Sono circa le 3 di notte del3 ottobre scorso. A Pont Sondé, importante mercato agricolo della regione Artibonite, viene perpetrato uno dei più sanguinosi massacri di civili degli ultimi anni ad Haiti.
Un gruppo di banditi, chiamati «Gran grif», armati di pistole, mitragliatori e granate, provenienti da Savien, una località poco distante dove hanno la base, sono arrivati con il favore delle tenebre e hanno assaltato le case degli abitanti di Pont Sondé. Hanno ucciso la gente mentre dormiva, sparato a chiunque incontrassero sul loro cammino. Quindi hanno dato fuoco a una cinquantina di abitazioni, a oltre trenta automobili e a diversi magazzini. Si sono poi dileguati, lasciando dietro di loro la devastazione.
Questa gang (banda criminale in creolo) è una delle tante che controllano il paese. È comandata da un certo Luckson Elan, ma ne fa parte anche Ti Pay, originario proprio di Pont Sondé, dove è conosciuto.
Attacco annunciato
Voci di un possibile assalto giravano in paese da un paio mesi, dice il rapporto della Rnddh (Rete nazionale di difesa dei diritti umani). Si è trattato, infatti, di una rappresaglia, in quanto a Pont Sondé è attiva una milizia di autodifesa (pratica oramai comune in un Paese dove vige la legge della criminalità e la polizia non riesce a intervenire) chiamata la La Coalition (la coalizione), che era riuscita a togliere a Gran grif il controllo della strada nazionale numero 1. Questa, che passa da Pont Sondé, unisce il Sud, ovvero la capitale Port-au-Prince, al Nord del Paese, ovvero Cap Haitien (la seconda città di Haiti) e Port-de-Paix. La milizia aveva privato Gran grif degli importanti introiti del taglieggio operato su questa arteria fondamentale.
I membri della Coalition sono stati presi di sorpresa dall’incursione notturna, così come la locale stazione di polizia, i cui agenti non sono intervenuti.
Il bilancio è pesantissimo. Le vittime sono più di 70, tra loro bambini, donne, anziani, intere famiglie. Molti sono i dispersi e sono alcune decine i feriti da arma da fuoco o da taglio che hanno cercato soccorso nell’ospedale della città di Saint Marc, a 13 km.
L’assalto ha spinto alla fuga la popolazione verso la stessa Saint Marc, dove centinaia di famiglie si sono accampate per le strade e nella piazza Philippe Guerrier. Fonti delle Nazioni Unite parlano di 6.270 sfollati.
I padri dello Spirito Santo (Spiritani), che gestiscono l’unica parrocchia di Pont Sondé da decenni, sono stati evacuati da alcuni confratelli in una località più sicura. «Stanno bene fisicamente – ci dicono con un messaggio -, ma sono sotto shock e molto provati».
La voce dei vescovi
Intanto anche la Conferenza episcopale di Haiti fa sentire la propria voce, per mezzo del presidente, monsignor Max Leroy Mésidor, arcivescovo di Port-au-Prince. «La popolazione è all’ultimo respiro, chiede il soccorso dello Stato – dice il prelato all’agenzia stampa Alterpresse -. ll Paese è malato nel suo complesso, ma i dipartimenti dell’Ovest (dove si trova la capitale, nda) e dell’Artibonite (dove è avvenuto l’ultimo massacro), i più estesi di Haiti, sono messi ancora peggio. Mi chiedo se non ci sia un progetto segreto contro queste due zone, e contro la nazione intera». Il dipartimento dell’Artibonite, inoltre, coincide con la valle dell’omonimo fiume ed è il granaio del paese in termini di produzione di riso e altri prodotti agricoli.
L’arcivescovo se la prende con l’indifferenza delle autorità, che hanno abbandonato tutta la zona a se stessa: «Da circa due anni Petite Rivière de l’Artibonite, Liancurt, Pont Sondé sono alla mercé delle bande armate».
Nonostante le voci di un assalto imminente, inoltre, il dispositivo di sicurezza non era stato rinforzato.
«Faccio una domanda al Consiglio presidenziale, al governo, al capo della polizia: chi veglia sulla popolazione?», chiede l’arcivescovo.
Il governo di transizione
Attualmente Haiti è governata da un Consiglio presidenziale di transizione (Cpt), composto di 9 membri, che rimpiazza il Presidente (l’ultimo, Jovenel Moise è stato ucciso il 7 luglio 2021). La presidenza del Cpt è a rotazione, e dal 7 ottobre scorso è in carica l’architetto Leslie Voltaire. C’è inoltre un governo di transizione guidato da Gary Conille, in carica dal 12 giugno. Questo meccanismo, voluto dalla comunità internazionale, non ha per ora sortito grandi effetti sul terreno.
Tre membri del Cpt, inoltre, sono già sotto accusa di corruzione da parte dell’Unità per la lotta contro la corruzione di Haiti.
Da fine giugno scorso, inoltre, è arrivato un contingente di 400 poliziotti dal Kenya, a cui si sono poi aggiunti 24 giamaicani, nell’ambito della Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza, approvata dalle Nazioni Unite nell’ottobre 2023. In realtà la missione prevista dovrebbe contare circa 3.100 effettivi da diversi paesi dell’area centroamericana e dell’Africa.
Ancora monsignor Mésidor: «Perché, nonostante la forza multinazionale sia nel Paese, la situazione è peggiorata? […] Quante località devono ancora cadere [nelle mani delle gang] affinché [chi governa] mostri che c’è una sensibilità per il popolo? Questa transizione non è una rottura con il passato. Si stanno facendo le stesse cose: stessi scandali, stessi problemi, stessa indifferenza»
Secondo le ultime cifre delle Nazioni Unite, a livello nazionale, 703mila persone sono sfollate dal 2023 a causa delle violenze, mentre sono 5,3 milioni sono gli haitiani a rischio sicurezza alimentare acuta, ovvero quasi la metà della popolazione. Gli assassinii, da gennaio a settembre di quest’anno, sono stati 3.661 e le armi in possesso alle gang arrivano grazie a traffici dagli Stati Uniti.
Marco Bello
Somalia. Sognando la normalità
Uno Stato debole ma che c’è, e ha promesso di sconfiggere i fondamentalisti entro un anno. Occorre rilanciare l’economia piegata da tre decadi di guerra. Forse questo sarà un anno di svolta. Intanto cresce l’influenza della Turchia. E l’Italia che fa?
