Viaggio nel mondo del nucleare: Atomi di pace, atomi di guerra


Sommario

 

Sì, no, forse, I tanti dilemmi dell’energia nucleare

Scrivere un articolo sul nucleare è una vera e propria sfida di comunicazione (e non esclusivamente dal punto di vista scientifico). Il dibattito sull’opportunità o meno di utilizzare l’energia imprigionata nel nucleo di un atomo anche per scopi pacifici e civili si è incuneato, a partire dagli anni Settanta, in inestricabili gangli ideologici. A seconda delle tesi che si vogliono sostenere, l’immensa mole di dati e tesi scientifiche viene troppo spesso seviziata e manipolata a piacere con il solo scopo di suffragare idee preconcette, anche a costo di stravolgere la fisica dell’atomo. È quindi praticamente impossibile, nell’affrontare un argomento così delicato, non incappare negli strali delle tifoserie dell’una o dell’altra squadra. Si aggiunga, poi, la complessità fisica, chimica, matematica che accompagna la materia nucleare che, per essere presentata in modo comprensibile ad un pubblico poco avvezzo all’argomento, deve essere spesso limata e sintetizzata in modo poco ortodosso.

Tutto questo porta spesso ad approssimazioni o a faziosità difficilmente conciliabili con l’informazione che si intende offrire.

Ai lettori di Missioni Consolata tenterò, quindi, di presentare l’argomento nucleare, se non in modo oggettivo, per lo meno cercando di seguire l’onestà intellettuale che dovrebbe contraddistinguere ogni divulgazione, nonostante il mio personale scetticismo su questa fonte energetica soprattutto in fatto di gestione delle centrali.

Piergiorgio Pescali

          

Dall’atomo alla fusione nucleare

Ritratto di Antornine-Henri Becquerel

Dalla scoperta della divisibilità dell’atomo (1896) al suo sfruttamento per produrre energia, la scienza della fisica nucleare ha fatto passi enormi. Non sempre nella direzione corretta, come dimostrano le tragedie di Hiroshima e Nagasaki (1945) e l’esistenza di pericolosi armamenti nucleari. Oggi l’energia nucleare viene sfruttata (soprattutto) per usi civili, ma anche in questo caso sul tavolo rimangono problemi seri. Come il pericolo di incidenti (le centrali di Chernobyl e Fukushima ce lo ricordano) e lo smaltimento delle scorie radioattive.

Nel 1914 la casa editrice britannica Macmillan & Co. pubblicò un romanzo di Herbert George Wells, La liberazione del mondo. In quelle 286 pagine si descriveva, in modo fantascientifico, una guerra che sarebbe scoppiata nel 1956 tra la coalizione franco-britannica-statunitense e quella austro-germanica. Il libro di Wells, autore noto al grande pubblico in quanto aveva già dato alle stampe successi come L’isola del dottor Moreau (1896), L’uomo invisibile (1897) e La guerra dei mondi (1898) che tanto panico causò nell’edizione radiofonica di Orson Welles, non raggiunse la fama dei precedenti lavori, ma ipotizzava, per la prima volta, l’utilizzo di un’arma che, sebbene differente nella concezione, avrebbe dominato la storia del mondo dal secondo dopoguerra fino ad oggi: la bomba atomica.

Basandosi sugli studi di Ernest Rutheford, William Ramsay e, soprattutto, di Frederick Soddy, Wells ipotizzò che, in un futuro non troppo lontano, gli eserciti avrebbero potuto utilizzare la scoperta della radioattività per creare armi che uccidessero non solo grazie al loro potenziale distruttivo immediato, ma prolungando nel tempo l’emissione dei radioisotopi.

L’autore morì il 13 agosto 1946, un anno dopo lo scoppio delle bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki, facendo così in tempo a veder realizzarsi nella storia la sua anticipazione letteraria.

La liberazione del mondo era un libro apocalittico, ma con un finale positivo: nel cancellare gran parte dell’umanità, la bomba atomica aveva anche permesso di gettare le basi per la creazione di nuove forme di pensiero e di governo. Alla fine, dunque, la scienza, in cui il pacifista Wells credeva fermamente, mostrava sempre il lato costruttivo e vantaggioso.

L’innato ottimismo che la società a cavallo tra il XIX e il XX secolo riponeva nel progresso, aveva nella neonata fisica nucleare il suo principale motivo d’essere.

L’atomo è divisibile: la nascita della fisica nucleare

Enrico Fermi

Nel febbraio 1896, pochi anni prima che La liberazione del mondo fosse data alle stampe, la scoperta della radioattività fatta dal fisico francese Henri Becquerel aveva inaugurato l’avventura nucleare smontando la tesi secondo cui l’atomo (dal greco ??????, àtomos, indivisibile) era la parte ultima della materia e dimostrando che invece era a sua volta formato da altre particelle più piccole. Era nata la fisica nucleare.

Ci vorranno altri 36 anni prima che la struttura dell’atomo sia svelata nella sua interezza: nel 1897 Joseph John Thomson scoprì l’elettrone, nel 1919 Ernest Rutheford propose l’esistenza di un nucleo formato da protoni caricati positivamente e nel 1932 James Chadwick ipotizzò l’esistenza all’interno del nucleo di una particella di massa simile a quella del protone, ma di carica neutra: il neutrone.

Proprio quest’ultima scoperta scatenò nuove teorie della fisica e nel 1933 Leo Szilàrd suppose che se un nucleo poteva assorbire un neutrone, avrebbe potuto, allo stesso modo, espellerlo creando una reazione nucleare a catena. Il 4 luglio 1934, lo stesso giorno in cui morì Marie Curie, i cui lavori sulla radioattività erano stati fondamentali per lo sviluppo della fisica nucleare, Szilàrd depositò a Londra il suo brevetto sul modo di sfruttare l’energia contenuta in un nucleo atomico basato sulla reazione a catena di decadimenti nucleari.

