La grande illusione. Gafam, la promessa tradita

Sommario




I Padroni del mondo.
Lo strapotere delle aziende tecnologiche

Sono nate promettendo l’uguaglianza e la fine dei monopoli. Ma presto hanno rivelato la loro vera faccia. Come le aziende Big tech sono diventate il Grande fratello di Orwell.

Nella storia della pubblicità rimane una pietra miliare. È lo spot della durata di un solo minuto, con cui, senza mai mostrare il prodotto, venne reclamizzato il primo Macintosh di Apple: un personal computer che, negli intenti di Steve Jobs, avrebbe dovuto affermarsi (e così è stato) come un oggetto rivoluzionario. Ambientato in un futuro distopico, in cui domina una sorta di Grande fratello, lo spot, firmato dal grande regista Ridley Scott, andò in onda una sola volta nel 1984, durante una pausa di gioco del Super Bowl. Eppure lasciò un segno indelebile nell’immaginario collettivo, veicolando l’idea che – grazie ad Apple – sarebbe finito lo strapotere di chi, all’epoca Ibm, deteneva il monopolio dei computer. Finalmente accessibile a tutti, il pc avrebbe liberato l’umanità da una sorta di cappa, tipica di una società totalitaria come quella descritta nel romanzo «1984» di George Orwell.

Quarant’anni dopo, sappiamo com’è andata a finire: nell’arco di pochi decenni, i nuovi protagonisti del mondo della comunicazione sono diventati giganti ingombranti e pericolosi, assai più dell’Ibm del 1984. Nel frattempo, gli attori della rivoluzione digitale – Steve Jobs, Bill Gates, Jeff Besoz, solo per citare i più noti – diventavano i profeti della «nuova era».

È stato coniato un neologismo per indicare il pool di colossi che oggi hanno dimensioni economiche pari a quelle di alcuni Stati, una potenza tecnologica straordinaria (già adesso e, ancor più, in futuro grazie all’intelligenza artificiale), oltre che una capacità di influenza sui cittadini senza precedenti. L’acronimo Gafam allude a Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft. Quelli che, nel suo libro Rete padrona (Feltrinelli) Federico Rampini, già 10 anni fa, chiamava «i nuovi padroni dell’universo».

Jobs, Gates & company

Sebbene le aziende in questione siano diverse fra loro per vari aspetti (vedi box Salobir), è diventato ormai comune l’utilizzo dell’acronimo Gafam al quale oggi andrebbe forse aggiunta un’ulteriore M. Il riferimento è a Elon Musk, patron di Tesla e di molte altre aziende, divenuto particolarmente famoso da quando, nel 2022, ha acquistato Twitter, poi diventato X. Particolare curioso: anche «il visionario Musk» ha accompagnato l’acquisto di Twitter con una dichiarazione che voleva essere profetica: «L’uccello è stato liberato». A soli due anni di distanza, il cinguettio dell’uccellino in questione sa più di agonia che non di libertà.

Se ci occupiamo qui di un tema come questo, in apparenza per addetti ai lavori, è perché urge avere più consapevolezza del potere e delle strategie dei Gafam, così da utilizzarne i prodotti in modo adeguato. Già, perché tutti, in un modo o nell’altro, siamo fruitori dei tanti servizi offerti da queste aziende.

Dell’importanza dei social e del peso delle imprese che li hanno lanciati, ce ne siamo accorti, in modo particolare dopo il 2016. Ormai è documentato da inchieste giornalistiche e studi scientifici come in quel fatidico anno – sia nel caso del referendum sulla Brexit quanto nelle elezioni che portarono alla vittoria di Donald Trump – un ruolo importante venne giocato dalle fake news, veicolate ad arte proprio sui social. Un fenomeno talmente nuovo e grave che per definirlo fu coniata un’espressione inquietante, «post verità», che l’Oxford english dictionary indicò come parola dell’anno proprio nel 2016. Quanto alle fake news e agli effetti di quello che gli studiosi chiamano «disordine informativo», ci siamo resi conto di quanto pesino nella vita di una comunità soprattutto durante la pandemia, quando un’informazione corretta, rispetto ad esempio ai vaccini, ha determinato la vita o la morte di tante persone.

«Mostri a cinque teste»

Sono ormai numerosi i libri che mettono sotto accusa i Gafam e le loro strategie, oltre che i loro comportamenti (tra questi l’allergia ai sindacati e il frequente ricordo all’elusione fiscale). Un pamphlet, uscito in Francia nel 2023 a firma di Philippe Gendreau, definisce i Gafam niente di meno che «un mostro a cinque teste». Sotto accusa è, anzitutto, l’enorme potere economico da essi acquisito. Un esempio fra i tanti: a gennaio di quest’anno Apple aveva raggiunto un valore di mercato di tremila miliardi di dollari, più dell’intero Pil della Francia, la settima economia del mondo. Il rapporto Oxfam 2024 conferma: «Le “Big tech” dominano i mercati: tre quarti dei ricavi globali dalla pubblicità online fluiscono a Meta (Facebook e altri), Alphabet (Google) e Amazon, e oltre il 90% delle ricerche online viene effettuato tramite Google».

Tale preoccupante trend già qualche anno fa era finito sotto la lente della Commissione antitrust della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, che in un rapporto di 449 pagine, così dipingeva i Gafam: «Aziende che una volta erano start up da strapazzo che sfidavano lo status quo sono oggi divenute i tipi di monopoli che non si vedevano dall’era dei baroni del petrolio e dei magnati delle ferrovie. Benché queste aziende abbiano apportato indubbi benefici alla società, il dominio di Amazon, Apple, Facebook e Google ha un prezzo. Queste società tipicamente controllano il mercato mentre vi competono». La concentrazione di potere economico è tale che i Gafam sono anche gli unici che possono compiere acquisizioni di altre aziende del settore: non a caso Facebook (ora di Meta) ha comprato prima WhatsApp e poi Instagram, sborsando cifre astronomiche, che pochissimi altri al mondo avrebbero potuto investire.

Il nuovo petrolio

Con il loro dominio nel settore tecnologico, dai software all’e-commerce, di fatto i Gafam sono ormai indispensabili per miliardi di persone che ogni giorno li usano: pensiamo, ad esempio, a quante ricerche sul web ogni giorno vengono effettuate tramite Google, a quante mail viaggiano grazie a Gmail, a quanti messaggini quotidianamente ci scambiamo su Whatsapp, quanti prodotti vengono acquistati su Amazon e così via. Tale dominio tecnologico, pressoché incontrastato, ha reso questi colossi i principali controllori di quello che oggi viene chiamato «il nuovo petrolio»: i dati personali che, coscienti o meno, ogni giorno affidiamo alle piattaforme mentre interagiamo con loro. Un autentico tesoro. È proprio a partire da questa oceanica massa di informazioni personali – prelevate, lavorate e vendute – che sta prendendo forma quello che la studiosa Sushana Zuboff ha chiamato «il capitalismo della sorveglianza».

Più in generale, le conseguenze sulle persone prodotte da queste aziende sono ormai sotto gli occhi di tutti. Il «Wall Street Journal» del 27 gennaio 2021 ha scritto che «abbiamo perso il controllo di ciò che vediamo, leggiamo – e persino pensiamo – a favore delle più grandi società di social media». Franklin Foer, nel suo I nuovi poteri forti, descrive «come Google, Apple, Facebook e Amazon pensano per noi». Il giornalista statunitense Max Fisher nel suo La macchina del caos va oltre, quando denuncia: «Questa tecnologia esercita un’attrazione talmente forte sulla nostra psicologia e sulla nostra identità, ed è talmente pervasiva nella nostra vita, da cambiare il nostro modo di pensare, di comportarci e di relazionarci con gli altri. L’effetto finale, moltiplicato su miliardi di utenti, è quello di cambiare la società stessa in cui viviamo».

Un terreno (troppo?) fertile

Come siamo arrivati fin qui? Accanto a ragioni tecniche ed economiche, va ricordato il terreno culturale fertile del quale sono cresciuti i Gafam. Complici e miopi, ubriacati dal mito dell’underdog che diventa uomo di successo, in tanti, per anni, abbiamo osannato acriticamente personaggi quali Steve Jobs, Bill Gates e altri. Troppo bella la favola delle start up che nascevano dal nulla (di solito in mitici garage) per poi sbaragliare il mercato. Troppo seducente l’ideologia della Silicon Valley, anche se poi, nel giro di pochi anni, si è rivelata una Valle oscura (come suona il titolo del libro con cui Anna Wiener smonta il mito del più “cool” pezzo d’America).

«C’è stata un’indulgenza eccessiva», sintetizza per i lettori di MC Stefania Garassini, giornalista e studiosa, che già nel 1993 aveva fondato la rivista «Virtual», il primo mensile dedicato alla cultura digitale in Italia. «Non c’è dubbio – spiega Garassini – che l’avvento delle tecnologie digitali sia stato accolto da un alone di ottimismo. Del resto, affascinava molti l’utopia californiana, ossia l’idea che il pc garantisse l’accesso universale al sapere, una partecipazione più democratica e una cittadinanza più informata. Poche, molto poche le voci critiche in quel periodo. Dopo l’esplosione della bolla speculativa che ha colpito nel 2000 le aziende cosiddette «dot.com», l’economia del digitale è ripartita alla grande grazie al web 2.0. Non c’è stata critica all’inizio perché era dominante un pregiudizio positivo; in più, era difficile prevedere come si sarebbe evoluto il tutto». Continua Garassini: «Tra i pochi ad aver messo in guardia circa possibili effetti problematici del digitale segnalo

Howard Rheingold, autore di Comunità virtuali. Parlare, incontrarsi, vivere nel ciberspazio. La tesi era chiara: c’è la possibilità che la tecnologia si riveli uno strumento molto adatto a promuovere un’esasperata commercializzazione dei nostri dati. “Quando il Grande Fratello arriverà, non stupitevi se avrà le sembianze di un commesso del supermercato”. È andata proprio così, la situazione ci è sfuggita di mano».

Piattaforme nel mirino

Steve Jobs, PDG d’Apple. (Photo by ERIC CABANIS / AFP)

Dalle stelle alle stalle. Per lunghi anni i Gafam hanno conquistato fette di mercato sempre più ampie, ottenendo successo e popolarità in moltissimi Paesi del mondo. A quale prezzo? Amaro il bilancio che Valerio Bassan fa nel suo recente libro Riavviare il sistema. «La nascita di grandi monopoli tecnologici ha profondamente trasformato la struttura di internet. L’ingerenza autocratica di aziende e governi l’ha frammentata. E la diffusione di modelli di business basati su “datificazione” e sorveglianza ha disumanizzato il ruolo delle persone su internet». Gli fa eco padre Eric Salobir, nel suo Dieu et la Silicon valley: «Il mondo hi-tech è in crisi. Una crisi che non ha cessato di amplificarsi a partire dallo scandalo di Cambridge Analytica. Aggiungiamoci alla rinfusa le questioni dell’anonimato online, delle fake news e delle falle nella sicurezza informatica. Tutte cose che in comune hanno l’erosione della fiducia nelle nuove tecnologie. Un senso di inquietudine è venuto a gettare ombre sullo stupore, del resto sempre più relativo, ispirato dalle loro promesse».

Non da oggi, stanno emergendo una serie di problemi che hanno portato i Gafam a salire, loro malgrado, alla ribalta mondiale in più occasioni. A febbraio il Ceo di Meta è stato convocato per l’ottava volta dal Congresso americano, insieme ai responsabili di alcune delle principali piattaforme (TikTok, YouTube, Twitter-X e altre). Nello stesso mese la città di New York ha aperto una causa contro TikTok, Facebook, Instagram, YouTube e Snapchat ritenendoli responsabili di aver peggiorato la salute mentale di minori e adolescenti. Il 13 marzo la Camera dei rappresentati americana ha approvato a larga maggioranza una legge che apre la strada al divieto di usare TikTok negli Usa. Questa serie di interventi – stando a quanto scrivono alcuni – avrebbe spinto Musk e altri big delle aziende della Silicon Valley, storicamente simpatizzanti per i Democratici, a cambiare cavallo, sposando Trump in vista del voto di novembre.

L’influenza sulla politica

Altro paradosso: il sogno di una trasformazione digitale che avrebbe aumentato i diritti di tutti è naufragato schiantandosi contro un uso politico dei prodotti Gafam, in particolare dei social. Abbiamo così assistito all’uso efficace di Facebook e altri social da parte di autocrati e dittatori che sono riusciti a inasprire il controllo su dissidenti e voci critiche, anziché favorire la partecipazione popolare, come negli auspici dei pionieri del web. Ricordate la Primavera araba? Lo strumento di Twitter, che servì per infiammare le folle, è stato il medesimo poi utilizzato per diffondere fake news dai detentori del potere. In un articolo uscito sull’Huffington post il 3 giugno, l’autore – un russo di cui viene taciuto il nome per ragioni di sicurezza – sostiene che «i giganti del web, tra profitto e libertà di parola in Russia, spesso sacrificano la seconda ai fini del primo».

La questione di un utilizzo equilibrato delle piattaforme riguarda da vicino il futuro della democrazia. Come sottolineava Gianni Riotta il 6 giugno su Repubblica: «L’arena cruciale della nostra vita politica quotidiana è, da una generazione, la rete e le elezioni per la Casa bianca fra Trump e il presidente Biden a novembre, avranno nel web il campo di battaglia decisivo». Alla luce di tutto questo, appare urgente quindi che la politica intervenga in maniera decisa sul tema delle Big tech, se si vogliono conservare intatti i pilastri della corretta informazione, della trasparenza e della democrazia, altrettanti capisaldi per una convivenza che si possa definire civile. L’alternativa è che nei prossimi mesi si possano ripetere, negli Stati Uniti, le incredibili scene cui abbiamo assistito in occasione dell’assalto a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021: un’azione coordinata per mezzo di Facebook.

07 May 2024, Berlin: Bill Gates, founder of Microsoft. Photo: Annette Riedl/dpa (Photo by Annette Riedl / DPA / dpa Picture-Alliance via AFP)

Il tango si balla in due

In attesa che siano meglio regolamentati i Gafam, cosa possiamo fare noi, utenti di Google e dei social o clienti di Amazon? Nel marzo 2021, Nick Clegg, capo delle relazioni pubbliche di Facebook, rispose con un lungo post a chi accusava il social di Zuckerbeg di faziosità. Il titolo era Tu e l’algoritmo: per ballare il tango bisogna essere in due. Al netto dello spirito polemico, Clegg ha ragione su un punto: quanto noi utenti siamo consapevoli dell’uso che facciamo dei prodotti dei Gafam? Quanto stiamo (o meno) attenti alla nostra privacy? E così via.

