La politica e le leggi attuali non aiutano, ma anche in Italia è possibile dare accoglienza ai migranti con umanità ed efficienza. L’accoglienza diffusa sarebbe una buona pratica, ma è contrastata dal sistema attuale, fondato sull’emergenza.
Di fronte alla stazione di Salbertrand, un paese di circa 600 anime tra bassa e alta Val di Susa, si trova una delle comunità per minori stranieri non accompagnati che compongono il sistema di accoglienza della Città metropolitana di Torino.
Superato l’ingresso, nella stanza subito a sinistra, alcuni anziani ci scrutano da dietro una vetrata – il secondo piano è adibito a casa di riposo -, mentre sulla destra c’è una sala letture dove incontriamo un giovane originario del Gambia, appena arrivato dal polo logistico della Croce Rossa di Bussoleno1.
Alle pareti, la locandina sbiadita con gli eventi culturali di una passata stagione turistica estiva e un poster della ricca fauna alpina della zona: camosci, caprioli, cervi e marmotte.
Anziani e giovani ospiti si ritrovano in questo spazio-tempo sospeso a condividere pezzi delle loro esistenze che si sfiorano, senza riuscire a comunicare. Come i protagonisti dei quadri di Hopper (Edward Hopper 1882-1967, ndr), sembrano in un limbo, a metà tra mondo esterno e interno, in attesa che succeda qualcosa che però non accade mai.
Un sistema emergenziale
Fare buona accoglienza è una sfida complessa anche per quegli enti pubblici e del terzo settore che accettano di raccoglierla mettendo in campo progetti di inclusione coraggiosi ma dagli esiti incerti.
La complessità deriva anche dal fatto che parliamo di un sistema italiano di accoglienza che, forse, a ventuno anni dalla sua nascita, ancora non c’è2.
Convivono piuttosto due sistemi, totalmente difformi tra loro, come le logiche che li sottendono.
Da una parte, quella emergenziale, che alimenta da circa due decenni il discorso politico mediatico. Questo approccio concepisce i flussi migratori come qualcosa di transitorio che, prima o poi, si esaurirà e l’accoglienza solo in termini di contenimento in centri di grandi dimensioni per i quali, in un inesauribile esercizio di fantasia, vengono coniati via via nuovi acronimi dietro cui si celano misure sempre più restrittive dei diritti e delle libertà delle persone migranti3.
Dall’altra parte, invece, c’è la spinta inclusiva incarnata dalla società civile organizzata che prova a sperimentare dal basso, in alleanza con le istituzioni locali (i comuni, singolarmente o in forma associata, in testa) pratiche di convivenza innovative basate su un modello di accoglienza che si nutre di pochi, essenziali, ingredienti: la micro-ospitalità diffusa e il forte coinvolgimento del tessuto socioculturale e produttivo del territorio.
Purtroppo, questo modello virtuoso si è affermato negli anni in maniera lenta e disomogenea4, cedendo così il passo al sistema dell’accoglienza straordinaria che, nato per avere funzione accessoria e transitoria, è diventato di fatto predominante5.
L’eredità di Riace
Quando si parla di «accoglienza diffusa», è immediato il collegamento con l’esperienza di Riace, su cui molto è stato scritto da quando l’esperimento di ripopolare con migranti il piccolo borgo calabrese, sino ad allora conosciuto solo per i Bronzi, prese avvio e divenne un modello riconosciuto internazionalmente, per poi cadere in disgrazia, fino alla recente riabilitazione del suo fautore6.
In realtà, negli anni si sono moltiplicate le esperienze volte a conciliare la necessità di inserimento socioeconomico delle persone migranti con quella di rivitalizzare comunità a rischio di impoverimento demografico, economico e culturale.
Era il 2017, quando, contemporaneamente al Memorandum con la Libia, l’allora ministro Marco Minniti firmava un protocollo per avviare la sperimentazione di un progetto «innovativo» in Campania: l’inserimento di migranti in attività di pubblica utilità nei luoghi simbolo della Regione, tra cui ovviamente gli scavi di Pompei e la Reggia di Caserta.
Il progetto non è mai partito, ma alcuni comuni hanno puntato comunque sull’accoglienza per riappropriarsi simbolicamente di un territorio, un tempo cuore della Campania felix, ricco di beni archeologici e architettonici abbandonati all’incuria e soffocati dal cemento, che ha trasformato proprio l’area tra Caserta e Capua in un immenso centro commerciale all’aria aperta. E così grazie all’associazione di Caserta «Solidarci», ente gestore di alcuni progetti Sai (Sistema accoglienza integrazione, vedi pagina 30), un giovane subsahariano è stato assunto presso il Real sito di Carditello, sottratto recentemente alla camorra, dove si prende cura dei pregiati cavalli introdotti dai Borbone, mentre un altro lavora per la ditta che si occupa della manutenzione del Parco reale della Reggia. Un terzo fa il pizzaiolo nel complesso dell’anfiteatro campano di Santa Maria Capua Vetere (l’antica Capua), dove Spartaco, lo schiavo gladiatore, guidò la rivolta e poi la fuga verso la libertà.
In montagna, da «Barba Gust»
Sulle orme dei tanti migranti diretti oltre confine, torniamo in Alta Val di Susa, questa volta nel borgo di San Sicario, dove i residenti sono una cinquantina. La titolare di un’impresa familiare, Elena Bermond, nata e cresciuta tra queste montagne, stimolata da un progetto di agricoltura sociale, decide di ospitare tre minori stranieri non accompagnati per uno stage all’agriturismo «Barba Gust» (dal piemontese «barba», zio e «Gust», diminutivo di Augusto, il nome di suo padre). Soddisfatta dell’esperienza, la consiglia ad altre realtà della zona: albergatori, ristoratori e piccoli artigiani che, come lei, accettano di mettersi in gioco malgrado le barriere linguistiche e culturali.
Sono centinaia i comuni montani in cui l’accoglienza diffusa è una buona prassi già da tempo, che si rafforza tanto quanto più le persone accolte si inseriscono gradualmente nel contesto produttivo locale.
«Gli immigrati stanno contribuendo, per quanto spesso loro malgrado, a rimettere al centro le “terre alte” del Paese. Termini come “accoglienza” o “resilienza” negli ultimi anni sono associati a questi territori, in passato visti dalla città come “chiusi” o addirittura “ostili” verso l’esterno, anche grazie alla presenza straniera, percepita ora come stimolo per riconquistare le posizioni perdute in decenni di marginalizzazione culturale prima ancora che socioeconomica»7.
Il modello dell’accoglienza diffusa, dalle Alpi all’estremo sud della nostra penisola, modifica il paesaggio nutrendosi di storie di riscatto in cui i destini delle persone migranti si intrecciano con quelli delle comunità locali.
Silvia Zaccaria
Note al testo
(1) Il Polo accoglie persone migranti, anche minori, arrivate a Lampedusa e respinte al confine francese. Grazie al progetto PrIns del Consorzio intercomunale socio assistenziale della Valle di Susa e Val Sangone, ConIsa, i minori sono poi trasferiti nelle strutture di seconda accoglienza della valle.
(2) Medici del mondo Italia, Il sistema che ancora non c’è. Le riflessioni e le proposte dal tavolo asilo e immigrazione a vent’anni dalla nascita dello Sprar.
(3) Il DL n. 124 del 19 settembre 2023 prevede la realizzazione di Cpr su tutto il territorio nazionale per cittadini di paesi terzi non richiedenti asilo destinatari di un provvedimento di espulsione o di respingimento e per richiedenti asilo che costituiscano un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, con tempi di trattenimento sino a 1 anno e 6 mesi. Secondo il decreto, i richiedenti asilo provenienti dai cosiddetti «paesi sicuri» possono evitare il trattenimento versando una cauzione pari a 4.938 euro.
(4) L’adesione da parte dei Comuni alla rete di secondo livello Sai – Sistema accoglienza e integrazione – è su base volontaria.
(5) Sito: www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it. A metà ottobre, erano 34.367 le persone migranti inserite in progetti Sai in 1.800 comuni su 7.900. Se consideriamo il totale di 141.106 persone accolte, il 75% è ospitato in Centri di accoglienza straordinaria.
(6) Nel 2018 è aperta l’inchiesta Xenia contro Mimmo Lucano. È la fine del progetto di accoglienza che, in pochi anni, aveva portato il paese calabrese da 900 a 2.000 abitanti. Il 12 ottobre scorso si è celebrato il processo d’appello conclusosi con l’assoluzione di Lucano dalle accuse più pesanti, che andavano dall’associazione a delinquere al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
(7) Cfr. «Chi ha bisogno della montagna italiana?» di Bergamasco, Membretti, Molinari, in Scienze del territorio, vol.9, 2020.
Il sistema di accoglienza italiano
Di decreto in decreto, di sigla in sigla
Il sistema italiano di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) nasce nel 2002 con la Bossi-Fini dopo una sperimentazione in alcuni comuni attraverso il Programma nazionale asilo.
Quando nel 2005 l’Italia si trovò a scegliere quale sistema intendeva darsi, optò per il «modello binario»: parallelamente all’accoglienza ordinaria, vennero create le strutture di prima accoglienza come i Cpsa (Centri di primo soccorso e accoglienza) e i Cara (Centri per richiedenti asilo), da cui, trascorso lo stretto tempo necessario alle procedure di identificazione e richiesta asilo, la persona migrante sarebbe dovuta passare al secondo livello, quello dello Sprar appunto.
Negli anni queste strutture si sono moltiplicate: nel 2011 sono stati introdotti i Cas – Centri accoglienza straordinaria – e, nel 2015, gli hotspot. I migranti provenienti dai cosiddetti «paesi terzi sicuri» vengono invece inviati ai Centri per il rimpatrio (Cpr, ex Cie e prima Cpt).
Arriviamo al 2018 quando il Decreto sicurezza ha trasformato lo Sprar in Siproimi (Sistema protezione per titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati). Infine, nel 2020 il Decreto Lamorgese rinomina il Siproimi in Sai (Sistema di accoglienza e integrazione), riammettendo i richiedenti asilo.
Per quanto riguarda i minori ad oggi sono solo 6.574 quelli in seconda accoglienza, pari a circa il 31% del totale, mentre il 40% si trova nei Centri di accoglienza straordinaria.
Colline, vigneti, borghi, panorami, cantine. Dal 2014, le Langhe sono patrimonio dell’Unesco. Sono bellezza, lavoro, denaro, fama. Nel caso (unico) dell’«Accademia della vigna», nata esattamente un anno fa, possono significare anche buone pratiche e sostenibilità sociale, riscatto e integrazione.
Il giovane Ousmane viene dalla Guinea Conakry. Ha trovato finalmente un lavoro stabile, e ogni mattina inforca la sua bicicletta e raggiunge l’azienda agricola Mirafiore, dove è stato assunto in qualità di operaio di vigna.
Non ha una storia semplice l’operaio Ousmane, arrivato in Italia su un barcone nel 2017 e ancora richiedente asilo, finito in Francia, passato attraverso varie forme di lavoro sfruttato e poi giunto nelle Langhe dove sta costruendo il suo futuro. «Senza lavoro, non c’è libertà», dice.
Il progetto «Accademia della vigna» si pone dentro questo angolo di mondo, come proposta in grado di valorizzare la dimensione sociale del vino.
L’iniziativa, coordinata dall’impresa sociale We.Co. e promossa con il «Consorzio di tutela Barolo Barbaresco», è attiva da ormai un anno grazie alla collaborazione con diversi enti del territorio (imprese, istituzioni, terzo settore, scuole, sindacati, cittadini). Rappresenta la prima academy a impatto sociale sulla viticoltura: un sistema che facilita il reperimento di nuovi operai formati sulla conduzione del vigneto, tramite un percorso che alterna la formazione con il lavoro in vigna.
Emersione e dignità
Dieci assunzioni regolari, dieci contratti, dieci emersioni dal lavoro irregolare, spesso sfruttato.
Questo è il risultato ottenuto dall’«Accademia della vigna», la prima del settore vitivinicolo italiano. Nata nel settembre 2022, essa si occupa di inserimento di manodopera nelle più prestigiose aziende dell’albese, territorio baciato da Dio dove il lavoro ha trasformato la «malora» raccontata nel 1954 da Beppe Fenoglio in una miniera d’oro a cielo aperto, patrimonio Unesco dal 2014.
È una bella storia, fatta di riscatto e integrazione, ma non solo. Chiunque tenti di limitare il lato oscuro dell’economia attuale è spinto a vedere da vicino, a vivere quasi, gli aspetti che si vorrebbero cambiare o mitigare: è un processo faticoso perché porta a diventare parte di un meccanismo che appare monolitico.
Un (piccolo) esempio per un nuovo inizio
Gli uomini che giungono all’Accademia, in gran parte africani, ma non mancano gli italiani, spesso sono stati vittime di varie forme di caporalato. Grazie a una complessa rete di istituzioni locali, aziende illuminate, il Consorzio di tutela del Barolo e tantissimo lavoro, riescono a trovare un nuovo inizio.
È il cosiddetto «diritto all’aspirazione», teorizzato dall’antropologo Arjun Appadurai, un diritto che spinge tanti a migrare e a esporsi a molti rischi, tra i quali quello di venire sfruttati. Come se l’integrazione dovesse passare prima attraverso delle forche caudine a cui non ci si può sottrarre: tutte le migrazioni hanno questa caratteristica quale parte di un processo doloroso.
Dieci assunzioni sono un grande risultato per l’Accademia della vigna, ma rimangono una goccia nel mare.
Quando sei di fronte a questo fenomeno lillipuziano la questione diventa molto più complessa. In un tempo in cui la denuncia delle ingiustizie è depotenziata dall’assuefazione, raccontare un fatto, una situazione esemplare è lo strumento che rompe lo schema e mostra un’altra realtà possibile, nell’ambito di un ecosistema umano ed economico complicato. Dove non c’è esempio da indicare, e c’è solo denuncia, la realtà rimane immobile.
Frontiere
Le vigne sono bellissime. Le colline appaiono ricamate dai lunghi filari che in ogni stagione portano un colore diverso: il verde intenso della primavera, il bianco innevato dell’inverno e il rosso acceso del periodo della vendemmia. Tanta bellezza, tanto lavoro, tanta fatica.
Siamo abituati al racconto delle frontiere esterne, che spesso raggiungono il (dis)onore della cronaca per la violenza che le caratterizza.
Siano esse nel mare Mediterraneo o lungo la rotta dei Balcani, il loro scopo è quello di selezionare gli esseri umani che vogliono migrare: di fatto ormai entrano solo coloro che possono pagare profumatamente un trafficante. È la «nostra» guerra, che combattiamo con ampio uso di strumenti bellici e milizie.
Ma una volta che i migranti riescono a entrare in Italia, il loro viaggio continua fino a raggiungere le frontiere interne: quelle della burocrazia malata e del lavoro irregolare, in primis.
Per questo una vigna, come una catena di montaggio, può essere una frontiera, e basta un attimo per essere nuovamente fuori. Dentro un sistema di legalità o fuori, dentro un contratto che ti dà la possibilità di affittare una casa, oppure no.
L’Accademia della vigna vuole aiutare i migranti a non sbattere contro queste frontiere e vuole mostrare a tutti le grandi potenzialità offerte da un processo lavorativo senza irregolarità, prima di tutto la possibilità di intercettare i desideri di consumatori sempre più attenti alla sostenibilità ambientale e umana dei prodotti.
Per capire si deve vedere e ascoltare
Per capire si devono vedere questi uomini africani curvi sulle nostre vigne, intenti a zappare, con la schiena che si piega e le braccia forti che lavorano. Le uve più pregiate d’Italia, forse del mondo, sono curate da esseri umani partiti da luoghi lontani che noi consideriamo nemici, persone alle quali chiediamo di fare lavori che noi, per mille ragioni, non vogliamo più fare.
Questi uomini, durante i colloqui di lavoro, non fanno che rispondere «sì», e tu vorresti dire loro che non devono sempre usare quella parola per qualsiasi domanda, che non va bene, che si deve imparare a dire anche «no» nella vita se vuoi sopravvivere, se non vuoi diventare uno schiavo, se vuoi essere un uomo libero.
L’unico sistema che può integrare decentemente le persone migranti è il lavoro legale, fare in modo che le forze anarchiche del mercato siano regolate e mitigate. L’integrazione passa attraverso la fatica e il sacrificio: pensare che in prima istanza vi sia un riconoscimento giuridico è una forzatura ideologica.
Allo stesso tempo, una società che vuole integrare dovrebbe offrire ai migranti alcuni servizi: formazione, regole (lo Stato che le detta e le fa rispettare), imprenditori che capiscano quanto la responsabilità sociale d’impresa sia un valore e non un costo, sindacati.
Nuovi italiani?
Ti guardano, silenziosi, questi uomini. Non sai mai cosa pensino, se siano interessati a quello che gli racconti, o sia solamente un’altra occasione per fare contento il «capo bianco» che parla e parla. Si vede che vorrebbero andare a casa, sempre che ce l’abbiano e non vivano alla Caritas o lungo un fiume.
Dicono sempre sì ai colloqui, ma sono anche quelli che a volte scompaiono senza dare una spiegazione, lasciando un lavoro di formazione a metà, che combinano guai e spesso mentono.
Non so quanti di questi esseri umani si considerino «nuovi italiani»: nonostante la formazione, il lavoro regolare che a piccoli passi viene conquistato e gli avanzamenti economici.
Forse tantissimi vogliono andare via, continuare il viaggio, raggiungere l’agognata Germania, il mitico Nord Europa.
Alcuni però rimangono e cercano un futuro.
Le buone pratiche servono a tutti
Matteo Ascheri è il presidente del Consorzio di tutela Barolo Barbaresco. Commenta: «Il problema dello sfruttamento della manodopera è diffuso in tutta Italia e non solo, riguarda diversi comparti economici ed è radicato da tempo. Le origini sono complesse e toccano aspetti economici, sociali e culturali.
Nelle Langhe, patria di alcuni dei vini più conosciuti al mondo e regione oggetto di turismo sempre crescente, come sistema e come imprenditori abbiamo l’obbligo morale ed etico di affrontare la questione, portarla alla luce e cercare possibili soluzioni. Accademia della vigna è, quindi, un primo progetto a cui abbiamo voluto dare il nostro supporto per rispondere a questo problema e si inserisce all’interno di un percorso ben più complesso e lungo, che ha bisogno di tempo per attecchire e svilupparsi.
Molti nostri produttori hanno già aderito all’iniziativa in quanto fornisce una risposta concreta a un problema che ha due facce: la mancanza di manodopera in vigna da una parte e la poca eticità nel trattamento delle persone, dall’altra. Non parlando solamente di numeri occorre però intervenire su più piani, quello tecnico/economico e quello della presa di coscienza da parte di tutti gli operatori. In quest’ottica è nostro obiettivo sviluppare anche altre soluzioni che ancor meglio possano incontrare le esigenze delle nostre aziende, molto diverse tra loro per dimensioni e natura, e nel contempo tutelare i lavoratori».
Quindi, vi è un tentativo da parte del tessuto economico sociale di far emergere «le buone pratiche» che possono incidere in un settore molto ricco e conosciuto a livello planetario.
L’idea è che una formazione tecnica delle persone – progettata in partnership con le imprese – possa essere lo strumento per ingressi lavorativi che garantiscono alle aziende maggiori competenze e qualità nei processi di lavoro, offrendo ai candidati un contratto di lavoro regolare e di lungo respiro.
L’iniziativa supporta le aziende partner nell’individuazione di candidati interessati all’esperienza, le aziende svolgono i colloqui di lavoro e assumono con contratto diretto il personale di cui necessitano. I nuovi operai vengono quindi inseriti nel percorso formativo organizzato e gestito dal progetto: 150 ore di formazione tecnica, svolta direttamente in vigna, didattica in collaborazione con i migliori agronomi del settore. Le ore di formazione sono distribuite durante dodici mesi in moduli, ciascuno dedicato a una diversa fase di lavoro del vigneto.
Maurizio Pagliassotti Giornalista e scrittore. MC ha presentato nel numero di giugno i suoi due libri dedicati ai migranti.
Un po’ per caso, un’insegnante scrittrice s’imbatte in una storia su una malattia rara. Con grande sensibilità ne scrive un romanzo. Un’associazione di genitori di piccoli malati lo legge e lo fa suo. Invita l’autrice a un incontro nazionale, cambiando per sempre la sua vita.
A fine dicembre 2022 ho pubblicato un libro dal titolo «La farfalla nella bolla di sapone». L’idea di questo romanzo breve è nata quasi per caso meno di un anno fa, pensando a tanti bambini e bambine che soffrono di qualche malattia, e alle loro famiglie che ogni giorno con costanza e amore combattono affinché possano vivere una vita normale e soprattutto possano guarire.
Quella che ho raccontato è la storia di Matilde, una bimba dalla pelle fragile come le ali di una farfalla. Matilde rappresenta simbolicamente tutti i bimbi colpiti dall’epidermolisi bollosa (Eb), che vengono appunto chiamati «Bambini farfalla».
Dalle pagine del diario del protagonista, un ragazzo di tredici anni a cui nasce una sorellina bellissima, ma fragile come una farfalla, emergono la lotta, i momenti difficili, e anche i sorrisi, le gioie e le speranze di una famiglia unita e tenace, che non si arrende, perché deve vincere una battaglia molto importante, ovvero convivere e sconfiggere una malattia rara.
Il libro parla di una tematica intensa e commovente, volutamente trattata, attraverso gli occhi di un ragazzo, con leggerezza e ironia.
È una storia ambientata ai giorni i nostri, in cui la vita quotidiana di una famiglia si intreccia con la pandemia; una storia fatta di dolore e sacrifici, ma anche di tanto coraggio e speranza, che conduce a un lieto fine perché il motto dei protagonisti è: non arrendersi mai e non smettere mai di sognare e di sperare.
Un mondo che si apre
Dopo aver scritto il romanzo, mi si è aperto un mondo che non conoscevo, ed è per questo che il mio intento è di fare qualcosa per sensibilizzare (nel mio piccolo) su questa malattia per la quale, a oggi, non esiste ancora una cura risolutiva. Ma la scienza medica deve essere sostenuta nella ricerca ora più che mai, perché grandi passi avanti sono stati fatti nell’ambito della terapia genica, l’unica in grado di garantire una guarigione definitiva delle lesioni.
Ho quindi deciso di devolvere l’intero ricavato del mio libro all’associazione Le ali di Camilla, che ho avuto modo di conoscere a fine marzo, in occasione degli «Eb Days» organiz- zati a Modena per far incontrare ricercatori, medici e famiglie.