Sembrava che la scienza concedesse all’umanità un futuro più roseo che mai, ma all’orizzonte cominciavano ad approssimarsi le nubi nere di un nuovo conflitto mondiale. Fu la Germania nazista la prima nazione a credere all’atomo come fonte inesauribile di energia e di potenza militare. Nel dicembre 1938 un team di fisici tedeschi guidati da Otto Hahn e Fritz Strassmann dimostrò che un nucleo di uranio-235 avrebbe potuto dividersi in altri nuclei più piccoli, se bombardato con un neutrone. Il 13 gennaio 1939 la fisica Lise Meitner, assieme al nipote Otto Frisch, risalirono all’origine della reazione riuscendo a calcolare l’enorme quantità di energia che poteva liberarsi dalla fissione, termine coniato da Frisch in analogia alla fissione di cellule nel campo biologico.

La scoperta di Meitner e Frisch cominciò a scaldare gli animi non solo degli scienziati, ma anche dei militari: se la fissione poteva liberare tale quantità di energia, allora un’arma basata su questa reazione a catena avrebbe dato alla nazione che la possedeva un vantaggio incolmabile sulle altre.

Lo sbaglio del Terzo Reich: l’espulsione degli scienziati ebrei

La guerra bussava ormai alle porte e il Terzo Reich era il paese che aveva la più profonda conoscenza della fisica nucleare. Nell’aprile 1939 l’Heereswaffenamt, l’Ufficio armi dell’esercito tedesco, fondò l’Uranverein, il «club dell’uranio» che avrebbe dovuto approfondire gli studi sulla fissione nucleare. Fortuna volle che i gerarchi nazisti avessero altre priorità e non credevano che la Germania dovesse dare urgenza ad un programma di cui non si aveva sicurezza che potesse essere terminato in tempi brevi. La fiducia nelle istituzioni e nella preparazione militare assecondate dalla remissività sino ad allora mostrata dai governi più ostili al Reich (Gran Bretagna e Francia), sembravano garantire a Berlino una facile vittoria senza dover spendere inutili energie in programmi scientifici alternativi. In più i dirigenti nazisti avevano iniziato sin dal 1933 ad espellere gli ebrei dagli uffici pubblici e, seppur il principale istituto scientifico tedesco, il prestigioso Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft fur physikalische Chemie und Elektrochemie, non fosse strettamente sotto controllo statale, venne fatta pressione affinché venissero allontanati ebrei e comunisti da quello che il quotidiano nazista Volkischer Beobachter definì un «parco giochi per cattolici, socialisti ed ebrei»1. Lo stesso Hitler, quando Max Planck tentò di convincerlo che espellere i ricercatori di razza ebraica sarebbe stato il suicidio della scienza tedesca, rispose di non aver «niente contro gli ebrei in sé. Ma gli ebrei sono tutti comunisti e loro sono miei nemici, a loro faccio la guerra». La cecità del governo nazista fu, nella sua tragicità, provvidenziale perché privò la Germania di una parte importante dell’intellighenzia scientifica. Cervelli come Albert Einstein, Edward Teller, Rudolf Peierls, Hans Bethe, Arthur von Hippel, Max Born, James Franck, Hermann Weyl, Eugene Rabinowitch, Heinrich Kuhn assieme agli stessi Lise Meitner e Otto Frisch espatriarono, così come fece Enrico Fermi dall’Italia. In seguito molti di questi stessi scienziati parteciparono attivamente e diedero contributi fondamentali all’interno del «Progetto Manhattan», l’ambizioso piano voluto da Franklin Delano Roosevelt, su pressione di Leo Slizàrd, Eugene Wigner e Albert Einstein, timorosi che la Germania potesse costruire una bomba nucleare.

La svolta decisiva del progetto che, alla sua massima espansione, impiegava 130.000 addetti, avvenne alle 5.29 del mattino del 16 luglio 1945 quando nel sito di Trinity, a Jornada del Muerto, nel New Mexico, venne fatto scoppiare Gadget, il primo ordigno nucleare prodotto dall’uomo, della potenza di 22 chilotoni.

Contrariamente a quanto si pensi, non vi fu alcuna corsa a due: Hitler non si interessò mai veramente alla bomba nucleare e al termine della guerra fu chiaro a tutti che la Germania era ben lontana dal confezionare un ordigno simile. Quando, il 6 agosto 1945, la Bbc diede l’annuncio dello scoppio della bomba su Hiroshima, Werner Heisenberg, il più celebre tra i fisici coinvolti nell’Uranverein, non credette ad una parola: «Posso solo supporre che qualche dilettante in America, con scarse conoscenze in materia, li abbia ingannati dicendo: “Se sganciate questa ha l’equivalente di 20.000 tonnellate di esplosivo ad alto potenziale”, ma in realtà non funziona per niente»2.

Eisenhower e gli «atomi di pace»

Dopo Hiroshima e Nagasaki il mondo iniziò ad interrogarsi sull’etica della scienza e sul pericolo nucleare. Nel 1956 Robert Jungk mise sotto accusa gli scienziati che avevano collaborato al Progetto Manhattan nel suo libro Gli apprendisti stregoni. Già il fisico tedesco dell’Uranverein, Carl Friedrich von Weizsacker ebbe a dire che «La storia ricorderà che gli americani e inglesi hanno fatto una bomba mentre i tedeschi, sotto il regime di Hitler, hanno prodotto un motore capace di funzionare. In altre parole, in Germania sotto il regime di Hitler si è avuto lo sviluppo pacifico del motore a uranio, mentre americani e inglesi hanno sviluppato questa terrificante arma da guerra»3.

Ma in un mondo sempre più energivoro diveniva indispensabile trovare fonti di energia a basso costo e ad alto rendimento per sostenere lo sviluppo industriale e sociale che si andava delineando a partire dagli anni Cinquanta. Come fare a convincere il mondo intero a utilizzare una tecnologia che aveva dimostrato di essere così distruttiva e che, dopo la guerra, continuava a terrorizzare l’umanità nella contrapposizione tra Est e Ovest? Fu Eisenhower a indicare alle Nazioni Unite un piano di controllo nucleare presentandosi l’8 dicembre 1953 all’Assemblea generale con un discorso che viene considerato lo spartiacque tra il nucleare a scopo bellico e quello a scopo civile: Atomi per la pace4. Il pianeta aveva appena sfiorato un nuovo conflitto nucleare nella guerra di Corea, Stalin era morto da poco e non si sapeva che strada avrebbe preso l’Urss sotto la guida del nuovo segretario del partito. Eisenhower propose un ente sovranazionale che controllasse le scorte di materiale fissile (il combustibile nucleare) «destinato ad essere usato per uno scopo pacifico […] nell’agricoltura, medicina e altre attività pacifiche […] al fine di fornire energia elettrica in abbondanza alle aree del mondo di essa più affamate».