Il giornalista Gigio Rancilio dal giugno 2016 cura su Avvenire la rubrica «Vite digitali». Interpellato da MC, spiega: «In un mondo dove moltissime delle nostre azioni sono tracciate, è evidente che ogni nostra scelta assume un valore economico, politico e sociale.

Pensiamo all’informazione: non è la stessa cosa cliccare su un generico contenuto prodotto dall’ennesimo creator o sull’inchiesta di un giornale. Tutto ciò produce conseguenze ben precise. Ognuno di noi vota quotidianamente, con le tante azioni digitali che compie. Diventa allora necessario saper cercare con intelligenza e, in secondo luogo, valutare criticamente il risultato di quanto ci viene proposto: è l’attività più importante che come cittadini digitali – dagli adolescenti ai nonni – siamo chiamati a compiere». Chiude Rancilio: «Per quanto ci chiedano un surplus di vigilanza, sarebbe sbagliato eliminare le tecnologie e l’intelligenza artificiale dalle nostre vite. È facile spaventarsi delle conseguenze, ma siamo chiamati alla responsabilità e, in ogni caso, abbiamo sempre il dovere della speranza».

Gerolamo Fazzini


La macchina del caos
Facebook: 3 miliardi di utenti

Con i suoi tre miliardi di utenti e una potenza di fuoco senza eguali, Facebook, che ha da poco compiuto 20 anni, è il più fortunato, ma anche il più criticato, dei social al mondo.

Nel febbraio scorso la prestigiosa rivista Wired ha scritto: «A due decenni esatti dal lancio, possiamo dirlo: non avremmo dovuto fidarci. La storia del social network fondato da Mark Zuckerberg è infatti costellata di scandali, controversie, invasioni della privacy, disinformazione, inquietanti esperimenti di ingegneria sociale e addirittura violenza alimentata tramite quella che era nata come una innocua piattaforma per aiutare amici e parenti a restare in contatto».

Non meno taglienti le parole di Sheera Frenkel e Cecilia Kang in apertura del loro volume

Facebook: l’inchiesta finale  (Einaudi, 2021), frutto di un lavoro giornalistico immane: «Un potente monopolio che ha fatto grossi danni. Ha abusato della privacy degli utenti e ha fomentato la diffusione di contenuti tossici e dannosi raggiungendo tre miliardi di persone».

A detta di molti, oltre che per lo scandalo di Cambridge Analytica, Zuckerberg dovrebbe rivolgere le sue scuse, in particolare, a milioni di utenti di Paesi in via di sviluppo dove, complice l’età media molto bassa, il suo social è particolarmente diffuso. Nel 2021 Alexandre Piquard ha firmato su Le Monde un caustico pezzo dal titolo Facebook non sa le lingue, nel quale afferma: «Alcuni documenti interni all’azienda rivelano che in molti paesi, soprattutto quelli più instabili, il social network non è in grado d’impedire o limitare la diffusione dei contenuti violenti e discriminatori». Come documenta, con abbondanza di esempi. La macchina del caos di Max Fisher, i social, in particolare Facebook (per colpa di algoritmi progettati per aumentare ad ogni costo il coinvolgimento dei fruitori, anche a costo di puntare su contenuti divisivi e premiare spesso i fautori dell’odio), hanno, in molti casi, esasperato le posizioni politiche, esacerbato le divisioni religiose, contribuendo a seminare violenza. Il tutto in Paesi quali Myanmar, Sri Lanka, India, Indonesia. Anche una giornalista coraggiosa come la filippina Maria Ressa, vincitrice del Nobel per la pace nel 2021, nel suo libro Come resistere a un dittatore (La nave di Teseo, 2023), racconta come lei stessa inizialmente aveva utilizzato Facebook per le sue battaglie pro-democrazia, ma si sia vista costretta a fare marcia indietro, dopo essersi accorta dei perversi meccanismi che regolano la piattaforma di Zuckerberg.

G.F.

Meta founder and CEO Mark Zuckerberg speaks during the Meta Connect event at Meta headquarters in Menlo Park, California, on September 27, 2023. (Photo by JOSH EDELSON / AFP)


Dio e la Silicon Valley.
Eric Salobir

Fondatore di Optic, il primo think tank affiliato al Vaticano che ha a che fare con la tecnologia, il domenicano Eric Salobir è, insieme a fra Paolo Benanti, francescano, tra gli uomini di Chiesa più esperti in tema di rivoluzione digitale. In un bel volume uscito in Francia nel 2020 (e presto in Italia, per i tipi di Lev), dal titolo Dieu et la Silicon Valley, invita a non cedere a facili schematismi: «La Silicon Valley non è il paradiso, ma non si riduce alla visione caricaturale rappresentata dall’acronimo Gafam. E poi c’è il fatto che le entità di questa sigla sono profondamente diverse tra loro, tanto nei servizi che offrono come nei loro motti o slogan: che cosa c’è di comune tra il Don’t be evil, l’imperativo categorico di Google presente nel suo codice etico, e il Work hard. Have fun. Make history di Amazon? Non si possono assimilare in una stessa parola, Gafam, aziende dalla cultura e dal business model così differenti».

G.F.


Quali sono le alternative ai Gafam.
Incontro con Valerio Bassan, giornalista esperto digitale

Giornalista, già docente universitario, autore dell’apprezzatissima newsletter «Ellissi», Valerio Bassan è un acuto osservatore del mondo digitale, come prova il suo libro «Riavviare il sistema». MC lo ha intervistato, per capire se ci sono alternative percorribili ai prodotti «Made in Gafam».

Per quanto potenti siano le Big Tech, alcune vittorie sul fronte della privacy negli ultimi anni i consumatori le hanno ottenute. Quali e come?

«Dal 2018, anno in cui fu varato il Gdpr (regolamento della Ue in materia di trattamento dei dati e privacy, ndr), i cittadini hanno visto uno sforzo da parte dell’Unione europea nel regolamentare lo strapotere delle grandi aziende tecnologiche. Due leggi recenti come il Digital markets act e il Digital services act sono state implementate con l’obiettivo di porre un freno a pratiche commerciali considerate scorrette, e di aprire le “scatole nere” degli algoritmi che i colossi tech utilizzano per rafforzare il proprio dominio. Tutto starà nel vedere come queste leggi – perfettibili, ma che rappresentano un primo storico passo avanti – verranno implementate. L’effetto potrebbe essere ampiamente positivo per chi risiede nel continente. Resta da vedere se ci sarà un impatto a livello globale, dato che molte di queste aziende operano al di fuori dei confini Ue».

La stragrande maggioranza di noi utilizza Google Chrome come browser. Altri usano Firefox. Potrebbe valer la pena cambiare abitudini?

«I browser sono la nostra porta d’accesso principale al web, e per questo svolgono un ruolo di intermediazione che è quasi invisibile ai nostri occhi ma rimane estremamente potente e influente; plasmano la nostra esperienza di internet e sono i canali di irrigazione da cui transitano moltissimi nostri dati. Ma non tutti i browser sono uguali. Firefox, ad esempio, così come Brave, sono tra i più attenti alla nostra privacy. Oltre a proteggere meglio le nostre informazioni, sono progettati per aiutarci a fare scelte consapevoli su come investiamo il nostro tempo e la nostra attenzione online, il tutto con un’esperienza di navigazione equiparabile a quella di browser più dominanti come Chrome. Installarli è facile e sono anch’essi gratuiti, dunque non ci sono reali motivi per non provarli da subito».

Passiamo alle app di messaggistica: la più nota in assoluto è senz’altro Whatsapp. Conviene abbandonarla e dirottarci su Signal? Se sì, perché?

«Signal è un’ottima app, con tante funzioni che ci permettono di salvaguardare la nostra privacy; inoltre, essendo di proprietà di una fondazione non profit, ci garantisce che i nostri dati non verranno mai usati per fini commerciali. Per quanto la apprezzi e la usi spesso, mi viene tuttavia difficile immaginare un mondo senza Whatsapp, che è molto diffusa e altrettanto semplice da utilizzare. Con così tanti utenti è impossibile ipotizzare una reale migrazione di massa verso un’alternativa: è la logica protettiva dei giardini recintati, in cui vince chi ha sfruttato al meglio l’effetto network. Ed è per questa stessa ragione che subito dopo Whatsapp troviamo Messenger, un servizio che appartiene alla stessa azienda, Meta. Forse solamente quando l’interoperabilità sarà più diffusa avremo più possibilità di scelta, e quindi saremo liberi di decidere di utilizzare l’app più sicura per ricevere i messaggi di chiunque».

Quando Musk si è impadronito di Twitter, trasformandolo poi in X, parecchi utenti sono migrati su Mastodon, tra questi un intellettuale del calibro di Vito Mancuso. Ebbene: Mastodon si presenta come «il social networking che non è in vendita». E reclamizza i suoi servizi sostenendo che «la tua home feed dovrebbe essere riempita con ciò che conta di più per te, non con ciò che una corporation pensa che dovresti vedere». C’è da fidarsi?

«Mastodon è un progetto decentralizzato, e in quanto tale nessuno può guadagnarci: non c’è un proprietario e nessuno può controllarne ogni spazio, come invece succede con le piattaforme private delle Big Tech. Ci riporta a un’idea primordiale della rete, quella del cyberspazio, in cui non c’è una reale sovranità all’interno degli spazi di discussione, che su Mastodon si chiamano “istanze”, e quindi non c’è una reale possibilità di monetizzazione. Insomma, c’è da fidarsi, ma la vera domanda è un’altra: e cioè quante persone siano disposte a spostarsi all’interno di un social decentralizzato, perdendo i propri follower e following, e ritrovandosi in un ecosistema più povero di contenuti, influencer e creator».

Veniamo ai servizi e-mail o cloud. Quali ti senti di consigliare?

«Di servizi di e-mail e cloud alternativi ce ne sono tantissimi. I più etici e conosciuti a livello internazionale sono sicuramente lo svizzero Protonmail e il tedesco Tutanota. In Italia c’è poi il progetto tecnologico e politico insieme di Autistici/Inventati, che nasce come servizio open source pensato appositamente per attivisti e collettivi».

Infine. Per chi volesse fare a meno di Google, ci sono motori di ricerca alternativi? Che ne pensi di DuckDuckGo?

«I motori di ricerca sono un altro grande gatekeeper e meriterebbero di vedere il proprio monopolio messo quantomeno in discussione – cosa tutt’altro che semplice. DuckDuckGo è una buona alternativa perché non raccoglie né condivide le informazioni personali degli utenti, né traccia le ricerche. Certo, a volte i risultati possono non essere all’altezza di quelli di Google, specialmente in termini di rilevanza e aggiornamento. Con la diffusione dell’AI, però, stiamo assistendo alla genesi di una nuova era, in cui il ruolo dei motori di ricerca cambierà: questi sistemi ci forniranno sempre più risposte direttamente nella ricerca, grazie alla generazione di testi, e diminuiranno i link verso pagine esterne, trattenendo gli utenti al loro interno. Purtroppo, questo nuovo scenario indebolirà i concorrenti più indipendenti: a essere più performanti saranno i motori di nuova generazione che potranno spendere più soldi nella creazione di sistemi più sofisticati e negli accordi con i fornitori dei contenuti. E quindi temo che, ancora una volta, in primissima fila resteranno i servizi delle Big Tech come ChatGPT (di OpenAi, finanziata da Microsoft, che ha la sua Ai Copilot, integrata nel motore di ricerca Bing, ndr) e Gemini (di Google), che hanno capitali da investire molto più grandi rispetto ai competitor indipendenti, come Perplexity o la stessa DuckDuckGo».

G.F.


Come la vita è diventata virtuale
Breve storia della rivoluzione digitale

È una storia di quarant’anni. E sta continuando con evoluzione sempre più rapida. Ha cambiato le abitudini e il modo di relazionarsi di miliardi di persone nel mondo. Ma non è tutto positivo. Ripercorriamone le tappe.

Questa sintetica cronologia ricapitola alcune delle principali tappe del processo che ha visto l’affermazione su scala globale dei Gafam, soprattutto il lancio e la successiva diffusione di alcuni dei più famosi prodotti tecnologici e social media del mondo.

1969. Nasce Arpanet negli Usa, la prima rete di computer a uso militare e accademico, da essa sarà originata Internet nel 1983.

1975 Nasce Microsoft.

1982. Appare il sistema operativo McDos. Il settimanale statunitense «Time» dedica la copertina al personal computer come «macchina dell’anno». L’anno dopo nasce il «mouse».

1984. Attiva dal 1977, Apple mette sul mercato Macintosh, il primo pc destinato al largo consumo con un’innovativa interfaccia grafica. Nello stesso anno, in Cina, viene fondata Lenovo, che gradualmente si specializzerà nel campo dei pc.

1985. Microsoft introduce il sistema operativo Windows, con applicazioni come Word ed Excel, che conosceranno grande fortuna e che, insieme ad altri programmi, verranno poi ribattezzati Office nel 1990.

1989. Il 12 marzo Tim Berners-Lee presenta ai suoi capi al Cern di Ginevra quello che poi diverrà il World wide web, il principale servizio di internet.

1991. Grazie a Linus Torvalds, studente finlandese di ingegneria, decolla Linux, uno dei sistemi operativi open source più utilizzati anche oggi.

1992. A dicembre viene inviato il primo Sms della storia, messaggio di 160 caratteri.

1994. Il giovane Jeff Bezos fonda Amazon.

1995. Con il nuovo sistema operativo Windows 95, Microsoft consolida la propria leadership nel settore. L’azienda, che Bill Gates e Paul Allen avevano fondato vent’anni prima, diverrà uno dei pilastri dei Gafam.

1998. ll 6 maggio è la data di esordio di iMac, uno dei prodotti più importanti nella storia di Apple perché rappresenta l’introduzione del design nel mondo dell’informatica.