Voglio ringraziare la presidente Stefania Bettinelli (fino a gennaio 2023 responsabile delle relazioni esterne del Centro di medicina rigenerativa e di Holostem, e da molti anni vicina ai pazienti), per avermi invitata al loro incontro: una lezione di vita che vale più di mille pagine di studi.
Per me e mio marito sono stati due giorni molto intensi, ricchi di emozioni indescrivibili, che porteremo sempre nel cuore.
Lì ho avuto modo di conoscere ricercatori, medici, operatori, volontari e persone che si adoperano per supportare i pazienti (bambini, ragazzi e adulti) e le loro famiglie nel difficile percorso di cura. Come Giulia e Christian, i genitori di una delle due piccole Camilla da cui prende il nome l’associazione, che hanno coinvolto l’intero paese di Casina, in provincia di Reggio Emilia, nelle attività dell’associazione.
E abbiamo incontrato bambini e adulti meravigliosi, che non si lamentano delle difficoltà che ogni giorno devono affrontare, del dolore fisico e dell’incertezza del futuro. Abbiamo condiviso molti momenti, sono nate delle belle amicizie e soprattutto ci siamo sentiti accolti come in una grande famiglia.
Impatto emotivo
La partecipazione a quell’incontro ha avuto un impatto emotivo molto forte su di me. Ho visto i bambini con le mani e le braccia bendate e le ferite aperte, ho visto i giovani con le mani chiuse o con arti amputati. E se è vero che, in un primo momento, l’occhio cade sulle fasciature e sulle ferite, basta davvero poco per guardare oltre, per vedere la persona e non la malattia, perché, come ha detto Rebecca, una bimba goriziana di nove anni, «Io voglio che i miei compagni di scuola sappiano la verità, e solo io posso dirla: io sono una bambina normale come loro, ma semplicemente con una malattia che rende la mia pelle fragile come le ali di una farfalla. E loro mi hanno capita. Questo mi ha sorpresa e resa felice».
Rebecca ci ha colpiti per la sua forza, per il sorriso, per le riflessioni profonde e per l’impegno che lei e la sua famiglia portano avanti sia nel progetto “Camilla va a scuola”, con il libro Vuoi volare con me?, per l’inclusione scolastica, sia con il gruppo musicale i Trovieri, che ha dedicato la canzone «Mille colori» ai bambini farfalla.
Al progetto «Camilla va a scuola» ha collaborato anche la scuola dell’infanzia frequentata dalla vicentina Chiara, di tre anni, che indossa una maglietta protettiva e le fasciature alle manine. Vedere il video in cui ride felice e fa le attività insieme ai compagni è stato un momento di pura gioia. Per lei e per le compagne e i compagni le maestre hanno inventato la storia «Stella Caterina».
Un altro libro che è stato presentato, Perfettamente imperfetta, è quello in cui Claudia, collegata dalla Sardegna, racconta la sua vita e le difficoltà che ha dovuto affrontare. Il libro vuole essere un messaggio ai giovani e un aiuto di speranza per le persone fragili che si perdono nelle difficoltà e nei labirinti della vita. «So e sento che è bello amare la vita nella sua semplicità e nelle sue avversità; è bello non sentirsi mai inferiori a nessuno, perché ognuno di noi vale tanto», ha detto Claudia.
Una vita complessa
La «verità» a cui Rebecca si riferiva è che l’Eb rende la pelle fragile e propensa alla formazione di dolorose bolle in seguito a traumi anche minimi. Le lesioni facilmente si infettano comportando gravi rischi. Per questo è necessario proteggere con bendaggi speciali la pelle.
I pazienti impiegano circa tre ore al giorno per effettuare le medicazioni. L’esempio che ci è stato fatto, affinché si potesse capire la gravità e l’intensità del dolore è stato questo: è come mettere la mano su una piastra rovente e rimanere con la carne viva (cosa che con l’Eb si verifica sugli arti, ma anche nelle altre parti del corpo).
Nei casi gravi, le bolle possono manifestarsi all’interno del corpo, ad esempio nelle mucose interne di bocca, gola ed esofago e provocare anche dolorose lesioni alle cornee. Esse si possono prevenire con l’utilizzo di speciali lenti a contatto che l’associazione fornisce ai pazienti.
Strumenti importanti
Spesso le mani delle persone malate di Eb tendono ad atrofizzarsi e le dita a incollarsi tra loro, impedendo di compiere i normali atti della vita quotidiana. Ed ecco allora che il toscano Alessandro (che oltre al lavoro in ospedale, è iscritto al terzo anno di Scienze motorie per specializzarsi in riabilitazione motoria), insieme all’associazione sta portando avanti il «Progetto Eb Aid», con il quale è stato possibile brevettare un guanto multifunzionale (da lui progettato e realizzato), con tanti alloggiamenti stampati in 3D che permette ai pazienti con Eb e mani parzialmente o totalmente chiuse, di ancorare e utilizzare gli utensili di uso quotidiano (cucchiaio, forchetta, biro, spazzolino da denti, ecc.).
Poiché l’Eb negli adulti spesso provoca tumori della pelle, molti pazienti hanno subito amputazioni degli arti. Purtroppo, però, essi non possono utilizzare le normali protesi perché la loro pelle non sopporterebbe l’effetto sottovuoto che è necessario creare per mantenerle ferme sui monconi. Sempre attraverso il «Progetto Eb Aid», Lucio, di Arezzo, con la stampa 3D ha realizzato protesi leggerissime ma funzionali con cui riesce a utilizzare anche il braccio amputato mantenendo una certa autonomia.
A fruire di questi ausili sarà anche Michela, che abbiamo conosciuto insieme a Nicola. Sono una coppia di ragazzi pugliesi che dimostrano come l’amore vada oltre la malattia. Un sentimento sbocciato a due mesi dall’amputazione di Michela e che prosegue da due anni.
Insieme a loro, a cena, abbiamo conosciuto Alessandro, arrivato da Roma con la mamma Valeria, Gianfranco di Alessandria e la famiglia della piccola Gaia di Torino, Michele, arrivato dalla Sicilia con la mamma, e la numerosa famiglia di Diego che ha viaggiato in treno dalla Campania.
Nel corso dell’incontro, non sono mancati alcuni momenti dedicati alla clinica e alla ricerca.
La professoressa Cristina Magnoni, coordinatrice del Percorso diagnostico terapeutico assistenziale (Pdta) dedicato all’Eb, al Policlinico di Modena, insieme alla dottoressa Chiara Fiorentini e alla professoressa Manuela Simoni, ha dedicato una tavola rotonda al miglioramento del Pdta come percorso da costruire insieme attraverso la preziosa alleanza tra medici e famiglie, fondamentale in una malattia rara come l’Eb.
Il Pdta coinvolge oltre trenta specialisti (tra cui neonatologi, pediatri, genetisti, oculisti, chirurghi dermatologici, chirurghi della mano, gastroenterologi, anestesisti) e rappresenta un punto di riferimento per centinaia di pazienti, provenienti da tutta Italia. Questi, al momento vengono ospitati dall’associazione in hotel convenzionati nei pressi dell’ospedale, almeno fino a quando non si riuscirà a realizzare il progetto «Una casa per Camilla».
Terapia genica
Modena è anche un riferimento internazionale per la ricerca, in particolare per la terapia genica.
All’incontro abbiamo potuto conoscere il professor Michele De Luca, direttore del Centro di medicina rigenerativa «Stefano Ferrari» dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e socio fondatore e direttore scientifico dello spin-off universitario Holostem Terapie avanzate, uno dei maggiori esperti al mondo di biologia delle cellule staminali.
De Luca ha salvato la vita a un piccolo paziente con un intervento raccontato dai principali media italiani e internazionali nel 2017 in occasione della pubblicazione su Nature, la rivista scientifica più importante del mondo. Nel 2015 Hassan, un bambino siriano di sette anni, affetto da epidermolisi bollosa giunzionale, era stato ricoverato nel centro ustioni dell’ospedale di Bochum in Germania per le ferite causate dalla rara patologia genetica che colpisce gli epiteli, ulteriormente aggravate da un quadro clinico così severo da dovergli indurre il coma farmacologico per poter sopportare il dolore.
I medici, dopo aver fallito nel curare il piccolo paziente con le terapie disponibili, avevano contattato il professor De Luca che nel 2006 aveva pubblicato il risultato della prima sperimentazione al mondo di terapia genica a base di cellule staminali geneticamente corrette, eseguita a Modena su Claudio, un paziente torinese allora poco più che trentenne. Grazie a quel solido risultato, ripetuto su un secondo paziente in Austria, le autorità regolatorie tedesche avevano autorizzato il trapianto salvavita sull’80% della superficie corporea del bambino di lembi di epidermide geneticamente corretta coltivata in laboratorio. «Oggi Hassan sta bene e la sua nuova pelle cresce con lui», ha spiegato De Luca, che ha aggiunto: «Rimuovere le medicazioni dopo dieci giorni e vedere la pelle completamente rigenerata al posto delle lesioni è stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita». Da questa storia vera è nato il romanzo «Il bambino farfalla» scritto da Alessandro De Francesco.
Un’esperienza
Vivere i due giorni degli Eb Days di Modena mi ha fatta sentire incredibilmente piccola, e piena di gratitudine.
Per iscriversi alle Ali di Camilla basta una quota associativa simbolica di 10 euro all’anno. Il mio intento è di portare a conoscenza e sensibilizzare sulla realtà dei bimbi farfalla, e contribuire a sostenere qualche progetto, perché siamo tutti pezzi di un puzzle che si chiama vita e soltanto uniti e solidali lo potremo completare.
Cinzia Charrier*
*Insegnante di italiano, è diventata scrittrice durante il lockdown. Dopo il primo romanzo La neve sul mare, 2020, ha pubblicato La tigre e il colibrì, 2022, e La farfalla nella bolla di sapone, 2023. Tutti i libri di Charrier sono autoprodotti e sono reperibili su internet.
L’associazione che promuove la ricerca
Le ali di Camilla
Le ali di Camilla è un’associazione di promozione sociale fondata a Modena nel 2019 per promuovere la ricerca e la cura dell’epidermolisi bollosa (Eb) e di malattie rare degli epiteli di rivestimento, potenzialmente trattabili con terapie avanzate a base di cellule staminali epiteliali sviluppate dal Centro di medicina rigenerativa «Stefano Ferrari» dell’Università di Modena e Reggio Emilia.
L’associazione, che porta il nome di due piccole bambine farfalla che sono volate in cielo, rispettivamente a tre e a dieci mesi, supporta anche l’ambulatorio multidisciplinare per l’Eb dell’Azienda ospedaliero universitaria Policlinico di Modena e assiste i pazienti e i loro familiari, provenienti da tutta Italia e dall’estero, in occasione di visite e ricoveri.
Ha inoltre sviluppato diversi progetti per migliorare la qualità della vita dei pazienti, come «Camilla va a scuola», per l’inserimento scolastico dei bambini farfalla, «Camilla va a cavallo», per consentire ai pazienti di familiarizzare con l’ippoterapia e «Una casa per Camilla», per realizzare una struttura di accoglienza nei pressi del Policlinico di Modena, dove i pazienti possano alloggiare in occasione di visite e ricoveri con tutti i comfort e gli adattamenti di una casa.
Le Ali di Camilla si finanzia attraverso il 5×1000, la realizzazione di bomboniere, la presentazione di libri, i concerti, le manifestazioni sportive, il sostegno di una squadra di pallavolo, di due equipaggi di rally e moltissime altre iniziative solidali. Per maggiori informazioni potete visitare il sito www.lealidicamilla.org.
C.Ch.
La storia di Claudio
La forza di credere nel futuro
Il primo paziente trattato al mondo con la terapia genica per l’Eb è Claudio, nato nel torinese (dove ancora vive) nel 1970. «L’avventura con la terapia genica», come la chiama Claudio, comincia alla fine degli anni ’90, quando il professor Michele De Luca lo contatta per chiedergli se è disponibile a una sperimentazione, la prima in assoluto. Claudio accetta e instaura subito un ottimo rapporto con il ricercatore, basato sulla chiarezza, sulla fiducia e sulla stima reciproca, un’amicizia che non si perderà più.
Anche supportato dalla sua fede profonda, comincia a pensare che questa possibilità non sia frutto del caso, ma un disegno superiore, in risposta a tante domande e a tanti perché che lo hanno attanagliato nel corso degli anni. Lo slogan di Claudio è: «Vivere l’attimo presente, senza entusiasmarsi troppo per i successi, ma anche senza demoralizzarsi se qualcosa va storto». Nel 2005, a Modena, a Claudio vengono trapiantati, sulla parte anteriore delle gambe, due lembi di epidermide geneticamente corretta. Sono due parti non molto estese, ma è un grande successo per la scienza perché su quei lembi di pelle non si formeranno più le bolle che caratterizzano l’Eb.
La sperimentazione su Claudio ha aperto la strada ad altri pazienti, come ad esempio Hassan, che Claudio ha incontrato a Modena nel 2019, e ad altri pazienti attualmente in sperimentazione clinica al Policlinico di Modena.
La vita di Claudio non è semplice. Ci sono le medicazioni quotidiane, i continui rischi di carcinomi, ma la sua tenacia e l’amore che dà e riceve sono più forti delle difficoltà. «Ho avuto un grande privilegio: il dono di aver conosciuto delle persone meravigliose con le quali ho instaurato un bel rapporto di amicizia».
Nel 2014, quando Claudio si è sposato, non ha potuto che scegliere Michele come suo testimone di nozze. Qualche anno dopo, come un raggio di sole, ad allietare la sua vita e quella di sua moglie Irene arriva una bimba che, come dice Claudio, non poteva che chiamarsi Emanuela.
C.Ch.
L’abilità di essere «normali» (in Africa)
Testo di Enrico Casale
Nel continente la disabilità è ancora percepita come qualcosa di anomalo, causato dalla colpa di qualcuno. Qualche decade fa, alcuni missionari iniziarono a occuparsi del tema. Anche la sensibilizzazione, per un cambio di mentalità, sta avendo i suoi effetti. E qualcosa sta cambiando.
Qualcosa sta cambiando, lentamente, nel mondo della disabilità in Africa. Si sta diffondendo un diverso atteggiamento verso chi è portatore di un handicap e stanno migliorando le cure e l’assistenza. La situazione è ancora difficile, ma i passi avanti ci sono.
Paura e discriminazione
In Africa, la condizione dei disabili non è semplice perché eredita un passato fatto di superstizioni e pregiudizi. «Non è possibile parlare di un atteggiamento “africano” nei riguardi della disabilità – spiega Franco Lain, religioso dell’Opera don Guanella, piccola congregazione che da sempre si occupa di orfani, anziani e disabili -. Ogni paese, ogni regione ha un suo modo di affrontare il tema. In generale, possiamo dire che nel portatore di handicap gli africani vedevano, e tuttora, in larga parte, vedono, qualcosa di strano. Un’anomalia che, per forza, deve venire da un intervento esterno, più o meno spirituale. Un fenomeno che va interpretato. Il problema è che, molto spesso, la disabilità è stata compresa in senso negativo: “Se è nato un disabile è perché qualcuno ha fatto il malocchio, oppure i genitori si sono comportati male, oppure conoscenti o parenti hanno fatto riti speciali, ecc.”. Quindi si guardava e si guarda ai portatori di handicap con paura, a volte con terrore».
Nel passato, in alcuni paesi, si arrivava fino alla loro soppressione. L’uccisione dei piccoli disabili era prassi comune. «Anni fa – continua fratel Lain -, spesso mi sentivo dire: “Ho affidato il bambino alla zia…”. Questo significava che i piccoli erano stati dati a chi sapeva come eliminarli. In alcuni casi erano pure le madri a essere abbandonate e isolate dalle famiglie insieme ai bambini».
«Il disabile – conferma Pierre Kouasi, religioso africano dell’Opera don Orione – era una sorta di maledizione. Non si capiva perché una famiglia potesse avere un figlio “non normale”. L’uccisione di un bambino disabile era una pratica comune. Venivano eliminati e poi, d’accordo con la famiglia, si diceva che il piccolo era morto durante il parto. Se sopravvivevano, venivano nascosti».
Fino a qualche anno fa, per le strade, nei mercati, nelle scuole, non si vedevano portatori di handicap. Venivano relegati in casa e non era permesso loro di uscire. I missionari che arrivavano in Africa non li trovavano e, quando chiedevano dove fossero, veniva loro risposto che nel continente non esistevano. «Quando 25 anni fa sono arrivato in Nigeria – ricorda fratel Lain -, l’idea della mia congregazione, in accordo con il vescovo locale, era quella di creare un centro per disabili. I capi villaggio, invece, ci chiedevano una scuola e un ospedale e ci dicevano che i disabili non c’erano. Noi eravamo stupiti. Un giorno, però, ci fermammo in un villaggio e ci venne incontro di corsa un ragazzo con la sindrome di Down e ci abbracciò. Ci rivolgemmo quindi al capo villaggio e gli dicemmo: “Noi siamo qui per loro. Non vogliamo e non possiamo guarirli perché è cosa impossibile, ma vogliamo assisterli e aiutarli a inserirsi appieno nella loro società”. I leader locali capirono e ci sostennero come potevano».
Possibile integrazione?
Se le eliminazioni selettive, negli anni, sono gradualmente diminuite (fino quasi a sparire), non è successo altrettanto per il senso di colpa e di vergogna da parte delle famiglie. Questo atteggiamento è legato anche alle condizioni di vita della maggioranza degli africani. In molte nazioni non esistono forme di assistenza sociale, così i genitori fanno affidamento sui figli per poter godere in vecchiaia di un minimo di benessere. «Per i genitori africani – spiega fratel Lain -, il figlio è un investimento per il futuro. È chiaro che, in questa visione, un figlio disabile è una sorta di ingombro. È un costo che “non dà un ritorno”. Di conseguenza se i disabili non vengono più soppressi, su di loro comunque non si investe.
La difficoltà che noi abbiamo nel gestire i centri per disabili mentali sta proprio nel fatto che i genitori è come se si stancassero di assistere i figli. Quindi o li confinano in casa, senza assisterli, oppure cercano di abbandonarli nei nostri centri. Noi, come guanelliani, ci siamo sempre rifiutati di tenere i ragazzi lontano dalle loro famiglie. Anche perché, nella realtà africana, una persona che non ha un legame famigliare non esiste (l’individuo è tale solo in quanto membro di una comunità, nda)».
Non tutti i disabili, però, sono uguali. «I feriti di guerra sono visti come eroi e, come tali, trattati – nota Gigi Conforti, medico ortopedico, da anni impegnato con Medici con l’Africa Cuamm in progetti a favore dei disabili -. Per loro c’è un’attenzione particolare anche da parte dello stato. In Etiopia, per esempio, i feriti nella guerra contro l’Eritrea combattuta alla fine degli anni Novanta non solo godono di assistenza, ma hanno anche uno status sociale elevato. Differente è la situazione di donne e bambini. Soprattutto in campagna, dove vengono emarginati e isolati».
In questo contesto, i guanelliani cercano di coinvolgere le famiglie creando reti, in modo che i singoli nuclei famigliari si sostengano vicendevolmente. Si ricrea così quella famiglia allargata che è uno dei pilastri della società africana. La famiglia allargata è anche una sorta di «ammortizzatore sociale» grazie al quale il disabile non è mai solo e, anche nel caso i genitori o i fratelli non potessero più prendersi cura di lui, trova comunque un aiuto.
Non solo i guanelliani, ma anche altre congregazioni religiose (come i sacerdoti e le suore del Cottolengo) e Ong lavorano all’integrazione attraverso attività di sensibilizzazione. «Lo sforzo per migliorare le condizioni di vita dei disabili è indispensabile – osserva Tommaso Sartori, coordinatore per conto dell’Ong milanese Celim del progetto Disability in Zambia -, ma sarebbe vano se a esso non si aggiungesse un attento lavoro di sensibilizzazione per ridurre i pregiudizi e le discriminazioni».
Celim ha attivato, insieme al ministero della Sanità dello Zambia, un programma di conferenze aperte ai famigliari e agli operatori sanitari. «Stiamo anche realizzando una serie di incontri nei vari quartieri di Lusaka – spiega Sartori -. L’obiettivo è far passare un’immagine diversa della disabilità. Far capire che chi vive con un handicap è una risorsa e non una vergogna da nascondere».
«Don Orione – aggiunge padre Pierre Kouasi – diceva che in ogni persona c’è l’immagine di Dio. Come orionini seguiamo proprio questa linea. Nelle nostre chiese e nei nostri centri in Costa d’Avorio, Togo, Burkina Faso cerchiamo di far passare l’idea che il disabile non debba essere emarginato, ma accolto e valorizzato per le sue grandi potenzialità. Da noi i disabili seguono cure e riabilitazione, ma poi rientrano in famiglia. Solo i disabili mentali rimasti soli rimangono nelle nostre case. C’è ancora molto lavoro da fare, ma noto che le famiglie stanno cambiando sguardo nei confronti dell’handicap».
Ma lo stato dov’è?
Se la società civile e le congregazioni religiose sono attive sul fronte della disabilità, non altrettanto si può dire delle istituzioni pubbliche. I governi nazionali e locali fanno poco per i portatori di handicap, soprattutto per motivi economici. Mancano i fondi per un sostegno strutturale che dia vita a reti di centri pubblici e privati in grado di lavorare in sinergia sul fronte della cura e dell’integrazione.
«Dalle amministrazioni pubbliche riceviamo molte lodi – osserva fratel Lain -. Le autorità ci dicono che siamo santi e buoni, che facciamo un lavoro indispensabile, poi però difficilmente ci sostengono.
Anche se qualche distinguo va fatto. Nel nostro centro in Ghana (una scuola professionale, aperta a disabili e non, dove si insegnano tessitura, elettronica, falegnameria, e altro), più della metà degli insegnanti sono pagati dal governo di Accra. Sia in Nigeria sia in Rd Congo ci sono rapporti continuativi con le autorità, anche se i sostegni sono sporadici e concentrati su singoli progetti».
Parole simili anche da padre Pierre Kouasi: «Dagli stati abbiamo poco sostegno. Non ci sono programmi di intervento a lungo termine. Gli aiuti diretti sono davvero pochi. Recentemente in Costa d’Avorio, il ministero della Salute ha accordato un’esenzione fiscale su alcune tipologie di farmaci. Non è molto, ma è un piccolo passo avanti. Va anche detto che generalmente le autorità ci lasciano lavorare senza metterci i bastoni tra le ruote. E ciò va visto in modo positivo».