I fucili mitragliatori a tracolla pronti a essere utilizzati. Addosso elmetti e giubbotti antiproiettili in kevlar. Gli sguardi sempre puntati intorno, verso possibili minacce. Gli agenti della scorta sono all’erta. Hanno l’adrenalina al massimo anche se, per loro, questa è una missione come un’altra in una delle città più pericolose del mondo: Mogadiscio, la capitale della Somalia. Sono una decina sul pick-up che ci precede. Un’altra ventina sui due mezzi che ci seguono. Tra noi e loro il fuoristrada del comandante della scorta, un sudafricano alto due metri e massiccio come una roccia. «Qualsiasi cosa succeda – dice prima di partire -, non scendete dal fuoristrada se non ve lo ordino io. E, una volta a terra, continuate a seguire le mie indicazioni». Questo è quanto attende un europeo che voglia lasciare il compound dell’aeroporto di Mogadiscio per avventurarsi in città.
Lo scalo, costruito dagli italiani e ristrutturato dai turchi, è una sorta di città fortezza dove c’è di tutto: alberghi, negozi, aziende. La struttura è protetta da mura solide sormontate da chilometri di filo spinato. Rinunciare alla scorta è impossibile: militari, contractors o uomini di compagnie di sicurezza devono accompagnare qualsiasi convoglio sia all’interno dell’aeroporto sia all’esterno.
Appena fuori dall’hotel, troviamo un primo posto di blocco con sbarre, gestito da soldati ugandesi armati con Ak-47. Poi un altro, sempre composto da soldati ugandesi. A fianco delle sbarre un mezzo dell’Unione africana simile agli Iveco Lince in dotazione delle forze armate italiane. Più avanti un altro blocco. Questa volta la colonna è costretta, da una fila di jersey in cemento a rallentare drasticamente e a fare una serpentina. Si entra in città.
Mogadiscio è viva
L’immagine che avevamo prima di arrivarci era quella di una metropoli spaventata, chiusa in sé, con poco traffico e poca gente. Invece le strade sono piene di uomini, donne, animali (soprattutto capre e asini). Ai bordi, piccoli mercati, negozi, locali affollati. C’è un continuo viavai di piccoli taxi apecar. Mogadiscio è viva. C’è fermento.
Certo le strade sono malridotte, sporche (anzi, sporchissime), il traffico è caotico, ma non è una metropoli spenta. Nell’aria, però, c’è una tensione palpabile. Ogni volta che il nostro convoglio rallenta o si ferma, gli uomini della scorta saltano giù dai mezzi e controllano intorno. Raggiunta la nostra meta, un’altra scena di guerra. Tutti gli uomini della scorta saltano giù dai mezzi e bloccano la via. La nostra jeep entra nel compound e, solo dopo che i nostri uomini hanno accertato che le condizioni sono buone, possiamo scendere.
La portiera del mezzo pesa moltissimo. Si fa fatica ad aprirla, la blindatura è consistente. Dopo una breve sosta, dobbiamo andare verso un’altra meta.
Passiamo il Km4, rotonda già teatro di attentati di al-Shabaab. Poco più in là. Due camion ostacolano la strada. Li superiamo. Poi, uno, due, tre colpi di arma da fuoco. La colonna prosegue, ma arriva l’ordine: «Rientrare!». Più avanti, ci viene detto, c’è una manifestazione di studenti. La polizia ha sparato per disperdere i manifestanti. La colonna fa dietro front. Ci aspettano ancora i posti di blocco. Rientriamo nella nostra bolla di sicurezza.
Sconfiggere al-Shabaab
La Somalia vive ancora nell’insicurezza. Nonostante il governo guidato dal presidente Hassan Sheikh Mohamud, sostenuto da Usa, Unione africana, Unione europea e Turchia, abbia lanciato un’offensiva a tutto campo contro al-Shabaab, le milizie fondamentaliste legate ad al-Qaeda hanno ancora molte basi nell’entroterra. Covi dai quali lanciano continuamente attacchi contro le istituzioni e le caserme federali.
«Nell’arco di un anno – ha detto il capo dello Stato – sconfiggeremo gli islamisti». Un ottimismo forse eccessivo, ma al quale la popolazione vuole dare credito. «Il nostro presidente ha detto che al-Shabaab sarà sconfitto nell’arco di un anno. Io penso che ce ne vorranno almeno due per eliminare le milizie fondamentaliste». Non ha dubbi Jamila, giovane insegnante somala. Secondo lei il destino della filiale locale di al-Qaeda è segnato.
Al-Shabaab arruola giovani poveri, non istruiti, con nessuna formazione professionale né lavoro. Al-Shabaab ha promesso loro una vita migliore e loro ci vedono un’opportunità.
Sono ragazzi vittime di anni in cui la Somalia era uno Stato senza autorità, senza legge, senza servizi per la popolazione. «Oggi – continua Jamila – le cose stanno cambiando. Lo Stato c’è, anche se è debole. Le scuole hanno riaperto. I ragazzi e le ragazze possono studiare. Persone istruite e con un lavoro non hanno interesse ad aderire a una formazione estremista che offre, ora lo sappiamo, un’unica prospettiva, quella della morte, della violenza e della distruzione».
I militari hanno ottenuto numerosi successi sul campo. La vera incognita è se riusciranno da soli a respingere l’offensiva di al-Shabaab. Le forze Atmis (African union transition mission in Somalia, è la missione dell’Unione africana che ha sostituito la precedente, Amison nell’aprile 2022, ndr) hanno infatti annunciato che, gradualmente, si ritireranno lasciando la sicurezza interamente in mano ai somali. «Gli attentati, anche nella capitale, sono sempre dietro l’angolo – conclude l’insegnante -. Il futuro però è segnato. I fondamentalisti saranno sconfitti nei fatti e noi potremo tornare a essere un Paese normale che si gioca il suo futuro sui binari della pace e dello sviluppo. A partire dai giovani».
Sicurezza ed economia
Se la sicurezza è una priorità del governo somalo, il rilancio dell’economia è altrettanto fondamentale. Più di trent’anni di guerra civile hanno messo al tappeto un sistema economico già fragile. Eppure le risorse per il rilancio non mancano. Il Paese può contare su un mare pescoso, su un allevamento di animali (cammelli soprattutto) molto forte, su risorse naturali (petrolio), terreni fertili (vicino ai principali corsi dei fiumi).