Il pannello di controllo del reattore nucleare della centrale atomica di Obninsk, nelal regione di Kaluga in URSS, messo in funzione il 27 giugno 1954.

Il 27 giugno 1954 la centrale di Obninsk, in Unione Sovietica, fu il primo impianto nucleare ad essere collegato alla rete elettrica nazionale inaugurando così l’epoca del nucleare a scopo civile. Si sarebbe dovuto attendere il 26 agosto 1956 per vedere la prima centrale nucleare costruita appositamente per generare energia elettrica, la Calder Hall del Regno Unito, entrare in operazione. Da allora la fissione dell’atomo divenne sempre più alla portata di tutti, ed oggi i 448 reattori nucleari sparsi in 31 paesi del mondo producono circa l’11% dell’energia elettrica prodotta nel pianeta e il 5,86% del consumo energetico assoluto5,6,7,8.

Anche l’Italia entrò con entusiasmo nel club del nucleare il 12 maggio 1963, quando venne inaugurata la prima centrale atomica a Latina. Solo tre anni più tardi il nostro paese era il terzo produttore al mondo di energia nucleare9. Sembrava che nulla potesse arrestare l’avanzata della fissione, ma all’eccitazione iniziale seguì una più ponderata disamina dei pro e dei contro.

Il movimento «No Nukes»

Con le contestazioni studentesche del Sessantotto cominciarono ad affacciarsi anche i primi movimenti «No nukes». Diversificati nelle intenzioni, nei metodi e nelle idee, gli attivisti convogliavano i loro timori verso la sicurezza, sia ambientale che umana, e la pericolosa complementarietà dell’industria nucleare civile e militare. Le prime centrali nucleari cominciavano a produrre quantità considerevoli di scorie radioattive che destavano preoccupazione tra la popolazione in quanto di difficile smaltimento. Inoltre i reattori, utilizzando uranio arricchito (uranio con alta percentuale di isotopo 235) e producendo plutonio-239, potevano essere sfruttati dall’industria militare per la produzione di bombe nucleari. Infine, dato che la teoria della fissione e fusione nucleare è identica sia per produrre ordigni che per produrre energia ad uso civile, ogni sviluppo tecnologico dell’uno poteva essere applicato nell’altro campo. Non è un caso che tutti i paesi che possiedono o hanno posseduto un arsenale nucleare abbiano sul loro territorio centrali nucleari per produrre energia a scopo civile o reattori di ricerca10.

Durante gli anni Settanta si moltiplicarono le manifestazioni contro la proliferazione nucleare: si organizzavano concerti, si giravano film, scendevano in campo star dello spettacolo e della politica. Nel 1975 la ventunenne Anne Lund, un’attivista antinucleare danese appartenente alla Organisationen til Oplysning om Atomkraft (Organizzazione per l’informazione sulle centrali nucleari) disegnò uno dei loghi più famosi e utilizzati nella storia della grafica: il sole che ride e che alla domanda «Energia nucleare?» risponde con un gentile, ma perentorio, «No, grazie».

I più gravi disastri nucleari

Alle obiezioni degli attivisti e delle organizzazioni ambientaliste, le compagnie impegnate nel nucleare, appoggiate dai governi, rispondevano assicurando tutti sulla sicurezza e sulla necessità di avere una fonte energetica pulita, efficiente e, soprattutto stabile e economica.

Ma la sicumera mostrata dai fautori del nucleare sembrò frantumarsi di fronte ad una serie di incidenti: la perdita di refrigerante con conseguente parziale fusione del reattore avvenuta il 28 marzo 1979 a Three Miles Island, negli Stati Uniti, fu solo il preludio di quello che, il 26 aprile 1986 accadde a Chernobyl, considerato il più grave incidente della storia del nucleare a scopo civile, seguito, l’11 marzo 2011, da quello, altrettanto pericoloso, di Fukushima, in Giappone. In tutto, dal 1957 ad oggi, nel mondo ci sono stati 14 incidenti che hanno coinvolto reattori nucleari, di cui dieci con conseguenze dirette sull’ambiente e la popolazione circostante11.

Le sciagure di Chernobyl e Fukushima furono manipolate da entrambe gli schieramenti pro e contro il nucleare per portare acqua al proprio mulino, in modo cinico e presentando in modo approssimativo, per non dire fraudolento, mappe, grafici, dati e cifre. In Italia, a seguito dell’incidente di Chernobyl venne indetto un referendum che sancì, con un consenso dell’80,57% dei votanti, la chiusura delle 4 centrali nucleari presenti sul territorio nazionale: Trino Vercellese, Caorso, Latina, Sessa Aurunca. Un tentativo di reintrodurre la fissione venne fatto nel 2011 ma, a poche settimane dal voto, Fukushima determinò l’esito delle urne con un 94,75% di contrari12,13.

La resistenza del nucleare e la crescita delle fonti rinnovabili

L’ondata di scetticismo verso l’energia atomica sembra, però, non aver intaccato l’avanzata del nucleare nel mondo. I 363 reattori nucleari che nel 1985, prima dell’incidente di Chernobyl, producevano 245.779 MWe (= megawatt elettrico, ndr) di energia, nel 2010 (prima di Fukushima) erano saliti a 441 con una produzione elettrica di 375.227 MWe per raggiungere un totale di 391.116 MWe nel 2017. E con 61 reattori in costruzione per 61.264 MWe di potenza, il nucleare sembra essere ancora una fonte energetica attraente, nonostante nei prossimi 10-20 anni dovranno essere smantellati più della metà dei reattori perché troppo vecchi15,16.

Tra i paesi che nel 2010 avevano un contributo energetico dato dal nucleare, solo Germania e Giappone hanno deciso di diminuire in modo sostenuto (ma non annullare del tutto) l’apporto atomico nel loro consumo energetico dopo la catastrofe di Fukushima. Nel primo caso si è passati dal 22,6% del 2010 al 13,1% nel 2016; nel secondo caso dal 29,2% al 2,2%17. Tutte le altre nazioni, comprese alcune di quelle considerate più sensibili ai temi ambientali, come Finlandia, Svezia, Svizzera, Canada, hanno mantenuto attive le proprie centrali18,19.