Il 4 settembre Larry Page e Sergey Brin, due studenti della Stanford University, lanciano il motore di ricerca Google, in un garage di Menlo Park. Pochi anni dopo, verranno introdotti nel motore di ricerca annunci pubblicitari targhettizzati sulla base delle ricerche degli utenti. Si affermerà così Google AdWords, la piattaforma pubblicitaria della compagnia, che porterà in breve Google a diventare uno dei colossi del settore tech.

1999. Il 19 gennaio arriva sul mercato il primo telefono Blackberry, per l’epoca un oggetto straordinario: consente infatti di mandare e ricevere messaggi tramite una tastiera Qwerty. Il 21 luglio viene messo in commercio il primo modello di iBook: un altro prodotto di grande successo targato Apple, per la lettura di libri non cartacei.

2000. A inizio anno decolla Baidu, il primo motore di ricerca cinese che diventerà il secondo al mondo, dietro Google. La Commissione europea mette nel mirino Microsoft per sfruttamento di posizione dominante; seguono due condanne rispettivamente nel 2004 e nel 2008.

2001. Il 15 gennaio nasce Wikipedia, enciclopedia online a contenuto libero. Diverrà una delle tappe più importanti dell’evoluzione di internet nel decennio 2000-2009. Nello stesso anno Apple lancia l’iPod, rivoluzionario sistema per la fruizione di brani musicali in digitale. Steve Jobs presenta la nuova strategia di Apple: il pc al centro, come «hub» di una serie di nuovi dispositivi. Nasce la digital lifestyle.

2002. Da un team di quattro persone, fra le quali Reid Hoffman, nasce LinkedIn; il lancio ufficiale avviene il 5 maggio 2003. È uno dei primissimi social; impiegato principalmente nello sviluppo di contatti professionali e nella diffusione di contenuti specifici relativi al mercato del lavoro, nel 2016 verrà acquistato da Microsoft.

Nello stesso periodo si afferma il rivoluzionario Google News, un servizio di aggregazione di notizie offerto da Google che raccoglie contenuti da migliaia di fonti in tutto il mondo. A cadenza biennale Google introdurrà una serie di servizi di grande successo: Gmail nel 2004 (che presto diventerà il servizio di posta elettronica più usato al mondo), Google Maps nel 2006, Google Chrome nel 2008, il social network Google+ nel 2011.

2004. Il 4 febbraio Mark Zuckerberg, studente di Harvard, vara The Facebook, che nell’agosto 2005 diventa semplicemente Facebook. Ha così inizio l’era dei social. Nello stesso anno Google sbarca a Wall Street: quello che all’inizio era un semplice motore di ricerca è diventata un’azienda tra le più grandi al mondo.

2005. Il 23 aprile viene pubblicato il primo video su YouTube, dal titolo «Me at the zoo». L’ideatore è Jawed Karim, allora ventisettenne. La piattaforma verrà acquistata da Google nel 2006, per 1,65 miliardi di dollari.

2006. È un anno chiave. Il 21 marzo Jack Dorsey fonda Twitter, un nuovo social che si caratterizza per la brevità dei messaggi (140 caratteri che poi passeranno a 280). A settembre Facebook lancia il News Feed, il flusso di aggiornamenti dai profili degli amici; partono anche le prime critiche sulla tutela della privacy. Negli Usa solo l’11% delle persone usa i social, nel 2014 saranno già i due terzi del totale. Nel medesimo anno Yahoo prova ad acquistare Facebook, allora con «soli» 8 milioni di utenti, offrendo un miliardo di dollari, ma Zuckerberg lascia cadere la proposta.

2007. Nasce iPhone di Apple, che combina, in un piccolo e leggero dispositivo portatile, tre prodotti: un telefono cellulare, un iPod con touch control e un rivoluzionario dispositivo di comunicazione. Lo slogan promozionale – che sintetizza il segreto del futuro successo degli smartphone – suona: «Do everything in one place».

Il 19 novembre 2007 Amazon – già affermatosi il più importante store online – introduce Kindle, che nell’arco di poco tempo si impone come l’e-book reader più popolare del mondo.

2008. Facebook è ormai un fenomeno globale (è l’anno del boom di iscrizioni in Italia). L’azienda vale oltre 15 miliardi di dollari. Nasce il sistema operativo per dispositivi mobili Android di Google, che poi diventerà uno standard per i prodotti non Apple. Un anno dopo nasce WhatsApp.

2010.Il 27 gennaio sul mercato approda l’iPad, il tablet di Apple: un dispositivo multi touch in grado di riprodurre contenuti multimediali e con la possibilità di accedere a internet. Nello stesso anno Apple acquista Siri per 200 milioni di dollari, rendendola l’assistente virtuale presente negli iPhone e negli altri dispositivi. Il 6 ottobre Kevin Systrom e Mike Krieger lanciano Instagram.

2011. In gennaio nasce quella che diventerà la piattaforma sociale per eccellenza in Cina: WeChat. È un sistema di messaggistica e social network (come WathsApp). Su iniziativa di Justin Kan ed Emmet Shear, il 6 giugno decolla un nuovo social: Twitch. Piattaforma di condivisione di videogiochi che verrà acquisita nel 2014 da Amazon per 970 milioni di dollari.

2013. Facebook acquista Instagram per un miliardo di dollari; nello stesso anno si quota in Borsa.

2014. Il 19 febbraio Facebook compra WhatsApp per 19 miliardi di dollari. Un mese dopo, per un miliardo di dollari, acquista Oculus, un’azienda che produce visori per la realtà virtuale.

2015. L’ultimo nato nella casa di Cupertino, il 24 aprile, è l’Apple Watch: un orologio da polso con funzioni da iPhone. Ottobre segna una tappa decisiva nella storia di Google: viene fondata Alphabet, la holding cui fanno riferimento tutte le società controllate del gruppo fondato da Larry Page. Ormai lo spettro di attività si è ampliato molto e comprende tecnologie nel campo della robotica e dei droni, la guida autonoma di veicoli, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale (con DeepMind) e ricerche nel campo delle scienze della vita (grazie a Verily).

2016. In giugno Microsoft si conferma uno dei colossi delle Big tech, acquistando LinkedIn per 26,2 miliardi di dollari. Il 2016 – con il referendum sulla Brexit e le elezioni Usa vinte da Trump – passerà alla storia soprattutto per l’influsso dei social sulla politica. Le piattaforme di proprietà di Facebook vengono usate quasi dal 70% degli americani, ciascuno dei quali in media ci passa circa 50 minuti al giorno. Nel frattempo, un rapporto documenta i danni (polarizzazione estrema, discorsi di odio…) che la piattaforma sta producendo in Myanmar, dove ormai la quota di utenti che riceve news solo da Facebook si sta avvicinando al 40%.

2017. Il 16 giugno, acquistando la catena di supermercati bio Whole Foods Market, Amazon realizza la più grande acquisizione della sua storia: oltre 13 miliardi di dollari. Il 20 settembre sbarca sul web un nuovo social, prodotto dalla società cinese ByteDance: TikTok. È un social per la condivisione video, molto usato dai teenagers che conoscerà, in pochi anni, un’enorme diffusione.

2018. Il 17 marzo scoppia lo scandalo Cambridge Analytica: Facebook viene accusata dal New York Times di aver utilizzato in modo illegale i

 

dati di decine di milioni di utenti a scopo elettorale. Un mese dopo Zuckerberg finisce davanti al Congresso Usa. Alla società viene comminata una super multa da 5 miliardi di dollari. In novembre un nuovo reportage del New York Times denuncia il coinvolgimento del social di Zuckerberg nelle ingerenze e violazioni di privacy legate alle elezioni russe.

2019. Kindle (di Amazon) arriva a coprire l’80% del mercato dei dispositivi per la lettura dei libri digitali.

2021. In febbraio l’Australia vara una legge che obbliga Google e Facebook a pagare una licenza agli editori per l’impiego dei loro contenuti. In ottobre Facebook cambia nome, diventando Meta; il riferimento è al Metaverso, la nuova tecnologia dove la presenza virtuale – promette Zuckerberg – sarà equivalente e parallela a quella fisica, grazie a un dispositivo di realtà virtuale.

20222. Gli utenti di Facebook arrivano a quota 1,9 miliardi. Ma, per la prima volta, il numero cala rispetto all’anno precedente. Dopo un lungo periodo di espansione e assunzioni, Meta licenzia 11mila dipendenti. In ottobre Elon Musk acquista, per ben 44 miliardi di dollari, Twitter, poi ribattezzato come X. A gennaio 2024 la nuova piattaforma registrerà un crollo del valore di oltre il 70%.

2023. In estate l’intera famiglia Meta (che include Facebook, Instagram, WhatsApp, Threads e altri) arriva a contare 3,88 miliardi di utenti attivi mensili, quasi la metà degli abitanti del pianeta. La rivista Economist commenta: «Facebook e i suoi imitatori non hanno fatto solo soldi. I social media sono diventati il modo principale con cui si usa internet e una parte importante della vita delle persone». In ottobre Microsoft – che produce Xbox – completa la più grande acquisizione della storia dei videogiochi, assumendo il controllo di Activision Blizzard al prezzo di 69 miliardi di dollari. Intanto Gmail arriva a contare quasi 2 miliardi di indirizzi.

2024. Gli Usa approvano una legge che, in nome della sicurezza nazionale, impone a TikTok di separarsi dalla società ByteDance per poter operare negli Stati Uniti (il timore è che sia controllata dal governo cinese). 30 aprile: la Commissione europea apre un’inchiesta su Facebook e Instagram, sospettati di non aver rispettato i loro obblighi in tema di lotta alla disinformazione in vista delle elezioni europee di giugno. Il 16 maggio: Bruxelles mette nuovamente nel mirino le due piattaforme, accusate di alimentare comportamenti di dipendenza nei minori. Dal 29 maggio, grazie a Tap to Pay, anche in Italia chi ha un’attività commerciale può accettare pagamenti contactless via iPhone.

Gerolamo Fazzini


Apple come esperienza «religiosa».
Strategie di marketing

Il grande studioso Umberto Eco, una trentina di anni fa, scrisse: «È mia profonda persuasione che il Macintosh sia cattolico e il Dos protestante; anzi, il Macintosh è cattolico controriformista, e risente della ratio studiorum dei gesuiti. Perché è festoso, amichevole, conciliante, dice al fedele come deve procedere passo per passo per raggiungere – se non il regno dei cieli – il momento della stampa finale del documento» (la citazione si trova in Come viaggiare con un salmone, La nave di Teseo, 2016).

Potrà stupire questo riferimento religioso al mondo dell’informatica, ma, in realtà, i guru del digitale – a cominciare da Steve Jobs – hanno fatto di tutto per sfruttare il desiderio degli utenti di appartenere a un gruppo di «eletti», caratterizzato dalla conoscenza di una «verità nascosta ai più». Emblematica la presentazione del libro di Antonio Guerrieri che uscì per Mimesis nel 2013 con il titolo Apple come esperienza religiosa: «Apple rappresenta per molti suoi appassionati qualcosa in più di una corporation dell’informatica: nella maniera di presentarsi al pubblico e nei sentimenti suscitati nei Mac-user, mostra somiglianze con quanto viene tradizionalmente attribuito alle religioni. Dalla scelta della mela, simbolo del peccato e della conoscenza, alla volontà di differenziarsi in modo eretico-rivoluzionario dall’ortodossia di Ibm e Microsoft: c’è un che di realmente religioso nel culto di Apple e nell’ammirazione, e quasi devozione, di tanti per la figura di Jobs».

Non vi basta? C’è un aneddoto illuminante. In un documentario Bbc Three del 2011 dal titolo Secrets of superbrands vengono descritte le strategie di marketing di Apple. Uno dei registi assistette all’inaugurazione di un Apple store a Covent Garden (il famoso quartiere di Londra) e le scene cui si trovò davanti somigliavano «più a un incontro di preghiera evangelical che non all’occasione per comprare un telefono o un computer portatile». Qualcosa del genere non è accaduto anche da noi ogni volta in cui ha aperto un nuovo punto vendita del colosso di Cupertino?

G.F.


Cosa succede in Cina.
Gafam versus Batx

L’oligopolio delle Big Tech non è solo un fenomeno «made in Usa». C’è, come sappiamo, un grande Paese in cui non solo i Gafam non hanno accesso, ma nel quale nessuno sente la mancanza né di Facebook né di Google: la Cina. Tuttavia, ciò non significa che nella Repubblica popolare non esistano posizioni di fatto dominanti. L’acronimo per definire queste aziende è Batx che indica Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi.

Baidu è il motore di ricerca più diffuso in Cina, l’equivalente di Google. Come Amazon, Alibaba opera invece nel segmento dell’e-commerce. Tencent è l’azienda che ha sviluppato WeChat, una piattaforma di instant messaging che unisce al suo interno funzioni per lo shopping. Xiaomi, infine, è leader mondiale nel campo della telefonia 5G. Come spiegava Vittoria Mamerti in un pezzo sulla rivista «Valori» del giugno 2021, il giro di affari di queste aziende non ha niente da invidiare ai colossi della Silicon Valley.

G.F.


Per approfondire.
Bibliografia essenziale

Per una buona introduzione generale all’argomento Gafam si possono leggere I nuovi poteri forti. Come Google, Apple, Facebook e Amazon pensano per noi di Franklin Foer (uscito negli Usa nel 2017 e l’anno dopo tradotto in Italia da Longanesi) oppure The four. I padroni. Il Dna segreto di Amazon, Apple, Facebook e Google (Hoepli, 2018), a firma di Scott Galloway, imprenditore e docente universitario statunitense. Assai più recente, focalizzato sulla rete, ma con molteplici e preziosi riferimenti al ruolo delle piattaforme, è il volume di Valerio Bassan, giornalista e digital strategist, dal titolo Riavviare il sistema. Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla, uscito pochi mesi fa per Chiarelettere (vedi intervista pag. 38).

Molto ricco di informazioni, impegnativo, particolarmente adatto ai giornalisti o a chi si interessa di comunicazione, è La macchina del caos. Così i social media hanno ricablato il nostro cervello, la nostra cultura e il nostro mondo. L’autore è Max Fisher, giornalista del New York Times. Uscito negli Usa nel 2022, è stato pubblicato in Italia l’anno scorso da Linkiesta Books. Infine, Il capitalismo della sorveglianza di Sushana Zuboff è uno dei testi di assoluto riferimento a livello mondiale. Apparso negli Usa nel 2019, Luiss University Press l’ha pubblicato nel 2023 con una nuova edizione. Chi vuole avventurarsi nella lettura di questo testo tenga presente che è documentatissimo ma non alla portata di un lettore comune. In risposta a quest’ultimo è uscito da poco il provocatorio Come distruggere il capitalismo della sorveglianza, di Cory Doctorow, per Mimesis.