Il 2023 potrebbe poi essere un anno di svolta per la Somalia anche per il riconoscimento internazionale della ristrutturazione del suo debito estero. «La Somalia potrà tornare sul mercato internazionale per ottenere fondi – osserva Ygor Scarcia, responsabile a Mogadiscio di Unido (agenzia Onu per lo sviluppo industriale -. Si tratta di un segno importante per l’intero Paese. Mogadiscio dovrà però essere capace di investire questi fondi secondo priorità precise evitando gli errori del passato. Un passaggio nel quale la Somalia dovrà dimostrare serietà e nel quale la comunità internazionale dovrà accompagnare le autorità locali».
Presenza turca
A lavorare attivamente in Somalia c’è la Turchia. Ankara ha scommesso sul Paese quando era ancora quasi interamente in mano ad al-Shabaab.
Era il 19 agosto 2011, in pieno Ramadan, quando Recep Tayyp Erdogan atterrava nella capitale somala, accompagnato da moglie e figlia, dai suoi ministri e dalle loro famiglie, portando con sé una parte dei 250 milioni di dollari raccolti in Turchia da privati cittadini a sostegno dell’appello contro la carestia.
Un gesto che fece scalpore e fu seguito da altre azioni di soft power come la concessione di borse di studio, la possibilità offerta ai giovani somali di studiare in università turche, aiuti alle regioni più svantaggiate economicamente, ecc.
Alla Turchia si sono aperte le porte della Somalia. Le aziende di Ankara hanno ristrutturato l’aeroporto e il porto di Mogadiscio. Molti nuovi quartieri della capitale sono stati ricostruiti da imprese edili turche.
E l’Italia? L’ex potenza coloniale quale ruolo può avere nel rilancio della Somalia? «L’Italia – ha detto Hamza Abdi Barre, premier somalo, intervenuto al forum Somalia economic conference che si è svolto Mogadiscio il 30 e il 31 maggio – in passato ha sostenuto l’agricoltura somala e ha permesso al nostro Paese di godere di maggiore sicurezza alimentare. L’Italia deve continuare su questa strada per garantire stabilità e sviluppo».
Il governo somalo spera che l’Italia diventi il principale investitore nel Paese. «Stiamo lavorando per garantire stabilità e sicurezza combattendo al-Shabaab – ha osservato -. Questa conferenza può e deve essere un punto di partenza per rafforzare i legami tra i nostri Paesi».
Gli ha fatto eco Abdirizak Osman Giurile, consigliere del presidente somalo per la democratizzazione e il buon governo e incaricato di sostenere il capo dello Stato nelle relazioni con il nostro paese. «Il rapporto con l’Italia – ha detto all’agenzia InfoMundi – negli ultimi trent’anni ha avuto alti e bassi. Ora non va male. L’incontro dei vertici italiani e somali a febbraio a Roma è stato un momento importante».
Il funzionario ha però lamentato uno scarso impegno economico italiano. «Uno stanziamento di 20 milioni è troppo basso. Lo ha riconosciuto lo stesso ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani. L’Italia deve fare di più e sostenerci nei settori di punta della nostra economia».
Anche sotto il profilo culturale i somali chiedono un maggiore intervento italiano. «Chiediamo – ha sottolineato ancora Giurile – che l’Italia riattivi e riattualizzi l’accordo del 1973 che prevedeva un sostegno economico importante per aiutare la nostra università, finanziando gli stipendi dei professori e le attrezzature per le facoltà. Il Governo di Roma ha detto che lo farà. Stiamo aspettando».
L’Italia tornerà?
Da parte italiana c’è stata un’apertura. Alberto Vecchi, ambasciatore d’Italia in Somalia, ha dichiarato sempre all’agenzia InfoMundi: «Questa conferenza è il frutto di un impegno che il presidente somalo ha preso nel corso della sua visita a Roma. Sono felice che siamo riusciti a dare seguito a quell’impegno. La Somalia ha relazioni speciali con il nostro Paese che affondano le radici nella storia, e che sono proseguite nel tempo».
Il paese africano, secondo il diplomatico, è unico per la sua posizione particolare e per le sue grandi risorse naturali: «Vogliamo contribuire a dare alla Somalia la possibilità di sfruttare queste risorse e diventare un importante punto di riferimento per la regione».
«L’Italia ci ha lasciato, perché? Perché da trent’anni non investe più da noi? I legami antichi sono spariti?», così parla un vecchio professore somalo che insegna italiano all’università di Mogadiscio. Nelle sue parole c’è il rimpianto per una vecchia amicizia che c’era un tempo e che oggi sembra appannata.
«Ve ne siete andati – osserva – e ora il vostro posto è stato preso da altri. I turchi soprattutto. In Somalia c’erano molte imprese italiane, ma adesso è tabula rasa. Non c’è più nulla. Eppure le opportunità ci sono. La comunità somala in Italia è grande e può fare da ponte tra le due nazioni. L’amore per l’Italia non è svanito».
Se gli si fa notare che la Somalia è un Paese instabile in cui molte regioni sono ancora sotto il giogo dei fondamentalisti islamici, lui risponde duro: «I turchi sono venuti qui nel periodo peggiore. Non c’era sicurezza, né possibilità economica. Ma loro c’erano, voi siete spariti. Tornerete? Me lo auguro. La nostra storia è la vostra e viceversa. Non possiamo dimenticarlo».
Enrico Casale
Haiti: Una vita in lockdown
Il paese dei Caraibi, nel Settecento la colonia più ricca al mondo, e seconda nazione indipendente delle Americhe, oggi vive una situazione di «stato fallito». Non è una questione di sfortuna. Le cause storiche e geopolitiche sono precise e definite.
È la notte tra il 6 e il 7 luglio 2021. Un commando di una trentina di uomini vestiti di nero si introduce nella residenza del presidente della Repubblica di Haiti, Jovenel Moise, senza sparare un colpo. Giunti in camera da letto, scaricano raffiche di mitragliatore sul presidente, poi infieriscono brutalmente sul suo cadavere. La moglie Martine resta ferita e, evacuata a Miami, si salverà. Le macabre immagini del corpo martoriato fanno il giro dei social, a bella mostra di quanto è successo.
Chi era Jovenel Moise
Moise era espressione della classe borghese del paese, in particolare dei neo arricchiti, non delle famiglie dell’oligarchia storica. Lui aveva fatto i soldi con l’agro business, l’export delle banane, e per questo era chiamato Nèg banann, in creolo, l’uomo delle banane. Era succeduto al presidente Michel Martelly (2011-2016), come suo candidato designato, del suo stesso partito, il Partito haitiano tèt kale (Phtk), di estrema destra, filo duvalierista. Aveva inizialmente perso le elezioni contestate (ottobre 2015) e, dopo un anno di transizione, con il presidente a interim Jocelerme Privert, era stato eletto nel novembre 2016 entrando in carica il 7 febbraio 2017 (cfr. MC aprile 2017).