I motivi di questa tendenza al rialzo sono da ricercarsi in diverse ragioni. Le energie rinnovabili (è anche il caso di ricordare che «rinnovabile» non è sinonimo di energia «pulita»), pur in forte e costante aumento sono ancora troppo suscettibili agli eventi naturali e non sempre possono essere disponibili ad un uso immediato (ad esempio, la carica di un’auto elettrica dura in media tra i 20 e i 40 minuti). Inoltre la crescente richiesta energetica mondiale obbliga le compagnie a rifornire in modo sempre più cospicuo e costante la rete. Gli impianti di produzione di energia rinnovabile, come eolica o fotovoltaica sono ancora troppo costosi, poco concorrenziali, dipendenti dalle condizioni atmosferiche e non in tutte le regioni possono essere installati (i pannelli fotovoltaici, ad esempio, occupano ampie superfici sottraendo aree che potrebbero, ad esempio, essere utilizzate in agricoltura). Le fonti energetiche fossili, come carbone, petrolio, gas naturale oltre che inquinare, hanno forti implicazioni geopolitiche, le scorte sono limitate e la loro estrazione, mano a mano che i giacimenti superficiali si esauriscono, diviene sempre più costosa e tecnologicamente impegnativa.

Infine, parametro certo di non poco conto, tra tutte le fonti energetiche a disposizione, il nucleare è di gran lunga quella che, a parità di unità di combustibile arricchito, genera la maggior quantità di energia20.

Pur non esistendo un parametro oggettivo e universalmente riconosciuto per valutare la convenienza o meno di una fonte energetica rispetto ad un’altra, le compagnie si affidano all’Eroi (Energy Returned On Investment, «ritorno energetico sull’investimento energetico») un valore che indica quanto conveniente è una determinata fonte energica pronta al consumo ottenuto dividendo l’energia prodotta durante tutto il ciclo di attività dell’impianto per l’energia spesa nella produzione, dalla costruzione allo smantellamento dell’impianto stesso, compresi i costi di manutenzione durante il ciclo di vita. Più alto è il suo valore più conveniente è produrre quel tipo di energia. L’Eroi, però, non tiene conto dei costi di produzione delle materie prime e del loro trasporto; di conseguenza i valori per una stessa fonte energetica variano in misura notevole a seconda del periodo, del luogo in cui l’energia è prodotta e consumata, del costo delle materie prime, della manodopera, etc. Ad oggi l’Eroi rimane comunque l’unico parametro scientifico per determinare l’effettiva economicità energetica ed è su questa base che governi e industrie programmano la loro politica energetica. Il nucleare rimane ancora una fonte tra le più convenienti dopo l’idroelettrico e il petrolio21. L’introduzione dei reattori di quarta generazione, prevista tra 10-20 anni, aumenterebbe ancor più l’Eroi.

© Greg Webb – IAEA, 2010

Le lobbies mondiali e le riserve di uranio

Contrariamente al sentito dire, dal 1985 ad oggi gli investimenti nel nucleare sono in continua diminuzione. L’Oecd ha stimato che nel 2015 sono stati spesi nel campo della ricerca e sviluppo energetico 12,7 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali sono confluiti nel campo della sicurezza, dei problemi ambientali e sociali. I governi tendono a finanziare ricerche in programmi energetici a medio-lungo termine atti ad essere commercializzati, in modo da recuperare, in parte o totalmente, gli investimenti. I capitali privati, invece, sono focalizzati ad investimenti a corto termine migliorando tecnologie già esistenti. Se negli anni Settanta più del 70% degli investimenti in ricerca e sviluppo erano diretti nel campo nucleare, nel 2015 questi si sono ridotti al 20%. Al tempo stesso è aumentato l’interesse verso le fonti energetiche rinnovabili e l’efficienza energetica, campi verso i quali sempre più lobbies industriali guardano con partecipazione, anche per via dei forti incentivi economici offerti dai governi22. Risulta quindi sempre più difficile parlare di ostacoli verso le energie rinnovabili posti da cartelli di grosse multinazionali. Oramai anche le maggiori compagnie impegnate nel campo nucleare destinano una parte sempre più cospicua dei loro investimenti nelle rinnovabili (in particolare solare e eolico).

Tutto questo, però, non esclude che attorno al nucleare vi siano ancora interessi enormi, in particolare per quelle compagnie che operano nei paesi dove i piani energetici nazionali concedono ampi spazi a questa forma di energia. I principali gestori di impianti nucleari sono la francese Edf (58 reattori gestiti), la russa Rosenergoatom (35 reattori gestiti e 7 in costruzione), la sudcoreana Korea Hydro and Nuclear Power Co. (25 reattori gestiti, 3 in costruzione) e l’indiana Nuclear Power Corporation of India Ltd (22 reattori gestiti, 4 in costruzione)23,24.

Più conosciute al grande pubblico, perché presenti sul mercato dei consumatori, sono le multinazionali che si occupano della manutenzione e della costruzione di impianti nucleari: la parte del leone la fanno la Westinghouse (manutenzione di 70 reattori e altri 6 reattori in costruzione), l’Areva (66 reattori in manutenzione, ma appena salvata dal fallimento dallo stato francese, ndr), la General Electric (44 reattori in funzione e 2 in costruzione), la Mitsubishi Heavy Industries, la Toshiba, la Siemens, la Skoda25.

Come si può vedere la galassia delle ditte impegnate nel nucleare è molto variegata e non esclude quegli stessi paesi che al nucleare hanno rinunciato o stanno per rinunciare. A queste si aggiungono le compagnie che estraggono e lavorano l’uranio, metallo che, dopo l’arricchimento, viene utilizzato come combustibile nei reattori nucleari.

Due terzi dell’estrazione mondiale di uranio provengono dal Kazakistan (39% della produzione mondiale nel 2016), Canada (22%) e Australia (10%). Niger e Namibia, serbatornio per il combustibile nucleare francese estraggono ciascuno il 4% della quantità mondiale di uranio26.

