorale».
Se io sono un migrante, in questi paesi ho diritto all’istruzione, alla
sanità, insomma a usufruire dei servizi pubblici?
«Dipende dove sono.
Ad esempio, ad Abu Dhabi l’assicurazione sanitaria è obbligatoria. Quindi, un
datore di lavoro non può fare un contratto di lavoro senza. Anche noi come
Chiesa siamo obbligati. L’accesso alle strutture sanitarie c’è, anche se alcune
strutture sono soltanto per i locali. Spesso gli indiani preferiscono andare a
casa propria dove la sanità è meno cara ed è buona. Quanto alla scuola, è
essenzialmente privata ed è un problema per le famiglie meno abbienti a causa
delle rette. Come Vicariato abbiamo scuole aperte a tutti (anche ai musulmani)
e a prezzi accessibili. Questa è la nostra missione, perché per i ricchi ci
sono scuole sufficienti».
Monsignore, dopo quasi 15 anni nella Penisola Arabica, come giudica questa
sua esperienza?
«Io
sono andato in?Arabia con una certa reticenza. Avevo paura ad accettare la
nomina. Una volta arrivato mi sono dato completamente a questo compito,
nonostante tutti i problemi. I fedeli mi hanno dato gioia, vedendo una Chiesa
non perfetta ma molto attiva, impegnata, motivata, che mi ha aiutato ad
approfondire me stesso e la mia fede. Mi sento felice qui anche se è un mondo
diverso che mi rimarrà sempre un po’ straniero, ma ho imparato molto da questa
cultura e non vorrei mi mancasse. Forse vent’anni fa avrei risposto
diversamente a una simile domanda».
Paolo Moiola
La guerra nello Yemen
Un’arma chiamata indifferenza
Ci sono paesi dove si combattono guerre evidenti e cruente eppure
dimenticate da tutti (comunità internazionale, media, opinione pubblica). Lo
Yemen è uno di essi.
Sono sempre esistite le cosiddette «guerre
dimenticate», conflitti evidenti e cruenti ma che, per una serie di ragioni,
non arrivano o arrivano sporadicamente e parzialmente all’attenzione
dell’opinione pubblica mondiale. In questa situazione l’indifferenza diventa
un’arma micidiale. La guerra civile nello Yemen, paese tra i più poveri del
Medio Oriente, rientra a pieno titolo nella categoria. Una guerra civile
iniziata sulla fine del 2014 quando gli Huthi – un gruppo islamico sciita (di
una variante nota come zaydismo) – prendono gran parte della
capitale Sanaa. Nel marzo del 2015 l’Arabia Saudita, a capo di una coalizione
di 10 paesi (9 dopo il ritiro del Qatar), interviene nel conflitto a fianco del
deposto presidente Hadi, nel frattempo fuggito. Il paese è smembrato: una parte
(quella ad Ovest) in mano agli Huthi, una parte nelle mani della coalizione
saudita e una parte divisa tra al-Qaeda e Stato islamico. A dicembre 2018 le
Nazioni Unite sono finalmente riuscite ad aprire colloqui di pace a Stoccolma.
A oggi la guerra avrebbe già fatto oltre 12mila morti e
milioni di profughi, come milioni sarebbero le persone a rischio carestia. In
tutto questo s’inserisce anche una storia nella storia che riguarda l’Italia e
in generale l’Unione europea. Secondo il New
York Times, la Rheinmetall Defence,
una industria d’armi di passaporto tedesco ma con stabilimento in Italia (a
Domusnovas, in Sardegna), è tra i fornitori di bombe dell’Arabia Saudita. La
cosa sarebbe però vietata dalla legge italiana n. 185 del 1990 che vieta
l’esportazione di armi verso paesi in conflitto. Senza dire che, nel settembre
2013, l’Italia ha sottoscritto il Trattato internazionale sul commercio delle armi
(Arms Trade Treaty, Att) che limita
fortemente la compravendita di armi. Nel frattempo, lo scorso 25 ottobre 2018
l’Europarlamento ha approvato una risoluzione che chiede agli stati membri di
imporre un embargo sulla fornitura di armi a Riad, dopo l’omicidio del
giornalista Jamal Khashoggi (un critico dell’intervento saudita in Yemen). La
risoluzione comunitaria non è però vincolante, probabilmente perché Francia e
soprattutto la Gran Bretagna sono importanti fornitori d’armi di Riad. Proprio
come gli Stati Uniti, di gran lunga in testa nelle vendite all’Arabia Saudita (fonte: Sipri).