Moise, in contrasto con la Costituzione, aveva poi evitato di organizzare le elezioni alle scadenze fissate, sia per gli eletti locali, che per il parlamento, il cui mandato si era concluso nel gennaio 2020.
Da allora legiferava per decreto, intervenendo anche su aspetti molto delicati delle istituzioni haitiane. Stava inoltre preparando una riforma costituzionale – percorrendo però una procedura anticostituzionale – che avrebbe aumentato ulteriormente i poteri del presidente.
La popolazione lo aveva duramente contestato già nel 2018 e poi di nuovo, con manifestazioni che avevano bloccato il paese, dall’autunno 2019.
C’era pure una diatriba sulla scadenza del suo mandato, che sarebbe stata il 7 febbraio 2021, ma che lui aveva portato al 2022, giocando su un’ambiguità costituzionale (cfr. MC marzo 2021).
Il dopo Moise
All’indomani dell’efferato assassinio, che sciocca il paese, si innesca una contesa a tre per la gestione della transizione. I protagonisti sono: Claude Joseph, primo ministro in carica, ma sfiduciato dallo stesso Moise che due giorni prima di essere ucciso aveva designato una nuova figura, il dottor Ariel Henry, a succedergli. Il secondo è Henry stesso, che rivendica la nomina. Infine il terzo è Joseph Lambert, presidente di un terzo del senato (composto da dieci senatori, un terzo del totale, non scaduti, perché la Costituzione ne prevede il rinnovo di un terzo ogni due anni), le uniche cariche elette rimaste nel paese.
La Costituzione del 1987, emendata, prevederebbe (art. 149) che, in caso di vacanza improvvisa del capo di stato, sia il presidente della Corte di Cassazione a prendere la guida del paese, ma il giudice René Sylvestre è morto un mese prima dell’omicidio, a causa delle complicanze del Covid-19.
Come spesso è accaduto nella storia di Haiti, è un intervento esterno che prevale su tutti. Il cosiddetto Core Group (coordinamento delle ambasciate di Germania, Francia, Stati Uniti, Canada, Spagna, Unione europea, e rappresentanti di Organizzazione degli stati americani, e Nazioni Unite), i paesi «amici» di Haiti, appoggia apertamente Ariel Henry, che diventa dunque premier de facto di un governo de facto. Esso infatti non potrà essere validato da un parlamento, che non esiste, e non potrà gestire il potere esecutivo insieme a un presidente della Repubblica che non c’è. Un «deserto istituzionale» senza precedenti.
Un popolo in ostaggio
La morte violenta del presidente fa precipitare la già precaria situazione di sicurezza del paese. Se le gang (bande armate di malviventi, in creolo) sono sempre esistite, e negli ultimi anni erano diventate più forti, adesso si dividono il controllo di gran parte del territorio, nella capitale come nelle principali vie di comunicazione.
La gang di Jimmy Chérisier, detto Barbecue, che si fa chiamare G9 an fanmi ak alye (Gruppo 9 in famiglia e alleati), nei mesi di ottobre e novembre 2021 arriva a impedire la fuoriuscita delle autobotti dal terminale petrolifero di Varreux (gli autisti sono uccisi o rapiti), bloccando di fatto il funzionamento del paese per mancanza di carburante. I prezzi dei trasporti e di tutti i generi alimentari, anche di base, si impennano e molti servizi, inclusi ospedali e banche, devono chiudere. Gran parte dell’energia elettrica ad Haiti è infatti prodotta da centrali termiche e da gruppi elettrogeni privati.
Barbecue, vicino al presidente assassinato Moise, chiede le dimissioni di Ariel Henry. Poi, quasi fosse il capo di stato, pubblica un video in cui dichiara una tregua di una settimana, in onore della battaglia di Vertières (18 novembre 1803: la vittoria dell’esercito «indigeno» contro l’armata napoleonica, porta all’indipendenza), lasciando uscire i camion dal deposito. Nello stesso video dice di essere a capo di un gruppo rivoluzionario, denuncia la fame del popolo e dunque chiama i suoi seguaci a prendere le armi perché «la rivoluzione sta per cominciare».
Nella festa di commemorazione della morte di Jean-Jaques Dessalines, padre della patria, il 17 ottobre, la stessa gang impedisce al primo ministro de facto, al capo della polizia Léon Charles (che si dimetterà a fine ottobre), e al loro seguito, di svolgere la cerimonia di suffragio. I suoi uomini attaccano la scorta che batte in ritirata, e in seguito Chérisier in persona, a volto scoperto e in giacca bianca, deposita una corona di fiori alla base della stele che ricorda l’assassinio di Dessaline a Pont Rouge (Port-au-Prince).
Rapimenti
Un’altra gang famosa, la 400 Mawozo, controlla l’uscita Nord della capitale e la strada principale verso la frontiera con la Repubblica Dominicana. È nota per alcuni rapimenti di massa. Il 16 ottobre compie un salto di qualità, sequestrando 17 stranieri (16 statunitensi e un canadese), missionari protestanti legati all’organizzazione Usa Christian aid ministries. Il rapimento di stranieri, che finora non è una pratica frequente, è la punta dell’iceberg di un fenomeno che si è esteso a tutti i livelli sociali. Chiunque può essere rapito, e i riscatti richiesti variano da decine di migliaia di dollari a milioni. Spesso, se il riscatto non è pagato, il malcapitato viene ucciso.
«I rapimenti sono una media di quattro, sei al giorno, mentre abbiamo contato una media di cinque omicidi al giorno nei primi sette mesi del 2021», ci dice Antonal Mortimé, segretario generale di Defenseur plus, associazione per la difesa dei diritti umani ad Haiti.
«La situazione è molto peggiorata dopo l’assassinio del presidente Moise, e la gente vive un clima di terrore quotidiano. Possiamo dire che il diritto alla vita è negato, in questo momento, nel paese».
Mortimé, contattato telefonicamente, ci descrive la mappa delle gang che controllano la capitale Port-au-Prince, a Nord, Nord-Est, Sud e al centro: «Siamo circondati, siamo presi in ostaggio in modo collettivo. Abbiamo paura di portare i bambini a scuola, di andare all’Università, o al lavoro. Poi ci sono tante micro gang, in guerra tra di loro».