Ma se in Kazakistan, in Canada e in Russia le compagnie che estraggono e lavorano uranio o appartengono allo stato o sono ditte a capitale privato per maggioranza locale, in Niger solo il 34% delle compagnie sono statali (il restante 66% sono straniere) mentre in Namibia, dove solo l’1,2% delle compagnie sono locali, la situazione è ancora più spostata verso il mercato straniero27. La chiusura del mercato giapponese e la diminuzione delle centrali in Germania hanno fatto crollare il prezzo del minerale. A seconda dei costi di estrazione e di lavorazione del materiale grezzo, il prezzo medio si aggira sui 130 dollari per kg (con riserve stimate attorno a 5.718.000 ton) per raggiungere i 260 dollari al chilo per l’uranio di difficile estrazione o di bassa purezza iniziale (con riserve stimate pari a 7.641.600 ton)28,29.

L’Australia è la nazione che possiede le riserve mondiali più cospicue (29%), seguita da Kazakhstan (13%), Russia e Canada (9% ciascuno), Sud Africa (6%) e infine Niger, Brasile, Cina, Namibia (5% ciascuno)30.

La produzione nel 2017 è stata di 68.000 tonnellate, 27% delle quali (19.000 ton) dirette verso gli Stati Uniti, 12% verso la Francia (8.000 ton), e poi in Russia, Corea, Cina, Ucraina31. Il forte incremento di domanda energetica cinese, ha indotto questo governo a iniziare una serie di manovre per diminuire la dipendenza verso il mercato estero, in particolare petrolifero. Così, oltre all’impulso dato alle fonti energetiche rinnovabili, è in progetto il raddoppio del contributo dato dal nucleare. La Cina è il paese al mondo dove si sta riscontrando il maggior incremento di energie rinnovabili; oggi il 25% dell’energia prodotta in Cina proviene da fonti energetiche rinnovabili e il 2% dal nucleare; nel 2040 si stima che il nucleare passerà al 4%, mentre il rinnovabile al 57%32. Questo porterà Pechino a importare una quantità di uranio tra le quattro e le cinque volte superiore a quella attuale (tra 14.400 e le 20.500 tonnellate di uranio nel 2035 contro le 4.200 attuali) trasformando la Repubblica popolare nel primo paese al mondo importatore del minerale fissile superando anche gli Stati Uniti33. Allo stesso tempo la domanda di uranio aumenterà per altri mercati che stanno rafforzando la presenza nucleare nel loro scenario energetico: India, Argentina, Giappone, ma anche con new entry come Polonia, Turchia, Emirati Arabi e Viet Nam34. Sebbene la richiesta sarà destinata ad amplificarsi, le riserve di uranio sono talmente vaste che, anche con uno scenario pessimista, potranno durare secoli35.

© Nuclear-Regulatory-Commission_1991

La radioattività e le scorie

Uno dei principali problemi che nascono dalla fissione nucleare è quello dei rifiuti radioattivi. Per una malsana informazione, ogni qualvolta si pronuncia la parola «radioattività» si ha un sobbalzo di terrore. In realtà tutti noi viviamo immersi nella radioattività. Continuamente. In ogni luogo del mondo. Occorre, quindi, distinguere tra radiazione naturale e radiazione artificiale individuando anche, oltre alla tipologia di radiazione emessa dai singoli componenti, anche la quantità.

Le centrali nucleari producono materiali radioattivi, ma non sono le sole sorgenti di scorie prodotte dalle attività umane. Limitandoci quindi ai soli reattori in funzione a scopo civile, i rifiuti considerati radioattivi si dividono in tre categorie: Llw (Low-Level Radioactive Waste, rifiuti radioattivi a basso tasso di radioattività), Ilw (Intermediate-Level Radioactive Waste, rifiuti a medio tasso di radioattività) e Hlw (High-Level Radioactive Waste, rifiuti ad alto tasso di radioattività). Mentre i Llw costituiscono il 90% del volume totale e non danno particolari problemi di smaltimento, i Ilw e i Hlw sono quelli su cui si innestano i principali e più accesi dibattiti tra chi osteggia e chi, invece, propugna la scelta nucleare. Le scorie Hlw ammontano al 3% dell’intera gamma di rifiuti prodotti da una centrale e all’interno di questa sezione vengono classificati anche i combustibili spenti, le barre di uranio che hanno terminato il loro ciclo vitale all’interno del reattore e che, quindi, posseggono una radioattività molto elevata. Il combustibile spento costituisce lo 0,2% del totale dei rifiuti radioattivi, pari a circa 34.000 m3 annui e di questi circa il 20-25% viene inviato ai cicli di riprocessamento36. Il resto viene trattato con un metodo chiamato vetrificazione.

I Llw sono stoccati in depositi superficiali a causa della loro (relativa) bassa pericolosità, mentre i Ilw e gli Hlw devono essere conservati per anni (da decine a migliaia, a seconda del livello di radioattività emanato) in luoghi geologicamente sicuri e sotterranei facendo levitare in modo sostanziale i costi del ciclo vitale di una centrale atomica.

Per poter essere maneggiati con sufficiente sicurezza, i rifiuti Hlw vengono lasciati in depositi temporanei; il combustibile esausto è mantenuto in media per 5 anni nelle piscine di stoccaggio; durante questo periodo il materiale perde il 90% della sua radioattività. Prima di essere inviato ai centri di riprocessamento, però, le scorie nucleari vengono separate secondo i loro componenti. La composizione media del combustibile esausto contiene il 93,4% di uranio-238, lo 0,71% di uranio-235, 5,15% di prodotti di fissione e 1,3% di plutonio37.

Appare chiaro che, oltre alla pericolosità intrinseca delle scorie, vi è anche il rischio (spesso reale, come abbiamo già scritto) che parte del plutonio generato come scarto di produzione possa essere utilizzato nel campo militare per la costruzione di ordigni nucleari.