Nessun conflitto meriterebbe
indifferenza. Visto il coinvolgimento di molti paesi occidentali, la guerra
civile in Yemen la merita ancora meno.
Paolo Moiola
L’assassinio del giornalista saudita
L’affaire Jamal Khashoggi
Forse il coinvolgimento del principe ereditario non sarà mai provato.
Tuttavia, l’assassinio del dissidente ha messo in grande imbarazzo Riad. E il
presidente Trump.
Il 2 ottobre 2018 il giornalista
saudita Jamal Khashoggi entra nel consolato del suo paese a Istanbul per
sbrigare una questione burocratica relativa al matrimonio con la sua fidanzata
turca. Da quel momento si perdono le sue tracce. Qualche giorno dopo la sua
scomparsa si scopre che è stato ucciso da funzionari sauditi e – pare –
smembrato. Tutto sembra indicare Mohammed bin Salman (Mbs) come mandante
dell’omicidio.
Nato a Medina nel 1958, Khashoggi
era un giornalista moderato ma critico verso il proprio paese e in particolare
verso il principe ereditario Mbs, da molti (frettolosamente) eletto al ruolo di
riformatore della monarchia saudita. Costretto al silenzio, nel 2017 Khashoggi
aveva deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove collaborava come
opinionista al Washington Post.
Qualsiasi sarà l’evoluzione della
vicenda (le accuse della Turchia, della Cia, del senato Usa, ecc.) per il
principe ereditario saudita non ci dovrebbero essere conseguenze. Lo si è visto
anche al summit del G20 di Buenos Aires, all’inizio di dicembre, quando Mbs?ha
stretto mani e dispensato sorrisi. L’assassinio di Khashoggi non potrà certo
fermare l’ascesa del giovane e ambizioso rampollo di re Salman.
Paolo Moiola
I sette paesi islamici
La penisola dell’Arabia Saudita
Nella penisola arabica la Chiesa cattolica è presente con due Vicariati,
uno retto da mons. Camillo Ballin e uno da mons. Paul Hinder.
Vicariato Apostolico dell’Arabia Settentrionale:
Vicario:
mons. Camillo Ballin
? Arabia Saudita:
monarchia assoluta, dal 1926 governata dalla famiglia al-Saud,
il paese più importante della penisola arabica è al centro dell’interesse
mondiale per le ricchezze petrolifere, le ambiguità sul terrorismo islamista e
l’alleanza con gli Stati Uniti. Da giugno 2017 è attraversata da faide
familiari a causa della nomina del giovane Muhammad bin Salman (Mbs) come
successore di re Salman. Attualmente capeggia la rivolta contro il Qatar e la
guerra in Yemen.
? Kuwait:
è una monarchia della famiglia al-Sabah; la maggioranza
della sua popolazione è immigrata.
? Bahrein:
il piccolo arcipelago è una monarchia retta dalla famiglia
sunnita al-Khalifa. Da 2011 è teatro di proteste della maggioranza sciita, il
cui leader, lo sceicco Ali Salman, è in prigione, condannato a vita nel
novembre 2018.
? Qatar:
monarchia ereditaria della famiglia al-Thani, è una penisola
vasta quanto metà della Lombardia, paese ricchissimo e molto attivo sulla scena
internazionale (anche con il network mediatico al-Jazeera), dal giugno 2017
subisce l’embargo diplomatico ed economico da parte di Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. Il 3 dicembre 2018 ha annunciato l’uscita
dall’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio di cui era membro
dal 1961.
Vicariato Apostolico dell’Arabia Meridionale:
Vicario:
mons. Paul Hinder
? Emirati Arabi:
è uno stato federale composto da 7
emirati; i 2 più importanti sono Abu Dhabi e Dubai.
? Oman:
con meno risorse petrolifere degli
altri (Yemen escluso) il sultanato dell’Oman è il più tranquillo tra i paesi
della penisola arabica; il sultano Qabus è al potere dal 1970.