E continua: «Ariel Henry non ha saputo ristabilire l’autorità dello stato, la sicurezza, la fiducia dei cittadini».
Un popolo sotto controllo
«Non è un fenomeno di oggi, i gruppi armati erano presenti già 30 anni fa», ci ripete una fonte autorevole haitiana, che chiede l’anonimato, perché «qui ti ammazzano per molto poco». «Le gang sono organizzazioni paramilitari, come erano i Macoute al tempo dei Duvalier, create per controllare la popolazione. Sono i grandi proprietari terrieri e i grandi padroni dell’import-export che, in accordo con il potere fascista (del partito Phtk, nda), hanno messo in piedi e controllano le gang. Fanno parte dell’azione repressiva del Phtk».
Alcuni osservatori sostengono che questi gruppi armati stiano andando fuori dal controllo di chi li ha creati e finanziati. Il nostro interlocutore non è d’accordo: «Le gang si scontrano con la polizia, ma questa è una contraddizione secondaria. Ci sono battaglie tra gang per il controllo del territorio, dei traffici di droga, ma anche questo è secondario rispetto alla repressione perpetrata ai danni della popolazione. Ci sono gang che tentano di diventare autonome, ma non ci riusciranno. L’imperialismo (intende il controllo esercitato da parte dei paesi vicini, gli Usa in primis, nda), che ha l’ultima parola, non lo permetterà, come è già successo tante volte in America Latina».
E continua spiegando l’approccio comunicativo delle gang: «A volte i loro leader dicono che lottano per la popolazione, come Chérisier, che va in video e accusa i borghesi, e dice di volere le dimissioni del primo ministro Ariel Henry. Ma è l’esatto contrario. Se davvero volessero, potrebbero andare a prenderlo quando vogliono, perché sono più forti della polizia».
In effetti le forze di sicurezza, sebbene siano state formate per decenni dalle Nazioni Unite (missione dei caschi blu Minustah dal 2004 al 2017, preceduta dalla Minuha 1993-96, e oggi sostituita dalla più leggera Binuh, Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti), sono incapaci di opporsi alle bande, e spesso i poliziotti vengono ammazzati. Anche le neonate Forze armate d’Haiti, sciolte dal presidente Jean-Bertrand Aristide nel 1994, e ricostituite da Jovenel Moise nel 2017, non hanno mezzi né risorse.
La piramide del potere
«Ad Haiti – continua il nostro interlocutore – esiste una borghesia industriale, ma è dominata dalla borghesia del commercio (o dell’import-export) che è molto forte e blocca lo sviluppo industriale.
Questa classe dominante non ha però la forza di eliminare il sistema precapitalistico, ovvero quello dei latifondisti, in quanto ha bisogno di loro, sia per la produzione di alimenti da esportazione (caffè, zucchero, banane…) sia per reprimere le rivendicazioni popolari dei piccoli contadini.
D’altro lato l’influenza imperialista, soprattutto statunitense, ma anche canadese, francese, che si appoggia su questa classe dominante, ha dei chiari progetti per il paese».
Si riferisce a quattro settori strategici principali: le zone franche con le manifatture del tessile (aree industriali libere da tasse, delle quali abbiamo parlato in MC gen-feb 2014 e maggio 2016); l’agro industria; le ricchezze del sottosuolo e il turismo di alta gamma.
Manifattura tessile
Le zone franche del tessile fanno parte di una strategia delle multinazionali su Haiti da decenni. Sono state ulteriormente spinte dalla famiglia Clinton (Bill e Hillary) come strategia di ricostruzione dopo il terremoto del 2010. Nel giugno di quell’anno Bill Clinton divenne co-presidente, insieme al primo ministro Jean-Max Bellerive, della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti. Ma di fatto comandava lui. La grande zona franca industriale di Caracol, nel Nord del paese, ad esempio, ha visto un grosso coinvolgimento di Hillary. Inaugurata nell’ottobre del 2012, è gestita da manager e capitali sudcoreani (per Clinton-Haiti si veda MC gen-feb 2014). Altre aree sono quella di Ouanaminthe (Codevi), al confine Nord con la Repubblica Dominicana, comoda per portare i manufatti direttamente oltre frontiera, e alcune più recenti a Santo (Croix-de-Bouquet, Nord della capitale), la Apaid & Baker Sa, e Carrefour (a Sud), la Palm Apparel, oltre a quella storica nei pressi dell’aeroporto di Port-au-Prince, la Sonapi. In tutte queste zone industriali, libere da tasse, vengono assemblati vestiti per i grandi brand statunitensi e non solo. Si tratta di un grande serbatoio di manodopera a bassissimo costo, a due passi dagli Stati Uniti.
Il punto cruciale, più in generale, sta nel costo del lavoro. Il salario minimo dignitoso è una lotta affrontata a più riprese dai sindacati haitiani, in particolare nel tessile, ma non solo.
Un sindacalista ci racconta: «Oggi il salario minimo è di 500 gourde al giorno, che al tasso di cambio attuale equivale a 5 dollari. Nel 2009 era di 70 gourde (1,75 dollari con il cambio dell’epoca), ma noi ne chiedevamo 250 (6,25 Usd). Uno studio di economisti haitiani e statunitensi indipendenti, aveva calcolato che per far vivere una famiglia di quattro persone, undici anni fa occorrevano 1.100 gourde al giorno (27,50 usd). Ce ne concessero 125 (poco più di 3). Oggi l’operaio del tessile salta sistematicamente il pranzo, bevendo un goccio di kléren (distillato grezzo di canna da zucchero, dal costo irrisorio, nda) per resistere al pomeriggio. Altrimenti non porterebbe a casa nulla. Inoltre, sono quasi tre anni che il salario minimo non è stato rivisto, mentre la svalutazione della moneta nazionale è stata elevata».
Agro industria
La borghesia agro industriale è un gruppo socioeconomico che sta emergendo. Ne era espressione lo stesso Jovenel Moise. Un caso esemplificativo è l’area di Savane Diane, dove l’imprenditore Clifford Apaid (di una delle famiglie più ricche di Haiti) sta impiantando la sua compagnia Stevia agro industries (Stevia Sa), per un investimento stimato di 250 milioni di dollari (1). Su circa 8mila ettari, a cavallo di tre dipartimenti, la cosiddetta Export processing zone, produrrà manioca, zucchero di canna, avocado e stevia. La stevia (s. rebaudiana) è un dolcificante ipocalorico naturale molto utilizzato nei paesi ricchi in sostituzione dello zucchero, ad esempio è usato dalla Coca-Cola per le bibite in versione light. L’area, chiamata «Zone franche agro industrielle d’exportation de Savane Diane», è stata creata grazie a un decreto presidenziale (di Moise) dell’8 febbraio 2021, che la definisce una «zona franca» ovvero «tax free zone», o zona senza tasse. Il decreto ha reso operativo un accordo firmato tra il Consiglio nazionale delle zone franche (Cnzf), rappresentante lo stato haitiano, e Nina Apaid, presidente della Stevia Sa, nell’ottobre 2019. L’operazione prevede l’esproprio di terre ai piccoli contadini e il loro impiego come braccianti (a salario minimo).