G.F.


Hanno firmato il dossier:

Gerolamo Fazzini
Nato a Verona nel 1962, dopo aver diretto il settimanale locale Il Resegone, è stato inviato e poi caporedattore delle pagine di Catholica di Avvenire dal 1997 al 2001. Ha diretto Mondo e missione, mensile del Pime (Pontificio istituto missioni estere) per 12 anni. Dal 2014 lavora per il gruppo editoriale San Paolo come consulente di direzione per il settimanale Credere e il mensile Jesus. È docente a contratto di «Media e informazione» al Dams dell’Università Cattolica (sede di Brescia). È autore di numerosi libri, alcuni dei quali tradotti all’estero.

A cura di:
Marco Bello, giornalista, direttore editoriale di MC.

 

 

 

 




Cina. Stretta sui social network

Il 31 ottobre scorso, diverse piattaforme social cinesi hanno annunciato nuove regole che impongono agli utenti più popolari di rendere pubblici i loro veri nomi. Le nuove disposizioni sono state per ora applicate su Weibo solo agli utenti con oltre un milione di follower, mentre su WeChat, Kuaishou e Douyin, basta averne 500mila. I netizen (persona che partecipa attivamente su internet, ndr) interessati dalle misure – spiegano i gestori delle piattaforme – sono principalmente quelli legati all’attualità, alle notizie militari, alla finanza, al diritto e all’assistenza sanitaria. Chi condivide dettagli della propria vita personale potrà ancora avvalersi di nickname, sebbene ormai da diversi anni chiunque voglia aprire un account social sia già tenuto a registrarsi con il proprio nome legale. Ufficialmente il provvedimento verrà applicato dagli internauti «su base volontaria». Ma, secondo i comunicati emessi dalle piattaforme, la mancata autenticazione da parte dei soggetti interessati potrebbe incidere sul numero dei nuovi follower nonché sulle entrate accumulate con le attività online fino al completamento del processo richiesto.

Prevedibile la reazione degli utenti: c’è chi ha manualmente rimosso migliaia di seguaci per scendere sotto la soglia «rossa», chi invece, per non rischiare, si è completamente tolto dai social. Molti hanno criticato pubblicamente la nuova politica, avanzando preoccupazioni relative alla privacy, soprattutto a fronte del rapido aumento di casi di cyberbullismo. Tra le voci contrarie figurano anche personalità di un certo spessore. Per Lao Dongyan, docente di diritto presso la prestigiosa Università di Tsinghua, le nuove regole agevoleranno l’appropriazione illecita di informazioni riservate. L’esperto ha anche dichiarato che le disposizioni scoraggeranno le persone dall’esprimere opinioni personali contrarie alla linea ufficiale. Con il crescente controllo delle autorità sul web, l’autocensura è diventata un fenomeno piuttosto diffuso negli ultimi anni. Ma ora, dopo la stretta sui nomi, non è più solo il giudizio di Pechino a spaventare. È anche la gogna pubblica a intimorire le voci fuori dal coro.

«l’era del cyberbullismo». «Sono sempre le persone rispettose della legge a rimetterci», recitava un post comparso sull’account e poi cancellato. Ma, secondo Eric Liu, ex censore oggi editor del sito China digital Times, le ultime misure interesseranno soprattutto chi ha conoscenze specialistiche su argomenti, come la scienza e la medicina: pubblicare informazioni contraddittorie rispetto alle narrazioni ufficiali (pensiamo all’origine del Covid-19) potrebbe comportare conseguenze professionali nella vita reale.

Si sa, internet è una giungla: se grazie ai social è diventato più facile informare, ugualmente lo è anche disinformare. Una distinzione che nella Repubblica popolare si colora di connotazioni politiche. A luglio, la Cyber administration of China, il massimo regolatore di internet in Cina, ha emanato direttive ad hoc per regolamentare i cosiddetti «valori sbagliati» o contenuti «fuorvianti» e «pessimistici». «Parlare di declino della Cina serve essenzialmente a creare una “trappola narrativa” o una “distorsione cognitiva”», diceva venerdì scorso il ministero della Sicurezza dello Stato, pochi giorni dopo il taglio dell’outlook cinese da parte dell’agenzia di rating americana Moody’s. Se un tempo bastava astenersi dal parlare di politica, oggi lo spettro dei temi sensibili a rischio censura comprende persino il rallentamento dell’economia cinese.

Il perché è deducibile dall’importanza attribuita al concetto di “guerra cognitiva”. Un termine utilizzato ormai con una certa frequenza dall’intelligence cinese nonché dall’esercito popolare di liberazione (Pla, in ingelse). A febbraio – dopo l’abbattimento del pallone spia cinese negli Stati Uniti – il quotidiano militare Pla daily ha delineato quattro strategie tese a sfruttare i social media come armi di «disturbo dell’informazione». Il messaggio è chiaro: manipolare l’opinione pubblica può rivelarsi una tattica decisiva durante un conflitto. Per Pechino è quindi imperativo non solo imparare come attaccare a colpi di social, ma anche come difendersi.

Alessandra Colarizi




Carta versus digitale (con molte sorprese)


La carta è un prodotto che genera un forte impatto sull’ambiente. È meglio scegliere il digitale? Non è detto. Per valutare l’impronta ecologica di un dispositivo elettronico occorre infatti considerare il suo intero ciclo di vita.

Nel tentativo di ridurre la nostra impronta ecologica, talvolta rischiamo di fare delle scelte sbagliate a causa di una visione incompleta delle questioni ambientali. Uno dei luoghi comuni più frequenti è che leggere libri o riviste in formato digitale sia un modo di salvaguardare l’ambiente, perché in tal modo si riducono il consumo di legname e di acqua e le emissioni di gas a effetto serra. Ma è proprio così? Per rispondere a questa domanda è necessario confrontare l’intero ciclo di vita di libri e riviste cartacee da un lato e delle tecnologie digitali utilizzate nella trasmissione, ricezione ed elaborazione di dati (Ict) dall’altro. Il metodo da utilizzare è l’Lca (Life cycle assessment o analisi del ciclo di vita), che ci dà un’esatta valutazione dell’impatto ambientale di un prodotto o di un servizio perché prende in considerazione tutte le fasi del ciclo di vita che lo riguardano, partendo dall’estrazione delle materie prime necessarie alla sua produzione fino allo smaltimento del prodotto finale.

Un triciclo carico di carta da riciclare in Vietnam. Foto Falco – Pixabay.

Il ciclo della carta

Per quanto riguarda la carta, essa, per essere prodotta, richiede il legname. Per fortuna, una quantità sempre maggiore di carta viene recuperata tramite la raccolta differenziata. Il riciclo però non è possibile all’infinito, perché ogni volta la lunghezza delle fibre, di cui è costituita la carta, si riduce un po’ (e questo è il motivo per cui anche la carta riciclata deve contenere una minima quantità di fibre nuove).

La produzione della carta, tuttavia è responsabile della deforestazione solo in minima parte. Secondo il Wwf, infatti, la deforestazione e il grave degrado delle foreste naturali sono dovuti a molteplici fattori, tra cui l’agricoltura intensiva, il disboscamento non sostenibile, l’attività mineraria, la costruzione di nuove strade e l’aumento del numero e dell’intensità degli incendi.

Del legname raccolto, il 50% viene usato per produrre energia, il 28% per le costruzioni, mentre per la produzione di carta viene impiegato circa il 13%. Nel mondo, l’area con certificazione di gestione forestale è passata da 18 milioni di ettari nel 2000 a 438 milioni nel 2014. Mentre le foreste naturali rappresentano il 93% dell’area boschiva mondiale, quelle piantate sono il 7%. Anche queste ultime, come le naturali, possono assorbire CO2 dall’atmosfera. La carta, come derivato del legno, rappresenta un magazzino di CO2 per tutto il suo ciclo vitale.

Per quanto riguarda le emissioni di gas a effetto serra, quelle dell’industria della carta si sono ridotte del 22% tra il 2005 e il 2013, e attualmente rappresentano l’1% del totale di quelle dell’industria manifatturiera (che rappresentano a loro volta il 29% delle emissioni di gas climalteranti a livello mondiale), contro il 6% dell’industria dell’estrazione e lavorazione dei minerali non metallici, del 4,8% di quella del ferro e dell’acciaio, del 4,3% del settore petrolchimico, dell’1,4% di quella dei metalli non ferrosi, dell’1,1% della produzione del cibo e del tabacco e del 10,5% di altri tipi d’industrie.

Bisogna comunque considerare che alcuni tipi di carta, come quella dei giornali e dei materiali da imballaggio sono costituiti completamente da fibre riciclate. In Europa, nel 2020, la raccolta differenziata della carta si è attestata intorno all’81% con una lieve flessione di 3 punti percentuali dovuta all’emergenza sanitaria da Covid-19. Nello stesso anno, in Italia, la raccolta è stata del 70%, pari a 9,6 milioni di tonnellate.

Naturalmente, quando si considerano i consumi e le emissioni per produrre libri, giornali e riviste cartacei, bisogna tenere conto che per la produzione della carta sono necessari dei procedimenti che comportano sia l’utilizzo che l’inquinamento dell’acqua. Per quanto riguarda l’utilizzo di acqua necessario a produrre una tonnellata di carta, le significative innovazioni introdotte negli ultimi anni dall’industria cartaria italiana, per ottimizzare i consumi, hanno permesso di arrivare a un consumo attuale di soli 26 metri cubi di acqua dolce per tonnellata, contro i 100 della fine degli anni ‘70. Inoltre solo il 10% dell’acqua utilizzata nell’intero processo produttivo è costituito da acqua fresca, mentre il 90% è acqua di riciclo.

Tra i maggiori inquinanti rilasciati con le acque reflue dall’industria cartaria c’è il mercurio, che viene trasformato dai microrganismi degli strati superficiali dei sedimenti marini in metilmercurio, una forma estremamente tossica del metallo, che entra nella catena alimentare attraverso il plancton, percorrendola interamente fino ai pesci di grossa taglia, i grandi predatori, in cui si concentra in maggiore quantità, a causa del processo di biomagnificazione.

Anche gli inchiostri utilizzati per la stampa contribuiscono all’inquinamento sia delle acque, durante la loro produzione, che dell’aria, durante il loro uso, per via dei solventi in essi presenti.

Bisogna inoltre considerare il trasporto sia della carta alle case editrici, che dei prodotti stampati ai punti di vendita o a casa dei lettori, nel caso della distribuzione attraverso le grandi piattaforme di vendita on line.

Il corretto smaltimento dei cellulari (e dei rifiuti elettronici in generale) è possibile ma costoso. Foto Fairphone.

L’impronta digitale

La lettura di testi per mezzo di un dispositivo elettronico come un e-reader, un tablet o un pc sembrerebbe essere molto più «leggera» per l’ambiente, rispetto alla carta stampata, perché un dispositivo può contenere migliaia di testi, questi si possono scaricare in un attimo e non devono essere trasportati, quindi apparentemente non c’è inquinamento. Nemmeno per spostarsi con un mezzo di trasporto per il loro acquisto, dal momento che esso può essere effettuato su internet. Inoltre i testi sono dematerializzati, quindi non si contribuisce alla deforestazione. Apparentemente la lettura dei testi digitali sembra rivoluzionaria per l’ambiente, ma un attento esame dimostra che la sua impronta ecologica è piuttosto elevata e non si discosta da quella della carta stampata. Questo perché non possiamo considerare solo i consumi del nostro dispositivo elettronico, ma dobbiamo innanzitutto considerare i consumi e gli scarti relativi al suo intero ciclo di vita e quelli di tutta la tecnologia necessaria per fare arrivare i testi fino al nostro dispositivo. In pratica, dobbiamo tenere conto delle materie prime utilizzate per la costruzione del nostro dispositivo, tra cui le terre rare, come il coltan, estratte con procedimenti e in luoghi rischiosi per i lavoratori, soprattutto perché spesso teatro di guerre per la loro appropriazione. Dobbiamo, inoltre, considerare il quantitativo di energia necessario sia per la sua costruzione, che per il suo trasporto fino a noi da luoghi lontanissimi e che per tale trasporto sono necessari mezzi ad altissimo consumo energetico come navi mercantili o aerei e autotreni. Certo non possiamo comparare il consumo di energia per la costruzione di un dispositivo elettronico con quella per la produzione di un singolo libro o rivista o giornale. Come dicevo prima, il nostro dispositivo può contenere fino a qualche migliaio di libri e, se siamo dei lettori particolarmente assidui, almeno in considerazione di questo fatto, potremmo pensare ad un risparmio energetico con la lettura di testi digitali. Il nostro dispositivo però ha bisogno di corrente per funzionare, mentre se leggiamo di giorno basta la luce solare.

Una caratteristica dei dispositivi elettronici è che la loro vita è piuttosto breve, sia perché le batterie al litio, di cui sono dotati, durano pochi anni, sia perché caratterizzati dall’obsolescenza programmata. Dopo un po’, infatti, pc, tablet ed e-reader non riescono più a effettuare i necessari aggiornamenti per adeguarsi ai nuovi sistemi operativi e alle nuove app (applicazioni), che hanno bisogno di una memoria sempre più ampia per funzionare. La batteria esaurita e l’obsolescenza programmata ci portano, quindi, a cambiare i nostri dispositivi dopo pochi anni di uso, anche se ancora funzionanti e a doverli smaltire come Raee (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche).

lo smaltimento

Il corretto smaltimento di questa tipologia di rifiuti è un processo multifase, lungo e costoso, che prevede il recupero e il riutilizzo di buona parte dei componenti. Tuttavia, non sempre questi rifiuti tecnologici vengono smaltiti correttamente, con il rischio che le sostanze tossiche contenute nei loro componenti, se gettati in discariche e non trattati in modo adeguato, possano inquinare l’ambiente.