Dopo alcune decine di anni, i rifiuti di tipo Hlw possono essere classificati come Ilw, ma la radioattività di tali scorie torna a livelli originari solo dopo migliaia di anni. Rifiuti a basso e medio livello di emissione radioattiva che hanno un emivita38 di 30 anni, possono essere depositati in depositi superficiali o in grotte poco profonde e se, per questo tipo di rifiuti, alcuni siti sono già operativi, molto più dibattuta è la scelta delle aree da destinare alla conservazione dei rifiuti Hlw39. Il deposito del monte Yucca, nel Nevada, che avrebbe dovuto accogliere 70.000 tonnellate di Hlw, è stato definitivamente bocciato nel 2010 dopo 32 anni di verifiche, sopralluoghi, progetti, mentre i siti di Onkalo, in Finlandia, e di Forsmark la cui operatività permetterebbe di contenere combustibile esausto a 450 metri di profondità sono in fase di ultimazione40,41.

© ter – AEA, 2016

Il nucleare in Italia

In paesi come l’Italia, dove per due volte si è respinta la possibilità di dotare il paese di un piano energetico che comprendesse anche il nucleare, il problema del trattamento e deposito delle scorie è oggi il principale tema sul quale si dibatte il tema dell’atomo. Attualmente vi sono cinque i reattori nucleari in funzione, tutti a scopo di ricerca: tre sono gestiti dall’Enea («Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile»), uno dall’università di Palermo e uno dal Laboratorio energia nucleare applicata dell’università di Pavia42.

Le quattro centrali costruite tra gli anni Sessanta e Settanta – Latina, Garigliano (Caserta), Trino Vercellese (Vercelli) e Caorso (Piacenza) – sono in corso di disattivazione assieme agli impianti sperimentali di riprocessamento di combustibile nucleare di Eurex e Itrec, all’impianto di plutonio dell’Enea a Casaccia (Roma) e al reattore Essor del Centro comune di ricerche (Ccr) di Ispra (Varese).

Tutte queste attività hanno generato rifiuti radioattivi a cui si aggiungono annualmente nuove scorie nucleari provenienti dalle attività mediche e dai ciclotroni per la produzione di radiofarmaci. Oggi sono centinaia i centri nel nostro paese che conservano rifiuti radioattivi (la maggior parte provenienti da attività mediche), mentre 19 sono le strutture principali da cui le scorie verranno trasferite per confluire in un deposito nazionale la cui individuazione geografica non è ancora stata decisa43. Questa incredibile lacuna (la gestione delle scorie dovrebbe essere una delle priorità che accompagnano un progetto energetico nazionale che includa il nucleare) dimostra la miopia e la leggerezza con cui la classe politica italiana del passato ha trattato il programma energetico, le cui conseguenze – sia economiche che sociali – oggi paghiamo a caro prezzo.

© Dean Calma / IAEA_FRANCE

Il futuro del nucleare

Alla luce di quanto scritto, che futuro avrà il nucleare nel panorama energetico mondiale?

Con lo sviluppo delle energie rinnovabili, i forti incentivi che vengono offerti a chi fa ricerca nel campo e a chi opta per installare impianti e, soprattutto, la paura di un ennesimo incidente, il nucleare potrebbe non essere in grado di competere. Inoltre nei prossimi due o tre decenni la metà dei reattori oggi in funzione dovrà essere smantellata con costi e problematiche di smaltimento enormi. Al loro posto potrebbero subentrare i reattori di IV generazione meno costosi, poco adatti a sviluppi militari e, soprattutto, più sicuri e, successivamente, i reattori che si rifanno al progetto Inpro (International Project on Innovative Nuclear Reactors and Fuel Cycles) coordinato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea). Nel frattempo, però, la transizione tra lo smantellamento degli impianti obsoleti e l’avvio della IV generazione verrebbe occupata dai reattori di piccola portata facili da costruire e semplici da mantenere verso cui hanno mostrato interesse tutti gli stati che nel prossimo futuro dovranno fermare i propri impianti. In tutti questi nuovi progetti l’Italia è presente con i propri ricercatori.

Ma quello a cui il futuro lontano sta guardando con maggior attenzione è la fusione nucleare, una tecnologia basata non più sulla fissione (divisione) del nucleo atomico, bensì sul processo inverso, cioè l’unione di due nuclei. La reazione, più o meno quella che avviene nelle stelle, produrrebbe una quantità enorme di energia (circa 4 volte quella che si verificherebbe nella fissione di una pari massa di uranio-235 e 4 milioni di volte maggiore a quella che si sprigionerebbe da una pari massa di combustibile fossile) accompagnata da una produzione di scorie poco significative44.

Sebbene la ricerca sulla fusione e su un processo che possa essere convenientemente adottato per produrre energia quasi pulita a scopo civile sia stato avviato sei decenni fa, il traguardo sembra ancora lontano. Le difficoltà tecniche sono enormi. In primo luogo, la temperatura: per innescare e mantenere una fusione nucleare occorrono temperature che si aggirano sui 100-150 milioni di gradi. E non vi è alcun materiale che sia in grado di sostenere tale temperatura e contenere il plasma che si forma: ogni contatto con le pareti del contenitore raffredderebbe il plasma interrompendo la reazione. Inoltre ogni contatto con un elemento estraneo inquinerebbe il plasma stesso.

Per fortuna la tecnologia e la ricerca (anche italiana) sulla fusione è riuscita a trovare soluzioni, seppur costose e ancora in fase di sviluppo e sperimentazione, come il contenimento magnetico del plasma. Al primo Tokamak45, il reattore nucleare a fusione costruito nella seconda metà degli anni Sessanta, sono seguiti un’altra ventina di impianti pilota sino a quando un consorzio che comprende Unione europea, India, Cina, Russia, Giappone, Corea e Stati Uniti ha dato inizio al più ambizioso progetto nel campo della fusione nucleare: l’Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor), in fase di costruzione a Cadarache, in Francia, che costerà 15 miliardi di dollari (rispetto ai cinque inizialmente preventivati nel 2001) e potrà entrare in funzione nel 203546. Nella migliore delle ipotesi l’uomo potrebbe consumare energia proveniente dalla fusione solo nella seconda metà del secolo. Un intervallo di tempo ancora troppo lungo perché il nostro pianeta possa sopportare un depauperamento delle materie prime e un inquinamento cui è sottoposto a livello attuale.

Nel frattempo, il mondo dovrà funzionare con l’energia disponibile che, qualunque sia la fonte, non è né pulita né infinita.