Nel decreto salta all’occhio la frase: «Considerando l’impegno delle autorità pubbliche di prendere tutte le misure necessarie per promuovere lo sviluppo socio economico del paese, in particolare attraverso la realizzazione di zone franche».
Il sottosuolo
Una risorsa non ancora sfruttata, ma presente nel paese, è quella mineraria. Secondo diverse prospezioni, fatte in Haiti e in Repubblica Dominicana (Rd), è presente una ricca vena che taglia l’isola di Hispaniola da Nord Ovest al centro, passando per Santiago (Rd). Sono stimate buone quantità di oro, argento e rame.
Alcune multinazionali che sfruttano già il sottosuolo in Rd, hanno fatto prospezioni ad Haiti, stanno firmando accordi di sfruttamento e stanno procedendo all’installazione di siti estrattivi (2). Naturalmente questo sta causando l’esproprio di terre ai piccoli contadini, i quali hanno dato vita al Komite jistis min (in creolo: Comitato giustizia miniere), per opporsi allo sfruttamento indiscriminato delle imprese minerarie internazionali. Attualmente si tratta di zone nel Nord Est del paese, come Grand Bois e Morne Bossa.
L’ultima frontiera
L’ultimo ambito dello sfruttamento del paese da parte di compagnie internazionali, in joint-venture con l’oligarchia locale, è quella del turismo di alta gamma. Ne avevamo parlato in MC (gen-feb 2014) quando ci eravamo chiesti perché parte dei soldi per la ricostruzione post terremoto 2010 erano stati impiegati per costruire grandi hotel di lusso. Oggi il processo continua: «Ci sono compagnie straniere in diverse zone di interesse turistico. Parlo delle isole Tortue (Nord), Gonave, e poi Mole St. Nicolas e di altre spiagge notevoli. Stanno facendo gli studi per impiantare dei resort. E per far questo manderanno via i contadini e assumeranno personale pagandolo con il salario minimo. Un’ulteriore proletarizzazione del produttore agricolo haitiano», rincara il nostro interlocutore.
«Il grosso problema in tutto questo, è che l’opposizione liberale, oltre ovviamente la destra al potere, non mettono in discussione questi mega progetti né il salario minimo». La mano d’opera a bassissimo costo, oltre che la svalutazione continua della moneta nazionale, è infatti il propulsore dello sfruttamento delle risorse naturali e umane di Haiti.
Perché uccidere il presidente
Torniamo da dove siamo partiti. Perché il presidente Jovenel Moise è stato ucciso e perché con modalità tanto efferate?
Le analisi concordano su un regolamento di conti interno alla classe politica dominante, allo stesso partito Phtk di Michel Martelly e Jovenel Moise.
Un attivista haitiano nel settore dei diritti umani, da noi contattato, che ci ha chiesto pure lui l’anonimato, si esprime così: «Si tratta di un vasto complotto, ben pianificato, che vede coinvolta la mafia haitiana e quella internazionale, insieme a quella che chiamiamo borghesia conservatrice e classe politica tradizionale haitiana. Moise ha sfidato quelli che chiamiamo gli oligarchi, le grandi famiglie più ricche di Haiti, anche se per accedere al potere ha avuto il loro supporto. Ha tentato di sfidarli, riducendo il loro margine di manovra, togliendo certi privilegi, aumentando alcune imposte. Tutto ciò ha prodotto una reazione fino al complotto. Sono passati attraverso la stessa Guardia presidenziale, i cui membri sono stati pagati affinché consegnassero il presidente. Si tratta di un crimine internazionale, costato milioni di dollari, che ha mobilitato decine di persone e materiale militare sofisticato».
In effetti, pure il vilipendio del cadavere, e la sua esposizione sui social media, pare un messaggio chiaro, mandato a chi vuole fare politica ad Haiti: se ci sfidate, ecco cosa può succedervi.
Attualmente, l’inchiesta in corso è condotta dal giudice istrutture Garry Orélien, che ha sostituito ad agosto Mathieu Chanlatte, dimissionario. Una trentina di accusati sono agli arresti, tra i quali ex militari colombiani e tre haitiani-americani. Tra loro lo sconosciuto Christian Emmanuel Sanon, indicato come leader dell’attentato, colui che avrebbe voluto prendere il potere. Molto probabilmente l’uomo di paglia degli ideatori del complotto.
Avvisi a comparire davanti al giudice sono stati emanati ai miliardari uomini d’affari haitiani Réginald Boulos, Jean-Marie Vorbe e Dimitri Vorbe, e agli ex senatori Steven Benoit e Yuri Latortue, come riporta The Strategist, dell’Australian strategic policy institute, un think thank australiano di studi strategici(3).
L’arrestato più illustre è Samir Handal, fermato il 15 novembre scorso all’aeroporto di Istanbul. Haitiano di origine palestinese (e residente a Miami), fermato grazie a un mandato d’arresto dell’Interpol, fa parte dell’oligarchia haitiana. Si stava recando in Giordania, provenendo da Miami. Dovrà essere estradato ad Haiti.
Il giudice Orélien ha ricevuto numerose intimidazioni: il suo ufficio è stato forzato da ladri nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, la sua auto presa a fucilate lo stesso giorno, e uomini armati hanno cercato di fare irruzione, sempre nel suo studio, a inizio novembre.
Chi governa adesso?
Intanto la dinamica politica vede opporsi il governo de facto di Ariel Henry (che è stato ancora rimaneggiato il 24 novembre scorso, con il cambio di 8 ministri su 18) appoggiato da Core group e Binuh, e l’opposizione democratica, firmatari del cosiddetto accordo del 30 agosto, che chiede un processo di transizione differente. Si cerca una «riconciliazione nazionale» sul piano politico.