È quello che sta capitando in molti paesi a basso reddito, dove viene effettuato in modo illegale e non tracciato lo smaltimento dei nostri rifiuti tecnologici, come ad esempio in diverse regioni o città africane, che si stanno trasformando in discariche a cielo aperto di rifiuti tecnologici dei paesi occidentali. Questo avviene perché gli impianti per il corretto trattamento dei rifiuti elettronici sono all’avanguardia, ma costosi. Si stima che già nel 2006, in Europa siano stati prodotti tra 8-12 milioni di tonnellate di Raee, ma attualmente si pensa che la loro percentuale rispetto al totale dei rifiuti solidi urbani sia equivalente a quella degli imballaggi in plastica. Il loro tasso di crescita è infatti elevatissimo. È evidente che smaltire un libro è molto più semplice ed economico: la cosa migliore da fare è donarlo oppure, nella peggiore delle ipotesi, destinarlo alla raccolta differenziata e riciclarlo.

Il peso dei data center

Ciò che ho descritto fino a qui però riguarda solo il nostro dispositivo personale. Quindi, molto meno dei reali consumi legati alla fruizione on line di libri, riviste, giornali (oltre che di video, film, podcast, ecc.), perché tutto ciò di cui possiamo fruire è formato da dati che si trovano in qualche gigantesco data center, da cui partono i servizi digitali che utilizziamo.

L’insieme dei data center è un sistema, che identifichiamo con il cloud, rappresentato da quella eterea nuvoletta, che vediamo nell’icona corrispondente, ma che ha ben poco di etereo. Si tratta in realtà di un insieme di strutture fisiche costituite da fibre ottiche, router, satelliti, cavi posizionati in fondo all’oceano, giganteschi centri di elaborazione dati pieni di computer. Tutto questo consuma un’enorme quantità di energia, anche perché molte di queste strutture necessitano, per funzionare bene, di impianti di raffreddamento.

Gli utenti finali non si rendono minimamente conto di questo grandissimo dispendio energetico, perché pagano esclusivamente la piccola quantità di energia consumata dai loro dispositivi, gli abbonamenti ai fornitori di contenuti e i gigabyte di traffico ai loro operatori telefonici. È evidente, quindi che anche le letture online pesano parecchio sull’ambiente e probabilmente non ci sono vantaggi in termini di risparmio energetico totale e di riduzione dell’inquinamento, rispetto alla carta stampata.

I servizi offerti dagli strumenti digitali costano (e molto) anche in termini ambientali. Foto Gerd Altmann – Pixabay.

Digitale e problemi fisici

Nella scelta tra un modo di leggere e l’altro pesano diversi fattori, tra cui l’età dei lettori (le persone anziane non sempre hanno dimestichezza con i mezzi informatici), la necessità di risparmiare spazio (la carta pesa e occupa grandi volumi), la possibilità di facilitare la lettura regolando le dimensioni dei caratteri offerta dai dispositivi elettronici, le esigenze dell’insegnamento a distanza, per cui è necessario che i due sistemi continuino a coesistere.

È però importante considerare che un’eccessiva esposizione agli schermi dei dispositivi elettronici può portare alla «sindrome da visione al computer» o Cvs (Computer vision syndrome), una condizione sempre più diffusa che interessa tra il 70-90% delle persone che passano diverse ore davanti ad uno schermo. I sintomi di questa sindrome sono variabili e sono di tipo visivo, neurologico e muscolo-scheletrico. Non è detto che si presentino tutti insieme e possono variare da una persona all’altra, in base alle abitudini di lettura allo schermo. Frequentemente, dopo alcune ore allo schermo, si presentano bruciore agli occhi, affaticamento e talora sdoppiamento della visione, mal di testa e dolori al collo, per la posizione assunta.

Molti problemi legati a una lunga esposizione a uno schermo sono dovuti al fatto che gli schermi di computer, tablet e smartphone emettono luce blu, che ha effetti negativi su uno dei nostri pigmenti visivi, la rodopsina, portando a un più rapido invecchiamento della vista. Inoltre, la luce blu influenza negativamente il sonno e la concentrazione, in particolare se l’esposizione avviene nelle ore serali, perché rallenta la produzione di melatonina, l’ormone che induce il sonno, provocando insonnia, irritabilità e ansia. Oltre a questo, un’esposizione costante alla luce blu può danneggiare la retina, che non ha sufficienti schermature per questa lunghezza d’onda. A differenza delle altre gamme di luce, che vengono assorbite dalla cornea e dal cristallino, quella blu-viola penetra in profondità nell’occhio e arriva alla zona centrale della retina, la macula, che elabora le nostre informazioni visive.

Infine, la luce blu è capace di influenzare i neurotrasmettitori del tratto retino-ipotalamico, responsabile della regolazione del nostro ritmo circadiano, che è alla base dei nostri processi biologici, tra cui sonno-veglia e produzione ormonale, con alterazioni sia fisiche, che comportamentali.

In conclusione, con un occhio alla salute del pianeta e uno alla nostra, scegliamo il supporto che più ci è confacente.

Rosanna Novara Topino

Quanto inquina l’Internet?

Sebbene sia difficile quantificarlo, secondo una recente ricerca di Greenpeace, il consumo energetico di internet è circa il 7% dell’energia elettrica mondiale. Il suo rilascio di CO2 sarebbe di circa un miliardo e 850 milioni di tonnellate cubiche all’anno, cioè circa 400 grammi per ciascun utente di internet. E l’energia utilizzata dai grandi data center è «pulita» o «sporca», cioè deriva da fonti rinnovabili o no? Secondo un altro report del 2017 di Greenpeace, che ha preso in considerazione i grandi data center e una settantina tra siti web e applicazioni, per quanto riguarda l’utilizzo di energia pulita, per le loro operazioni negli Usa, al primo posto si trova Apple con l’83% di energia pulita, seguita da
Facebook con il 67%, Google con il 56%, Microsoft con il 32%, Adobe con il 23% e
Oracle con l’8%. La restante parte di energia usata è fornita da gas naturale, centrali a carbone e nucleare.

RTN




I Perdenti 58. Beato Carlo Acutis

L’Eucaristia «è la mia autostrada per il Cielo». Sono le parole semplici e significative di un adolescente, espresse nel linguaggio tipico dei giovani d’oggi. Quel ragazzo era Carlo Acutis.

Carlo nasce a Londra, dove i genitori si trovano temporaneamente per motivi di lavoro, il 3 maggio 1991, da Andrea Acutis, di una nota famiglia di Torino, e Antonia Salzano, una coppia di genitori dediti al lavoro e alla famiglia. Appena un mese dopo la nascita di Carlo, la famiglia si stabilisce, per motivi di lavoro del padre, a Milano dove il piccolo Carlo inizia a frequentare le scuole prima presso le Suore Marcelline e, poi, nel liceo classico «Leone XIII», diretto dai Gesuiti.

Curiosità viva

Fin da piccolo Carlo manifesta una caratteristica tipica del suo carattere: quella di avere una grande curiosità sul mondo che lo circonda e sul mistero della vita. È talmente curioso – specialmente sulle questioni religiose – che la mamma inizia a seguire un corso di teologia per riuscire a soddisfare le domande che il figlio, man mano che cresce, le pone. La sua curiosità si accompagna a un’intelligenza viva e propositiva: Carlo si appassiona al mondo del computer, lo studia, legge libri di ingegneria informatica e, quando riesce a carpire i segreti della rete, utilizza la sua conoscenza per aiutare i suoi amici, specialmente i più deboli. Prende a modello di vita alcuni giovani santi: Francisco e Jacinta Marto, i pastorelli di Fatima, Tarcisio, Luigi Gonzaga, Domenico Savio.

Anche al catechismo si distingue per la sua attenzione, per la capacità che ha di entrare nel mistero di Dio.

Amore all’Eucarestia

All’età di sette anni riceve la prima comunione: da allora, come racconterà la mamma, «non mancò mai alla messa quotidiana e alla recita del santo rosario». S’innamora così tanto dell’Eucaristia che ne diviene un vero apostolo, non solo presso i suoi amici e coetanei e verso i più piccoli quando ne diventa catechista, ma anche verso la sua comunità, attraverso una delicata sensibilità cristiana che resta una delle più affascinanti caratteristiche della sua vita.

Assisi

Carlo ha un legame speciale con Assisi, «un luogo che il giovane milanese amava e in cui ha respirato il carisma di Francesco – scriverà di lui William Stacchiotti su La Voce -. Lo considerava il posto che lo faceva sentire più felice e qui aveva espresso il desiderio di essere sepolto. Carlo ha iniziato a frequentare la città dal 2000 dopo che i genitori acquistarono un’abitazione nel centro storico a fianco alla chiesa di Santo Stefano. Durante le festività natalizie e pasquali e nelle vacanze estive, amava trascorrere il suo tempo in città insieme ai suoi amici frequentando la piscina e giocando a calcio. Una vita serena, spensierata, vissuta con gioia con i suoi coetanei e con le persone incontrate nei suoi lunghi soggiorni. Egli non era un semplice turista o un pellegrino come i tanti che affollano la città del Poverello».

La malattia fulminante

Ma la storia terrena di questo giovane non dura a lungo. Agli inizi di ottobre del 2006 si sente male. Si pensa inizialmente a una semplice febbre, un’influenza, ma il persistere dei sintomi e le successive analisi portano a una diagnosi infausta: leucemia del tipo M3, incurabile.

Carlo viene ricoverato nell’Ospedale San Gerardo di Monza. Entrando dice a sua madre: «Da qui non uscirò più», le sue sono parole di un’autentica profezia. Nei giorni del ricovero, nonostante i forti dolori che lo affliggono, Carlo non viene mai sentito lamentarsi, anzi, alle infermiere che gli chiedono come sta, lui sempre risponde: «Bene, c’è gente qui che sta peggio di me. Non svegliate mia madre che è stanca e si preoccuperebbe». Ormai conscio della sua prossima fine, fa la sua ultima offerta: «Offro al Signore le sofferenze che dovrò patire per il papa e per la Chiesa, per non dover andare in Purgatorio e per poter andare direttamente in Paradiso». Il 9 ottobre chiede l’unzione degli infermi, tre giorni dopo, il 12 ottobre, si spegne serenamente, raggiungendo quel Cristo che tanto ha amato nella sua breve vita.

Originale, non fotocopia

Amava ripetere: «La nostra meta deve essere l’infinito, non il finito. L’infinito è la nostra patria. Da sempre siamo attesi in Cielo». Sua inoltre è la frase: «Tutti nascono come originali ma molti muoiono come fotocopie». Per orientarsi verso questa meta e non «morire come fotocopie», Carlo diceva che la nostra bussola deve essere la Parola di Dio, con cui dobbiamo confrontarci costantemente. Ma per una meta così alta servono mezzi specialissimi: i sacramenti e la preghiera. In particolare, Carlo metteva al centro della propria vita il sacramento dell’Eucaristia che chiamava «la mia autostrada per il Cielo». Così lo ricorda mons. Michelangelo M. Tiribilli al Sinodo dei giovani del 2018.

Amore ai poveri

I funerali sono una scoperta per gli stessi genitori: si presentano alla celebrazione persone di ogni ceto, soprattutto poveri, immigrati, bisognosi, ammalati, che raccontano un Carlo inedito, un giovane che si avvicinava a loro, che li aiutava, che li faceva sentire amati, tutto nel nascondimento, senza farsi vedere neanche dalla mamma.
È un classico dei santi, chi ama Gesù nascosto nell’Eucaristia non può non amarlo sofferente nell’umanità.

Carlo, in uno dei suoi video, ha espresso il desiderio di essere sepolto in terra ad Assisi, e viene, quindi, inumato in una tomba della famiglia nel cimitero della città francescana.

Amico di Gesù

La figura di Carlo Acutis non è legata a miracoli straordinari o atti di romanzesco eroismo, Carlo è stato un giovane come tanti giovani, ma nella sua normale giovinezza ha saputo cogliere qualcosa che la maggior parte dei suoi coetanei fa fatica a cogliere: il potere e la grazia dell’Eucaristia. Fra le tentazioni del mondo che ammalia e stordisce, Carlo è riuscito a sentire la voce sottile del Signore, che chiama a una vita vera; fra i fuochi della gioventù e le tormente del XXI secolo è riuscito a sentire quel sussurro di una brezza leggera, che è stato per lui e, attraverso lui, per molti, una trasfigurazione che lo ha fatto somigliare a quel Gesù che tanto ha amato. Carlo Acutis è la dimostrazione che non esistono tempi o età in cui è più difficile vivere la fede, perché Gesù non è un ideale o un pensiero filosofico, Gesù è una persona viva, che ama, che si fa amare, e l’amore non ha tempo e non ha età.

Il miracolo

Il 12 ottobre del 2010, mentre si celebrava il ricordo di Carlo nella parrocchia di Nostra Signora Aparecida di Campo Grande, in Brasile, al momento della benedizione con una sua reliquia, si avvicinò al sacerdote celebrante un uomo con il suo bambino in braccio, affetto da pancreas anulare, una rara malattia, che causava al bambino continui conati di vomito, anche se ingeriva solo liquidi. Giunti dinanzi alla reliquia, il bambino chiese al padre cosa dovesse dire e il padre rispose: «Chiedi di smettere di vomitare». Baciando la reliquia il bambino ripeté le parole «smettere di vomitare». Da quel momento il vomito cessò per non tornare più. Nel mese di febbraio del 2011 i genitori sottoposero il bambino a nuove analisi ed emerse che il piccolo era totalmente e inspiegabilmente guarito. Questo miracolo è stato riconosciuto dalle Commissioni della Congregazione delle Cause dei Santi per la beatificazione di Carlo.

Beatificazione

Constatata la grande fama di santità di cui Carlo ha goduto sin dal giorno della sua morte, il 15 febbraio 2013 fu istruito il processo diocesano per la sua beatificazione, conclusosi il 24 novembre 2016.

Carlo fu dichiarato venerabile il 5 luglio 2018.

Il 6 aprile 2019 fu riesumato (come è tradizione fare nel caso di cause di beatificazione) e il corpo fu trovato in buono stato di conservazione, ancora con tutti gli organi integri. Ne fu prelevato il cuore (come reliquia) e il corpo fu trattato per la conservazione. Fu quindi traslato nel Santuario della Spogliazione, dove si venera all’interno di un monumento funebre, dotato di vetro, che permette, durante le ostensioni, di vederne il corpo.