Piergiorgio?Pescali


Atomi e isotopi

Ogni atomo è formato da elettroni che roteano attorno ad un nucleo formato da protoni e neutroni (disegno). Nonostante l’elettrone abbia una massa 1.836 volte inferiore a quella del protone, la carica delle due particelle è uguale, ma di segno opposto. L’elettrone ha una carica negativa, mentre il protone una carica positiva. Quando in un atomo il numero di protoni è identico a quello degli elettroni, le cariche si annullano a vicenda e l’atomo è neutro. Se, invece, il numero degli elettroni è superiore a quello dei protoni l’atomo si trasforma in ione negativo; all’opposto, si ha uno ione positivo.

La quasi totalità della massa di un atomo è data dal nucleo (99,98% della massa, il restante 0,02% è data dagli elettroni) che, come accennato, contiene, oltre ai protoni, anche i neutroni, particelle di massa simile a quella dei protoni, ma di carica neutra.

Ogni elemento che troviamo in natura, dall’elio con cui sono gonfiati i palloncini, al mercurio al ferro, è definito esclusivamente dal numero di protoni presenti nel nucleo. Il carbonio, ad esempio, ha 6 protoni, l’elio ne ha due, l’idrogeno uno, l’uranio 92.

Il numero di protoni determina il numero atomico (Z) ed è quello che individua la proprietà chimica di un elemento, mentre la somma di protoni e neutroni è detta numero di massa (A).

Stessi elementi possono avere un numero di neutroni (N) diverso all’interno del loro nucleo. In questo caso parliamo di isotopi: sono atomi le cui caratteristiche chimiche rimangono identiche, ma varia il numero di massa.

L’idrogeno, ad esempio, ha un nucleo formato da un solo protone, ma quando accanto al protone troviamo anche un neutrone abbiamo il deuterio, mentre se i neutroni sono due abbiamo il trizio. Deuterio e trizio sono elementi utilizzati nella fusione nucleare.

P.Pescali


Fissione e fusione

I nuclei atomici possono dividersi per formare atomi di numero atomico e numero di massa inferiore, o unirsi per formare atomi di massa maggiore. Nel primo caso si parla di fissione nucleare, nel secondo caso di fusione.

L’elemento utilizzato per produrre energia nelle centrali nucleari a fissione è, generalmente, l’uranio. Non tutto l’uranio è, però, fissile. L’uranio ha 92 protoni nel proprio nucleo ed un peso atomico di 238 (viene indicato come 238U, 92U238 o semplicemente uranio-238). Sino ad oggi conosciamo 11 isotopi dell’uranio; tutti hanno lo stesso numero di protoni (92), ma un numero diverso di neutroni che variano da 138 a 148. Quando viene estratto il minerale è composto da isotopi presenti in diversa percentuale: il 99,3% è uranio-238 (uranio con 92 protoni e 146 neutroni), mentre lo 0,7% è uranio-235 (uranio con 92 protoni e 143 neutroni). Dato che la fissione dell’uranio-238 non dà luogo ad una reazione a catena, il combustibile utilizzato nelle centrali nucleari è l’uranio-235. Ecco perché, una volta estratto, il minerale deve essere arricchito per portare la concentrazione di uranio-235 al 3-5%.

Bombardando l’uranio-235 con un neutrone, il nucleo assorbe la particella trasformandosi in uranio-236 (236U, isotopo dell’uranio con 92 protoni e 144 neutroni). L’altissima instabilità dell’uranio-236 fa sì che il suo nucleo di divida in due nuclei più piccoli liberando altri neutroni che andranno a colpire altri nuclei di uranio-235. Ad ogni fissione si libera una quantità di energia che va a creare calore riscaldando l’acqua attorno al reattore la quale genera vapore che andrà ad alimentare la centrale. A parità di massa, una centrale a fissione può generare energia un milione di volte superiore a quella generata da una fonte energetica tradizionale fossile; una centrale a fusione sarebbe – invece – di 4 milioni di volte superiore.

La fusione è, semplificando al massimo, il processo inverso: due nuclei, generalmente di deuterio e trizio, di fondono per formarne uno più grande (elio). Il deuterio è un elemento comune, lo si può estrarre dall’acqua marina, mentre il trizio, che non esiste in natura in quantità elevate, lo si ricava dal litio, elemento presente nella crosta terrestre. 150 kg di deuterio e 2-3 tonnellate di litio sono sufficienti per generare elettricità per un anno in una città di un milione di persone. L’ostacolo principale della fusione è il confinamento del plasma, che si trova ad una temperatura di centinaia di milioni di gradi. Negli impianti sperimentali si utilizza il confinamento magnetico, che “chiude” il plasma in un campo magnetico impedendogli di entrare a contatto con le pareti del contenitore. Ogni reazione di fusione, oltre che un nucleo di elio produce un neutrone che, essendo di carica neutra, non verrà trattenuto dal campo magnetico e andrà a cedere la sua energia alle pareti del “blanket”, il contenitore toroidale, che si riscalderà. Un fluido asporterà il calore del blanket entrando in un generatore di vapore che farà funzionare una turbina a vapore. A parità di massa, una centrale a fusione può generare energia 4 milioni di volte superiore a quella generata da una fonte energetica tradizionale fossile.

P.P.


La radioattività

La stabilità di un atomo è data dal rapporto tra numero di neutroni e protoni (N/Z) all’interno del nucleo. I protoni, infatti, essendo particelle dotate della stessa carica positiva, tendono a respingersi a vicenda: le forze nucleari attrattive dei soli protoni non sono in grado di prevalere su quelle repulsive. I neutroni, essendo di carica neutra, aumentano proprio le forze nucleari attrattive che riescono a tenere i protoni confinati all’interno del nucleo. Questo equilibrio è ottimale quando il rapporto tra neutroni e protoni si attesta tra 1 e 1,5; quando questo valore viene superato l’atomo diventa instabile.

A questo punto l’isotopo instabile tende a rilasciare energia per riconfigurarsi in un isotopo più stabile. Questo rilascio di energia determina la radioattività e continua sino a quando il rapporto N/Z raggiunge un valore ideale. A seconda dell’isotopo, il rilascio di energia può durare da frazioni di secondo a migliaia di anni e la velocità con cui questa energia è emessa si chiama tempo di dimezzamento. Più il tempo di dimezzamento è breve, più radioattivo sarà l’isotopo. Dato che ad ogni ciclo di emivita il decadimento radioattivo è esponenziale, dopo 7 cicli di dimezzamento l’isotopo contiene meno del’1% della radioattività iniziale.