Gli obiettivi del nuovo governo de facto, dice Henry il 25 novembre, sono ristabilire la sicurezza, la riforma costituzionale e portare il paese alle elezioni a tutti i livelli. Il problema immediato è un deficit di bilancio statale. Un budget di circa 254 miliardi di gourde (2,5 miliardi di dollari), ma le casse dello stato ne avrebbero solo 96, di cui 30 già impegnati per sovvenzionare il carburante.
Come se non bastasse, un forte terremoto ha colpito il Sud Ovest del paese il 14 agosto, causando 2.246 morti e 329 dispersi e perdite economiche stimate di 1,6 miliardi di dollari. I bisogni recensiti per la ricostruzione sono di 1,97 miliardi.
Ma occorre ricordare che, dalle casse dello stato, mancano circa 3 miliardi di dollari, «evaporati» con lo scandalo PetroCaribe.
Marco Bello (fine prima puntata/ continua)
Note
1 • Haiti-agriculture: new agro-industrial export free zone, Haiti Libre, 12/02/2021.
2 • Ruée vers l’or en Haiti, Enquet’action, 10/06/2020.
3 • Who benefits from insecurity in Haiti?, The Strategist, 14/07/2021.
Jihad in Africa: nuovo fronte a Cabo Delgado, Mozambico
testo di Enrico Casale |
È il 2010 quando alcuni importanti giacimenti di gas sono individuati nel Nord Mozambico. Poco dopo escono allo scoperto gruppi di miliziani radicalizzati che compiono attentati. Poi il livello degli assalti si alza. E i misteri restano tanti.
Jihadisti? Banditi comuni? Mercenari prezzolati da società straniere? Chi siano, nessuno lo sa con precisione. Come nessuno sa chi li finanzi, li armi, li sostenga. Sul perché degli attacchi violentissimi, anche recenti, nella provincia di Cabo Delgado nel Nord del Mozambico, il mistero è fitto. Non si sa con precisione neppure quante persone siano morte. C’è chi parla di 500, chi di mille, chi molte di più. L’unica cosa certa è il terrore che si è sparso nella provincia e nelle stanze del governo di Maputo.
Lo scenario
Cabo Delgado è una provincia che ha sofferto molto durante la guerra d’indipendenza (1964-1974) e durante quella civile (1977-1992), ed è una delle aree più trascurate del paese. A livello nazionale, ha i più elevati tassi di analfabetismo, disuguaglianza e malnutrizione infantile. È una delle poche province a maggioranza musulmana. Ma è un islam moderato che, da sempre, segue una tradizione sufi. «I musulmani locali – spiega una fonte missionaria che vuole rimanere anonima – non hanno mai dimostrato atteggiamenti violenti o di intolleranza. L’islam si è fuso con la cultura locale e ha dato vita a una fede aperta e tollerante. I rapporti tra cristiani e musulmani sono sempre stati amichevoli. Si lavora e si vive insieme in serenità».
Questa pace sociale ha iniziato a essere messa in discussione dopo la scoperta nel 2010, da parte dell’americana Anadarko e dell’italiana Eni, di enormi giacimenti di gas proprio davanti alle coste di Cabo Delgado. Attualmente, tre dei maggiori progetti di gas naturale liquefatto al mondo sono in fase di realizzazione, con un investimento complessivo che arriverebbe a superare i 50 miliardi di dollari. Due di questi, Coral South e Rovuma Lng, vedono Eni tra le dirette interessate. «Il Mozambico – scrive il quotidiano “Il Sole 24 Ore” – promette di diventare nel giro di cinque anni il secondo fornitore di gas naturale liquefatto al mondo, superato soltanto dal Qatar.
Uno sviluppo col turbo, almeno nelle aspirazioni, persino più veloce di quello pianificato dagli Stati Uniti per lo shale gas (il petrolio da scisto)».
Lo sfruttamento di questi vasti giacimenti ha comportato l’esproprio di numerose terre e la forte riduzione delle aree di pesca. Ciò ha creato ulteriore difficoltà e disoccupazione in una terra povera. E, ovviamente, ha alimentato il malcontento tra la popolazione che viveva già sulla soglia della povertà.
Gli estremisti
In questo contesto, dominato dalla miseria e dallo sfruttamento straniero delle risorse, hanno iniziato a manifestarsi le prime forme di malcontento e di rabbia. Una decina di anni fa è nato il gruppo Ahlu sunnah wa jamo / Ansar al-Sunna. Si sa con certezza che a crearla sono stati Nur Adremane e Jafar Alawi, entrambi di Mocimboa da Praia. Due musulmani fondamentalisti che si sono ispirati ad Aboud Rogo, un predicatore islamico che si ritiene sia stato tra gli organizzatori dell’attentato all’ambasciata Usa a Nairobi nel 1998, e tra i finanziatori di al-Shabaab in Somalia (prima di essere assassinato a Mombasa nel 2012). I due predicatori mozambicani hanno iniziato a frequentare le moschee di Cabo Delgado incoraggiando i giovani a lasciare le scuole governative e ad accettare «borse di studio» per frequentare le scuole coraniche in Sudan e in Arabia Saudita. È proprio nella Penisola arabica che questi mozambicani si sono radicalizzati. Sono giovani tra i 25 e i 30 anni, principalmente Kimwani, il gruppo etnico più emarginato socialmente ed economicamente.
Da qui in avanti la storia si è fatta più nebulosa. Al gruppo originario si sarebbero aggiunti miliziani provenienti da Tanzania, Somalia e Grandi Laghi (Rd Congo, Ruanda, Burundi). Da questo gruppo radicalizzato, che promuove un’applicazione dura e letterale della legge islamica, nel 2013 avrebbe poi preso forma al-Shabab (senza però avere alcun rapporto con l’omonimo, ma più famoso, gruppo jihadista somalo).
Sono supposizioni basate su elementi sommari. Non si sa, per esempio, dove trovino i fondi per finanziarsi e chi abbia promosso le loro azioni. Ciò che è certo è che, nel 2015, sono iniziate le prime violentissime operazioni sul campo.
Terrorismo
I primi attacchi vengono organizzati nelle campagne della provincia di Cabo Delgado nel 2017. I miliziani prendono di mira piccoli villaggi. Li assaltano e uccidono in modo efferato uomini, donne e bambini. Incendiano le capanne e i raccolti. E, una volta compiuta l’azione, spariscono e tornano nei loro rifugi. La gente è spaventata. Molte famiglie fuggono dalle proprie abitazioni per cercare riparo in zone più protette.