Il 20 febbraio 2020 fu promulgato il decreto sul miracolo. La cerimonia religiosa della sua beatificazione si tenne il 10 ottobre 2020, celebrata nella sua amata Assisi.

Patrono dell’Internet?

Nell’esortazione apostolica Christus vivit – scritta a fine marzo 2019 -, papa Francesco, dopo aver ricordato tanti santi e sante giovani, ha un ricordo particolare per Carlo e le sue brillanti doti informatiche. «Ti ricordo – scrive nei nn. 104-106 – la buona notizia che ci è stata donata il mattino della Risurrezione: che in tutte le situazioni buie e dolorose di cui parliamo c’è una via d’uscita. Ad esempio, è vero che il mondo digitale può esporti al rischio di chiuderti in te stesso, dell’isolamento o del piacere vuoto. Ma non dimenticare che ci sono giovani che anche in questi ambiti sono creativi e a volte geniali. È il caso del giovane venerabile Carlo Acutis.

Egli sapeva molto bene che questi meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati, dipendenti dal consumo e dalle novità che possiamo comprare, ossessionati dal tempo libero, chiusi nella negatività. Lui però ha saputo usare le nuove tecniche di comunicazione per trasmettere il Vangelo, per comunicare valori e bellezza.

Non è caduto nella trappola. Vedeva che molti giovani, pur sembrando diversi, in realtà finiscono per essere uguali agli altri, correndo dietro a ciò che i potenti impongono loro attraverso i meccanismi del consumo e dello stordimento. In tal modo, non lasciano sbocciare i doni che il Signore ha dato loro, non offrono a questo mondo quelle capacità così personali e uniche che Dio ha seminato in ognuno. Così, diceva Carlo succede che “tutti nascono come originali, ma molti muoiono come fotocopie”. Non lasciare che ti succeda questo».

Queste parole di papa Francesco hanno incoraggiato l’iniziativa di chiedere che Carlo sia proclamato il patrono del web.

don Mario Bandera

Clicca qui per andare al sito ufficiale sul beato Carlo Acutis
con accesso all’Associazione Carlo Acutis e al Progetto TUCUM.




Il nostro cervello e il frigo intelligente

testo di Rosanna Novara Topino |


Siamo circondati e spesso sommersi da onde elettromagnetiche. Quasi sempre nell’indifferenza, anche per mancanza d’informazioni comprensibili e affidabili. Adesso arriva la tecnologia detta del 5G e l’«internet delle cose». Quali sono le conseguenze per l’ambiente e la salute? Siamo certi che questo futuro così pubblicizzato sia una rivoluzione positiva?

Salgo su un’auto che si guida da sola, per portarmi al lavoro in un’azienda 4.0 (nel mio reparto siamo solo quattro umani, tutti gli altri sono robot) e intanto mi arriva sullo smartphone un messaggio dal mio frigorifero intelligente, che mi comunica un suo certo vuoto interiore, a cui posso porre immediato rimedio ricorrendo all’app del mio ipermercato. Con essa posso scegliere i miei prodotti preferiti e concordare l’orario per l’arrivo del drone, che me li porterà direttamente sul terrazzo di casa. Sembra fantascienza, ma invece l’«internet delle cose» è già realtà, magari a livello di prototipo, come nel caso delle auto a guida da remoto.

La tecnologia 5G

L’espansione della tecnologia wireless (senza fili) 5G (5th Generation) per le telecomunicazioni – che consente l’«internet delle cose» – è attualmente in fase sperimentale in alcune smart city italiane come Milano, l’Aquila, Matera, Prato, Bari e Torino – quest’ultima è la prima città d’Italia con la rete live 5G Edge («Edge computing» è un sistema di elaborazione delle informazioni ai margini della rete servita, che riduce i tempi di latenza dei dati, permette risposte in tempo reale e risparmio di banda) con droni connessi, utilizzabili per il monitoraggio ambientale e la sicurezza dei cittadini. Questa tecnologia migliorerà enormemente anche la telemedicina. Peccato che quest’ultima potrebbe ritrovarsi a curare proprio le patologie eventualmente indotte dalle radiofrequenze su cui è basata la tecnologia 5G. Già, perché la sua sperimentazione è partita nelle suddette città e in un centinaio di comuni italiani minori verrà effettuata nei prossimi due anni, senza minimamente mettere in conto i possibili rischi per la salute umana e animale e per l’ambiente, non essendo stati coinvolti né il ministero della Salute, né quello dell’Ambiente. Ma che tecnologia è il 5G e a quali rischi possiamo andare incontro con la sua diffusione?

Le radiazioni e le frequenze

La tecnologia 5G, come le tecnologie wireless di grado inferiore, che l’hanno preceduta e che tuttora usiamo, impiega onde elettromagnetiche, in particolare onde radio, cioè onde non ionizzanti di frequenza di gran lunga superiore a quella delle tecnologie precedenti ed è caratterizzata da lunghezze d’onda millimetriche. In particolare le bande di frequenza utilizzate per il 5G sono inizialmente comprese in tre fasce da 700 MHz,  3,4-3,8 GHz, 26 GHz (in fisica l’Hz è l’unità di misura della frequenza; 1 Hz = un impulso al secondo; 1 MHz = 1.000.000 Hz e 1 GHz = 1 miliardo Hz) e successivamente verranno utilizzate bande comprese tra 24-25 e 86 GHz (secondo l’Agcom, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Considerando le tecnologie 2G, 3G, 4G attualmente in uso (che non verranno sostituite, ma affiancate dal 5G), le loro frequenze vanno complessivamente da 800 a 2600 MHz.

Il fatto che per il 5G le radiofrequenze abbiano una lunghezza d’onda millimetrica implica che sono necessarie migliaia di stazioni radio base e un numero molto elevato di mini-antenne sul territorio, che permetteranno il collegamento tra loro di circa un milione di oggetti per chilometro quadrato, con una iperconnessione permanente e ubiquitaria e una velocità di trasferimento dati da 100 a 1.000 volte superiore, rispetto all’attuale. Per implementare l’iperconnessione, le società di telecomunicazioni (supportate dai governi) non si limiteranno all’uso di stazioni radio terrestri, ma nelle previsioni arriveranno ad utilizzare circa 20mila satelliti posizionati nella magnetosfera. L’obiettivo è quello di arrivare ad un cambiamento tecnologico su scala globale per avere case, imprese, autostrade, città di tipo «smart», cioè «intelligenti» e auto a guida autonoma. In Italia è prevista una copertura del 5G del 99,4% del territorio entro giugno 2023.

Studi e rapporti: a chi credere?

Cosa comporta tutto questo per la salute e per l’ambiente?

La risposta a questa domanda vede schierati su fronti opposti i sostenitori di questa tecnologia: da un lato solitamente fisici, informatici, ingegneri, matematici spesso legati alle società di telecomunicazione, e dall’altro medici e biologi che portano i risultati di almeno 10mila studi peer review (la procedura di selezione di articoli e progetti operata dalla comunità scientifica, ndr) i quali dimostrano effetti biologici avversi a seguito dell’esposizione a campi elettromagnetici (Cem).

La prima contestazione dei sanitari riguarda il limite, secondo loro troppo elevato, della potenza massima di trasmissione attestato in Italia sui 6 V/m (6 volt/metro misurati in una media di 6 minuti), limite stabilito dall’Icnirp (International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection), un organismo non governativo, basato in Germania e riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che si occupa di ricercare i possibili effetti nocivi sul corpo umano dell’esposizione a radiazioni non ionizzanti. Questo organismo ha elaborato linee guida, cioè delle raccomandazioni ai governi nazionali per l’adozione di limiti di esposizione per la protezione delle persone (pubblico e lavoratori). Sulla base di tali linee guida, nel 1999 l’Unione europea ha emanato una raccomandazione, affinché gli stati membri adottassero una normativa comune per la protezione del pubblico basata sui dettami dell’Icnirp e nel 2004 è seguita una direttiva per la protezione dei lavoratori. I medici contestano i valori limite dettati dall’Icnirp, perché ottenuti studiando gli effetti dei Cem su manichini riempiti di gel, i phantom, come modelli umani, senza considerare che tali modelli non possiedono le stesse proprietà dielettriche del corpo umano. Essi inoltre affermano che sono stati presi in considerazione unicamente gli effetti termici delle radiofrequenze, ma non quelli biologici, le cui conseguenze sono state dimostrate dagli studi sunnominati, che sono in parte epidemiologici ed in parte sperimentali.

Secondo il rapporto indipendente sui campi elettromagnetici e diffusione del 5G dell’Isde (International society of doctors for environment, l’Associazione dei medici per l’ambiente) pubblicato il 10 settembre 2019, la maggior parte degli studi che rassicurano sul rischio per la salute da esposizione a radiofrequenze, tra cui il progetto Interphone, sul quale si basano le posizioni dell’Oms, hanno ricevuto finanziamenti da soggetti privati, tra i quali i gestori della telefonia mobile. Per quanto riguarda l’Icnirp, la quale afferma che sotto i limiti da essa fissati per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti non vi sono rischi per la salute umana, in un’inchiesta pubblicata il 16 gennaio 2019 da il Fatto Quotidiano si legge che diversi membri di questa commissione collaborano a vario titolo con le società di telecomunicazione e da quel settore ricevono compensi.

Le patologie indotte

Nel 2015 scienziati di 41 paesi hanno informato le Nazioni Unite e l’Oms che molti studi scientifici dimostrano che i campi elettromagnetici colpiscono gli organismi viventi a livelli anche molto più bassi rispetto a quelli indicati come sicuri dalla maggior parte delle linee guida internazionali e nazionali (già da 0,6 V/m). Oltre agli effetti termici da esposizione acuta, i Cem determinano effetti biologici da esposizione cronica. Tra i principali effetti biologici, indipendenti da quelli termici, ci sono i danni alla barriera ematoencefalica, con un aumento del rischio di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, l’infertilità soprattutto maschile (lesioni strutturali e funzionali del testicolo, alterazione dei parametri dello sperma e della sua concentrazione nell’epididimo), disturbi neuro-comportamentali, danni alle cellule neuronali, danni al feto e alterazioni del neuro-sviluppo, aumento dello stress ossidativo, danni al Dna, disturbi metabolici e del sistema endocrino, alterazioni del ritmo cardiaco. In particolare l’aumento dello stress ossidativo e i danni al Dna si traducono in un aumentato rischio di tumori. A seguito di esposizione prolungata a radiofrequenze è stato osservato l’aumento dei gliomi cerebrali soprattutto ipsilaterali, dei neurinomi acustici, dei linfomi, dei tumori del pancreas, del cuore e delle ghiandole surrenali.

Nel 2011, la Iarc (International agency for research on cancer) inserì le radiofrequenze in classe 2B (possibile cancerogeno), ma, alla luce delle nuove evidenze scientifiche di numerosi studi, tra cui quelli compiuti su modelli animali da due autorevoli e indipendenti gruppi di ricerca, l’Istituto Ramazzini in Italia e il National toxicology program negli Stati Uniti, essa ha deciso di rivedere la classificazione delle radiofrequenze, che potrebbero passare in classe 2A (probabile cancerogeno) o addirittura in classe 1A (cancerogeno certo).

Accade nelle nostre scuole

Diversi studi hanno evidenziato una particolare vulnerabilità alle radiofrequenze nei bambini e nelle donne in gravidanza. In particolare uno studio svedese di Hardell et al., 2013, ha dimostrato che l’uso del cellulare prima dei 20 anni porta a un rischio di glioma ipsilaterale quattro volte superiore, rispetto ai controlli. Questo dato è particolarmente importante, se si pensa che ormai bambini e adolescenti sono costantemente immersi nei campi elettromagnetici, che tutti insieme vanno a costituire l’elettrosmog. Non solo i bambini e ragazzi ormai dispongono quasi tutti di un cellulare, pc o tablet, ma passano parecchie ore delle loro giornate in scuole sempre più connesse, per le quali il cosiddetto «Bando Wi-Fi» del luglio 2015 ha stanziato un finanziamento di circa 90 milioni di euro per la realizzazione o il miglioramento delle reti wi-fi all’interno delle scuole del I e II ciclo d’istruzione. Purtroppo, nei bambini e nei ragazzi, la capacità di assorbimento delle radiofrequenze è superiore rispetto agli adulti a causa del maggiore contenuto di acqua dei loro tessuti e del minore spessore delle ossa craniche. Questo espone i ragazzi ad un maggiore rischio di contrarre patologie importanti come il cancro.

Del resto, si può immaginare il livello di esposizione in una classe dove siano contemporaneamente presenti 25-30 cellulari (liberalizzati dalla ex ministra all’Istruzione Fedeli, che ha sostenuto il Byod, Bring your own device, «Porta il tuo dispositivo», nell’ambito del progetto Buona scuola), alcuni pc o tablet, la lavagna elettronica (detta Lim) e la connessione wi-fi della scuola.

Nel 2017 l’Isde italiana (il suo sito: www.isde.it) ha chiesto una moratoria al governo, per interrompere la sperimentazione del 5G in atto, finché non si sappia qualcosa di più circa la sua pericolosità o innocuità. Tutti i dati scientifici a disposizione si riferiscono a frequenze di gran lunga inferiori a quelle utilizzate dal 5G e di fatto ci ritroviamo a fare da cavie umane in questa sperimentazione. Sarebbe perciò doveroso applicare il principio di precauzione ed evitare di esporre la popolazione a inutili rischi, in assenza di studi mirati.

Nell’agosto 2019 l’Istituto superiore di Sanità ha emesso il rapporto Istisan 19/11, nel quale gli autori, dopo avere escluso dalla loro analisi importanti studi sia epidemiologici, che sperimentali in modo del tutto arbitrario, con motivazioni errate come la mancanza di significatività statistica o pretestuose come la non ancora avvenuta pubblicazione su riviste peer review, sono giunti a conclusioni rassicuranti sugli effetti delle radiofrequenze e sull’utilizzo dei cellulari. Addirittura essi sostengono che, alla luce dei dati attuali, l’uso comune del cellulare non sia associato all’aumento del rischio di alcun tumore cerebrale, mantenendo un certo grado d’incertezza per un uso molto intenso soprattutto dei vecchi modelli di cellulare con maggiori potenze di emissione rispetto a quelli di ultima generazione. Anch’essi inoltre affermano di non potere fare previsioni sull’impatto del 5G sulla salute. Poiché il rapporto Istisan è stato stilato a seguito di un esame incompleto della letteratura scientifica, senza la valutazione delle più recenti evidenze sperimentali, per cui esso tiene in conto solo gli effetti termici delle radiofrequenze e non quelli biologici (in linea con l’Icnirp), l’Isde italiana ha chiesto il ritiro di questo documento all’Istituto superiore di Sanità ed una sua rielaborazione più ampia.