? Yemen:
il paese più povero della regione
è in guerra dal settembre del 2014; si fronteggiano i ribelli conosciuti come
Huthi (musulmani sciiti legati all’Iran) e una coalizione islamista guidata
dall’Arabia Saudita.
Un’India per soli indù.
Il nazionalismo induista contro le minoranze
Dopo dieci anni dagli assalti anticristiani avvenuti nello stato di Orissa,
la situazione non è migliorata. Anzi. L’ideologia nazionalista indù, al potere
dal 2014, sembra voler soffiare sul fuoco. E le minoranze, non solo quella cristiana,
hanno sempre più paura.
Il 23
agosto del 2008, nello stato dell’Orissa, nell’India orientale, scoppiò la
peggiore persecuzione contro i cristiani della storia del paese. Sono passati
più di dieci anni da allora, eppure continua a essere forte la difficoltà
indiana di mantenere l’equilibrio tra il progresso, il particolarismo e i suoi
ideali di convivenza e nonviolenza.
In quei giorni di violenza che costrinsero alla fuga 50mila
individui e provocarono un centinaio di morti, la devastazione delle abitazioni
dei cristiani e dei loro luoghi di preghiera, l’esproprio delle loro terre e la
confisca dei loro beni dimostrarono che le forze di ispirazione religiosa induista,
connesse anche a interessi economici e di potere, erano in grado di operare
nell’impunità. Infatti, non solo mancò un’opera di prevenzione da parte delle
istituzioni, ma ci fu anche un intervento tardivo e parziale delle forze
dell’ordine per fermare le folle di indù che, in diversi casi, provenivano da
altri distretti e persino da altri stati dell’India.
Impunità e paura
Sul piano della giustizia, l’impunità su ampia scala ha segnato
finora le decine di processi avviati contro presunti esecutori e organizzatori
delle violenze del 2008. La propaganda induista descrive quegli eventi come
reazione spontanea all’uccisione del leader estremista indù Swami Laxmanananda
Saraswati, della quale peraltro si erano da subito dichiarati autori i
guerriglieri maoisti attivi nella regione.
Per gli avvocati e gli attivisti che ancora oggi si occupano di
sostenere le vittime, la maggioranza dei crimini non sarebbe registrata
correttamente dalla polizia e quelli già passati in giudicato si sono risolti
perlopiù in mancate condanne.
Il sistema di tribunali speciali che giudicano con rito abbreviato
ha registrato qualche successo, ma l’isolamento geografico della zona, il clima
di paura diffusa, le intimidazioni e minacce, le manifestazioni organizzate
addirittura all’esterno del tribunale, hanno spinto molti testimoni al silenzio
o a una verità parziale e a un basso profilo giudici e legali.
La situazione di rancori e di sospetto e il rischio sempre
presente di nuove violenze rendono l’impegno per la giustizia assai difficile.
D’altra parte, quando su dodici giudizi per omicidio, solo uno si è chiuso con
una condanna, pace e riconciliazione restano obiettivi lontani.
Vecchie e nuove logiche di sottomissione
Come sottolinea John Dayal, attivista cattolico tra i più accesi
nel contrastare l’offensiva dei radicali indù, «l’impegno settario degli
estremisti in Orissa è vecchio di quarant’anni, e il distretto di Kandhamal è
stato da loro scelto per il suo isolamento e per il significato che ha per la
popolazione cristiana.
Obiettivo immediato di quelle violenze era di estendere
l’esperienza di sottomissione del Kandhamal ad altri distretti, quello finale
di rimuovere ogni traccia del cristianesimo tra le comunità indigene per
poterle così del tutto asservire alle vecchie logiche castali e alle nuove
logiche del potere economico e politico».
Nonostante l’attenzione della comunità internazionale e della
Chiesa non siano mai mancate, nulla mostra, a distanza di dieci anni, che la
situazione si sia modificata, se non di facciata.
Ancor più dopo la vittoria dei nazionalisti induisti nel maggio
2014 sotto la guida di Narendra Modi, leader del Bharatitya Janata Party
(Bjp). I nuovi attori istituzionali hanno portato maggiore impunità per gli
estremisti e legittimazione ufficiale a iniziative come la riconversione
all’induismo, la proibizione della commercializzazione e del consumo di carne
bovina, il rafforzamento dei tradizionali consigli di villaggio e altro,
rafforzando il grande progetto di un’India per soli indù.