Questo non significa che l’impianto normativo nei singoli paesi sia deficitario. Anzi. Negli ultimi decenni le Nazioni Unite hanno varato numerose direttive in materia di disabilità. Queste sono state in gran parte recepite dei paesi africani. Quindi quasi tutte le nazioni del continente hanno leggi adeguate. Mancando, però, i fondi (e, spesso, la volontà politica), queste leggi rimangono inapplicate o applicate solo in parte.
In Nigeria, per esempio, esiste un corpo di leggi sull’inserimento dei disabili nel mondo del lavoro. Ma le norme sono applicate solo nel pubblico impiego, comparto importante, ma che non copre tutto il mercato del lavoro. In Zambia esiste una legge (Disability Act 2012) che prevede sostegni alle famiglie con un componente disabile. «Sul terreno però è stato fatto pochissimo – osserva Tommaso Sartori di Celim -. Mancano i fondi e ciò ha fatto sì che la legge zambiana sia completamente disattesa e non siano disponibili quindi i mezzi, le infrastrutture e la formazione specifica per gli operatori».
Ma non tutti sono pessimisti. «Lavoro da trent’anni in Africa e, nel tempo, ho notato qualche passo avanti – osserva Gigi Conforti -. La vera differenza è tra gli stati in pace e quelli instabili a causa di controversie politiche o guerre. Negli anni Ottanta e Novanta, per esempio, l’Uganda aveva pochissime strutture sanitarie e quasi tutte in condizioni precarie. Oggi, dopo anni di pace, sono stati creati centri moderni, con attrezzature all’avanguardia e programmi di assistenza seri e continuativi. Diversa è la situazione della Repubblica Centrafricana. Personalmente ho lavorato nell’ospedale di Bangui, dove ho operato in condizioni difficilissime. Quello della capitale, tra l’altro, è l’unico centro attrezzato. Fuori dalla città, dove dominano le bande armate, non c’è nulla e non è neppure ipotizzabile creare qualcosa».
Una sensibilità che aumenta
In Africa inizia a esserci una nuova sensibilità tra la gente comune. Il lavoro culturale portato avanti da chiese cristiane e associazioni di volontariato sta aprendo spazi per i disabili. Pure le normative, anche se non applicate, creano una mentalità, un clima favorevole alla disabilità. «Lo zambiano medio – osserva Tommaso Sartori – non discrimina il portatore di handicap. Mi è capitato spesso di vedere uomini e donne avvicinare i disabili, parlare con loro, avere con essi un rapporto sereno. Rimane il senso di disagio delle famiglie, ma intorno ad esse si sta creando un ambiente non più ostile. La strada è ancora lunga, ma qualcosa si sta muovendo».
C’è anche una forte solidarietà popolare. «Molti disabili girano di villaggio in villaggio e sono nutriti e accuditi – racconta fratel Lain -. In alcuni casi c’è una solidarietà commovente. Ricordo un ragazzo con la sindrome di Down che era così onesto e così ben voluto dalla comunità, che tutti gli affidavano le incombenze che richiedevano il maneggio di soldi: piccoli pagamenti, piccole transazioni, ecc. Erano sicuri che lui avrebbe portato a termine il lavoro. Così si era costruito un ruolo nel paese». Molti abitanti dei villaggi aiutano le comunità religiose che accudiscono i disabili. Donano aiuti materiali: un sacco di riso, un piccolo animale, un po’ di farina, ecc. Una solidarietà che si va estendendo. Fondi e piccole donazioni arrivano da imprenditori stranieri che lavorano in loco. «Gli indiani, per esempio, pur non cattolici, ci offrono grandi aiuti – spiega fratel Lain -. Anche gli imprenditori italiani sono sensibili».
Sta accadendo qualcosa di più. Sebbene a macchia di leopardo e con molti limiti, si sta diffondendo la consapevolezza che il disabile sia una risorsa di cui però deve farsi carico la stessa comunità. Così, per esempio, in Nigeria, la mamma di una ragazza con la sindrome di Down ha dato vita a un’associazione che ha creato centri per i ragazzi disabili e fa un attento lavoro di sensibilizzazione. Nell’associazione è riuscita a coinvolgere i genitori stessi dei giovani disabili. «Questa sensibilità esiste, inutile negarlo – sottolinea padre Pierre Kouasi – però è un fenomeno soprattutto cittadino e limitato alle classi sociali medio-alte. La povera gente, sia in città sia in campagna, ha ancora altre priorità».
Anche nella scuola si inizia a vedere un primo, limitato, processo di inclusione. I guanelliani, per esempio, hanno creato, sempre in Nigeria, un centro per disabili e lo hanno aperto ai non disabili. «Quello realizzato a Ibadan – osserva fratel Lain – è un caso interessante però è un tentativo sporadico, non è il tassello di un mosaico più ampio che parte e include le istituzioni». Anche in Tanzania esistono scuole (private) che accettano disabili, ma solo in classi differenziate dove i portatori di handicap sono separati dagli altri ragazzi. «Le organizzazioni internazionali danno sovvenzioni allo stato perché metta in atto l’inclusione – conclude il guanelliano – così lo stato dà vita a piccole iniziative come quelle della Tanzania. La vera integrazione, però, è un’altra cosa».
In Africa, secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, i disabili sarebbero tra i 60 e gli 80 milioni, circa il 10% della popolazione africana, anche se in alcune delle zone più povere la percentuale sale fino al 20%.
Quando si parla di disabilità, solitamente, ci si riferisce a una serie molto ampia di menomazioni, limitazioni e restrizioni alla normale attività fisica e mentale. I fattori sono molteplici: malnutrizione, menomazioni alla nascita, incidenti in casa, al lavoro o sulle strade, malattie invalidanti, guerre, ecc.
La questione della disabilità non ha un carattere esclusivamente sanitario, ma anche sociale. Molti paesi hanno finanze troppo disastrate per poter creare un sistema di sostegno. Sebbene spesso leggi a favore dei disabili siano state approvate, mancano edifici pubblici attrezzati, non ci sono farmaci adeguati, carrozzine e stampelle sono in numero non sufficiente. I portatori di handicap non riescono quindi a frequentare le scuole: solo tra il 5 e il 10% si iscrive a corsi regolari. Il risultato è che non più del 5% dei portatori di handicap adulti è in grado di leggere e scrivere correttamente.
Ciò, a catena, li esclude dal mondo del lavoro. L’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) stima che la disoccupazione delle persone disabili a livello mondiale sia da due a tre volte superiore rispetto a quella delle altre persone.
Modica: Per correre insieme la vita
Incontro cittadini e rifugiati. «Pensavo alla morte, ma la vita mi ha voluto. Grazie per il sostegno». Le storie di Zaikary e di altri rifugiati sono state narrate all’incontro promosso dalla Caritas alla Domus Sancti Petri di Modica, in un incontro per conoscere la bellezza del mondo che ci raggiunge.
«Vengo dal lontano, ma non so dove sto andando… vengo da lontano e ho attraversato il mio Paese crivellato… mio padre si è perduto in una guerra che ha tanta fame e tanta sete. Mia madre si è ritrovata sola in mezzo a tanti lamenti. Sono fuggito dalla mia terra che beve sangue invece di acqua. Ho abitato prigioni di tante città diverse, tutte sporche. Ho camminato nella sabbia rovente dei deserti. Pensavo alla morte, ma la vita mi voleva con sé… Vengo da lontano nonostante la barca ballasse tra le onde, i corpi gonfi hanno fatto la mia salvezza. Sono molto contento di essere in Italia, mi trovo bene… ci sono persone che si prendono cura di noi… niente si fa senza aiuto, e ringrazio l’Italia per avermi dato la possibilità di cambiare vita e rendere migliore il futuro. Che Dio benedica l’Italia!». Le parole di Zaikary, giovane proveniente dal Burkina Faso, hanno espresso il senso dell’iniziativa promossa dalla Caritas diocesana e tenutasi ieri sera a Modica, nello spiazzo antistante la Domus Sancti Petri. Coi ragazzi dei sei centri di accoglienza per minori stranieri di Modica, i volontari, cittadini modicani e qualche turista di passaggio: tutti insieme per rinnovare un appello, restare umani! Un anno fa la bella accoglienza dei ragazzi ospitati nei centri, con una passeggiata di benvenuto per la città di Modica. Ieri un momento per conoscersi meglio. Partendo da un gioco, guidato dal missionario don Gianni Treglia. Insieme a lui altri due religiosi della comunità intercongregazionale, don Vittorio Bonfanti e suor Giovanna Minardi. Una serie di corde e un bastone. Un segno semplice ed efficace, perché a due a due, tutti i presenti, si sono conosciuti, scambiandosi informazioni sulla loro vita, sui loro desideri per il futuro. Poi hanno annodato i fili, a formare una rete. «È il filo delle nostre presenze – ha detto don Gianni -. Mali, Gambia, Ghana, Burkina Faso, Modica… Siamo qui per un momento insieme, per percorrere insieme un pezzettino di vita. Ma per percorrerlo insieme dobbiamo conoscerci». Ciascuna coppia si è poi presentata, ma in un modo particolare: l’uno ha parlato dell’altro, in prima persona. E sono venute fuori così briciole di vita: il giovane del Bangladesh che ama disegnare bandiere, quello della Costa d’Avorio che è cuoco. Il ragazzo che nel suo Paese, la Guinea Bissau, studiava Economia. Ora qui ha preso la terza media ma vuole studiare per portare a termine gli studi economici. A settembre andrà al Linguistico un giovane del Gambia, che a giugno ha preso il diploma di terza media con la media del 9. Sabir ha 26 anni, lavora nelle serre. Anche se cerca qualcosa di più stabile, perché il lavoro che ha è precario. «Nodo dopo nodo – ha ribadito don Gianni – potremo costruire qualcosa di bello, come in una rete». Ciascun ragazzo ha realizzato un disegno, per raccontare la propria terra. I maestosi elefanti della Costa d’Avorio, lo stemma della Guinea e una mano con tanti colori, nella consapevolezza che «L’unione fa la forza». Un sentimento comune di gratitudine per l’accoglienza e l’affetto ricevuti in Italia, a Modica, e la volontà di potere aiutare anche gli altri. «Studio scienze umane perché voglio essere d’aiuto ad altre persone», ha detto Zaikary. La serata si è poi conclusa con una cena comunitaria, con prodotti preparati da volontari, cittadini e dagli stessi giovani dei centri di accoglienza. Non poteva mancare la musica, a ritmo di bongo, per una serata pensata per abbattere i muri dell’indifferenza e per costruire ponti di umanità e fratellanza. Spiega Giorgio Abate, responsabile Immigrazione della Caritas di Noto: «Abbiamo pensato a questo momento chiedendo ai ragazzi di portare con sé e di condividere con i modicani qualcosa del proprio Paese. Perché la cosa fondamentale è conoscerci: storie, motivazioni del viaggio, aspirazioni. Per eliminare i pregiudizi, che nascono proprio dalla mancanza di conoscenza delle storie di vita, delle situazioni che queste persone sono state costrette a vivere. È la nostra risposta all’appello di Papa Francesco, all’iniziativa Share the Journey – Condividi il viaggio. Per questo abbiamo chiesto loro di portare poesie, disegni e testimonianze».
Silvia Crepaldi Da «La Sicilia», 9 agosto 2018
Rifugiati: «Un’altra storia è possibile».
È stato il tema dell’incontro che ha dato inizio, ieri sera (7 agosto 2018), nella Parrocchia di Marina di Modica, ai festeggiamenti dell’Assunzione di Maria con una serata di testimonianze e di riflessioni sul tema della migrazione e dell’integrazione. “I cristiani hanno la responsabilità di portare una voce diversa nel mondo – ha detto don Christian Barone che ha curato l’organizzazione della serata in collaborazione con la comunità missionaria intercongregazionale di Modica, la Caritas diocesana e l’associazione We care -, la voce dei testimoni che anche questa sera ci hanno raccontano la loro vita e la loro storia, la storia dei loro paesi ancora oggi sotto scacco agli interessi di multinazionali che non vanno a casa loro per aiutarli, ma per depredarli. Per questo è necessario rifiutare le narrazioni parziali e interessate, e cercare di entrare in una riflessione che tenga conto di una visione più ampia, che guardi alla migrazioni come un fenomeno naturale che può essere una benedizione in un paese dove la curva demografica è decrescente senza nel contempo sottovalutare le cause di questo fenomeno e le responsabilità di questo fenomeno”.
Sulle cause e sulle responsabilità si è soffermata Irene Cerruto, operatrice della Caritas diocesana, che ha parlato del debito che i paesi europei hanno contratto con il popolo africano a partire dall’undicesimo secolo quando gli europei iniziarono a “invadere” il continente africano e a depredarlo e a destabilizzarlo. “Ancora oggi non si riconosce questo debito e non si chiede scusa al popolo africano – ha aggiunto l’operatrice Caritas – ma si cerca di criminalizzare la richiesta di aiuto che viene da chi si è messo in cammino per sfuggire alle cause della nostra presenza secolare in Africa”. Anche per questo la Caritas diocesana ha raccolto l’appello di Caritas Italiana per creare una rete di amicizia tra i paesi del Mediterraneo. Lo scorso giugno don Christian, padre Gianni Treglia e Irene Cerruto sono stati in visita presso la Caritas di Tunisi per dare inizio a un gemellaggio con una Chiesa fragile ma coraggiosa, che opera in silenzio in un Paese che non permette la predicazione. Successivamente le testimonianze di Buba, un giovane della Guinea costretto a fuggire a 16 anni dal suo Paese perché l’etnia a cui appartiene è perseguitata, e di Elias e Leandra, una coppia mista che fa i conti giornalmente con il clima difficile di insofferenza e pregiudizi e, in alcuni casi, anche di intolleranza. Testimonianze che hanno contribuito a raccontare una storia diversa, una storia che non corrisponde ai tanti slogan, ai luoghi comuni, alle fake news che ci raccontano di crociere, di taxi e di hotel, ma di morte e di violenze, di prigioni, nei paesi di transito, nel deserto, e poi nel mare, l’unico tratto a noi visibile e dove spesso arriva solo una minima parte di coloro che avevano iniziato il viaggio. Ma hanno raccontato anche un’altra storia, una storia possibile, della loro voglia di fare del proprio meglio, dei loro successi nelle scuole italiane, della loro integrazione, dei primi amici italiani, della speranza di un futuro di pace per loro, per le comunità che li accolgono e per i loro paesi di origine.
Secondo l’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) nel 2016 hanno messo piede in Italia 181.436 esseri umani. A questi si aggiungono i 5.096 morti in mare e gli invisibili, viaggiatori mai arrivati a vedere le coste dell’Africa del Nord, di-spersi nel deserto o dimenticati nelle carceri libiche. La somma dà un numero imprecisato di migranti, donne e uomini, accomunati da un’unica somiglianza: l’urgenza di fuggire dalla terra in cui sono nati.
Essere migrante non è uno status permanente, ma una fase di passaggio e c’è un preciso momento in cui lo si diventa. Succede quando una causa di forza maggiore – una guerra, un disastro ambientale o una persecuzione personale – esercita una pressione su una persona tale da obbligarla ad abbandonare una vita stanziale.
E così inizia il movimento che, nell’ultimo anno, ha portato centinaia di migliaia di disperati ad attraversare il Mediterraneo, per approdare in un centro di accoglienza in stati che, nella maggior parte dei casi, sono scelti dagli scafisti.
Ma c’è anche un preciso momento in cui si smette di essere migranti. La fuga dal proprio paese non si esaurisce in un viaggio tortuoso, ma in un ritorno alla stabilità. Ed è proprio quando si ha l’opportunità di piantare le proprie radici in una nuova cultura che si abbandona questa condizione. E si diventa un nuovo cittadino.
Gli stranieri regolarmente residenti in Italia nel 2016 – secondo i dati Istat – sono 5 milioni e 26 mila. Persone dalla doppia anima, allo stesso tempo stranieri e nuovi abitanti, hanno acquisito la lingua e la cultura del paese ospitante, senza dimenticare le peculiarità del mondo da cui sono arrivati. Esseri umani che chiamano «casa» l’Italia con la stessa forza con cui rivolgono il pensiero al paese di origine.
Tra di loro, qualcuno ha compiuto un passaggio ulteriore. Ha capito che il personale percorso di integrazione, fatto di tentativi, errori, ma anche successi, può essere tradotto in un bagaglio di esperienze utili e trasferibili ai nuovi migranti, per rendere più fluido e rapido il loro processo di inclusione.
Alcuni stranieri residenti hanno deciso di tendere una mano a chi è arrivato dopo di loro, aiutandolo a vivere l’approdo in Italia. Tra di essi c’è chi si occupa di fornire cure gratuite ai richiedenti asilo, chi prova a insegnare un lavoro, chi li ospita in casa, chi ne migliora le occasioni di socialità attraverso lo sport, chi ancora promuove un passaggio di competenze e conoscenze, con attività di educazione alla pari.
Stranieri, forse non più stranieri, che sfidano la retorica di chi li vede come invasori, dimostrandosi, al contrario, anelli forti nei processi di integrazione, ponti tra due mondi, in grado di semplificare e ammorbidire il dialogo tra chi arriva e chi invece è sempre vissuto in Italia.
E così facendo contribuiscono non solo al perfezionamento del sistema di accoglienza italiano, ma alla costruzione di una società in cambiamento, dove migranti, ex migranti, stranieri e italiani hanno la possibilità di incidere sul futuro del paese in cui vivono e fare, tutti insieme, un passaggio in più. Diventare esempi di cittadinanza attiva.
Simona Carnino
Fatima Issah e Princess Inyang Okokon, Ghana e Nigeria
Come ti libero le schiave del sesso
Loro, trafficate con l’inganno, riescono a liberarsi grazie alla propria tenacia e a un’associazione. Rimaste in Italia, sono diventate un riferimento per le ragazze che continuano ad arrivare numerose e sono sbattute sulle nostre strade. Molte di loro vogliono fuggire, ma hanno bisogno di tutto. Altre sono ricattate. Fatima e Princess ci sono passate.
Fuori è ancora buio. Sono le 7.30 di un giorno di una settimana qualsiasi. Fatima tira sù le tapparelle, scosta le tende e guarda verso il palazzo davanti a casa sua. Nell’alloggio di fronte, la luce spenta e la mancanza di movimenti lasciano trasparire un piccolo mondo addormentato.
«Le ragazze non si sono ancora svegliate – pensa Fatima -. Ora le chiamo perché altrimenti fanno tardi a scuola».
Squilla il telefono. Dopo pochi minuti, giovani donne dalla pelle d’ebano si affacciano al balcone. A pochi metri in linea d’aria vedono Fatima appoggiata al davanzale. La salutano. Dall’altra parte la donna sorride, le guarda e nella sua mente le conta una a una. Ci sono tutte. La giornata può iniziare.
Dal 2009, Fatima vive ad Asti dove si occupa dell’accoglienza e della protezione di vittime di tratta. Lavora presso il Piam onlus (www.piamonlus.it), associazione nota in Italia e all’estero per il recupero psicofisico delle schiave del sesso. Un mestiere complesso, per cui ci vuole preparazione psicologica, conoscenza delle disposizioni in materia di protezione delle vittime di tratta e una buona analisi del contesto storico e geografico in cui il commercio di esseri umani avviene.
«In genere le ragazze arrivano dalla Nigeria e hanno una media di 18-20 anni – spiega la donna -. A volte sono minorenni. Il mio compito è accompagnarle verso una nuova vita e dare consigli utili».
Fatima sa che quello che dice viene ascoltato con particolare interesse. Sa di essere un punto di riferimento per le ragazze. E in effetti nessuno è più credibile di chi ha vissuto le stesse vicissitudini. Nessuno è più credibile di lei.
Una storia d’inganno e di riscatto
Ghanese d’origine, Fatima Issah arrivò in Italia come vittima di tratta, nel 2008. Raggirata da un uomo nigeriano conosciuto ad Accra, accettò di partire per l’Europa con l’illusione di un lavoro come cuoca o inserviente in qualche ristorante. Senza saperlo si mise al seguito di un trafficante, iniziando un viaggio rocambolesco: palleggiata da Accra a Dubai, da Istanbul a Pristina, fino in Macedonia. Da lì, in treno verso Tessalonica e poi in volo in Repubblica Ceca, dove il faccendiere la imbarcò per Milano Malpensa prima di darsi alla macchia, per schivare i controlli sul traffico di esseri umani. All’aeroporto, un secondo uomo la stava aspettando per condurla a Torino, a casa di una donna nigeriana che si rivelò essere una madam pronta ad offrire a Fatima una vita d’inferno, invece di un lavoro legale.
«Mi dissero che dovevo pagare un debito di viaggio di 45mila euro lavorando in strada come prostituta – ricorda Fatima -. Non volevo fare una cosa del genere, ma non sapevo come fuggire e allora ho finto di essere d’accordo».
La sera successiva Fatima, insieme ad altre donne, venne costretta a salire su un furgone con destinazione Asti. Un’ora dopo era in piedi sul marciapiede di fronte al cimitero. «Una ragazza mi disse che dovevo avvicinare le macchine e propormi per 50 euro – spiega la donna -. Se il prezzo fosse stato considerato troppo alto, dovevo chiedere 20 euro per prestazione. Volevo scappare ma non sapevo come».
E il modo arrivò, come quando in un film tragico sopraggiunge uno spiazzante lieto fine. Una giovane nigeriana si rese conto dell’atteggiamento restio di Fatima. «Mi chiese come mai non facessi come tutte le altre. Le raccontai che mi avevano ingannato e volevo scappare, anche se era pericoloso. Lei allora mi aiutò, consegnandomi un volantino dell’associazione Piam con un numero di emergenza». Fatima aspettò di non essere vista, prese coraggio e si mise a correre. «Era buio e non sapevo dove stessi andando. Poi ho visto degli alberi e mi sono nascosta. Al mattino sono andata alla stazione dei treni e ho chiamato il Piam». I volontari dell’associazione si presentarono immediatamente e portarono Fatima nel centro di accoglienza femminile, dove ebbe la possibilità di fare denuncia di tratta alla polizia e da lì a poco ottenere il permesso di soggiorno per motivi sociali rilasciato ai sensi dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione.