Ne vale la pena?

Il 2 ottobre 2019 è terminata l’asta per l’assegnazione delle frequenze 5G. Le offerte per le bande messe a disposizione hanno superato i 6,5 miliardi di euro, superando la cifra minima stabilita dalla legge di bilancio. Il 5G inizialmente funzionerà con elementi emittenti nella fascia 3,5-3,6 GHz e antenne phase array, cioè a «schiera in fase». Sarà necessaria l’installazione nelle aree urbane di moltissimi micro-ripetitori, con conseguente aumento della densità espositiva, poiché i molti palazzi e piante rappresentano un ostacolo alla trasmissione lineare (in teoria le piante non dovrebbero superare i 4 m di altezza, quindi potranno verificarsi generose potature, se non addirittura eliminazioni). Quando la tecnologia 5G sarà potenziata, ogni operatore dovrà installare stazioni base ogni 100 m in ogni area urbana del mondo e ricorrerà anche a satelliti in orbita, che emetteranno onde millimetriche a fasci focalizzati e orientabili, con una potenza effettiva irradiata di 5 milioni di watt. Secondo i meteorologi, tutto ciò potrebbe interferire pesantemente sulle previsioni dei gravi eventi atmosferici, con grande rischio per le popolazioni delle aree interessate.

Siamo sicuri che valga la pena di correre tutti questi rischi per avere case, auto, industrie, oggetti «intelligenti», che probabilmente renderanno noi sempre più stupidi? Ma soprattutto, tutto questo ci rende felici o schiavi della tecnologia imperante e di chi la controlla?

Rosanna Novara Topino




Dal «like» all’«amen»

di Gigi Anataloni, direttore di MC


Passare dal «like» all’«amen» è l’invito di papa Francesco nel suo messaggio per la 53ª giornata mondiale della comunicazione del prossimo 2 giugno, Ascensione del Signore. L’espressione sintetizza bene il salto di qualità che siamo chiamati a fare nel nostro modo di comunicare oggi: dalla distanza alla prossimità, dall’individualismo alla relazione, dalla ricerca di ciò che ci piace e conferma le nostre idee al confronto – a volte anche spiacevole – con la verità, dalla superficialità al coinvolgimento, dall’anonimato all’incontro faccia a faccia, dal chiuso dei nostri interessi all’essere «in uscita» camminando con gli altri. È la sfida di creare davvero una rete (net) di relazioni (inter) che rafforzino i legami tra le persone, i popoli e le nazioni, costruendo ponti, abbattendo muri, nella consapevolezza di far parte di un’unica famiglia umana nell’unico mondo che abbiamo.

Le due parole hanno in sé un mondo di significati che vale la spesa approfondire.
Il «like» è, di per sé, positivo, dice che qualcosa mi piace, mi diverte, mi interessa e condivido. Il rischio è che questa presa di posizione positiva rimanga un desiderio superficiale, non mi scomodi più di tanto, mi faccia rimanere placido sul «divano» (tante volte menzionato da Francesco in contrapposizione all’«uscire»). Raramente diventa anche azione: una firma, una donazione, la lettura approfondita di un articolo, men che meno un andare ad aprire la porta, un dare una stretta di mano o un abbraccio, neppure un alzare gli occhi dallo schermo per guardare in faccia l’interlocutore, l’altro, il cosiddetto «amico» o il «nemico», colui contro cui mi scaglio senza neppure conoscerlo solo perché scrive o fa come «non piace» a me. Uno dei rischi del «like» è di mettermi a posto la coscienza senza disturbarmi più di tanto e diventare parte di un mucchio con l’illusione di partecipare a qualcosa d’importante (anche quando è una fake news).

L’«amen» fa fare un salto di qualità al like. È impegno, scelta, dono, servizio, libertà, responsabilità, coscienza critica. Spesso si rafforza nel silenzio e si paga con la solitudine (apparente). L’amen è il modo di essere dei costruttori di nuova umanità. L’amen di Abramo, stufo dei succhia paure (i molti idoli) del suo tempo, lo fa uscire verso l’inedito, rendendolo padre di tutti coloro che per fede cercano la vera libertà in un incontro di amore. L’amen di Mosè gli fa smettere di fuggire dalla realtà dell’oppressione e iniziare un cammino di liberazione con il suo popolo. L’amen di Davide, il ragazzetto fulvo e di bell’aspetto, lo fa uscire – armato solo del suo coraggio – contro il super fellone Golia. L’amen di Maria, rafforzato, confermato e purificato da prove e dolori, apre l’inizio della nuova creazione e la rende madre non solo del figlio di Dio ma della nuova umanità. Amen è dire: (sono) sicuro (che quello che mi proponi è) veritiero, così è, (quindi) avvenga! Dove «avvenga» non è un sì rassegnato a qualcosa di inevitabile e più forte di me, ma l’epressione del mio desiderio libero, gioioso e intenso che quello per cui ho detto amen si realizzi davvero con la mia totale collaborazione.

Francesco conclude il suo messaggio dicendo: «Così possiamo passare dalla diagnosi alla terapia: aprendo la strada al dialogo, all’incontro, al sorriso, alla carezza… Questa è la rete che vogliamo. Una rete non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere. La Chiesa stessa è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui “like”, ma sulla verità, sull’“amen”, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri».

Oltre cinquant’anni fa l’ultimo documento del Concilio Vaticano II, la «Gaudium et spes», scriveva al n. 37: «La Sacra Scrittura, con cui è d’accordo l’esperienza di secoli, insegna agli uomini che il progresso umano, che pure è un grande bene dell’uomo, porta con sé una grande tentazione: infatti, sconvolto l’ordine dei valori e mescolando il male col bene, gli individui e i gruppi guardano solamente alle cose proprie, non a quelle degli altri; e così il mondo cessa di essere il campo di una genuina fraternità, mentre invece l’aumento della potenza umana minaccia di distruggere ormai lo stesso genere umano. Se dunque ci si chiede come può essere vinta tale miserevole situazione, i cristiani per risposta affermano che tutte le attività umane, che son messe in pericolo quotidianamente dalla superbia e dall’amore disordinato di se stessi, devono venir purificate e rese perfette per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo».

Gesù Cristo è il vero amen che ha cambiato la storia, perché il suo «non la mia volontà, ma la tua sia fatta» (Lc 22,43; Mt 26,39; Mc 14,36) è stato il dono d’amore più grande che poteva fare e con il dono di sè ci ha indicato la vera via per essere uomini liberi che vivono relazioni di amore – faccia a faccia, senza paura – con Dio e ogni uomo di ieri, oggi e domani.




Fake news, internet, comunicazione … Usiamo la testa

Editoriale su Internet e fake news di Gigi Anataloni, direttore MC |


«La verità vi farà liberi (Gv 8,32). Fake news e giornalismo di pace». Questo è il titolo del messaggio di papa Francesco per la 52a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebra il 13 maggio. È un messaggio di estrema attualità, da leggere con intelligenza e cuore. Nessun frequentatore dell’Internet dovrebbe ignorarlo.

Come direttore di una rivista missionaria, sarei tentato di dire «sono già a posto», quel messaggio «non mi riguarda», perché noi non cavalchiamo «fake news» e «già facciamo un giornalismo di pace» e cerchiamo di pubblicare notizie verificate senza scopi occulti o bramosia di guadagno, senza bombardare i nostri lettori, anzi, chiedendo loro di leggere tutto con la calma necessaria per digerire e controllare quello che scriviamo. Però le parole di Francesco sono un richiamo positivo anche per noi, perché – in verità – non siamo del tutto gratuiti, ma «esigiamo» molto dai nostri lettori: il loro tempo perché ci leggano senza fretta (slow news!), la loro intelligenza perché condividano con noi idee e valori, il loro cuore perché amino, gioiscano o piangano con noi, e la loro azione perché esprimano con i fatti solidarietà e sostegno al nostro servizio ai poveri, ai lontani, al Vangelo. Tutto questo non è poco. Non vi ringrazieremo mai abbastanza per la vostra vicinanza.

Certo è che stiamo vivendo un tempo molto bello per la comunicazione, la quale, grazie alla rete, gode oggi di opportunità, possibilità e servizi positivi e partecipativi, inimmaginabili solo qualche anno fa. È però anche un tempo di grande crisi, non solo quella cronica della carta stampata – libri e giornali -, ma anche dei social – Facebook, in primis – che sembrano aver tradito tutte le aspettattive vendendosi per profitto alla politica e ai gruppi di potere, senza alcuna considerazione per i propri utenti, se non quella del puro sfruttamento commerciale. Così, di colpo, cadono i miti, il re è nudo. Il «popolo della rete» si sente gabbato: siamo traditi, imbrogliati, usati, etichettati, classificati, analizzati, derubati della privacy, considerati come numeri, buoni solo per essere manipolati, sfruttati e rapinati dei soldi, del tempo, della buona fede.

Una visione troppo pessimista della situazione? Forse. Però bazzico nel mondo dell’Internet da troppo tempo per credere alle utopie della democrazia digitale, del tutto gratis, della privacy a tutti i costi, del puro idealismo che ci sarebbe in rete. Utopie che sono state smontate dal realismo dei costi di un sistema sempre più sofisticato e allo stesso tempo sempre più fragile, e dalla comprensione della sua potenzialità manipolativa ed economica. Non per niente alcune delle persone più ricche del mondo – certamente troppo ricche per i miei gusti – hanno a che fare con Internet e le cosiddette nuove tecnologie.

Non sono pessimista e non penso serva demonizzare o boicottare i social (o «quel» social in particolare). Credo invece sia più importante ricordarsi che ogni mezzo è solo un mezzo e come tale va usato, senza farne un idolo da adorare e servire o un mostro da temere. Quand’ero piccolo e mio nonno era l’unico e leggere il giornale nella nostra frazione, se lui diceva «l’ha detto il giornale», questo tagliava la testa al toro. Poi si è passati a «l’ho sentito alla radio», «l’ho visto in tv», fino all’idolatria o al terrore dei «like» dei nostri giorni. No, Internet e social «non tagliano la testa al toro», non ci esimono dal pensare con la nostra testa, dal verificare e dall’usarli responsabilmente.

La tentazione indotta dagli strumenti digitali è quella di farci «agire prima di pensare»: clicca, like, inoltra, condividi e così via. Ci vorrebbe calma, invece. Pensare prima di agire. Fare silenzio, ascoltare e ascoltarsi, verificare. Domandarsi «cui prodest?», chi ci guadagna? E poi chiedesi il perché aderisco a certe idee, diffondo notizie, immagini e filmati: lo faccio solo per puro divertimento personale o per creare e condividere felicità? Ho a cuore gli altri, l’ambiente, il mondo o penso solo a me stesso? Sono prudente o superficiale? Costruisco relazioni, comunione, armonia, gioia e pace o divido, istigo, provoco, alimento l’odio, diffondo paura e diffidenza, creo confusione? È importante mantenere il controllo del tempo, di cui i social vogliono l’esclusiva. Salvare tempo per se stessi, per gli altri e (perché no?) per Dio. A volte sarebbe anche meglio pregarci su prima di agire. No, non semplicemente dire una preghiera, ma pregare, cioè fermarsi nel silenzio, per confrontarsi con la Parola e con i valori, il modo di essere, di pensare e di agire di Gesù. Quel suo «ma io vi dico» (tipico in Mt 5) dovrebbe risuonare in noi, sempre. È l’invito a mettere al centro della nostra vita l’unica cosa che veramente costruisce umanità: l’amore. E l’amore si coniuga con la verità e solo la verità ci rende liberi. Liberi e fratelli. Senza le paure che ci fanno costruire muri, ci imprigionano nella menzogna e ci rendono schiavi di chi non ci considera persone ma numeri, consumatori, elementi di un algoritmo. Da che mondo è mondo con lo stesso strumento si può costruire o distruggere, dipende solo da chi lo usa. Solo la «verità nell’amore» ci rende liberi e liberatori.

Gigi Anataloni




Il web ti vede


Il social network più popolare si è lanciato alla conquista del mondo. Per far questo stringe accordi con compagnie telefoniche e fornisce servizi gratuiti. Qualche stato, spinto dalla società civile, dice no. Facebook punta al controllo totale della rete e a incamerare enormi quantità di dati su ognuno di noi. Per poi orientare le nostre vite.

Uno scontro tra due delle più popolose potenze mondiali si è consumato tra il 2014 e il 2015: da una parte l’India, con un miliardo e 250 milioni di abitanti, dall’altra Facebook, con un miliardo e mezzo di utenti. I due giganti sono venuti ai ferri corti, legali, per l’iniziativa Facebook Free Basics, lanciata dal social network in 53 paesi in Africa, Medio Oriente, Asia, Oceania e America Latina, economie emergenti in cui la maggior parte della popolazione ha accesso limitato a internet a causa della scarsa diffusione di computer e smartphone, o per la parziale copertura di rete del territorio nazionale, o ancora per i costi proibitivi delle connessioni. Il programma Facebook Free Basics, fortemente voluto da Mark Zuckerberg in persona (fondatore di Facebook, ndr), consiste essenzialmente nella stipulazione di accordi con operatori mobili locali per fornire un accesso a Facebook di default, ovvero senza la necessità di usare un browser (programma per la navigazione in rete, ndr) per aprire il sito del social network, e con costi di navigazione completamente a carico della compagnia mobile.

Facebook o internet?

Il fatto che l’iniziativa si chiamasse precedentemente Internet.org rivela la vera ambizione del progetto: quella di rendere Facebook non solo la porta d’accesso alla rete, ma un vero e proprio sinonimo di internet. Questa tendenza, in realtà, precede il lancio di Internet.org nel 2014 in Zambia. Due anni prima, nel 2012, nel corso di uno studio per l’organizzazione Research ICT Africa, il capo del team di ricerca, Richard Stork, aveva notato un dato bizzarro: il numero degli intervistati che dichiarava di usare Facebook era superiore a quello di chi affermava di usare internet.