La reazione dello stato non è pronta. Di fronte ai primi attacchi, Maputo invia rinforzi alla polizia, ma sono insufficienti. Poi invia i militari. I reparti che salgono al Nord sono composti da ragazzi di leva, male armati, male equipaggiati e, soprattutto, demotivati. Infatti gli attacchi continuano. Sempre più cruenti. Inizialmente, però, i miliziani assaltano all’arma bianca, con vecchi machete. A volte organizzano imboscate ai convogli dei militari o delle forze di polizia. Uccidono i soldati e gli agenti e si impossessano delle loro divise. Travestiti da militari attaccano altri villaggi. La popolazione, confusa, non sa se è stata presa d’assalto dalle forze dell’ordine o dai miliziani. E fugge. In un video girato dai terroristi nella provincia di Cabo Delgado e fatto circolare sul web, si vedono uomini armati che camminano nell’erba alta e costeggiano un grande edificio bianco. La maggior parte di essi porta con sé fucili automatici e indossa uniformi dell’esercito mozambicano. In lontananza si ode qualche sparo e voci che gridano «Allahu Akbar» (Dio è grande). In un altro video, sempre pubblicato sul web, si vede un poliziotto morto e poi, quando lo zoom apre l’inquadratura, se ne vede un secondo, poi un terzo, un quarto. Infine una pila di armi automatiche in quello che può essere un deposito della polizia o delle forze armate.
il Salto di qualità
All’inizio del 2020 si registra «un salto di qualità» negli attacchi. In mano ai miliziani non ci sono più i machete, ma le armi automatiche rubate nei depositi delle forze dell’ordine. L’obiettivo non sono più il villaggio o la colonna di militari, ma centri importanti: Mocimboa da Praia, Kisongo e Mudimbe. A Quissanga attaccano e occupano la caserma della polizia e issano sul tetto la bandiera nera dello Stato islamico. Lo stesso Daesh, attraverso i suoi media, rivendica l’azione e, di fatto, riconosce i miliziani come suoi «soldati».
«All’inizio – spiega dom Luis Fernando Lisboa, vescovo di Pemba in un’intervista alla Fondazione Missio – si parlava di un nemico senza volto. Negli ultimi attacchi si sono presentati come miliziani dell’Isis. Abbiamo però dubbi sulla reale affiliazione allo Stato islamico. Usano questo nome, ma non abbiamo la certezza che siano realmente legati alla rete fondata da Abu Bakr al-Baghdadi». La stessa tesi è sostenuta dai missionari sul posto da noi sentiti: «Gli ultimi attacchi sono stati ben pianificati. Si è notato un salto di qualità nell’azione. Le strutture del governo sono state bruciate in modo sistematico. La matrice religiosa, però, è emersa solo poco tempo fa. In Mozambico si pensa che ci siano interessi particolari che si nascondono dietro la copertura religiosa».
A chi giova?
In realtà non si sa chi ci possa essere dietro questi terroristi. Secondo alcuni esperti internazionali, al-Shabab mozambicano sarebbe uno strumento in mano a gruppi di potere che cercano di accaparrarsi i ricchi giacimenti della provincia, oppure sarebbero la pedina che alcuni politici muovono da Maputo per contrastare il governo legittimo. «Le ricchezze del sottosuolo possono essere la causa di questa ribellione? – si chiede dom Luis Fernando Lisboa -. Difficile dirlo. In merito non abbiamo certezze. Sappiamo che altrove, in Nigeria, ma anche in Iraq e in Siria, gruppi jihadisti hanno sempre cerato di impossessarsi dei campi petroliferi. Qui nel Nord del Mozambico abbiamo grandi giacimenti di gas. Può essere che ci sia qualcuno che sfrutta queste milizie per impadronirsi di queste aree. A mio parere, però, ci sono altre ragioni. Il Mozambico è uno dei paesi più poveri al mondo e la provincia di Cabo Delgado è sempre stata emarginata. Questa povertà spinge i giovani nelle braccia di fondamentalisti, tanto più che al-Shabab paga i miliziani e offre loro cibo».
Di fronte a queste minacce le aziende energetiche coinvolte nello sviluppo del bacino del Rovuma hanno cercato di isolarsi. Le imprese di sicurezza ricevono più di un milione di dollari al mese per tenere al sicuro i lavoratori. Queste guardie arruolano scorte armate provenienti dai reparti migliori delle forze governative. Una pista d’atterraggio è stata costruita a Pelma, la cittadina che serve gli impianti offshore.
Oltre a propagandare un islam feroce e fanatico, questi miliziani controllano anche una serie di traffici illeciti e il contrabbando di merci con la Tanzania. «Tutti hanno puntato gli occhi verso i giacimenti di gas – osserva un missionario del posto -, ma questa zona è ricchissima di risorse naturali: rubini, legno pregiato, ecc. La gestione di queste risorse fa gola a molti. Voci dal territorio parlano anche di traffici di sostanze illecite e, addirittura, di organi umani. Sono voci, e non mi sento di sottoscriverle, ma tutto è verosimile in questo contesto».
Cristiani e musulmani
A subire gli attacchi è tutta la popolazione locale, sia essa di fede islamica o cristiana. Recentemente sono state attaccate anche alcune missioni. Ad Awasse è stata attaccata la comunità dei monaci benedettini. Gli assalitori hanno distrutto tutto e si sono impossessati di molti beni, inclusa un’automobile. I religiosi sono stati costretti a rifugiarsi nella boscaglia dove sono stati due giorni. Il vescovo di Pemba ha chiesto a loro e alle loro consorelle benedettine di trasferirsi in Tanzania per mettersi in sicurezza. Se i cristiani piangono le loro vittime, altrettanto fanno i musulmani. «Le prime vittime di questi attacchi – continua il missionario – sono proprio i musulmani. La comunità islamica locale è terrorizzata». «Fin dall’inizio – osserva dom Luis Fernando Lisboa -, i musulmani del Mozambico hanno preso le distanze da questi attacchi. I leader hanno condannato le uccisioni e le violenze affermando che tutto ciò non ha nulla a che fare con l’islam. Lo stesso hanno fatto il Consiglio islamico e il Congresso musulmano che, in un appello, hanno dichiarato che non considerano islamici questi miliziani e che essi non possono in alcun modo utilizzare il nome dell’islam». «Come fantasmi – conclude il vescovo -, i ribelli compaiono e scompaiono senza farsi vedere, lasciando dietro di se i resti dei disastri compiuti. Ma sappiamo che i fantasmi non esistono. È un pezzo di lenzuolo che nasconde qualcosa o qualcuno. Dobbiamo togliere questo lenzuolo per smascherare chi si nasconde dietro».