Il ricatto del malocchio
Stessa sorte è capitata alla vicepresidente del Piam, Princess Inyang Okokon, originaria della Nigeria. In questo paese spesso le ragazze, prima di partire, vengono convinte a partecipare alla cerimonia del juju, un rituale religioso tradizionale, presieduto da una guida spirituale, che suggella un patto tra i trafficanti e le donne. I primi si impegnano a garantire un trasferimento sicuro in Europa e le seconde giurano che pagheranno il debito contratto. Il juju assume una funzione repressiva e schiavizzante quando le giovani, ormai consapevoli di essere cadute in una condizione di sfruttamento, cercano di fuggire. I trafficanti lo utilizzano con fare intimidatorio, ricordando alle donne che si tratta di un giuramento sacro, un contratto da cui non si può recedere, se non pagando il debito di viaggio, pena la morte della ragazza stessa o dei suoi famigliari. La cifra per l’affrancamento dai responsabili del meretricio è molto più alta di un normale biglietto aereo e arriva anche ad alcune decine di migliaia di euro.
«Io sono scappata – ricorda Princess -. Oggi sono qui a testimoniare alle ragazze che di juju non si muore e si può provare a uscire da questo incubo».
Identikit delle vittime di tratta
«Sono una delle poche ghanesi finite nelle mani del racket della prostituzione – afferma Fatima -. La maggior parte delle donne di colore che si vedono sulla strada sono nigeriane».
Secondo i dati dell’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati) il 15% dei migranti arrivati in Italia nel 2016 proviene dalla Nigeria.
Tra di loro circa 11mila sono donne, di cui l’80% è vittima di tratta, come confermato dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Un numero elevato se confrontato con il dato del 2015 che riporta 5.633 arrivi di ragazze in fuga da una nazione resa instabile dalle incursioni di Boko Haram e da una iniqua ripartizione delle risorse economiche. Nel saggio «Sex Trafficking in Edo State, Nigeria», edito dall’Unicri (Istituto di ricerca interregionale per il crimine e la giustizia dell’Onu) nel 2013, si evidenzia che l’85% delle vittime di tratta nigeriane proviene dalla regione denominata Edo, in particolare da Benin City e dai villaggi vicini. Abusando delle condizioni di vulnerabilità economica delle famiglie, i trafficanti cercano nei genitori delle ragazze dei complici, facili da abbindolare con la promessa di un benessere garantito dagli introiti della prostituzione delle figlie in Europa. Un’illusione rafforzata dall’incontro con alcune madam, ex prostitute diventate sfruttatrici, che spesso ritornano nel paese d’origine sfoggiando simboli di ricchezza quali telefonini di ultima generazione e case di proprietà.
«Oggi alcune ragazze sanno che la prostituzione è il prezzo da pagare per essere portate in Europa – spiega Fatima -. Ma quando si trovano davanti all’inferno della strada, alcune provano a scappare e altre continuano il lavoro per paura di ritorsioni».
Spesso è bassa la consapevolezza delle ragazze rispetto al loro futuro in Europa. Il saggio «Nigeria – La tratta di donne a fini sessuali», prodotto dall’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo nel 2015, afferma che «le donne possono sapere che lavoreranno come prostitute, senza però rendersi conto delle condizioni in cui ciò avverrà o dell’effettivo ammontare del debito, oppure possono essere sottoposte a pressioni nell’ambiente in cui vivono, o ancora possono essere vittime di inganni o raggiri».
Che siano convinte di arrivare in Italia per fare le badanti, o che sappiano cosa le attende, le ragazze si affidano a persone senza scrupoli. «Spesso sono vittime di violenza e sfruttamento sessuale durante il viaggio e poi in Libia – continua Fatima -. Alcune rimangono incinte dei loro stessi trafficanti».
Protezione delle ragazze trafficate
Le giovani donne inserite nei progetti di accoglienza gestiti da Fatima e Princess hanno raggiunto la Sicilia in barcone, come la maggior parte delle loro connazionali. Ad aspettarle all’arrivo normalmente c’è un intermediario che, come è successo a Fatima, ha il compito di accompagnarle da una madam.
«Quando sono ancora in Africa, le ragazze ricevono un numero telefonico da chiamare una volta approdate – spiega Princess -. In questo modo si possono mettere in contatto con i trafficanti qui in Italia».
Proprio per evitare che le ragazze si consegnino ai propri aguzzini, nei primi giorni a ridosso dell’arrivo, Fatima e Princess si impegnano a dare tutte le informazioni necessarie perché le giovani donne decidano consapevolmente se denunciare i propri carnefici ed entrare in un progetto di accoglienza per richiedenti asilo politico.
«Se arriva una ragazza nigeriana non accompagnata, diciottenne o ventenne, è al 100% vittima di tratta – dice Princess -. Ci possono dire che la persona che le sta aspettando è loro cugino, zio o un amico di famiglia, ma noi sappiamo che non è vero. Ci siamo passate prima di loro».
Tuttavia sta alle ragazze denunciare la propria condizione e, ad oggi, poche nigeriane trafficate si identificano come vittime. Per la maggior parte di loro il pagamento di somme ingenti di denaro per approdare in Europa è considerato la normalità e la prostituzione un passaggio obbligato verso l’affrancamento. Altre sanno che una denuncia suonerebbe come una dichiarazione di guerra nei confronti dei trafficanti che potrebbero minacciare le loro famiglie.
«Alcune ragazze invece non vogliono andare sulla strada a nessun costo – dice Fatima -. Si sono affidate a trafficanti per riuscire ad arrivare in Europa, ma non hanno nessuna intenzione di svolgere quel lavoro. In questi casi, le aiutiamo a sporgere denuncia e le inseriamo in progetti di accoglienza e di protezione».
Un percorso di accompagnamento che Fatima e Princess svolgono con passione e dedizione, incoraggiando le ragazze ad andare a scuola di italiano, immaginare un futuro lavorativo e provare a sanare le ferite fisiche e psicologiche che hanno subito durante il processo migratorio.
«Non è semplice valutare se una ragazza è davvero fuori dal giro della prostituzione – spiega Princess -. Capita che denunci il trafficante, ma che dopo un periodo scappi dal progetto di protezione, perché teme gli effetti del juju per non aver pagato il debito». E così può accadere che una ragazza inizialmente strappata allo sfruttamento sessuale venga ricontattata dai suoi aguzzini e, intimorita per le possibili ritorsioni, cominci un percorso di miseria sulla strada, schiavizzata per un numero di anni difficile da calcolare.
«Quando ci accorgiamo che una ragazza viene minacciata da uno di questi delinquenti, proviamo a trasferirla in un’altra città, prima che scappi senza dirci nulla – conclude Princess -. È nostro compito provare a proteggerla fino a quando ne abbiamo la possibilità».
Guadagnarsi la fiducia delle vittime di tratta non è facile. Eppure Fatima e Princess non demordono. Dalla loro parte hanno un’esperienza, triste e dolorosa, che le rende un esempio concreto. «Io sono come te, ma sono cresciuta. Ho studiato e ho un lavoro», dice Fatima, ogni volta che incoraggia le giovani a trovare la forza di dire no alla tratta, ogni volta che le ascolta e le accompagna per diventare donne libere. E ogni volta che le chiama dalla finestra, perché non facciano tardi a scuola.
Simona Carnino
Noi, della prima generazione
Dalla cucina arriva un profumo di curcuma che si mischia alle note intense della cipolla e dell’aglio. I borbottii della casseruola sul fuoco annunciano un piatto dalla lunga cottura. Moussa, un 23enne originario del Mali, sta controllando che il riso non si attacchi al fondo. A intervalli regolari dà una mescolata, poi posa il cucchiaio e si mette a pelare patate e carote. Alle sue spalle Mallam, ghanese di 25 anni, lava le pentole. Poco più in là Alioune prepara la tavola per tutti. Qualche mese fa l’apparecchiava solo per sé.
Siamo nella primavera del 2016 Mallam e Moussa sono in Italia da circa 5 anni. Prima di conoscere Alioune avevano vissuto tra grandi centri e case occupate. Nel 2015 hanno ottenuto la possibilità di partecipare al progetto «Rifugio diffuso», un’accoglienza in casa di privati che prevede un contributo alla famiglia ospitante di circa 400 euro per ogni richiedente asilo o titolare di protezione alloggiato. Ad aprire la porta ai due giovani c’era Alioune Djouf senegalese di 58 anni, residente in provincia di Cuneo e in Italia da più di metà della sua vita. «Questi ragazzi appena arrivati hanno bisogno di essere aiutati – commenta Alioune -. Noi, che siamo di prima generazione, dobbiamo essere in prima linea».
L’accoglienza in casa è ancora poco praticata in Italia. In Piemonte ha cominciato ad avere una parziale diffusione nel 2008 ed è stata rilanciata nel 2014 dal comune di Torino, insieme all’Ufficio pastorale migranti della diocesi e altre associazioni. Questo tipo di servizio permette alle persone ospitate di avere un immediato contatto con il territorio, facilitato dal conduttore dell’alloggio che, in genere, è residente in loco da molti anni. E i risultati possono essere particolarmente interessanti quando il rifugio viene offerto da uno straniero che vive in Italia da parecchio tempo. «Noi che siamo arrivati in Italia da anni, conosciamo la lingua, il sistema culturale e sociale italiano, ma abbiamo anche una grande conoscenza dei paesi di provenienza. Siamo dei ponti naturali e possiamo dare una mano concreta a chi arriva ora», spiega Alioune che nel 2016 ha accompagnato i due ragazzi nel processo di iscrizione al centro per l’impiego, li ha messi in contatto con una ditta per svolgere un tirocinio e li ha sostenuti nella creazione di una piccola rete di amicizie e incontri sul territorio.
A volte possono subentrare delle difficoltà di convivenza, come tra normali coinquilini, certo è che l’accoglienza in casa permette un processo di integrazione più rapido di quello che avviene nei grandi centri.
«Quando i ragazzi arrivano, parliamo subito – racconta Alioune -. Non siamo più in Africa. Il sistema europeo è molto diverso da quello a cui sono abituati, per cui diventa prioritario per loro provare a capire la gente, rispettare le regole e farsi conoscere. In questo modo si riuscirà a fare un buon inserimento. E naturalmente è importante trovare un lavoro. Per questo faccio di tutto perché Mallam e Moussa abbiano un’opportunità di impiego». Un proposito che si scontra con le precarietà ormai tipiche del sistema lavorativo italiano, ma che non ha scoraggiato i giovani.
Marzo 2017: Mallam ha iniziato un tirocinio presso una mensa e si è trasferito più vicino alla sede di servizio, mentre Moussa ha cominciato il servizio civile e vive ancora a casa di Alioune.
Simona Carnino
Abdullahi Ahmed, Somalia
Missione: costruire i «nuovi cittadini»
È un ragazzo come molti altri. La paura del viaggio era tanta, ma quella di rimanere e non potersi realizzare ha prevalso. Una grande volontà di rendersi utile. Per caso diventa mediatore. Un naturale «ponte» tra due mondi. Capisce che occorre preparare i ragazzi italiani all’accoglienza e in un anno incontra 10.000 giovani nelle scuole.
Corre veloce, Abdullahi. Sulle spalle lo zaino con gli appunti per spiegare nelle scuole del Piemonte il motivo che convince i ragazzi come lui a fuggire dal proprio paese. Nelle mani l’orario dei colloqui con i richiedenti asilo appena arrivati in Italia, in tasca il biglietto di uno studente con scritto «grazie». E nello sguardo il guizzo vitale di chi sogna un dialogo pacifico tra italiani e stranieri. O per usare le sue parole, «nuovi cittadini, perché sono sicuro che se il processo di inclusione avviene in modo corretto, chi approda oggi, sarà il cittadino di domani».
Abdullahi Ahmed, classe 1988, originario della Somalia, oggi è cittadino italiano e fa il mediatore culturale a Settimo Torinese. Parla la nuova lingua come un libro stampato, conosce la Costituzione italiana a menadito, si destreggia tra i meandri della burocrazia e sa orientarsi lesto per le vie di Torino, città in cui abita. Difficile considerarlo straniero, migrante, rifugiato, profugo. Abdullahi è un ragazzo come tanti altri, somalo, italiano, europeo che si è messo in viaggio in cerca di stabilità economica, sociale e, nel suo caso, politica.
La traversata che ti segna
Abdullahi è arrivato in Italia nel giugno 2008, ma è partito dalla Somalia nel novembre 2007. Il paese è dilaniato da guerre civili e dittature fin dal 1960, anno dell’indipendenza. L’economia ne ha sofferto, piegata inoltre da ondate di carestia, che hanno accelerato i moti migratori e collocato la Somalia al terzo posto nel mondo per numero di richieste di asilo politico, con 1,1 milioni di abitanti in fuga, secondo il 3° Rapporto sulla Protezione internazionale 2016 (di Caritas Italiana e altre organizzazioni). «Da quando sono nato non ho mai vissuto un giorno di pace, fino a quando non ho deciso di partire – racconta Abdullahi -. La paura del viaggio era tanta, ma quella di rimanere, e non potermi realizzare come essere umano, era più forte». Compiuti 19 anni, ha preso il suo bagaglio e ha cominciato un viaggio di 7 mesi, affidandosi a organizzazioni di trafficanti che si occupano di gestire il viaggio dei migranti verso l’Europa. Mesi trascorsi ad attraversare l’Etiopia, il Sudan e poi la Libia. «Mi sarebbe piaciuto prendere un aereo, ma non è stato possibile – ricorda il ragazzo -. Con il passaporto somalo non si può andare neanche in Kenya, mentre con i documenti italiani si può viaggiare in 175 paesi. Oggi c’è chi ha diritto di viaggiare e chi no. E i somali non ce l’hanno», per cui il viaggio è stato precario e insicuro a ogni passo. L’attraversamento del mare tra Libia e Italia è stato più semplice del passaggio nel deserto, durato sette giorni. La paura che la macchina si inceppasse a causa della sabbia, che i soccorsi non arrivassero o che le riserve d’acqua terminassero, ha seguito Abdullahi fino all’arrivo in Libia, dove, pagando un biglietto salato, è salito sul barcone che lo ha portato in Europa. «Tu non scegli in che punto attraversare il Mediterraneo né dove arrivare – racconta -. Ti affidi e basta. Il viaggio in mare dura mediamente 24 ore. Se c’è un problema, speri di essere soccorso e preghi Dio».
Dopo quattro giorni dall’arrivo a Lampedusa, Abdullahi è stato imbarcato su un volo per Torino e accolto nel Centro Fenoglio di Settimo Torinese, gestito dalla Croce Rossa. Dopo tre mesi, ha ottenuto il permesso di soggiorno come rifugiato politico.
«Vorrei fare qualcosa di buono»
«Certezze non ce ne sono, ma per ora vorrei mettere qui il mio mondo e fare qualcosa di buono». Nel 2009, Abdullahi ha posato la pietra miliare della sua nuova vita in Italia, ma non ha smesso di muoversi. Almeno con le idee e con la volontà di rendersi utile.
A un anno dal suo arrivo in Italia ha iniziato a svolgere il mestiere di mediatore culturale. «Nel 2009 sono arrivati al Fenoglio 150 richiedenti asilo politico dalla Somalia – racconta Abdullahi -. Io mi sono messo a disposizione per aiutare gli operatori del centro a trasmettere le comunicazioni». Un’attività iniziata per caso, diventata una professione che lo ha reso indispensabile per la sua funzione di ponte linguistico. «Ma il mediatore è molto di più di un interprete. È una persona che conosce la cultura del paese d’origine e ha acquisito la cultura del paese ospitante», dice Abdullahi che da anni ha il compito di aiutare i ragazzi somali a iscriversi al sistema sanitario, alla scuola di italiano per stranieri, a conoscere il territorio e a seguire l’iter di ottenimento dei documenti.
«Se i ragazzi non hanno ancora fatto richiesta di asilo politico, li accompagno in questura per compilare i moduli necessari – spiega -. I tempi di attesa oggi sono molto più lunghi del 2008. A volte ci vogliono due anni per ricevere una risposta».
Secondo i dati mensili raccolti dal ministero dell’Interno, da gennaio a dicembre del 2016 sono state presentate 124.382 domande di asilo, mentre ne sono state esaminate 90.552, indipendentemente dall’anno di arrivo del richiedente in Italia. L’attesa è sfiancante e in più del 50% dei casi la risposta è negativa. Una doccia fredda. Esseri umani dichiarati illegali, spinti a lasciare il paese, nonostante spesso abbiano già imparato la lingua e magari trovato un’occupazione. «In quei momenti il mio lavoro si fa duro e posso fare ben poco – racconta Abdullahi -. In ogni caso, continuo a frequentare chi non riceve il permesso, aiutandolo a costruire una rete sociale. Non voglio che si senta abbandonato».
Due mondi che s’incontrano
L’avvicinamento tra due mondi è possibile solo se entrambi hanno la volontà di camminare verso l’altro. «Una volta pensavo che fosse compito solo di noi stranieri fare lo sforzo di integrarci – ricorda Abdullahi – ma mi sbagliavo. È importante preparare il territorio, coinvolgere i giovani nati in Italia, parlare con loro». A dargli l’occasione per iniziare una nuova tappa di dialogo è stato, paradossalmente, un evento tragico.
Il 3 ottobre del 2013 un barcone affondò al largo di Lampedusa causando 368 morti e 20 dispersi. Il giorno dopo in una scuola del Piemonte, un professore propose ai propri studenti un minuto di silenzio per le vittime del mare. Alcuni si rifiutarono. «Ma che ce ne frega a noi di questi. Facevano meglio a non venire», disse uno. Spiazzato dall’atteggiamento della classe, il docente provò a correre ai ripari, pensando di mettere i propri studenti a confronto con l’oggetto stesso della loro diffidenza. Alcune telefonate dopo, Abdullahi si presentò a scuola per raccontare la sua storia, in buona parte simile a quella dei ragazzi annegati il 3 ottobre. Due ore di resoconto serrato, un’antologia di emozioni mescolate a fatti di storia contemporanea incisi sulla pelle.
Grazie a quell’incontro il ragazzo che aveva detto di «fregarsene» iniziò invece a interessarsi e invitò Abdullahi a partecipare a un’assemblea di istituto per portare la sua testimonianza a tutta la scuola.
«Da allora ho deciso di raccontare la mia storia per ridurre le distanze tra italiani e migranti. È diventata la mia missione. In tre anni ho incontrato più di 10mila studenti e i riscontri sono sempre positivi». Un’attività di volontariato che Abdullahi svolge con spirito civico, ma anche autornironia e simpatia. Pronto a rispondere a domande senza filtri, come quella volta che gli chiesero perché non se ne fosse andato in Botswana, invece che in Italia. «Non ci sono domande scomode o cattive.
È stimolante discutere con chi la pensa diversamente, altrimenti che confronto sarebbe! – sorride Ahmed -. I ragazzi mi chiedono della mia famiglia, della mia religione, se vengo pagato dallo stato, se pago l’affitto, se lavoro. Io rispondo alle loro curiosità. E così ci conosciamo e siamo un po’ meno lontani. È un’esperienza magnifica».
L’impegno civile
L’impegno di Abdullahi non conosce confini e nel 2014, rimasto senza lavoro come mediatore, con diritto all’assegno di disoccupazione, ha deciso di rifiutare l’aiuto dello stato per svolgere il servizio civile nazionale e restituire una parte di sé a Settimo Torinese, la città che lo aveva accolto anni prima.
Un esempio di partecipazione civica che non è sfuggita alla giunta comunale che il 18 settembre 2014 ha insignito Abdullahi della cittadinanza onoraria. A marzo del 2016 è diventato cittadino italiano a tutti gli effetti, ottenendo la possibilità di votare, di viaggiare e di poter vivere dove vuole.
Anche nel tempo libero il giovane mediatore non perde occasione di portare un contributo all’incontro interculturale. Dal 2014 è uno degli organizzatori della cellula torinese, e da poco anche settimese, di Arte Migrante, un evento serale informale, una corrida senza pomodori, in cui persone provenienti da tutto il mondo, di ogni ceto sociale e di ogni età, si esibiscono in performance di danza, canto, recitazione e molto altro. «Si sta insieme per il piacere di farlo. Tanti richiedenti asilo, rifugiati e nuovi cittadini partecipano con me alle serate e per un momento smettono di pensare ai problemi quotidiani. Ci divertiamo e le occasioni di socializzazione si moltiplicano in un’atmosfera magica».
E mentre ricorda tutto questo Abdullahi si tocca il collo. Dalla camicia fa capolino una maglietta rossa. O meglio granata. Improvvisamente una luce di orgoglio illumina il suo sguardo. «Sì, sono del Toro. La più grande squadra del mondo», dice serio Abdullahi che, appena ne ha avuto la possibilità, ha cominciato a sedersi in curva Maratona.
«All’inizio della mia esperienza in Italia, i tifosi mi hanno aiutato a sentirmi parte di un gruppo. Ogni volta che il Toro faceva gol ci abbracciavamo e a nessuno importava se io fossi nero, somalo, straniero, migrante o altro. Ero come loro, un tifoso granata».
Quell’abbraccio che lo ha fatto sentire a casa lo restituisce ogni volta che fa quello che gli riesce meglio. Essere l’ingranaggio funzionante di un dialogo appena iniziato.
Simona Carnino
Mamadou Ndiaje, Senegal e Abdulwahab Afa, Eritrea
l’integrazione che si coltiva
«Maramao perché sei morto? Pan e vin non ti mancava. L’insalata era nell’orto e una casa avevi tu», cinguettava il trio Lescano nel 1939. Negli anni 2000 la stessa cantilena ha cominciato a riecheggiare tra alcuni contadini di Canelli (Asti) che la usavano per indicare, con atteggiamento beffardo, i braccianti migranti finiti nel giro del caporalato, sfruttati nelle campagne del Dolcetto e del Barolo.
Oggi però Maramao ha un nuovo significato. Dal 2014 è il nome di una cooperativa agricola fondata da rifugiati politici e alcuni italiani. Maramao, sì. Per farsi beffa della beffa.
«Io e il mio collega Afa siamo i vicepresidenti – spiega Mamadou Ndiaje, senegalese -. Noi due e una nostra amica italiana rappresentiamo il comitato direttivo. Abbiamo iniziato questo lavoro coltivando le terre che alcuni anziani del paese hanno deciso di darci in comodato d’uso gratuito». Mamadou è arrivato dal Senegal e Abdulwahab Afa dall’Eritrea circa 4 anni fa. Oggi sono due giovani imprenditori di 30 anni, con alle spalle un passato trascorso in uno Sprar gestito dalla cooperativa Crescere Insieme di Acqui Terme (Alessandria), dove hanno imparato a destreggiarsi tra vendemmie, raccolta di nocciole e trasformazionie di pomodori. Imparato il mestiere, i due ragazzi, insieme a chi li aveva accolti, hanno unito le forze per la creazione di Maramao, start up di produzione e vendita di prodotti agricoli biologici.