Un caso simile si era verificato, nello stesso anno, in Indonesia, dove Helani Galpaya, una ricercatrice per il think tank LIRNEasia, aveva commentato così i risultati del suo studio: «Sembra che, per gli intervistati, internet non esista. C’è solo Facebook». Altre ricerche condotte in Africa e Asia del Sud confermarono questa tendenza: Facebook e internet sono ormai termini intercambiabili. Un fatto incoraggiante alla vigilia dello sbarco di Facebook Free Basics nella frontiera più ambita: l’India. Per Zuckerberg, intenzionato a far crescere la sua creatura nel più grande mercato mondiale ancora disponibile (in Cina Facebook è tuttora proibito) questo era tutt’altro che un problema: del resto, come ribadito dallo stesso fondatore del social network in interventi pubblici, articoli pubblicati su giornali locali e incontri a porte chiuse con autorità politiche indiane, il punto fondamentale del progetto era consentire a centinaia di milioni di persone di restare in contatto e condividere ricordi, notizie e opinioni. Cento milioni sono già utenti di Facebook ma il potenziale è di 800 milioni. Che tutto ciò avvenga all’interno di un recinto è, a detta della multinazionale, secondario. Facebook Free Basics, nelle parole di Zuckerberg, era un regalo. Che però l’India ha rifiutato.

Il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari (centro) e il Vice President eYemi Osinbajo (sinistra) posano con Mark Zuckerberg, fondatore di facebook,  2/09/2016. / AFP PHOTO / SUNDAY AGHAEZE

Il controllo del web

La campagna contro l’iniziativa di Zuckerberg ha portato per la prima volta al centro del dibattito pubblico il tema della neutralità della rete, ovvero il principio che i provider di banda larga debbano concedere a tutti i produttori di contenuti lo stesso spazio. Un controllore (in questo caso Facebook) a guardia dell’accesso al web avrebbe potuto decidere a quali organi d’informazione dare la priorità, lasciando in ombra altri. La scelta potrebbe essere dettata da ragioni politiche o di mercato, dando spazio a contenuti che hanno più possibilità di essere cliccati. La mobilitazione di attivisti ed esperti della rete ha così costretto l’autorità indiana per le telecomunicazioni a revocare l’autorizzazione al servizio offerto dal gigante digitale tramite un operatore di telefonia mobile locale. Un no, arrivato a febbraio 2016, che è stato il più traumatico nei 12 anni di esistenza di Facebook. Per Nikhil Pahlwa, fondatore di «Medianama», un sito d’informazione sul settore delle telecomunicazioni indiane, la minaccia principale sarebbe stata quella di rendere la compagnia di Menlo Park (Facebook) l’unica porta d’accesso al web per la gran parte dei cittadini indiani, che così avrebbero attinto prevalentemente alle informazioni disponibili nel social network per farsi delle opinioni sulla politica, l’economia e la società del proprio paese e del mondo intero.

False notizie, che costano

Non si tratta di riflessioni oziose tra addetti ai lavori, perché le conseguenze sono reali e riguardano la vita, e spesso la morte, di migliaia di persone. Sempre in India, nel novembre 2016, il governo di Navendra Modi ha deciso di mettere al bando, da un giorno all’altro, l’86% della carta moneta in circolazione come misura radicale contro la corruzione. Poche ore prima dell’annuncio ufficiale, la notizia del bando circolò a velocità vertiginosa su WhatsApp, il servizio di instant messaging di proprietà di Facebook, usato da 180 milioni di indiani, e sullo stesso Facebook, scatenando un vero e proprio assalto a banche e altri istituti finanziari per cambiare le banconote di piccolo taglio. Inoltre, secondo la voce che circolava sui social media, le nuove banconote da 500 e 2.000 rupie avrebbero contenuto un microchip per tracciarne i movimenti. La notizia era ovviamente falsa, ma aveva contribuito a seminare il panico e a rendere più frenetica la corsa all’accumulo di banconote di grosso taglio prima del passaggio al nuovo formato. Nella ressa, decine di persone hanno perso la vita.

Un effetto ancora più drammatico della diffusione di notizie false su Facebook si è verificato in Sud Sudan, il più giovane paese africano insanguinato da una guerra civile dal dicembre 2013. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato lo scorso novembre, «i social media sono stati usati dai sostenitori di tutte le fazioni, inclusi alcuni membri del governo, per esagerare incidenti, diffondere falsità e minacce o lanciare messaggi d’odio».

L’uso dei media per incitare alla violenza non è una novità: è nota l’esperienza di Radio Mille Colline, che contribuì attivamente ad aizzare estremisti Hutu nel 1994 in Rwanda contro i propri compatrioti di etnia Tutsi. E l’importanza delle notizie false come strumento di propaganda governativa per coalizzare le masse contro un nemico, o per inventare il nemico tout court, ha una lunga storia alle spalle. Certo, i social media consentono una circolazione più rapida e virale della propaganda, come il recente dibattito sulle fake news, esploso dopo la vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni statunitensi, ha messo più volte in luce.

Visitatori al Africa Web Festival (AWF) in Abidjan il 29/11/2016. / AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO

Cosa sono i Big Data?

Nella discussione sulla rivoluzione in atto nella comunicazione politica, resta sullo sfondo un elemento centrale. Facebook e altri social media consentono di identificare con estrema precisione gli individui non solo più recettivi nei confronti delle fake news, ma anche più autorevoli nella loro rete di contatti, cosicché una bufala rilanciata da loro ha maggiore credibilità. Tutto ciò è reso possibile dalla capacità di social media come Facebook di raccogliere una mole senza precedenti di informazioni personali, i cosiddetti Big Data.

Il tema dei Big Data sta suscitando l’entusiasmo di esperti di cooperazione per lo sviluppo e interventi umanitari, interessati al modo in cui le tecnologie digitali possono aumentare la precisione degli interventi e migliorarne l’efficienza. Meno discusso è il lato oscuro dei Big Data, ovvero quello che la matematica e attivista americana Cathy O’Neil chiama, nell’omonimo libro appena pubblicato, le Weapons of Math Destruction (armi di distruzione matematica, ndr), un gioco di parole sull’espressione Weapons of Mass Destruction, armi di distruzione di massa. Nel saggio della O’Neil le armi sono gli algoritmi usati per elaborare l’enorme quantità di dati prodotti dalle nostre comunicazioni sui social media, transazioni finanziarie e spostamenti fisici, per costruire dei profili che possono essere sfruttati per gli scopi più vari. Il mercato dei Big Data è particolarmente sofisticato negli Stati Uniti, dove sono usati per predire in quali aree urbane verranno commessi dei crimini, o il tasso di rischio per chi chiede un prestito, o il premio per un assicurato.

Cathy O’Neil sostiene che, attingendo alle reti sociali dei cittadini, questi servizi rischiano di cristallizzare delle disuguaglianze esistenti. Pertanto, una persona che proviene da un quartiere disagiato e ha amici o parenti con una storia di insolvenze alle spalle ha meno possibilità di ricevere un prestito e rischia di essere fermato e perquisito più spesso dalla polizia nella zona in cui vive. Anche nei paesi in via di sviluppo un numero crescente di fornitori di servizi finanziari sta usando dati estratti dai social media per stabilire il livello di rischio dei potenziali clienti: è il caso, ad esempio, di Branch e First Access, due fintech, ovvero compagnie finanziarie che usano tecnologie digitali, che offrono prestiti a centinaia di migliaia di utenti di denaro mobile (mobile money, vedi MC luglio, agosto-settembre e novembre 2014, ndr) in Kenya e Tanzania sulla base dei dati raccolti tra contatti telefonici e su Facebook.

Minaccia alla democrazia

Secondo Frank Pasquale, un giurista dell’Università del Maryland e autore di The Black Box Society, la fiducia cieca nei dati generati dall’uso di tecnologie digitali e soprattutto l’opacità dei meccanismi decisionali fondati sugli algoritmi, nasconde una minaccia al principio fondativo delle istituzioni democratiche, ovvero il «conoscere per deliberare». E qui, per chiudere il cerchio, conviene tornare ai social media, ai due maggiori terremoti politici del 2016, ovvero il referendum sul Brexit britannico e l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, e al filo rosso che lega questi due eventi.

Lo scorso dicembre, due giornalisti investigativi, Hannes Grassegger e Mikael Krogerus, hanno pubblicato sulla rivista svizzera Das Magazin il frutto di un’inchiesta durata diversi mesi che getta una luce inquietante sul modo in cui i Big Data estratti dai social media possono essere usati per individuare elettori tentennanti e condizionarli in una certa direzione. I due reporter hanno puntato la lente su un’agenzia con sede a Londra, la Cambridge Analytica, che ha prestato consulenza sia per Leave.EU, il fronte anti-europeista nel referendum del 23 giugno sulla permanenza britannica nell’Unione europea, che per la campagna elettorale di Trump nella corsa alla Casa Bianca. Cambridge Analytica appartiene al Scl (Strategic Communication Laboratories) Group, una società di comunicazione politica che ha seguito le campagne elettorali di partiti e movimenti politici in tutto il mondo, dalle elezioni in Sud Africa nel 1994 a quelle in Kenya nel 2013, passando da quelle in Ucraina nel 2004 a quelle in Romania nel 2008, incluso un progetto di ricerca condotto in Italia nel 2012 per un non specificato partito politico.

Identikit digitali

Guidata dal 41enne britannico Alexander James Ashburner Nix, la Cambridge Analytica è specializzata nella raccolta ed elaborazione di dati per «audience targeting», ovvero per identificare con la massima precisione i membri del corpo elettorale in modo da modulare messaggi politici che tocchino, per così dire, i tasti giusti. I social media offrono un enorme bacino di dati, e la potenza di calcolo degli strumenti a disposizione permette di trasformare questi dati in informazioni leggibili, stabilendo rilevanze statistiche. Ma ciò che trasforma queste informazioni in proiettili che colpiscono nel segno sono delle tecniche psicometriche ispirate alle ricerche di uno psicologo polacco dell’università di Cambridge, Michal Kosinski.

Durante i suoi studi nello Psychometric Centre dell’ateneo britannico, Kosinski si era occupato di ampliare le possibilità offerte da un modello per identificare diverse tipologie di personalità umana sviluppato negli anni ‘80, il cosiddetto modello Ocean, un acronimo dei termini che, in inglese, significano apertura (Openness), coscienziosità (Conscientiousness), estroversione (Extroversion), piacevolezza (Agreeableness) e nevrosi (Neuroticism). Secondo la teoria alla base di questo modello, la personalità di chiunque può essere ricondotta a una miscela, in parti diverse, di queste caratteristiche. Dopo aver messo a punto un test, MyPersonality App, per ricostruire le personalità dei partecipanti, Kosinski l’aveva condiviso su Facebook aspettandosi che poche decine di amici partecipassero al gioco. Aveva raccolto invece milioni di risposte.

Kosinski e il suo team di ricerca avevano lavorato su questa mole mastodontica di dati e, nel 2012, hanno pubblicato un articolo su un giornale accademico dimostrando che, conoscendo una media di 68 «mi piace» cliccati da utenti americani di Facebook, è possibile indovinare, al 95%, il colore della pelle e, all’85%, se il rispondente è democratico o repubblicano. Il ricercatore si spingeva fino al punto di affermare che conoscendo 70 «mi piace» di una persona la si conosce come se fosse un amico, con 150 come se fosse un figlio e con 300 come se fosse una moglie o un marito. Una disponibilità di oltre 300 «mi piace», elaborati secondo il modello Ocean, consente di conoscere l’utente più di quanto questo conosca se stesso.

Programmatori della start-up company Hacklab.in in Bangalore (India). / AFP PHOTO / Manjunath KIRAN

Big Data e politica

Secondo quanto riportato dai due giornalisti svizzeri, lo stesso giorno della pubblicazione dell’articolo Kosinski ha ricevuto una minaccia di denuncia e un’offerta di lavoro, entrambe da Facebook. Spaventato dai risultati della sua ricerca, e dalle sue implicazioni politiche, Kosinski però ha declinato l’offerta e, da quel momento, si è dedicato a mettere in guardia sull’impatto dei social media sul dibattito democratico, prevedendo il rischio che questa tecnica possa massimizzare l’influenza delle notizie false sui social media, marcando un pericoloso passaggio dal «conoscere per deliberare» al «conoscere per condizionare». Un incubo che è sembrato realizzarsi quando è emerso che Cambridge Analytica ha usato un metodo ispirato alla ricerca di Kosinski, e basato sull’applicazione del modello Ocean ai dati raccolti sui social media, sia per la campagna della Brexit che per quella di Trump. E che potrebbe rivelarsi molto più di una collaborazione una tantum: uno dei membri del consiglio di amministrazione di Cambridge Analytica è Stephen Bannon, ex direttore di Breitbart, il megafono della cosiddetta Alt-Right, la nuova estrema destra americana, stratega della vittoriosa campagna di Donald Trump e tuttora braccio destro dell’inquilino della Casa Bianca.

La tecnica, usata per la prima volta nel referendum britannico e nelle elezioni americane potrebbe trovare presto applicazione altrove. E potrebbe essere migliorata da agenzie concorrenti. Una delle più avanzate e opache compagnie che operano nel campo dei Big Data applicati alla comunicazione politica e alla raccolta d’intelligence è la Palantir Technologies, creata nel 2004 da Peter Thiel, miliardario tedesco-americano già fondatore di PayPal, il gigante dei pagamenti online nel 1999, e tra i primi a credere in Facebook, di cui tuttora detiene cinque milioni di azioni e siede nel consiglio d’amministrazione. Thiel, a differenza della grande maggioranza degli imprenditori della Silicon Valley, ha preso pubblicamente posizione a sostegno di Trump. La sua Palantir si occupa di analisi di antiterrorismo per il Dipartimento americano della difesa e per altre agenzie di spionaggio e attinge, tra gli altri, ai dati generati dalle comunicazioni sui social media.

Un semplice «mi piace» non dirà poi tanto, ma centinaia possono fornire un profilo completo. Un click non costa nulla ma, come nel famoso slogan forgiato dal video-artista Richard Serra nel 1973 e diventato popolare negli anni ‘90, «Se qualcosa è gratis, vuol dire che il prodotto sei tu».

Gianluca Iazzolino