Induità e discriminazioni
La dottrina dell’hinduttva (induità) è al centro degli
interessi e delle azioni della maggioranza politica che guida, da oltre quattro
anni, il governo centrale e sempre più stati e territori dell’immenso paese
asiatico, vasto dieci volte l’Italia e con una popolazione di 1,35 miliardi di
individui all’80 per cento di fede indù.
Dopo decenni di governo pressoché ininterrotto del Partito del
Congresso, ispirato dagli ideali indipendentisti e gandhiani, ora, il partito
confessionale filoinduista Bjp propone una cittadinanza piena ai soli indù,
lasciando alle altre comunità religiose la scelta tra conversione,
discriminazione ed esilio.
Difficile valutare i risultati delle campagne
di conversione che hanno interessato e ancora interessano milioni di indiani.
Per molti di essi si tratta di una «riconversione»: storicamente il
cristianesimo e, in misura minore, l’islam e il buddhismo, sono rifugio di indù
che sfuggono ai limiti e agli abusi del sistema castale, centrale
nell’induismo.
L’induizzazione procede erodendo la
consistenza delle fedi che nei secoli sono nate per scissione dall’induismo,
usando incentivi e pressioni per promuovere l’identità indù, mentre le leggi
anticonversione e la tolleranza verso i gruppi radicali e xenofobi che si
appoggiano all’induismo per ottenere benefici e potere, rendono difficoltose la
pratica e l’esistenza stessa sul territorio indiano delle religioni considerate
«straniere» come l’islam e il cristianesimo.
I discorsi d’odio dei leader
A confermare il ruolo della politica filoinduista in una
situazione di crescente tensione, ci sono i dati diffusi qualche mese fa da New
Delhi Television (Ndtv), dai quali emerge che i responsabili di «discorsi
d’odio» registrati dall’inizio della legislatura che si avvia al termine il
prossimo anno, sono stati per il 77 per cento esponenti del Bjp.
Nessun provvedimento è stato preso nei loro confronti. Ad esempio,
contro la ministra per le Industrie agroalimentari Niranjan Jyoti, già abituata
a proclami sopra le righe, che in una dichiarazione pubblica ha affermato che
gli indù sono da considerarsi discendenti del dio Rama, mentre gli altri –
musulmani, cristiani, sikh, jain, buddhisti, parsi, atei – sarebbero dei «bastardi».
Che dire poi di Yogi Adityanath, ora capo del governo nel più
popoloso stato indiano, l’Uttar Pradesh, secondo il quale per ciascuna donna
indiana sposata a un musulmano e convertita all’islam, gli indù dovrebbero
sposare con la forza cento donne musulmane e convertirle come ritorsione?
Dal divieto di conversione alle «guerre delle mucche»
Preoccupa che questioni un tempo considerate anacronistiche e
innocue dalle stesse minoranze, siano oggi diventate strumenti di dominio
dell’induismo estremista.
L’accusa di proselitismo nei confronti dei cristiani ha alimentato
l’ondata di provvedimenti legislativi per proibire ogni iniziativa che
incentivi o forzi gli indù a un cambio di fede. Anche l’attività di sacerdoti,
religiosi, pastori nelle chiese è stata limitata fortemente, e addirittura nelle
scuole e nelle istituzioni socioassistenziali avviate o gestite da cristiani.
Pesa invece sui musulmani l’accusa induista di «jihad matrimoniale»,
ovvero di perseguire una strategia di matrimoni con donne indù al fine della
conversione e di avere una prole ampia allo scopo di arrivare al sorpasso
demografico dei musulmani sugli indù.
Soprattutto tra i musulmani si contano le vittime della «guerra
delle mucche» dichiarata dai leader indù contro chi macelli i bovini, animali
legati alla tradizione religiosa indù, ne utilizzi pelli e altre parti e ne
consumi le carni, attività appannaggio nei secoli di islamici, dalit e
cristiani.