«Oltre a coltivare, abbiamo deciso di accogliere in tirocinio lavorativo dei ragazzi che stanno nei centri di accoglienza, per insegnare loro un lavoro», racconta Afa. Una scelta importante che ha portato i due imprenditori agricoli a estendere quello che hanno imparato sull’auto imprenditorialità ai ragazzi, in gran parte richiedenti asilo, che sono un passo dietro a loro nel cammino verso l’integrazione lavorativa.
«Quando parti dal tuo paese d’origine, pensi che una volta arrivato in Italia sia facile trovare lavoro – ricorda Mamadou -. Poi ti rendi conto che ci sono tanti limiti. Prima di tutto bisogna avere i documenti a posto e parlare la lingua. Senza lavoro qui non è facile». E così i due giovani vicepresidenti fanno quello che possono per rendere a chi è arrivato dopo di loro più fluido il passaggio a una nuova vita lavorativa. Un tirocinio non è certo una sicurezza, ma rappresenta un primo passo per migliorare le proprie competenze e per venire in contatto con la popolazione locale. Molti dei ragazzi in stage si occupano della vendita dei prodotti al mercato, dove hanno l’opportunità di parlare con i clienti ed essere apprezzati per il proprio lavoro. Una gratificazione che stimola i giovani richiedenti asilo a mettercela tutta per dare nuova dignità ai campi abbandonati per anni (molte sono infatti terre lasciate incolte). Almeno per un periodo. Almeno fino a quando non avranno le idee più chiare sul loro futuro. «A volte i nostri tirocinanti non ottengono il permesso di soggiorno, oppure vogliono andare in Nord Europa – conclude Mamadou -. Non tutti loro rimarranno in Italia, ma noi proviamo a coinvolgerli nella coltivazione, nella raccolta, nella vendemmia e in tutto ciò che c’è da fare in una cooperativa agricola, perché ovunque vadano possano portarsi un mestiere con loro».
Sim.Car.
Joelle kamgaing, Camerun
L’angelo dei sans papiers
Arrivata a 19 anni in Italia per studiare medicina. Ha sviluppato grande empatia con i pazienti stranieri. Forse per la sua esperienza di studentessa «diversa» che ha dovuto integrarsi. Spesso gli assistiti hanno bisogno di un supporto umano più che di un consulto medico. E lei si mette a disposizione come volontaria.
Studia, studia, studia. È il mantra che ha accompagnato Joelle Kamgaing negli ultimi sei anni e mezzo, da quando ha iniziato a frequentare la facoltà di medicina e chirurgia a Torino.
A 19 anni aveva l’atteggiamento determinato di una velocista ai blocchi di partenza, con la mente concentrata al traguardo, pronta a fare il miglior tempo su un percorso ad ostacoli. «Avevo un obiettivo difficile – dice Joelle -. Volevo fare il medico. Mi sono impegnata, ho dato tutta me stessa».
E Joelle ce l’ha fatta. Nel 2016 si è laureata in medicina e chirurgia, con lode e dignità di stampa. Ha superato l’esame di abilitazione alla professione all’inizio del 2017 e ora sogna la specializzazione in nefrologia. Non male per una ragazza di 25 anni. Per una giovane donna che bagaglio in spalla e coraggio in pancia, ha lasciato il Camerun ed è partita alla volta dell’Italia per diventare medico.
Solidarietà studentesca
«Appena arrivata non sapevo una parola di italiano e non conoscevo nessuno, né la cultura, né il cibo. Era tutto diverso e io mi sentivo diversa. Tutti mi guardavano perché ero nera. Poi i miei compagni di corso mi hanno dato una mano. Mi parlavano in italiano e io li aiutavo con i concetti di medicina, spiegandomi in francese. E così poco a poco mi sono sentita accolta».
Un inizio tumultuoso per la ragazza che allo studio doveva affiancare lo sforzo di imparare la lingua e la volontà di comprendere un sistema culturale dai punti di riferimento diversi da quelli conosciuti nei primi due decenni di vita in Africa.
Senza scoraggiarsi e con la metodologia tipica di una scienziata, Joelle ha trasformato una debolezza in opportunità. Quell’iniziale sentirsi straniera in un paese straniero le ha permesso di sviluppare doti di empatia e ascolto che oggi rivolge ai suoi pazienti, in particolare a chi è arrivato da poco in Europa e fatica a esprimere il proprio malessere.
Appena ha un momento libero, Joelle opera come dottore volontario in medicina generale presso Camminare Insieme (camminare-insieme.it), un’associazione torinese di volontariato con un poliambulatorio in via Cottolengo, che si occupa di fornire farmaci e visite gratuite a indigenti e a stranieri che, per ragioni diverse, non abbiano diritto al servizio sanitario nazionale.
Medico, donna e africana
A volte non credono ai loro occhi. Stupiti e meravigliati, i pazienti stranieri che si siedono di fronte a Joelle rimangono a bocca aperta nel vedere una ragazza dell’Africa subsahariana con stetoscopio al collo e cartellino recante la dicitura «dottore» sul camice. «Mi chiedono come abbia fatto a raggiungere uno status così elevato – sorride Joelle -. Pensano che sia stata adottata. A loro sembra incredibile che qualcuno nato in Africa e arrivato in Italia possa riuscire a laurearsi in medicina».
Chi si presenta presso gli ambulatori dell’associazione Camminare Insieme nella maggior parte dei casi parla la lingua di chi ha fatto un lungo viaggio, con ferite psicologiche oltre che fisiche, e un passato da dimenticare. Difficile per loro pensare a un domani e ancora più arduo immaginare di realizzare i propri sogni.
Tanti di loro fanno parte di quel 61,3% di stranieri che nel 2016 ha ricevuto il diniego alla richiesta di asilo, secondo i dati del ministero dell’Interno. Cittadini invisibili che si muovono sul territorio italiano senza la possibilità di rimanere, ma neppure l’opportunità di andare verso un altrove più favorevole alla loro vita. Esseri umani privi di documenti che non hanno il diritto di iscriversi al sistema sanitario nazionale e quindi si rivolgono a centri ambulatoriali gestiti da volontari per ottenere visite generali e medicinali gratuiti. Tra i 2.547 pazienti totali, sono 2.113 le persone provenienti da paesi non dell’Unione europea che si sono registrate ai servizi dell’associazione Camminare Insieme nel 2016.
Pazienti senza documenti
«Chi è senza documento preferisce farsi curare presso centri come il nostro perché noi non esigiamo la presentazione del permesso di soggiorno – spiega Joelle -. Ogni volta che una persona considerata irregolare si presenta in strutture pubbliche teme una registrazione formale e conseguenti ripercussioni amministrative o penali».
Una paura che non avrebbe ragione di esserci se fosse più conosciuto l’articolo 35 del testo unico sull’immigrazione che cita: «L’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano».
In Italia il dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo, indipendentemente dall’etnia, dalla religione e dal sesso, in tempo di pace e guerra. Così recita ancora oggi l’articolo 3 del codice deontologico medico.
Certezze messe in dubbio qualche anno fa dal pacchetto sicurezza del 2008 e dalla successiva legge 94/2009 emanati dal governo Berlusconi che crearono panico diffuso tra gli stranieri e un acceso dibattito tra i medici determinati ad alzare le barricate per difendere il proprio dovere a operare nell’interesse del paziente.
Nel mirino c’era l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno irregolare, punito con una sanzione fino a 10mila euro, e l’obbligo di denuncia per pubblici ufficiali e incaricati del servizio pubblico che venissero a conoscenza di una persona in condizione di clandestinità. Il mondo sanitario si trovò a dover fronteggiare una situazione ambigua. Da una parte il divieto di segnalazione propria della deontologia e dall’altra il possibile obbligo di denuncia del migrante irregolare, non perché avesse commesso un atto criminale, ma per il motivo di essere nella condizione di sans papiers.
«È stato un periodo difficile – spiega Fiorella Ferro, socio fondatore di Camminare Insieme -. Tutti i medici, paramedici e corpo sanitario italiano si sono allineati in una ferma opposizione alla legge». Sulla porta dell’associazione di Via Cottolengo campeggiava un grosso e rosso adesivo che recitava «Noi non segnaliamo» e in quell’anno le code di fronte alle porte si duplicarono, mentre il libero e spontaneo accesso alle cure pubbliche da parte degli stranieri senza documenti si riduceva.
La federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontorniatri alzò la voce in difesa del ruolo del medico e chiese al governo chiarimenti.
La vicenda trovò una sua conclusione nella circolare n. 12 del novembre 2009, in cui il ministero dell’Interno ribadì, come riportato dal portale sull’immigrazione del governo, «la vigenza del divieto di segnalazione anche dopo l’entrata in vigore del reato di ingresso e soggiorno irregolare sul territorio nazionale, precisando che l’obbligo di denuncia non si applica in riferimento al reato di ingresso e soggiorno irregolare sul territorio dal momento che si tratta di una contravvenzione e non di delitto».
Sebbene si fosse fatta chiarezza su un’ambiguità di fondo, la legge aveva contribuito a rendere diffidenti i pazienti senza documenti che, in quel periodo, preferivano rinunciare al proprio diritto all’assistenza sanitaria pubblica.
«Ancora oggi alcuni stranieri, a cui è stata rifiutata la richiesta di protezione internazionale, non sanno che si possono rivolgere al pronto soccorso liberamente – spiega Joelle -. Il mio compito in questi casi è provare a rassicurarli e convincerli ad andare all’ospedale in caso di emergenza».
Mediazione culturale e linguistica
Attualmente, davanti all’associazione Camminare Insieme si forma ogni giorno una fila che non di rado accoglie fino 70 persone. Al 98% sono stranieri, provenienti soprattutto da Marocco, Romania, Nigeria e Siria, che nel 2016 si sono affidati alle mani esperte di 76 medici volontari.
«La maggior parte delle persone si presenta per consulti di medicina generale e per visite odontorniatriche che privatamente non potrebbero permettersi – racconta Fiorella Ferro -. Tanti vengono da noi attirati dall’atteggiamento accogliente e attento dei nostri dottori».
E in fatto di empatia con i pazienti stranieri Joelle è naturalmente portata. Oltre al ruolo di medico, la giovane dottoressa svolge un’attività di mediazione culturale e linguistica fondamentale per comprendere, ma anche mettere a proprio agio, le persone che si presentano all’ambulatorio. «Quando i pazienti dell’area subsahariana mi vedono si sentono più rassicurati. Capita che mi spieghino le patologie in inglese o francese. Parliamo la lingua che conoscono meglio e in questo modo si sentono maggiormente compresi», racconta la dottoressa.
Pazienti che si sentono a casa anche se sono in un emisfero diverso da quello di provenienza e che riescono a raccontare i propri problemi medici senza inibizioni, sicuri che dall’altra parte della scrivania c’è qualcuno che sa capire anche le ansie relative a malattie tipiche dell’area geografica di origine.
«Mi è già successo che alcuni pazienti abbiano paura di essere affetti da malaria – continua Joelle -. Effettivamente è una malattia endemica della zona d’origine di numerosi stranieri. Io li capisco, ma cerco di spiegare loro che la maggior parte delle volte sono solo paure irrazionali e che in Italia è più facile contrarre l’influenza che la malaria». Consigli semplici, ma che suonano più autorevoli se pronunciati da qualcuno che può essere riconosciuto come un punto di riferimento famigliare da chi è appena arrivato in Italia.
«A volte i miei assistiti hanno bisogno di un supporto umano più che di un consulto sanitario – racconta Joelle -. Sono spesso abbattuti, senza un lavoro e rete sociale. Io dico sempre loro di non cedere, di darsi degli obiettivi e perseguirli, senza dimenticare da dove sono arrivati».
Così ha fatto lei, con la gioia e la risolutezza della giovane donna che ha pedalato in salita senza darsi mai per vinta, prestando la sua opera «con diligenza, perizia e prudenza secondo scienza e coscienza», come dice Ippocrate, e donando in più la sua esperienza di ex migrante per infondere ai pazienti il coraggio. Per affrontare il dottore e le sfide di un mondo nuovo.
Simona Carnino
Aboudala Dembelé, Mali
Il calcio che conta
Alle 6 del mattino è già sveglio. Per prima cosa rivolge la preghiera quotidiana a Oriente. Poi prepara il borsone. Tacchetti, calzettoni, parastinchi, scaldamuscoli, pantaloncini, una maglia a maniche corte, una felpa dell’Italia. Alle 7 è pronto per andare al lavoro, ma non prima di inviare il messaggio di rito: «Ricordatevi che stasera c’è allenamento. Cercate di essere puntuali. Vi aspetto davanti al cancello del campo alle 18.30». Il tono è quello compassato di un allenatore che convoca i suoi giocatori con la serietà asciutta di chi non fa tanti giri di parole. Proprio come Aboudala Dembelé, per gli amici Abu, che di giorno fa l’operaio e nel tempo libero è il mister di una squadra di calcio che unisce sotto la stessa maglia richiedenti asilo e rifugiati politici maliani residenti in alcuni centri di accoglienza di Torino.
Anche Abu è titolare di protezione internazionale. È arrivato dal Mali nel 2011, sulle rotte consuete che dalla Libia lo hanno portato in un centro di accoglienza torinese. «All’inizio non potevo lavorare e non conoscevo nessuno – racconta Abu -. Per cui ho iniziato a studiare l’italiano e poi, per non stare inattivo fisicamente, mi sono messo a giocare a calcio in un campetto vicino al centro».
Con un pallone, la fantasia e la forza dei suoi 25 anni, le cose hanno cominciato a muoversi. Da lì a poco è entrato a far parte dell’associazione sportiva dilettantistica Balun Mundial, fondata da un gruppo di ragazzi italiani e stranieri che, dal 2007, ogni estate organizza a Torino la «Coppa del mondo delle comunità migranti», una sfida all’ultimo gol per costruire uno spazio di incontro tra residenti e chi è appena arrivato in Italia.
Abu non ha perso tempo e ha portato il suo contributo costituendo la nazionale del Mali di cui è l’allenatore dal 2015. «Volevo comunicare a tutti che c’è una comunità di maliani a Torino», spiega Abu. La selezione dei giocatori è avvenuta nei centri di accoglienza, dove l’invito di Abu è stato accolto come un’opportunità per conoscere nuove persone in un ambiente divertente e multietnico. «Il calcio dà ai miei giocatori la possibilità di parlare italiano con i ragazzi delle altre nazionalità, di stare all’aria aperta e di imparare il concetto di puntualità che per noi africani a volte è un po’ vago – ride Abu -. All’allenamento non si sgarra. Chi non arriva puntuale non si allena. Così si impara la puntualità e la disciplina utile alla vita». In un passaggio educativo alla pari Abu cerca di insegnare quello che ha imparato sulla sua pelle. «So cosa significa stare in un centro di accoglienza – racconta il giovane -. La maggior parte della giornata non si svolge nessuna attività. Quando ho tempo libero, vado a trovare i ragazzi e parliamo. Provo a dare loro i miei consigli, li spingo ad andare a scuola e li ascolto. Fuori o dentro al campo, io ci sono sempre per i miei giocatori».
s2ew.caritasitaliana.it -Rapporto sulla protezione internazionale in?Italia 2016, Anci, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes, Servizio Sprar.
Questo dossier è stato firmato da:
Simona Carnino– Giornalista, è specializzata in diritti umani, migrazioni e cooperazione internazionale. Ha scritto per anni di temi ambientali e politici. Nel 2015 ha realizzato il documentario «Aguas de Oro» (www.aguasdeoro.org) sulla lotta di Maxima Acuña Chaupe (vincitrice del premio Goldman) in Perù. Ha lavorato 5 anni per Amnesty International e ha maturato esperienza nella gestione di progetti di cooperazione in America Latina. In Italia ha lavorato nel sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati politici. Attualmente vive e lavora in Guatemala.
Carolina Lucchesini– Videoreporter e digital strategist. Si occupa di comunicazione e giornalismo da diversi anni, realizzando reportage video e multimediali, documentari e campagne di comunicazione per l’agenzia .puntozero, di cui è cofondatrice (www.puntozerohub.com).
A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
foto delle copertine: Le immagini di questo dossier sono tratte dalle puntate delle webserie «Passaggi». In prima di copertina Joelle Kamgaing e in ultima di copertina Abdullahi Ahmed.
Guanxi Italia
Questo dossier introduce una tematica – i Cinesi d’Italia – di cui Missioni Consolata non si è mai occupata, se non in maniera occasionale. Lo abbiamo affidato a un giovane sinologo, Gianni Scravaglieri, che insegna la lingua cinese nelle scuole superiori della Lombardia. Queste pagine sono soltanto un inizio. È nostra intenzione tornare sull’argomento in un vicino futuro. Chi – cinese o italiano – voglia raccontare la propria esperienza scriva alla redazione. Nel frattempo, buona lettura. (pa.mo.)
Foto di Roberto Brancolini – A cura di: Paolo Moiola
Introduzione
Siamo cinesi
I lettori mi perdoneranno se, per introdurre questo dossier, partirò da alcuni ricordi personali. Molti, troppi anni fa vissi per qualche mese a San Francisco, in Califoia. Abitavo in centro, vicino a Chinatown. Era quest’ultimo un luogo che mi attraeva perché mi offriva una sensazione di esotico fino allora estranea alla mia esperienza d’italiano. Per approfondire quella sensazione, un paio di anni dopo feci un lungo viaggio in Cina, via terra e via fiume. Era trascorso un anno e mezzo dalla protesta di piazza Tienanmen (aprile-giugno 1989) e la Cina era ancora quella delle biciclette e delle campagne. Poi, nel giro di circa un decennio, tutto è cambiato in forza della globalizzazione e delle nuove dinamiche geopolitiche. La Cina è diventata la potenza industriale e commerciale che tutti conosciamo. Grandi aziende occidentali sono state comprate dai cinesi. Addirittura importanti squadre di calcio italiane sono passate nelle loro mani. In quasi ogni città del pianeta si sono costituite forti comunità cinesi, coese e laboriosissime. Con esse sono cresciuti anche miti e stereotipi. Oggi in Italia ci sono – stando ai dati Istat del 1 gennaio 2016 – 271.330 cinesi, pari al 5,4% del totale degli stranieri regolarmente registrati (5.026.153). Gli studi dicono che la grande maggioranza dei cinesi arriva dalla provincia di Zhejiang e in particolare dalla città di Wenzhou. Nelle mia piccola città natale, Rovereto, i cinesi sono poco più di un centinaio (su 5.000 stranieri), ma hanno avviato decine di attività imprenditoriali. Sono ristoratori, parrucchieri, estetisti, gestori di supermercati. Non è una leggenda metropolitana che, in generale, essi siano dei gran lavoratori, anche se spesso a scapito della concorrenza. Un taglio di capelli da un cinese costa la metà o anche meno che da un italiano. Stessa cosa vale nei ristoranti. Eppure, anche qui le cose stanno cambiando. Le cosiddette seconde generazioni parlano italiano e, pur non rinnegando le «guanxi» (il complesso sistema di relazioni familiari e sociali proprie del mondo cinese), sono più inserite nella società italiana. Magari con dubbi, perplessità, domande senza risposta, ma ci sono e vogliono progredire nel paese d’adozione, pur senza mai dimenticare la patria dei loro genitori. Anche per questo è interessante andare a leggere le esperienze riportate – in perfetto italiano – nel sito di Associna. «Nell’Italia della grande migrazione – si legge nell’ormai datato I cinesi non muoiono mai -, alla voce segni particolari, gli stranieri devono esibire indicazioni precise: sul musulmano abbiamo pregiudizi nitidi come cristalli, all’albanese imputiamo la violenza, allo zingaro i furti, al cinese rimproveriamo innanzitutto il mistero». In questi anni il rapporto con la comunità cinese ha imboccato percorsi molto diversi e certamente meno banali.
Paolo Moiola
Dai primi immigrati alle seconde generazioni
Il cuore (e il peso dei valori)
Il pensiero confuciano e il sistema delle «guanxi» rimangono centrali nella comunità cinese d’Italia. I giovani sono sicuramente più integrati dei genitori nella società d’adozione, ma il ruolo delle tradizioni resiste. Nel frattempo, con l’esplosione economica della Cina e la crisi italiana, i flussi migratori sono diminuiti. E, a volte, si sono invertiti.
I secoli di vita contadina, caratterizzati dalla precarietà del raccolto, dalla fatica nei campi, dall’assenza di giorni di riposo, dalla gestione oculata delle risorse, dal dovere dell’accoglienza, dall’assoluta necessità di aiuto reciproco, tra gli abitanti di uno stesso villaggio, hanno forgiato il carattere dei cinesi.
Alessandro Cheung: «Ci aiutiamo moltissimo tra di noi, tra parenti, tra amici. E questo è un sistema che noi chiamiamo guanxi, basate sull’onore, il rispetto, l’amicizia. Ed è per questo che noi ragazzi anche piuttosto giovani riusciamo a far partire delle aziende di una certa importanza».
Le guanxi non sono soltanto un elenco dei nomi scritti sulla rubrica del telefono. Le guanxi sono tutte quelle persone a cui posso, nel bisogno, chiedere aiuto e a cui devo, nel bisogno, dare aiuto. Nelle guanxi, con un diverso grado di priorità, rientrano i familiari, i parenti, i vicini, i colleghi, gli amici. Questo meccanismo di reciproco aiuto ha reso possibile l’immigrazione cinese in Italia e il suo successo.
Malia Zheng: «Questo senso di appartenenza, di grande famiglia allargata, ha determinato il grande flusso migratorio in Italia: il primo arrivato ha aiutato il secondo, il secondo ha consigliato il terzo e così via».
L’influenza del pensiero confuciano
Le tradizioni e i rapporti all’interno della comunità, della famiglia, tra genitori e figli, in particolare, hanno a volte pesato molto sulla personalità dei giovani delle seconde generazioni, figli degli immigrati cinesi degli anni Ottanta. Il pensiero tradizionale confuciano prescrive che i genitori debbano occuparsi dei figli e i figli debbano rispettare i genitori. In concreto ciò significa continuare i loro affari, ascoltare i loro consigli, prendendosi cura di loro nella vecchiaia o nella malattia.
Valentina: «i miei genitori vorrebbero che io continuassi la loro attività lavorativa. Stiamo aprendo un altro negozio. Io non voglio deluderli. Penso che si sono sacrificati fino ad ora per darmi un’istruzione, quindi è giusto che li ripaghi, quindi alla fine ho deciso di continuare la loro attività».
Chi non rispetta però queste regole tradizionali, in qualche modo decide di rompere un patto culturale e familiare fortissimo, rischiando di ritrovarsi senza più appoggi da parte dei genitori.
Chen Lele:«ho avuto una bellissima bambina con un ragazzo italiano. Ho perso il vostro sostegno e non immaginate quanto abbia bisogno di avervi accanto, di avere la vostra approvazione e di sentirvi felici per la donna che sono diventata».
Da dove tutto partì
Nel 1984 Wenzhou, città nella provincia costiera del Zhejiang, da cui provengono quasi il 90% dei cinesi in Italia, insieme ad altre zone economiche speciali, venne aperta agli investimenti stranieri, grazie alle riforme promosse da Deng Xiaoping. Da quel momento l’arrivo di capitali, la possibilità di lavorare e di condurre buoni affari, ma anche la possibilità di ottenere finalmente un passaporto per emigrare, divenne il tema di discussione tra amici e parenti.
La stragrande maggioranza aveva già un mestiere e non emigrò per disperazione. Il progetto era quello di andare a lavorare presso i parenti o conoscenti già presenti da tempo in Italia o in altri paesi europei, seppur in numero esiguo, dai quali ricevere un supporto concreto all’inizio, per poi tentare di aprire una piccola impresa propria. Ovviamente non per tutti fu un successo.
Yang Shi: «I miei genitori in Cina avevano una discreta posizione sociale. Appena abbiamo avuto una possibilità di andare all’estero, subito ne abbiamo approfittato. Non pensavamo di impoverirci venendo in Italia e invece ci siamo impoveriti».
In quegli anni cominciarono a emigrare venditori ambulanti, falegnami, carpentieri, piastrellisti, muratori, cuochi, camerieri, insegnanti, contabili, ristoratori, baristi, gestori di locali. In un secondo momento sarebbero arrivate le mogli, grazie alla possibilità del ricongiungimento familiare o delle non rare sanatorie decretate dal governo. Infine i figli, arrivati dalla Cina o nati qui.
Le vie del successo
Questa prima generazione di cinesi, detta di nuova immigrazione, arrivò in Italia anche per vie traverse, grazie ai soldi raccolti tra i parenti e i conoscenti. Per ripagare il loro debito, gli immigrati di Wenzhou dovettero lavorare gratis per un certo periodo nei ristoranti o nei laboratori di pelletteria, di maglieria, di tappezzeria, nelle ditte per la lavorazione conto terzi di scarpe o di divani dei loro connazionali. Quando il debito veniva estinto, l’immigrato poteva cominciare a guadagnare. Inutile dire che durante questo esodo di persone si sono verificati anche casi di corruzione, di ricatto, di sfruttamento, di violenza e di truffa.
Tuttavia, l’immigrazione cinese portò sostanzialmente vantaggi all’Italia. A Prato, ad esempio,il tessile al momento dell’arrivo dei cinesi era già in crisi. Le imprese cinesi, anche grazie ai loro modi non sempre trasparenti di lavorare per conto terzi, hanno comunque ravvivato la produzione, permettendo anche oggi alle imprese e ai grandi marchi italiani del settore di avere prezzi concorrenziali su tutto il mercato europeo. Lo stesso fenomeno si è verificato a Milano, in zona Paolo Sarpi, che all’arrivo dei cinesi non era già più il vivace quartiere di negozianti e artigiani degli anni precedenti. La stessa amministrazione ha concesso ai cinesi le licenze per aprire negozi di vendita all’ingrosso sul finire degli anni Novanta, collegando il quartiere all’import-export con la Cina, che nel 2001 sarebbe entrata nel Wto. Non sono mancati momenti di conflitto tra comunità cinese e abitanti italiani del quartiere. Oggi la situazione appare sostanzialmente pacificata.
Le seconde generazioni
I giovani delle seconde generazioni in genere hanno vissuto con i genitori quando erano molto piccoli, poi rimandati in patria dai nonni per frequentare le scuole primare e imparare la lingua cinese, infine tornati in Italia, dopo qualche anno, a frequentare le scuole e ad aiutare i genitori magari nella piccola impresa familiare.
Lin Jie: «Tutto era nuovo per me: il cibo, la casa, la scuola, le facce, il colore dei capelli e degli occhi. Mi divertivo quando le maestre cercavano di insegnarmi la “R”, facendomi vedere la lingua tremante per minuti. Tuttavia avevo nostalgia della Cina, degli amici, dei compagni di scuola, della nonna, dell’alzabandiera che si faceva ogni mattina, dell’inno nazionale che alle prime note imprimeva energia, della campagna vicino a casa».
Famiglia e Cina, un legame che in questi ragazzini, seppur a volte attenuato non si è mai spezzato.
Qi Yan: «Abbiamo studiato nelle scuole italiane, abbiamo un sacco di amici italiani e ci sentiamo sempre in qualche modo legati alla Cina, un legame che difficilmente si interrompe, un legame soprattutto rafforzato dalla nostra curiosità e dall’orgoglio dei nostri genitori nell’essere cinesi».
Oggi, diventati grandi e assorbita anche la cultura italiana, in molti si ritrovano a dover rimettere insieme una identità multiforme, con l’intenzione e la difficoltà di tenere tutto insieme, quello che è Italia e quello che è Cina.
Yu Ruijue: «In Cina vengo considerata troppo italiana, in Italia mi sento troppo cinese. Delle due metà in cui il mio “io” si divide, nessuna riesce a prevalere sull’altra. Inoltre, so bene che, se mancasse anche una sola delle due, perderei inevitabilmente me stessa».
Quelli delle seconde generazioni sono in genere giovani con un diploma e sempre più spesso una laurea in tasca. Chi di loro non è riuscito o non ha voluto fare il libero professionista o il dipendente in una multinazionale, resta a lavorare nelle imprese di famiglia. Principalmente nel settore dei servizi: ristoranti, negozi di scarpe, di accessori, di vestiti, sartorie, lavanderie, tintorie, negozi alimentari, centri massaggi, bar, sala giochi, negozi di riparazione computer e cellulari.
La crisi e l’ipotesi del ritorno
Dopo la crisi del 2008 però fare affari nel nostro paese diventa sempre più difficile e anche per molti cinesi si affaccia alla mente l’ipotesi di tornare in Cina. Quelli della prima generazione, verso i sessant’anni d’età e con decenni di lavoro in Italia, potranno decidere di ritirarsi nel paese natale a passare la vecchiaia. Ma per le seconde generazioni di ventenni e trentenni, magari già con figli piccoli che frequentano le scuole italiane e con una mentalità e un modo di vivere, che negli anni si è per così dire «italianizzato», sarà molto più difficile farlo.
Mary Pan: «Se ci pensiamo bene, non possiamo fare a meno dell’Italia. Perché ci ha dato la possibilità di crescere e migliorare, sebbene con molti sacrifici».
Per le seconde generazioni anche per un altro motivo, pur volendolo, sarà complicato tornare o trasferirsi in Cina, cioè a causa del suo costo della vita e del suo dinamismo sociale.
Yan Tianyou: «In Cina la concorrenza è feroce e il nostro potere d’acquisto si è ridotto. Adesso è più intelligente investire in Italia. In Cina non posso permettermi neppure un appartamento. Inoltre i miei parenti sono tutti in Europa».
Anche per i cinesi in Cina però, con la crescita del loro tenore di vita e la crisi in Italia, che dal 2008 blocca la ripresa, emigrare come un tempo è un gioco che non vale quasi più la candela. Oggi dalla Cina e verso la Cina si spostano solo gli imprenditori in cerca di affari e investimenti, compreso l’acquisto di aziende. E anche i giovani per studiare nelle accademie o nelle università, con i programmi Marco Polo e Turandot.
Qi Yan: «Ormai i cinesi poveri non spendono più tanti soldi per venire in Occidente senza documenti, rischiando mille avversità per affrontare una vita misera e povera senza molte possibilità di fare fortuna per via della crisi economica fuori dalla Cina».
Integrazione nella globalizzazione
Per le seconde generazioni la via del successo personale passerà sempre più attraverso una maggiore integrazione nel tessuto sociale italiano, ma senza rinunciare alla loro parte di identità cinese che, in un contesto di globalizzazione delle professionalità, li può portare ad essere un ponte ideale fra i nostri due paesi amici.
Angelo Hu: «Il cambiamento è in corso grazie ai giovani delle nuove generazioni, molti dei quali vanno all’università, e che stanno uscendo dalle attività commerciali tipiche della prima immigrazione di cinesi».
In questo però il Parlamento dovrebbe dare una mano, sboccando la proposta di legge di riforma della cittadinanza, già approvata dalla Camera il 13 ottobre 2015, ma ferma in Commissione affari costituzionali del Senato. L’Italia non può permettersi di deludere o di lasciarsi sfuggire questi giovani, proprio nel momento in cui diventano maggiorenni, trattandoli come semplici immigrati. L’Italia ha un debito nei loro confronti, quanto meno per la fiducia ricevuta. Anche se non nelle carte bollate, i cinesi nati o cresciuti qui sono già italiani nel cuore.
Lin Jie: «Finalmente arrivò il decreto di conferimento della cittadinanza. Dal momento in cui ho presentato la domanda mi sono sempre chiesto se mai sarei riuscito a identificarmi come italiano senza alcun indugio. Ogni dubbio mi svanì nell’ufficio del sindaco quando ho pronunciato queste parole: «Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato». Avevo trovato la mia risposta: «Il mio cuore è italiano tanto quanto cinese».
Gianni Scravaglieri
L’associazione Associna
Per togliere le spine serve tempo e pazienza
Quando arrivarono i primi gruppi di immigrati cinesi erano gli anni Ottanta. Da allora molto cose sono cambiate: dalla lingua cinese sempre più richiesta e studiata al primo carabiniere cinese. L’immigrazione cinese in?Italia in un convegno di Associna, associazione nata nel 2005.
Il 26 marzo 2005, a poco più di vent’anni dall’inizio della cosiddetta nuova immigrazione cinese in Italia, vedeva la luce Associna, l’associazione delle nuove generazioni sino-italiane. Associazione di ragazze e ragazzi nati o cresciuti in Italia, che nel tempo è diventata uno dei punti di riferimento nazionali per tutti gli attori istituzionali e privati, impegnati nella costruzione di una nuova società, più forte, più ricca, più libera e più inclusiva. A partire dal diritto di cittadinanza per tutti coloro che qui in Italia sono nati o cresciuti. Con un impegno volontario e quotidiano questi giovani sino-italiani continuano a testimoniare con le loro attività in modo vivo e tenace un punto di svolta storico e sociale, che non può più essere da nessuno cancellato: l’Italia ha dei nuovi cittadini, di fatto se non ancora di diritto, nati da genitori stranieri, ma che stranieri non sono mai stati, che parlano italiano, amano, come i figli degli italiani, il nostro paese, la nostra cultura, le nostre città.
Certo, la vita non è tutta rose e fiori, dice un antico proverbio. E un concetto simile è riportato nel loro sito internet: «La convivenza è la rosa della società umana, bisogna sempre ricordarsi di tagliare le spine dell’egoismo e della paura del diverso». Possiamo solo aggiungere che prima di parlare di diritti e di doveri, è necessario accettare l’altro come una presenza possibile. Ancora oggi però una parte della società guarda alla diversità non come a una ricchezza, ma come a una minaccia.
La lingua cinese è sempre più studiata
Sabato 15 ottobre 2016, Associna ha organizzato a Milano il secondo Convegno Nazionale delle Seconde Generazioni sino-italiane, presso l’Istituto Confucio dell’Università Cattolica. La finalità dell’incontro è spiegata dal Presidente di Associna Prof. Gianni Lin: «Quest’anno abbiamo deciso di organizzare il nostro convegno annuale a Milano, in quanto vogliamo evidenziare il ruolo delle seconde generazioni italo-cinesi nelle relazioni economiche e finanziarie tra Italia e Cina. Lo scambio economico tra Lombardia e la Cina costituisce il 40% del totale italiano (45 miliardi di Euro), per cui non potevamo scegliere luogo più emblematico». I lavori della giornata sono stati aperti con i saluti iniziali di Francesco Wu, vicepresidente di Associna, e moderati da Dario Di Vico, giornalista del Corriere della Sera.
La parola è quindi stata presa dalla professoressa Elisa Maria Giunipero, direttrice dell’Istituto Confucio presso l’Università Cattolica di Milano, che ha ricordato che la lingua cinese è sempre più studiata dai giovani italiani e dagli stranieri residenti, ma anche da un crescente numero di adulti.
Iacopo Lin, il primo carabiniere cinese
L’integrazione ha bisogno del suo tempo. Dei simboli però possono favorirla in modo decisivo. Come quello di Iacopo Lin, premiato in questa occasione per essere stato il primo carabiniere della storia di origine cinese. Egli ha avuto il grande merito di eliminare la sensazione del noi e del voi riportando in primo piano il servizio allo Stato e l’amore per l’Italia.
Mentre Cristina Tajani, assessore al lavoro, attività produttive, commercio e risorse umane, ha sottolineato il messaggio positivo, che emerge dalle statistiche della Camera di Commercio di Milano, specialmente nei settori della moda e del design, che dimostrano come le aziende e gli investimenti dei cinesi abbiano dato respiro al tessuto economico milanese, anche sotto l’aspetto dei posti di lavoro, dopo la grave crisi che ci ha colpito dal 2008. Evidentemente la sinergia creatasi con la comunità cinese, sottolineata anche dal gemellaggio di Milano con la città di Shanghai, ha portato i suoi frutti.
Il console Meng, si è fatto portavoce di un messaggio inviato dal console generale di Milano sig.ra Wang. Il cuore del messaggio è stato rivolto al carattere tradizionalmente laborioso, intelligente, tenace del popolo cinese. Ribadendo il fatto che ogni volta che gliene viene data occasione esso applica alla vita associata, come puntualmente è anche successo in Italia con le cosiddette seconde generazioni cinesi, i suoi talenti nel campo della politica e dell’economia. Infatti i giovani cinesi delle seconde generazioni sono riusciti ad essere degli apripista per promuovere i legittimi interessi di tutti gli altri cinesi, che magari nati qui in Italia sono tuttavia ancora privi della cittadinanza italiana. Sono moltissime le aziende, legate alle seconde generazioni, che quotidianamente incrementano l’integrazione sociale, anche grazie alla loro naturale capacità di mediazione tra lingue e culture diverse. Il mutuo beneficio tra generazioni italiane e cinesi deve essere strategicamente l’orizzonte che ci guida.
Il professor Daniele Cologna, dell’Università dell’Insubria e fondatore di Codici s.c., ha aperto il suo intervento con una sorta di monito, in quanto per tutti noi le seconde generazioni cinesi sono «uno squillo di tromba», che non si può non cogliere. Abbiamo infatti bisogno di un’Italia diversa, più matura, meno infantilmente atteggiata verso la Cina. Ma ci vogliono anche delle istituzioni più sensibili alle esigenze delle seconde generazioni di immigrati, persino verso coloro, che pur essendo nati in Italia, a causa di una legge farraginosa, non possono ancora ottenere la cittadinanza. Oggi in Italia abbiamo oltre 270 mila residenti cinesi. Il tema dell’acquisizione della cittadinanza resta fondamentale, anche se non tutti coloro che ne hanno diritto iniziano le pratiche per ottenerla.
Tra la prima e la seconda generazione
Il fatto macroscopico a cui si assiste è il passaggio di testimone tra la prima e la seconda generazione nelle imprese. Mentre i cinesi arrivati nei decenni precedenti avevano un grado di istruzione basso ed erano impegnati in lavori con minimo contatto con la popolazione italiana, oggi tra i giovani delle seconde generazioni crescono i laureati che parlano sia il cinese che l’italiano. Se è pur vero che i rapporti gerarchici all’interno delle famiglie cinesi rimangono quelli tradizionali e i giovani vengano chiamati ai loro doveri familiari, è anche vero che una volta nel mondo del lavoro tendono a scegliere approcci operativi non sempre in linea ai modelli di business comunitario ed etnico dei loro genitori. Così ad esempio a Milano i giovani cinesi puntano alle imprese di servizi, rivolgendosi a una clientela trasversale, spesso proprio a quella fascia di italiani maggiormente impoveriti dalla crisi economica. A livello culturale è importante notare che le reti familiari, le cosiddette guanxi, sono al centro dei rapporti sociali sia tra cinesi che tra italiani. Soprattutto le reti informali costruite negli anni, durante il percorso scolastico, dai giovani delle seconde generazioni anche col tessuto sociale degli italiani, costituiscono una carta in più da impiegare nella costruzione di una più ampia rete di relazioni rispetto a quella a disposizione dei loro genitori. In prospettiva quindi, soprattutto per i giovani italiani che studiano la lingua cinese, si apre un mondo di collaborazione reciproca con le seconde generazioni cinesi, che li proietta a livello internazionale a relazionarsi, a livello commerciale e culturale, in modo più efficacie anche con la stessa Cina. L’ideale per i nostri giovani sarebbe proprio l’acquisizione di un trilinguismo pieno, giocato tra italiano, cinese e inglese. Pensiamo soltanto 17 miliardi di euro investiti dall’impresa cinese in Italia e dalla crescita del turismo cinese nel nostro paese.
I cinesi e il sistema bancario
Andrea Orlandini presidente e fondatore di Extrabanca, unica banca presente nel sistema economico italiano nata per dedicarsi unicamente agli stranieri. Con sedi a Milano, Prato, Brescia, Roma. Con il 70% di clienti cinesi business. Apre il suo intervento ribadendo il concetto già espresso dall’assessore Rozza sulla predisposizione dei milanesi a considerare la dedizione al lavoro il vero passaporto dell’accoglienza e dell’integrazione. In questo la comunità cinese ha sempre dimostrato di essere all’altezza della sfida con la sua proverbiale laboriosità, che si è sempre espressa nella puntualità del rimborso delle rate dei prestiti bancari. Tuttavia il rapporto che essi hanno attualmente con le banche in genere pecca ancora di una certa mancanza di trasparenza nella tracciabilità degli investimenti e nell’impiego dei prestiti. Questo comportamento non favorisce i legittimi controlli delle autorità di vigilanza ed è un fatto a cui porre al più presto rimedio, anche considerando che sempre di più l’immigrazione cinese in Italia non sarà legata alla ricerca di una occupazione, ma alla ricerca di buoni investimenti. I problemi aumentano riguardo ai correntisti cinesi e allora serve una campagna di informazione capillare su quelle che sono le regole contabili, le scadenze di legge e i corretti comportamenti da seguire nei rapporti con la banca e con il fisco. Si nota infatti che una volta ben informati i correntisti cinesi tendono a rispettare tutte le regole. Un altro aspetto è dato dalla insufficiente professionalità dei consulenti a cui si rivolgono. Infatti un buon professionista è quello che trova la forza di imporre al cliente il rispetto delle regole nell’interesse dello stesso cliente e della sua attività economica sul medio lungo periodo. Una caratteristica tipica dell’economia degli immigrati cinesi è che ad esempio in banca lavorano più donne che uomini, ciò è dato dal fatto che il cinese appena possibile vuole aprire la sua attività in proprio, da questa propensione diffusa emerge che l’imprenditore cinese è molto legato all’economia reale piuttosto che a quella finanziaria.
Riflessioni pratiche e impegni reciproci
Wang Hong – responsabile in Italia della Zheijang Rifa Precision Machinery Co Ldt -, parlando della politica di investimenti in Italia della sua multinazionale, ha sottolineato che le lor recenti operazioni di acquisizione di aziende italiane non sono rivolte alla semplice acquisizione delle tecnologie, ma in generale a un radicamento nel contesto produttivo della nostra penisola. La finalità è di sviluppare tutte le potenzialità dell’azienda acquisita, compresa la professionalità dei lavoratori italiani, che con la loro esperienza e le loro competenze si situano nella fascia alta delle professionalità. Un appunto ai lavoratori italiani viene però fatto sull’aspetto della conoscenza delle lingue, in particolare l’inglese e il cinese, la cui conoscenza darebbe a tutti i lavoratori quella marcia in più assolutamente necessaria per competere sui mercati inteazionali. L’invito esplicito è quindi rivolto alle nuove generazioni di italiani a compiere uno sforzo in più e a non limitarsi soltanto allo studio della lingua cinese, ma spingersi oltre nella comprensione della cultura cinese, la cui familiarità è fondamentale per convivere e crescere in azienda. Una riflessione è rivolta quindi agli studi universitari. Esistono delle lauree che garantiscono più di altre la possibilità di trovare un posto di lavoro, come ad esempio ingegneria, soprattutto nelle aziende con un respiro internazionale. Tuttavia resta anche chiaro che se il territorio continuerà a non offrire importanti opportunità ai giovani, essi si rivolgeranno all’estero e questo sarebbe una gravissima perdita per tutti. Italia e Cina possono quindi collaborare per mantenere aziende e lavoro sul territorio a vantaggio di entrambi i paesi. Per fare questo serve che il legame tra generazioni cinesi in Italia sia mantenuto e non disperso, poiché le tradizioni culturali, così importanti nelle nostre relazioni inteazionali, passano attraverso i legami di sangue tra genitori e figli.
Jin Yangkun, direttore generale della sede milanese della Industrial and Commercial Bank of China, la banca più capitalizzata al mondo, ha impostato il suo intervento con una panoramica complessiva. Ha sottolineato che i rapporti tra Italia e Cina sono antichi di secoli e si sono sviluppati lungo l’antica Via della Seta. Anche memore di questi legami, nel contesto odierno della globalizzazione la Cina è il terzo partner commerciale sia per l’import che per l’export dell’Italia. I settori maggiormente interessati sono quello meccanico, alimentare, della moda e del design. Per fare in modo che questi rapporti continuino sul lungo periodo bisogna creare rapporti più solidi basati sul reciproco vantaggio economico e sull’approfondimento dei rapporti umani tra le popolazioni. In Cina ad esempio c’è necessità urgente di lavorare alla costruzione di uno stato sociale, che metta in relativa sicurezza sia la sua popolazione anziana, che quella bisognosa di cure e assistenza sociale. Le eccellenze italiane nel campo sanitario e della cura alla persona, nonché la vivibilità delle medie città italiane possono diventare un modello da cui la società cinese può prendere spunto. In tutto questo i giovani di oggi in generale e in particolare le seconde generazioni si devono considerare il futuro per i rapporti tra Cina e Italia. Il loro contributo è fondamentale nella definizione di nuove idee, energie, competenze nel mondo del lavoro. A tutto ciò si aggiungono due premesse indispensabili. Da parte italiana è necessario garantire di più l’ottenimento della cittadinanza da parte dei cittadini cinesi nati o cresciuti in Italia. Da parte cinese è necessario assumere l’impegno di fare in modo che i media nazionali si occupino di più delle seconde generazioni all’estero, anche quando esse cambiano cittadinanza, valorizzandone la loro preziosissima funzione di ponte culturale ed economico tra la Cina e il mondo e l’Italia in particolare.