Significative le esternazioni di Subramanian Swami, parlamentare
del Bjp, che lo scorso anno ha chiesto una legge per condannare a morte chi
uccida le mucche. Il tentativo non è andato in porto, ma questo non ha fermato
in diversi stati l’approvazione di provvedimenti che vietano la macellazione e
il trasporto di carni bovine. Non senza ricadute cruente, come dimostrano le
aggressioni di gruppo registrate, a volte i linciaggi di musulmani e dalit («esclusi»,
un tempo noti come «intoccabili») motivati dalla loro dipendenza dall’uso
commerciale e alimentare di questi animali.
I dalit e le prossime elezioni
In questo quadriennio di controllo nazionalista sul paese e di
quasi annichilimento del Partito del Congresso, le violenze ispirate,
ammesse o non sanzionate degli estremisti sono state una realtà preoccupante
per le minoranze. «Siamo ormai al crollo dello stato di diritto. Ogni giorno i
mass media riportano notizie di atrocità compiute contro le minoranze
religiose, i dalit e i tribali», ha sottolineato Jignesh Mewani, leader dalit e
parlamentare nello stato del Gujarat, roccaforte di Narendra Modi.
Lo scorso aprile è stato segnato da scontri tra polizia e
manifestanti dalit: roghi, posti di blocco, coprifuoco, morti e feriti si sono
registrati in varie zone dell’India mettendo in rilievo il disagio profondo di
questi gruppi meno favoriti della comunità indù.
La loro rabbia si è espressa con la dichiarazione di un «Bharat
bandh» (blocco dell’India) dopo che la Corte suprema si era opposta all’arresto
di chi violi la legge vigente sulla tutela della loro dignità. Le tensioni
hanno coinvolto la maggior parte dei grandi stati settentrionali, incluso il
territorio della capitale, che ospitano la maggioranza dei 250 milioni di
dalit. La Legge sulla prevenzione delle atrocità verso le caste e tribù
registrate è del 1989, e rappresenta uno dei paradossi dell’India odierna,
la cui Costituzione proibisce le caste, già vietate in precedenza dai
colonizzatori britannici.
Per certi aspetti, le tensioni della scorsa primavera hanno
anticipato alcuni temi della campagna elettorale verso il voto per il rinnovo
del parlamento nazionale del maggio 2019. L’opposizione guidata dal Partito
del Congresso, infatti, ha sostenuto le proteste «di migliaia di fratelli e
sorelle dalit che chiedono la tutela dei loro diritti», mentre il governo
nazionalista, dal canto suo, ha chiesto, da un lato ai partiti di non accentuare
le tensioni sociali, e dall’altro alla Corte suprema di ripensare la sua
posizione. Riguardo a queste ultime, è difficile non rilevare il paradosso del
sostegno ai fuoricasta da parte di un governo che esprime l’ideologia che ha
nei secoli contribuito alla loro subordinazione.
Cristiani perseguitati
La comunità cristiana, che conta circa 30 milioni di fedeli (il
2,3 per cento degli indiani), è pure sotto attacco. Negli ultimi anni si sono
moltiplicati drammaticamente gli assalti a chiese, incontri di preghiera e
istituzioni culturali e caritative. Secondo segnalazioni di attivisti
cristiani, le autorità tendono a ignorare le denunce e a minimizzare i fatti e,
quando arrestano presunti colpevoli, li indicano nei rapporti come «individui
affetti da disturbi mentali».
A documentare questa situazione sono vari studi e rapporti. Tra i
più recenti quello della Commissione statunitense per la Libertà religiosa
internazionale (Uscirf), che ha messo apertamente sotto accusa il governo
indiano per lo scarso impegno nel prevenire «una pressione diffusa contro le
minoranze religiose e contro i dalit che raggruppano fuoricasta, tribali e
aborigeni e che totalizzano il 20 per cento degli 1,35 miliardi di indiani».
Il rapporto ha registrato che «nel 2017 le condizioni della libertà
religiosa hanno visto proseguire la tendenza al peggioramento» e che «la realtà
di una società multiculturale e multireligiosa come quella indiana è minacciata
da una crescente concezione esclusivista di identità nazionale basata sulla religione».
A confermare un incremento della persecuzione ci sono anche dati
governativi diffusi a febbraio: 111 uccisi e almeno 2.398 feriti in 822 episodi
di violenza settaria nel 2017, contro 86 morti e 2.321 di 703 eventi nel 2016.