Gianni Scravaglieri
Testimonianza di Francesco Wu
Erano due etti di prosciutto spalla
Con il fratello gestisce un ristorante, ma Francesco Wu è anche presidente dell’«Unione imprenditori Italia-Cina» (Uniic). Si è fatto così conoscere che è finito sulla copertina di un noto settimanale italiano. Ecco cosa ci ha raccontato.
L’ingegner Francesco Wu, giovane presidente dell’Uniic, «Unione Imprenditori Italia Cina – Nuove Generazioni», è un personaggio in vista nell’ambiente delle relazioni imprenditoriali e culturali italo-cinesi. La fiducia che negli anni ha saputo raccogliere tra i suoi connazionali residenti nel Bel Paese e tra le stesse istituzioni italiane, lo porta oggi ad essere uno degli interlocutori più affidabili e dinamici nel processo di integrazione in corso, tra società italiana e giovani delle cosiddette «seconde generazioni» sino-italiane.
I fratelli Wu, Francesco e Silvio, gestiscono a Legnano, a pochi minuti a nord di Milano, il ristorante-pizzeria Al Borgo Antico. Dal menù alla carta tipicamente italiano, compresa la cantina dei vini, si sottolinea subito un fatto importante: uscire dagli stereotipi può essere il primo passo per abbattere gli steccati della diffidenza reciproca e arricchire così la nostra società di nuove energie e nuova umanità. Così appare ovvio che la ricchezza e la varietà di cibi della tradizione culinaria italiana e cinese sono dei tesori tutti da scoprire e da gustare. Tuttavia ognuno dovrebbe essere libero di esprimere i suoi talenti indipendentemente dalla sua origine etnica. Un napoletano potrebbe scegliere di cucinare riso alla cantonese e bere tè verde, così come un cinese ha deciso di cucinare pizza alle quattro stagioni e bere vino rosso.
Francesco Wu, oggi potremmo dire «come tutti noi», ha la sua pagina Facebook, sulla quale scrive e condivide con gli altri inteauti pensieri, ricordi, riflessioni, più o meno personali, ma anche occasioni pubbliche di incontro e momenti più istituzionali legati al suo ruolo di rappresentanza. L’8 ottobre del 2016 ha scritto un post, intitolato «meglio la spalla cotta che il prosciutto gran biscotto», che descrive un episodio della sua infanzia, ma che può essere preso ad esempio per cominciare a riflettere sul passato e il comune vissuto di moltissimi giovani sino-italiani delle «seconde generazioni».
Genitori e figli: fatica e impegno
Racconta Francesco Wu che quando era piccolo, durante i primi anni in Italia, i suoi lavoravano duramente ma i soldi che giravano in casa non erano molti. Per fortuna, diremmo oggi, si arrivava a fine mese, ma per farlo bisognava farsi quotidianamente i conti in tasca. Non di rado la madre lo mandava a fare la spesa, che comprendeva anche pane e prosciutto, per preparare la merenda per lui e il fratello. Siamo nella Milano del secolo scorso, zona Affori, dal macellaio che a quel tempo aveva l’attività in via Brusuglio. Qui il piccolo Francesco Wu acquistava 1-2 etti di spalla cotta, invece che del buon prosciutto di qualità, che faceva bella mostra di sé in vetrina. Troppo costoso a quel tempo per le sue tasche.
«Vedevamo tuttavia che il buon prosciutto cotto di qualità costava molto di più e non ci passava per la testa l’idea di comprae, anche perché non sarebbero bastati i soldi per comprare tutto il resto, e inoltre la mamma ci avrebbe rimproverato».
Subito seconda tappa al panificio di fronte per le tigelle modenesi. Un’ottima merenda davvero, i due fratelli ne mangiavano anche tre panini a testa. Ma come spesso accade ai bambini che nascono in famiglie popolari, non è tanto riempire la pancia il problema vero, ma soddisfare il desiderio di essere all’altezza degli altri bambini. Tutti noi sappiamo e ci ricordiamo di quanto possano essere duri i momenti di confronto, ma di quanto nello stesso tempo siano fondamentali per darci una spinta in più verso la crescita e il successo personali. Un po’ questo è accaduto a moltissimi della generazione di Francesco Wu; essere stranieri ed essere poveri, ma con la consapevolezza che la fatica e l’impegno quotidiani nel lavoro e nello studio avrebbero quasi certamente ribaltato la situazione di partenza: «…la fetta unica di prosciutto dentro i panini in gita scolastica quando i tuoi compagni avevano 2-3 fette di quello buono».
Tra le difficoltà della vita quotidiana e l’esempio dei loro genitori si è formato il carattere di molti imprenditori delle seconde generazioni sino-italiane. Negli anni è stato un imparare privo di parole, un sapere non trasmesso attraverso i discorsi, ma con l’amore dei gesti, delle abitudini, degli sguardi. I valori dei genitori sono passati ai figli in questo modo, sul senso della vita, sulla dignità del lavoro, sul valore del risparmio, sulla fatica del guadagnare.
«Senza che i genitori ci facessero tanti discorsi, anzi non li hanno mai fatti, noi imparavamo molto dalla vita e desideravamo un giorno poter comprare il prosciutto buono. Oggi sia il macellaio che il panificio hanno chiuso mentre noi abbiamo aperto nel tempo alcune attività».
Una cultura doppia è una spinta in più
Francesco Wu, come vede il rapporto tra università italiane e mondo del lavoro? Sono utili per i giovani o si potrebbe fare di più?
«Io ormai mi sono laureato da diversi anni, quindi non ho in questo momento il quadro completo della situazione. Per quello che posso vedere io, il collegamento tra università italiane e mondo del lavoro è ancora debole. Forse in miglioramento rispetto al passato; soprattutto facendo riferimento ad un’istituzione come il Politecnico di Milano, che sta facendo molto e che viene in questo seguito anche da altre realtà culturali. Ecco, da questo punto di vista c’è ancora da fare, ma siamo in costante miglioramento rispetto al passato».
Un cittadino della Repubblica popolare, che ottiene la cittadinanza italiana, perde automaticamente quella cinese. Quindi come sono visti i giovani di seconda generazione, che vivono in Italia, da parte dei cinesi in Cina?
«Allora, cominciamo col dire che sulla cittadinanza l’Italia ha ancora una legge molto arretrata. Ed è davvero un peccato che l’iter di approvazione della nuova legge si sia fermato al senato, a causa di quelle forze politiche che si contrappongono alla necessaria riforma sulla cittadinanza. Poi c’è un altro aspetto collegato alla riforma, cioè quello del diritto di voto alle amministrative. Ma tornando al punto, io penso che il governo cinese non veda di cattivo occhio chi decide di prendere la cittadinanza italiana. Anche perché è chiaro a tutti che la situazione concreta di vita delle famiglie porta ognuno a decidere il proprio futuro in base a esigenze personali e oggettive. Sicuramente il governo cinese vuole che sia chi ottiene la cittadinanza italiana sia chi non l’ha ancora ottenuta mantenga dei buoni rapporti con la Cina; senza sottostimare la propria cultura di origine, continuando a provare affetto sia per la Cina, ma anche per l’Italia. Questo è quello che desidera il governo cinese e infatti ufficialmente non mette nessun tipo di ostacolo al cambio di cittadinanza da parte dei cittadini cinesi».
Quelli della sua generazione hanno vissuto in modo diretto la vita in Cina e in Italia, di fatto avete direttamente assorbito in modo pieno entrambe le culture e siete l’ultima generazione storicamente con queste caratteristiche. Pensa che questo vi dia una marcia in più nell’essere idealmente un ponte che rafforza i legami tra i nostri due paesi?
«Io penso che chi ha ricevuto la doppia cultura, persone come me e come tanti altri ragazzi, che sono nati in Cina e cresciuti in Italia, in questo momento storico hanno una spinta in più. Perché semplicemente hanno molta più esperienza degli altri. Non è assolutamente una questione di maggiore intelligenza, ma è proprio una questione di esperienza. Magari anche esperienze difficili, sacrifici, che hanno dovuto affrontare fin da piccoli e che li hanno forgiati. Sono quindi d’accordo con lei che forse siamo l’ultima generazione ad aver vissuto questo. I giovanissimi di oggi, che sono cresciuti in Italia, in generale in un ambiente sociale più avanzato, di quello dove siamo cresciuti noi, hanno di fatto avuto meno difficoltà a viverci e da questo punto di vista, per assurdo, hanno avuto meno esperienze potenzialmente conflittuali, in grado di forgiarli; a differenza nostra, che ne abbiamo invece dovute affrontare di più. Per queste considerazioni io credo molto nell’importanza del ruolo che quelli della mia generazione ricoprono. Poi ovviamente quello che sto dicendo vale solo in generale. Ci sono infatti ragazzi giovanissimi, cresciuti in Italia, che sono molto molto in gamba, che nonostante tutte le difficoltà personali riescono a migliorarsi, e non rinunciano a fare dei viaggi in Cina e a fare esperienza diretta della cultura cinese, propria dei loro genitori».
In conclusione, dove vede i suoi figli da adulti: in Italia, in Cina o in America?
«Io sono sposato e ho due figli, che sono ancora piccoli. Il primo ha già iniziato ad andare a scuola, così cercherò di insegnargli l’importanza dello studio e l’importanza di seguire le proprie passioni e le proprie ambizioni. Dove lavoreranno da grandi non è assolutamente un problema per me. Potrebbero lavorare in Italia, in Cina, in Germania, negli Stati Uniti, in ogni caso dove vogliono e dove si sentono realizzati».
Gianni Scravaglieri
Testimonianza di Zhang Li
Rispettare la società è rispettare i genitori
Insegna lingua cinese alla Cattolica di Milano. Lavora come interprete e consulente per vari tribunali. Zhang Li racconta la sua decennale esperienza italiana.
La professoressa Zhang Li viene dalla città di Nanchino, vicino a Shanghai. È in Italia da circa dieci anni. Insegna lingua cinese all’università Cattolica di Milano. E lavora come interprete in generale e in particolare come consulente per i vari tribunali lombardi. «Ovviamente vengo chiamata quando ci sono cinesi coinvolti in problemi legali, a livelli più o meno gravi».
La mentalità confuciana
I cinesi quindi non sono tutti pacifici, onesti e dediti al lavoro. Possiamo dire così?
«Voglio prima dire una cosa. Secondo la cultura cinese non è bello parlare male dei propri compaesani, soprattutto con gli stranieri. Un fatto naturale, istintivo. Penso che anche per gli italiani è la stessa cosa. Comunque alla tua domanda devo rispondere di sì. Certo che non tutti i cinesi sono buoni, ci sono anche i cinesi cattivi. I cinesi non sono speciali, sono uguali a tutti gli altri popoli. Poi devo anche dire che l’educazione e le situazioni economiche condizionano il comportamento. I cinesi pensano che l’educazione rende le persone più buone e più forti per affrontare le difficoltà della vita, anche le difficoltà economiche».
Interessante. In che senso?
«Per la filosofia cinese, che viene principalmente da Confucio, ogni persona non è sola, come un individuo isolato, ma vive insieme alla società e ha i doveri che ci sono quando si vive in una comunità. Quello più importante è il rispetto per i genitori, perché sono loro che ci hanno dato la vita. Allora quando uno non rispetta le regole, le tradizioni, le usanze oppure ha problemi con la giustizia è come se avesse mancato di rispetto ai propri genitori, perché li ha fatti vergognare, ha dato la possibilità alla comunità di dire che loro non sono stati bravi genitori. Invece comportarsi bene significa dimostrare rispetto verso i genitori. Poi un’altra cosa che aiuta molto a non avere tanta delinquenza è il fatto che la società isola chi non rispetta le regole, quindi non è una scelta facile mettersi contro la società. Ovviamente anche in Cina non sempre questa mentalità confuciana funziona e così deve intervenire la polizia e il giudice. Ma in generale i cinesi pensano che quando interviene la polizia e i giudici significa che la società ha fallito, perché non è riuscita a fare una prevenzione morale sulle persone».
Casi di vita quotidiana
Garantendo la privacy e senza dare particolari riferimenti, potresti descriverci qualche caso di cui ti sei occupata?
«Sì, ma i casi che ho visto nel mio lavoro sono uguali ai casi che riguardano italiani o altri stranieri. Ad esempio un uomo cinese in Lombardia è stato condannato dal giudice per spaccio di droga e reati connessi a diversi anni di prigione. La storia in breve è così. Lui ha famiglia in Cina. A un certo punto decide di venire in Italia per cercare opportunità e aprire una attività commerciale. La moglie rimane in Cina e lavora in proprio come designer e arredamento di interni. Hanno dei figli e possiamo dire che sono brave persone. Però a un certo punto la moglie dice che vuole investire di più nel suo lavoro e fa pressione sul marito per guadagnare più soldi. Ma in Italia c’è la crisi e il lavoro è poco. Non è facile fare soldi. Allora a un certo punto lui arriva a pensare che vendere un po’ di droga è una buona idea. Ma le cose vanno male. Un giorno litiga per la droga con altre persone, arriva la polizia e lo arresta e poi il giudice fa il processo e lo condanna. Forse se l’uomo non viveva solo e aveva vicino dei parenti o degli amici potevano proteggerlo da queste idee sbagliate di fare soldi vendendo droga».
Hai un altro caso da raccontarci?
«Sempre in una città della Lombardia una madre cinese aveva un impegno e ha affidato il figlio piccolo di circa sette anni alla zia, mentre stava lavorando nel suo negozio di estetista. Il bambino era seduto sul divano a guardare i cartoni animati sul telefonino. A un certo punto la zia si allontana per discutere con un cliente e non guarda più il nipote. Dopo circa mezz’ora la zia torna e non vede più il nipote. Subito comincia a cercare il bambino e pensa che forse si è nascosto, ma dentro il negozio non c’è. Allora esce in strada e vede in mezzo alla strada nel traffico la macchina dei carabinieri con dentro il nipote. Va dai carabinieri e dice che il bambino è il nipote. I carabinieri cominciano a chiedere i documenti e a fare domande. Ma la zia non parla bene italiano e non capisce perché i carabinieri non le ridanno il nipote. In pratica i carabinieri giravano in macchina e a un certo punto hanno visto il bambino da solo. Allora si sono avvicinati, ma il bambino, che non parla italiano, si è spaventato ed è scappato, perché non era abituato a vedere i poliziotti. In Cina se vivi in campagna non ci sono i poliziotti per strada. Alla fine i carabinieri denunciano la zia al giudice dei minori, che dopo il processo la condanna per abbandono di minore».
Vedo dalla tua espressione che non sei molto d’accordo con la condanna. Ho visto giusto?
«Più o meno. Certamente è giusta la condanna perché il giudice ha visto cosa è successo, ha visto la legge e ha deciso. Ma se vogliamo capire di più la mentalità di quella donna cinese, dobbiamo dire che lei è abituata a vivere in campagna dove i bambini giocano fuori di casa e sono curati da tutti i vicini di casa. Anche in Italia nei paesi piccoli succede così. Abbiamo detto prima che le abitudini culturali sono importanti. Così la zia del bambino pensa di avere seguito una abitudine giusta e pensa che la condanna del giudice è sbagliata. Posso dire che la zia doveva capire che l’Italia non è la Cina e che la città non è la campagna. Quindi un lato positivo c’è se la zia del bambino ha imparato questa differenza».
Sulle tutele dei lavoratori
Ti è mai capitato un caso civile, magari una vertenza di lavoro?
«Mi ricordo un caso di lavoro, anche un po’ divertente. Un ragazzo sud americano lavorava in nero in un ristorante cinese. Un giorno litiga con il capo per lo stipendio basso. Voleva un aumento. Ma il capo dice di no. Allora il ragazzo va dai sindacati perché lavorava in nero e voleva i contributi. Il capo però ha detto di non conoscere il ragazzo e che non lavorava nel suo ristorante. Anche un testimone cinese ha detto che il ragazzo non lavorava nel ristorante. Però il ragazzo sud americano con il cellulare aveva fatto le foto e i video durante il lavoro. Adesso non so come è finita la causa, ma penso che il capo cinese è stato molto ingenuo. Forse perché in Cina ancora non c’è una grande tutela per i lavoratori. Ci sono anche in Cina delle buone leggi, ma poi spesso i capi fanno come vogliono. Però devo dire che anche il ragazzo ha sbagliato, perché non si può lavorare in nero. Lui doveva protestare subito non solo quando gli conviene, intendo moralmente non è giusto».
Per concludere, secondo la tua esperienza, cosa potrebbero fare le istituzioni per migliorare in generale i rapporti con i cinesi residenti in Italia?
«Allora, a parte qualche caso, non penso che le cose vanno male tra cinesi e italiani. Esiste nella lingua italiana una parola magica: comunicazione. Dobbiamo imparare prima a comunicare, perché senza comunicazione non nasce la fiducia e si rischia di andare su vie sbagliate. Così il governo, le regioni, i comuni devono informare i cinesi delle leggi e delle tradizioni italiane. Devono fare scuole di lingua italiana per i cinesi. Non è facile, ma è necessario. Adesso ci sono le seconde generazioni, i giovani cinesi che parlano bene l’italiano, hanno frequentato le scuole italiane e sono il nostro futuro. Però i cittadini italiani devono anche capire la cultura cinese. Questo è importante. Anche studiare la lingua cinese può essere utile. Come dicevamo prima, la persona cinese in generale ha paura di restare isolata dalla comunità. Così è importante che le istituzioni costruiscano una comunicazione con la comunità cinese, magari proprio con i giovani delle seconde generazioni».
Ma le sponde non si uniscono mai
L’ultima domanda. Come vedi la situazione dei bambini cinesi in Italia e come immagini il loro futuro?
«Di solito i bambini rimangono in Cina con i nonni, mentre i genitori sono in Italia per lavorare. Quando la situazione economica dei genitori migliora allora vengono portati in Italia anche i figli. Se i bambini sono ancora piccoli possono andare alle elementari con gli altri bambini italiani, perché imparano velocemente la lingua. Se invece arrivano qua già adolescenti allora è un problema grande perché devono ripartire da zero con la lingua, con le amicizie. Un’altra cosa. La maggior parte dei genitori cinesi in Italia non sono impiegati, ma fanno lavori manuali per molte ore al giorno, come dipendenti, ma anche come piccoli imprenditori. Con la crisi economica non hanno molti soldi e non possono mandare i figli alle attività di svago e culturali, molto utili per trovare amici e imparare la cultura italiana. Così dobbiamo creare delle opportunità culturali per questi bambini. Dobbiamo cominciare subito. Infatti per attraversare un fiume ci serve costruire una barca o un ponte non possiamo aspettare che le due sponde si uniscono da sole».
Gianni Scravaglieri
Curiosità / Gli ideogrammi
Vi rimandiamo al nostro «sfogliabile».
Infodossier:
Bibliografia italiana
Lidia Casti, Mario Portanova, Chi ha paura dei cinesi?, Bur 2008.
Raffaele Oriani, Riccardo Staglianò, I cinesi non muoiono mai, Chiarelettere 2008.
Donatella Ferrario, Fabrizio Pesoli, Milano multietnica, Meravigli edizioni, 2016. Il primo capitolo di questo bel lavoro è dedicato alla comunità cinese (27.363 persone).
Filmografia
Davide Demichelis, Cina: Malia Zheng, in «Radici», serie di documentari della Rai, giugno 2013 (www.radici.rai.it).
Francesca Bono, A Bitter Story, un documentario presentato al 34.mo «Torino Film Festival» (Tff), novembre 2016; storia di un gruppo di adolescenti cinesi che vivono nei piccoli comuni di Barge e Bagnolo, nelle valli occitane della provincia di Cuneo, dove la comunità cinese lavora quasi per intero nelle locali cave di pietra.
Sitografia
www.associna.com
Il sito dell’omonima associazione, in italiano e in cinese.
www.cinaforum.net
Il sito fondato da Alessandra Cappelletti, sinologa e collaboratrice di MC.
Autori
Questo dossier è stato firmato da:
Giovanni Scravaglieri – È docente di lingua e civiltà cinese nelle scuole della Lombardia. Scrive per la rubrica «Visto da Pechino» sulla testata giornalistica on line «Cinaforum.net». È tra I fondatori dell’Associazione Shuren per la diffusione della lingua e della cultura cinese in Italia.
Roberto Brancolini – Fotografo indipendente, ha scoperto viaggiando la sua passione per la fotografia. Si occupa prevalentemente di reportage. Il suo lavoro può essere visionato sul sito: www.brancolini.com.
Paolo Moiola, giornalista redazione MC.
Foto delle copertine: Chen Chen, ragazza cinese a Modena per seguire un corso universitario; giovane di origine cinese ad Assisi per un meeting organizzato dalla Tavola della Pace. L’ideogramma riportato indica il termine «guanxi», scritto in grafia tradizionale (non semplificata).
Italia risorse migranti
Da Trieste a Catania, dal Piemonte alla Calabria, decine di realtà lavorano per accogliere degnamente migranti e rifugiati, vedendo in loro una risorsa, costruendo insieme esperimenti di futuro possibile. Eccone alcune, tra musica, video, radio e case in affitto.
Mori e monti
«Fija mia pijlo pa, che chiel-lì a l’ha la barba» (figlia mia, quello non prenderlo, che ha la barba). Il canto comincia con la classica invocazione del genitore in disaccordo con le scelte sentimentali della figlia, la quale senza timore risponde per le rime. Strofa per strofa, il genitore diffida la testarda fanciulla dal maritarsi con chiunque le piaccia, e lei imperterrita risponde «ma ci vogliamo bene». Il testo è in lingua piemontese. Ma a far rivivere le canzoni popolari delle valli sopra Torino sono sette ragazzoni dalla pelle nera, provenienti da Senegal, Gambia, Ghana. Musa Jobe, Boto Samoure, Maurice Bathia, Alinho Barca Sabaly, Omar Sini, Saiku Senghore e Idrissa Lam sono arrivati come richiedenti asilo nel 2014 tra Pessinetto e Ceres, due paesini delle montagne in provincia di Torino.
«Sono valli chiuse, ed è chiusa anche la mentalità», racconta Luca Baraldo, torinese, trasferitosi qui nel 2009 insieme alla compagna Laura Castelli. «Abbiamo fatto di tutto per integrarci – dice – persino partecipare a un gruppo di canto popolare, che poi abbiamo abbandonato». All’arrivo dei profughi, la coppia si mobilita per cercare di dare un po’ di lezioni di italiano. «A un certo punto eravamo arenati», ricorda Luca. Difficile per due volontari, non professionisti, destreggiarsi tra A di albero e B di bacio con uomini che dall’apprendimento di quella lingua dovrebbero partire nel loro percorso di integrazione. «Abbiamo provato un’altra strada, imparare brani di cantautori italiani, ma nemmeno quello funzionava». Finché un pomeriggio Luca e Laura si mettono a canticchiare in dialetto.
«Le canzoni popolari hanno destato la loro curiosità. E abbiamo cominciato a trovarci per cantare. Inizialmente in 12 o 15, poi il gruppo si è un po’ scremato perché non tutti se la sentivano di fare concerti». Il numero si riduce a nove e nasce così il «Coro Moro»: «In piemontese “moro” vuol dire nero», aggiunge. Concerto dopo concerto, mescolando la tradizione montanara con il linguaggio universale della musica, il coro porta Maurice, Omar e gli altri a sentirsi «paesani delle valli di Lanzo». Alle canzoni popolari si aggiungono strofe ad hoc: «Figlia mia, non lo prendere, che quello lì è un moro»; e nascono nuove canzoni come il «valzer del clandestino». I concerti si moltiplicano e il pubblico aumenta, fino ai quattrocento bambini delle scuole elementari, ai brani cantati in apertura dei concerti dei Mau Mau, e alla collaborazione nel singolo «Sto con chi fugge» del nuovo album della band torinese. «La cosa buffa del Coro Moro è che è una specie di medicina», dice Luca, «perché cantare in piemontese spiazza la gente, soprattutto i razzisti. Vengono alla fine del concerto a dirci: “Ho capito che quello lì potrebbe essere mio figlio”». Di lavoro da fare, però, ce n’è ancora. A due anni dal loro arrivo, a Omar e Maurice capita, per la prima volta, di subire aggressioni: dalla macchina che rallenta per gridare «bastardo» alle ragazze che si affacciano dal finestrino lanciando noccioline. L’altro problema è quello dei documenti, ai quali il coro dedica la rivisitazione di un’altra canzone, l’incontro tra una pastorella e un ragazzo che, alla domanda «come va?», risponde «non mi hanno dato i documenti». Tra burocrazia, attese e ricorsi, l’ambizione del coro è creare un’opportunità reale non solo di fare cultura, ma di lavorare (CoroMoro ha una pagina su Facebook e un canale su Youtube).
«Ci siamo costituiti come Onlus», dice Luca, «e anche se gli incassi non sono molti, in queste valli si riesce a vivere con poco». Già, perché su quei monti i «mori», ci sono finiti per caso. Ma di lasciarli, ormai, non se ne parla.
Tecnologia per i diritti
Dalla tradizione alla tecnologia: a Catania, l’Arci si è messa in rete con un’associazione austriaca per realizzare, attraverso un finanziamento europeo, una video guida on line in sei lingue (italiano, inglese, francese, arabo, farsi e tigrino), consultabile anche dal cellulare, per spiegare, con un linguaggio semplice, i diritti dei migranti e le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Accompagnati da illustrazioni o semplicemente nella versione audio, i diversi capitoli della guida Asyl Easy (asyleasy.com) spiegano cos’è la protezione internazionale, quali sono i diritti dei minorenni che viaggiano soli, le conseguenze del Regolamento di Dublino, come funzionano gli incontri con le commissioni territoriali dove si presenta il proprio caso.
I primi a creare una videoguida sono stati gli austriaci dell’associazione Plattform Rechtsberatung, e oggi, a lavorare con le tecnologie e i social network per i diritti di chi cerca rifugio, sono sempre di più. Su Facebook il gruppo «Techfugees» cornordina gli sviluppatori che creano applicazioni e strumenti digitali per i rifugiati: da Refunite.org che aiuta a ritrovare i familiari dispersi durante il viaggio, fino al sito web in cui si può postare il proprio curriculum per cercare in Europa un’occupazione qualificata simile a quella che si aveva nel paese di origine (iamnotarefugee.com). Innumerevoli i gruppi Facebook in cui ci si scambia informazioni su come riuscire a portare a termine il viaggio verso l’Europa: dagli orari degli autobus a qual è il prezzo giusto di una corsa in taxi.
Così, mentre i confini vengono chiusi da nuovi muri o protetti con il lancio di gas lacrimogeni, su internet ci si aiuta a scavalcare le frontiere e farsi riconoscere nella pratica i diritti che sarebbero garantiti dalle convenzioni inteazionali.
Il paese che affitta ai braccianti
Al di là dello stretto di Messina, risalendo la provincia di Reggio Calabria fino alla piana di Gioia Tauro, c’è Drosi, una frazione di 800 abitanti del Comune di Rizziconi. Case basse allineate su poche strade intorno alla chiesa, cactus rigogliosi nei cortili, aranceti tutt’intorno, a tratti interrotti dai filari di kiwi, la nuova coltura che comincia a imporsi soppiantando il profumo delle zagare.
Al piano terra di un piccolo caseggiato, in una casa che divide con altri quattro ragazzi africani, vive Masimbo, un ex bracciante burkinabè che in italiano si fa chiamare Massimo. «Prima raccoglievo arance e mandarini, a giornata. Ora lavoro a Palmi, nella raccolta differenziata dei rifiuti, in regola», racconta con il viso che si illumina di orgoglio nel pronunciare le due parole: «in regola».
Contro una parete, le mountain bike sgangherate che servono per andare al lavoro. Contro l’altra, in fila, gli stivali di gomma verdi e marroni, sporchi del fango degli aranceti. Poi c’è un piccolo spazio con due letti e una tv, prima di entrare nel cucinotto comune: un tavolino, qualche mobile dispensa, fornelli e scaffali ingombri di pentole. Masimbo è uno dei 150 giovani africani che oggi vivono in case in affitto a Drosi.
Rosao, la tendopoli di San Ferdinando e la fabbrica occupata che insieme ospitano, in pessime condizioni igieniche, oltre mille braccianti durante la stagione della raccolta degli agrumi, distano da qui una decina di chilometri. Basta allontanarsi pochi minuti con l’automobile, tra gli aranceti, per trovare altri insediamenti di braccianti, precari e abusivi, in casolari abbandonati.
«Qui ogni famiglia ha i suoi emigranti, chi è andato in Germania, chi in Australia, senza più tornare a casa. È per questo che hanno capito il nostro progetto», racconta Francesco Ventrice, per tutti Ciccio, una delle colonne della Caritas di Drosi. È lui, insieme ad altri volontari, a proporre ai compaesani di sistemare i braccianti nelle case in affitto.
L’idea nasce nel gennaio 2010, nei giorni concitati che seguono la rivolta degli africani e le successive violenze e rappresaglie. Mentre le forze dell’ordine organizzano pullman per trasferire centinaia di immigrati tra Bari e Crotone, e molti altri lasciano la piana di Gioia Tauro in treno, diretti a Nord, a Drosi si decide di puntare sull’accoglienza. «Fin dal 2003 frequentavo gli africani, andavo in tutti i loro accampamenti per aiutarli, portare vestiti, ascoltare i loro bisogni», racconta Ventrice. I braccianti si fidano di lui. I compaesani, pure. Grazie alla fiducia e alla mediazione dei volontari della Caritas, i primi proprietari di case si convincono a mettere i propri spazi in affitto, a un prezzo concordato e abbordabile, ai giovani africani che, dato il clima di violenza, hanno paura a dormire in baracche e casolari isolati e stanno meditando di andarsene anche dai dintorni di Drosi.
Dalle quattro case messe a disposizione in fretta e furia in quei giorni si arriva, anno dopo anno, alle 19 attuali. «In ognuna delle case stanno cinque, sei, sette ragazzi. Il lavoro è stagionale, non tutti restano tutto l’anno. Ma a prescindere da quanti occupano l’appartamento, il pagamento è di 50 euro al mese». Fondamentale il costante lavoro di mediazione svolto dai volontari: «Le spese sono incluse, e spesso ci è capitato di dover spiegare che le luci e gli scaldini elettrici non si possono lasciare sempre accesi», racconta Ciccio, «ma quasi sempre le persone progressivamente si sono rese autonome, e oggi ci sono diversi ragazzi che abitano in case che hanno affittato da soli. Tanti si sono fatti conoscere in paese, e non serve più che siamo noi a fare da tramite». Lo conferma anche Masimbo: «All’inizio, quando noi passavamo per le strade, la gente chiudeva in fretta le finestre. Ora, invece, questo non succede più».
«Perché io ho una storia»
Dall’altra parte d’Italia, a Nord Est, vive Khodadad, afghano di trent’anni. È arrivato via terra dopo un’odissea durata dodici anni, tra rimpalli burocratici, tentativi di integrazione in Grecia interrotti dalle aggressioni fasciste dei militanti di Alba Dorata, respingimenti dall’Inghilterra a causa del regolamento Dublino, ore e ore di viaggio aggrappato sotto un tir fino all’arrivo in Italia con il volto nero di olio del motore, davanti agli occhi di un incredulo benzinaio.
«Quando avrò imparato l’italiano, vorrei fare un libro o un film sulla mia vita, perché ho una storia che non si può credere», dichiara. Intanto Khodadad, che sorride sempre e dopo pochi mesi parla già in modo fluente, inizia con la radio. Nel grande palazzo di Trieste in cui vive, in fondo a un viale alberato a due passi dal centro commerciale Julia, ogni martedì si riunisce la redazione di «Specchio straniero» (amisnet.org/programmi/specchio-straniero).
La trasmissione radiofonica, trenta minuti alla settimana pubblicati sul sito web dell’agenzia radiofonica Amisnet e mandati in onda anche da una rete di radio popolari e comunitarie in diverse parti d’Italia, è curata da Tomas, uno degli operatori del Consorzio Italiano di Solidarietà (l’Ong che gestisce il progetto di accoglienza in collaborazione con il Comune di Trieste), da Stefano Tieri, giornalista, e dai giovani richiedenti asilo: Khodadad, Chagatai, Satar, Daniel e tanti altri. Alcuni partecipano più assiduamente, altri sono ospiti solo per una puntata.
«Abbiamo creato uno spazio radiofonico per dare voce a quelli di cui tutti parlano, ma che non hanno mai spazio per parlare di se stessi», racconta Tomas. Ogni puntata comincia con la rubrica di Satar, giovane afghano che risponde, garbato ma determinato, ai commenti razzisti letti sui giornali. Poi c’è la poesia, prima nelle lingue d’origine e poi in traduzione italiana, una scelta musicale «sempre di autori indipendenti», precisa Stefano, «come quelli che ci hanno fatto la sigla». Infine, ampio spazio a un tema monografico, scelto di volta in volta insieme: dalle vicende migratorie della Balkan Route alla situazione del Kashmir, dal dibattito sul film di Gianfranco Rosi, Fuocoammare, alla puntata in cui la redazione si sposta a Gorizia per descrivere le condizioni di vita del centro di accoglienza.
Daniel, rifugiato e blogger, racconta la storia a causa della quale ha dovuto lasciare il Bangladesh: «Quest’anno sono morti cinque blogger per terrorismo, e il partito politico che è al potere è molto duro verso i dissidenti», spiega tra italiano e inglese. «Ci siamo resi conto che raccontare di sé è essenziale per l’integrazione», riprende Tomas, che insieme a Stefano ha messo insieme, a costo bassissimo, l’attrezzatura di base per realizzare le puntate: un computer con un software di montaggio, due microfoni, due cuffie e una connessione a internet.
«La maggioranza dei richiedenti asilo che arrivano a Trieste viene dall’Asia e in particolare dall’Afghanistan. Si tratta di giovani intorno ai 18 anni sui quali le famiglie investono per farli viaggiare, in modo che sfuggano alle minacce di arruolamento e alle violenze dei talebani», ricorda Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di solidarietà e rappresentante dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. E Satar traduce lo stesso concetto con parole sue nella rubrica della radio. «Qualcuno si chiede se abbiamo lasciato le donne e i bambini a casa a combattere – dice – ma non tutte le famiglie possono permettersi questi viaggi costosi e pericolosi. Bisogna fare delle scelte: se adesso è più pericoloso per me stare in Afghanistan, sono io che devo andarmene ad ogni costo».
I ritardi delle istituzioni
Con l’affermarsi della rotta balcanica e la tendenza di molti paesi a rifiutare la protezione umanitaria agli afghani, Trieste è diventata un punto di approdo. Accanto alla stazione c’è un deposito ora semi abbandonato, il silos, che dopo la Seconda guerra mondiale accolse i profughi italiani dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia e ora funge da alloggio precario per quasi tutti i giovani asiatici nei primi giorni dal loro arrivo, a volte anche per più tempo.
Una situazione che il Comune cerca di gestire per trasferire le persone prima possibile in appartamenti. I richiedenti asilo accolti in città sono circa 900 e da alcuni mesi è partito un progetto per ospitare chi ha già ottenuto i documenti presso famiglie, in modo da favorire la creazione di una rete di contatti e l’inserimento sociale. «Sono molti i progetti ben funzionanti in Italia», afferma Daniela Di Capua, direttrice del Servizio centrale dello Sprar, il Sistema di Protezione richiedenti asilo e rifugiati che cornordina le attività di accoglienza degli enti locali. È noto anche a livello internazionale il caso di Riace, in Calabria, paese che si è ripopolato grazie all’accoglienza. La Tent Foundation, in uno studio pubblicato nel 2016, ha sostenuto che per ogni euro speso dagli stati europei per i rifugiati ce ne saranno due di aumento del Pil. Intanto, però, è andata molto sotto le aspettative l’adesione dei Comuni italiani al bando per progetti di accoglienza Sprar nel 2016, e il 70% dei circa 100mila rifugiati nel nostro paese continua a essere accolto in centri straordinari, con un livello di servizi e possibilità di integrazione non sempre all’altezza. «I progetti di accoglienza possono dare occupazione e opportunità», riprende Daniela Di Capua. «Ma ci tengo a precisare una cosa: noi non accogliamo i rifugiati perché muovono l’economia. Li accogliamo perché abbiamo aderito a una norma internazionale che ci impone di proteggere chi fugge. E questa è una cosa che dovrebbe farci molto onore».
Giulia Bondi
Italia: italiani arcobaleno
Sono tre studenti universitari. Tre italiani con radici africane. Incontrandosi si rendono conto di avere qualcosa in comune. Trasmettere una consapevolezza dei propri diritti e doveri, distruggere alcuni stereotipi. Fondano un’associazione e hanno subito adesioni. Abbiamo ascoltato le loro voci.
«Ci siamo conosciuti a Padova, tra la mensa e le aule universitarie – ci dicono Ada, Emmanuel e Anabell -. Quando ci incontravamo capitava sempre di parlare della situazione degli stranieri qui in Italia. Venivamo tutti da realtà diverse eppure avevamo esperienze e pensieri molto simili; d’altronde i genitori africani cercano sempre di educarti in un certo modo, poi tu esci di casa e ti comporti in un altro! A forza di parlare di come volevamo cambiare le cose, delle ingiustizie viste e vissute o del fatto che le istituzioni ignorassero completamente una categoria di popolazione che è quella costituita dagli afro italiani come noi, abbiamo deciso di lanciarci in questo progetto». È nato così, nella primavera del 2015, Arising Africans, associazione con sede a Padova, che si è data la missione di riunire i giovani afro italiani, africani di seconda generazione, afro discendenti e, più in generale, afro simpatizzanti residenti in Italia per promuovere un’immagine più completa e veritiera del continente africano e della sua popolazione, decostruendo gli stereotipi. Ma non solo: «La nostra idea è quella di trasmettere una consapevolezza maggiore dei propri diritti e doveri a chi ha origini africane, per rafforzare la stima di sé nella società italiana». E ancora: «Vogliamo dire che l’Africa non ha bisogno della carità dei bianchi, vogliamo mostrarla alle persone per quello che è, fae conoscere la storia e i suoi personaggi al di là del colonialismo, di cui si è parlato troppo. Vogliamo che alla parola Africa si associno altre immagini e altre parole. Vogliamo inoltre dire alle istituzioni che noi ci siamo e che vogliamo lottare per affermare i nostri diritti. Vogliamo infine scuotere gli africani che vivono in Italia, dire loro di attivarsi perché abbiamo un obbligo morale verso la nostra comunità e la nostra cultura di origine». Parole consapevoli e determinate pronunciate dallo staff fondatore di Arising Africans composto da Ada, Emmanuel e Anabell, under-30, che con forza innalzano la bandiera del risveglio africano.
Africanismo 2.0
«Con risveglio africano intendiamo la costruzione dell’Africa di domani: una visione che chiamiamo anche africanismo 2.0, che non significa limitarsi a mettere «mi piace» sui social network, ma fare concretamente qualcosa. La costituzione di Arising Africans è un primo passo in questa direzione: gli studenti di origine africana che vivono in Italia saranno coloro che avranno la possibilità di influenzare le politiche di domani e noi sentiamo di avere la responsabilità di informarli correttamente su chi sono, da dove vengono e quali sono le loro risorse, spesso sottovalutate o persino ignorate».
Per farlo, usano soprattutto il web: il sito internet www.arisingafricans.com è aggiornato periodicamente con articoli su eventi promossi dall’associazione stessa, interviste o con le storie di illustri personaggi storici africani. I contenuti vengono poi rilanciati sulla pagina Facebook, dove alla rassegna stampa quotidiana sui temi cari all’associazione si alternano due rubriche originali: «Notizie dall’Africa», che riporta curiosità su cultura, folklore, storia e attualità del continente, e «Afro cliché» in cui si sfatano i miti più comuni.
L’afro italianità
«Per me Arising Africans rappresenta una svolta – spiega Anabell -. È arrivata l’ora che gli afro italiani siano riconosciuti per quello che sono, e cioè cittadini con una doppia cultura. L’armonia tra due o più bagagli culturali differenti, che abbiamo creato – a volte con fatica – durante il nostro percorso di crescita, rappresenta una potenzialità e una ricchezza. Non solo a livello sociale e linguistico, ma anche di carattere e personalità: ci siamo abituati a pensare in maniera laterale (pensiero in grado di prendere in considerazione punti di vista alternativi, flessibile, creativo, aperto a interpretazioni diverse della realtà, nda) e riusciamo ad adattarci facilmente. Arising Africans, quindi, è il modo che ho scelto per valorizzare sia la mia parte africana, che la mia parte italiana, in egual misura. E vorrei dire a tutti i miei coetanei afro italiani che si può essere sia l’uno sia l’altro senza vergognarsi».
«Ci sentiamo africani tanto quanto italiani, per noi è un dono quello di poter vivere e rappresentare entrambi i mondi – conferma Emmanuel, che aggiunge -, l’afro italianità è un concetto che non va definito con una formula: puoi avere entrambi i genitori africani o uno solo, puoi essere nato qui o altrove. Io, ad esempio, sono nato in Germania da una famiglia originaria della Repubblica democratica del Congo, ma vivendo in Italia da più di sei anni mi sento afro italiano tanto quanto Anabell che è arrivata a Pordenone a nove anni».
Eppure quello dell’afro italianità è il primo diritto a essere negato dalla società italiana. Secondo Ada i principali responsabili sono i media, che negli anni hanno costruito un’immagine distorta e strumentalizzata della figura dello straniero: «Più volte ho notato che viene fatta una distinzione non necessaria tra italiani, riconosciuti come tali, e afro italiani, chiamati stranieri o immigrati. Le parole con cui ci definiscono sono importanti, così come le immagini. Mostrare in tv un solo tipo di africano, a cui spesso si attribuisce un atto criminale, senza mai prendersi il tempo di presentare altro, come la realtà degli studenti di origine africana che frequentano scuole e università italiane, è una discriminazione che finisce per avere ricadute in altri ambiti della società, come quello del lavoro. Prendiamo l’esempio degli universitari: molti di loro per completare il percorso di studi devono fare uno stage in azienda. Ebbene, io conosco tanti studenti di origine africana che hanno avuto difficoltà a trovare uffici disposti ad accoglierli, per via della pelle nera e della diffidenza che questa continua a suscitare. Ma come biasimare il piccolo-medio imprenditore veneto, che quando accende la tv e sente parlare di Africa vede solo scene di bambini denutriti, calciatori alla moda o spacciatori? E ancora: sapete quanti sono gli afro italiani che lavorano nel mondo della cultura? Meno dell’uno percento: tutti gli altri sono confinati a lavori con bassa qualificazione. Questo, personalmente, è difficile da accettare considerando quanti sono gli studenti africani che si laureano ogni anno». Gli ultimi dati Almalaurea dicono che il 13% dei laureati con cittadinanza straniera, 3,4% sul totale della popolazione studentesca, proviene dall’Africa.
La negazione del diritto all’afro-italianità passa anche per un’altra, più sottile, discriminazione: «Quando qualcuno mi chiede da dove vengo e io rispondo che sono della provincia di Treviso, scatta l’incredulità – continua Ada -. Per soddisfare la curiosità del mio interlocutore devo aggiungere che sono di origine nigeriana e a quel punto, con un sospiro di sollievo, mi viene fatto notare che parlo davvero bene l’italiano! Purtroppo, soprattutto tra le persone più anziane ma non solo, esiste ancora una certa difficoltà ad accettare il fatto che io possa indicare come casa mia un paesino che si trova in Italia e che l’italiano sia – anche – la mia lingua».
Rapporto alla pari
«Li vediamo nelle piccole cose: quando qualcuno dei membri di Arising Africans ci dice che avrebbe voluto incontrare un gruppo come questo anni prima, quando non riusciva a convivere con la propria parte africana e se ne vergognava. Oppure quando scriviamo di uno dei grandi personaggi che hanno fatto la storia dell’Africa, perché sappiamo che è un piccolo seme che contribuisce a disegnare un altro immaginario del continente», spiega Emmanuel. E i vostri genitori che ne pensano? «Dicono che gli ricordiamo quando erano giovani. A differenza loro, però, che si sentivano stranieri e diversi, noi abbiamo più potere contrattuale: siamo cresciuti in Italia, ci sentiamo al pari dei nostri coetanei italiani e siamo perfettamente a nostro agio quando dobbiamo relazionarci con altre persone».
Serena Carta*
*Gioalista freelance, ha collaborato con Ong e agenzie delle Nazioni Unite. Ha curato la redazione dell’e-book «Guida introduttiva all’uso delle Ict per lo sviluppo». È tra gli autori del webdoc «Guinendadi – Storie di rivoluzione e sviluppo in Guinea Bissau» e cofondatrice di www.puntozerohub.com.