L’uomo da sempre convive con la radioattività. Raggi cosmici, terreno, cibi contengono isotopi che emettono in continuazione attività radioattiva. In media ogni individuo assorbe annualmente una dose di radiazioni naturali tra i 2,4 e i 3,3 millisievert (il valore varia da luogo a luogo in quanto la radioattività rilasciata dal suolo e dai raggi cosmici non è uniforme su tutto il pianeta).

Questi valori rappresentano circa il 50-70% delle radiazioni totali assorbite dall’uomo in quanto si devono aggiungere le dosi dovute alle attività umane, la quasi totalità delle quali (2,6 millisievert) è dovuta alle attività mediche (radiografie, medicina nucleare, tomografie). Le radiazioni dovute alle attività industriali corrispondono a meno dello 0,1% del totale della dose annuale assorbita (0,003-0,01 mSv).

In genere, però, le radiazioni naturali non hanno alcun effetto sulle nostre cellule o, tuttalpiù, possono essere riparate dalle cellule stesse. Il pericolo avviene quando l’energia delle particelle radioattive è elevata a tal punto da «ferire» la cellula senza che questa riesca a curarsi. In questo caso può continuare a vivere rischiando però di infettare altre cellule, oppure morire. Perché una cellula muoia occorre che la quantità di energia somministrata sia intensa e di breve durata: è il caso peggiore.

Le radiazioni emesse dai reattori nucleari sono di tre tipi:

  • alfa
  • beta
  • gamma

Le particelle alfa sono formate da due protoni e due neutroni. Dotate di bassa energia, posso essere fermate da un semplice foglio di carta.

Le particelle beta sono elettroni. Hanno energia superiore alle particelle alfa, ma non sufficiente da penetrare a fondo nella pelle (sono fermate da fogli di alluminio spessi pochi millimetri). Possono percorrere solo pochi metri nell’aria.

Le particelle gamma sono onde elettromagnetiche simili ai raggi X, quindi dotate di alta energia. Per fermarle occorrono materiali ad alta densità, come il piombo. Nell’aria possono percorrere anche diverse centinaia di metri prima di perdere la loro carica energetica. Al contrario delle particelle alfa e beta, che sono corpuscolari, le particelle gamma sono molto simili ai fotoni della luce (da cui variano solamente per avere una lunghezza d’onda minore). Generalmente, l’emissione delle radiazioni gamma è accompagnata da quelle alfa e beta.

Vi è, infine, un quarto tipo di radiazione, formato da neutroni. Sono particelle ad altissima energia che sono fermate da spessi strati di cemento e di acqua.

P.P.


Hanno firmato questo dossier:

  • Piergiorgio Pescali Giornalista e scrittore, laureato in fisica, storia e filosofia, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, Giappone e penisola coreana. Dal 1996 visita con regolarità la Corea del Nord. Da anni collaboratore di MC, suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Avvenire, Il Manifesto, Panorama e, all’estero, da Bbc e Cnn. Il suo blog è: www.pescali.blogspot.com.
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC

Un avviso di pericolo nucleare a Trinity, nel deserto del New Mexico (Usa), dove il 16 luglio 1945 venne fatto esplodere il primo ordigno nucleare.


Note

(1)    Philip Ball, How 2 Pro-Nazi Nobelists Attacked Einstein’s “Jewish Science”, Scientific American, 13 febbraio 2015.

(2)    Jeremy Bernstein, Hitler’s Uranium Club: The Secret Recordings at Farm Hall, Springer Science+Business Media New York, 2001, p. 116.

(3)    Jeremy Bernstein, ibidem, p. 138.

(4)    La trascrizione dell’intero discorso, assieme all’audio originale, è consultabile sul sito della World Nuclear University.

(5)    AEA, Energy, Electricity and Nuclear Power Estimates for the Period up to 2050, References Data Series n. 1, 2017.

(6)    AEA, Vienna, Maggio 2017.

(7)    IAEA, Energy, Electricity and Nuclear Power Estimates for the Period up to 2050, ibidem, p. 18.

(8)    La differenza tra i due dati: l’11% si riferisce al contributo dato dal nucleare alla sola rete elettrica; altre fonti di energia elettrica sono l’idroelettrica, il solare, l’eolica. Il 5,86% si riferisce al contributo dato dal nucleare al consumo energetico assoluto rapportato, quindi, anche con il contributo dato dal petrolio, gas naturale, geotermia, bioenergia.

(9)    ENEA, CIRTEN, Università di Pisa, Comunicazione e informazione in tema di energia nucleare, di G. Forasassi, R. Lofrano, L. Moretti, Documento CERSE-UNIPI RF 1068/2010, Report RdS/2010/153, settembre 2010.

(10) Dei nove paesi che possiedono armi nucleari solo due (Israele e Corea del Nord) non hanno centrali per produrre energia a scopo civile, ma entrambe hanno istituti e impianti nucleari a scopo di ricerca.

(11) The Economist, 12 aprile 2011. La gravità di un incidente nucleare è classificata secondo una scala INES (International Nuclear and Radiological Event Scale) che va da 1 (semplice anomalia) a 7 (incidente catastrofico). Dalla scala 4 l’incidente nucleare ha conseguenze locali. Dal 1957 ci sono stati 2 incidenti su scala 7 (Chernobyl e Fukushima), 1 su scala 6, 3 su scala 5, 4 su scala 4, 2 su scala 3, 1 su scala 2 e 1 su scala 1 (fonte IAEA, The Economist).

(12) http://elezionistorico.interno.gov.it/

(13) Ibidem

(14) Interessante, sul cambio di consenso degli italiani sul nucleare, il citato rapporto ENEA, CIRTEN, Università di Pisa, del settembre 2010 in cui – alle pagine 7/8 – si afferma che alla fine del 2010, pochi mesi prima di Fukushima, il 44% degli italiani sarebbe stato favorevole al ritorno del nucleare in Italia.

(15) IAEA, Vienna, Maggio 2017.

(16) Secondo un rapporto IAEA del maggio 2017, sui 448 reattori in funzione, 65 hanno un’età tra i 41 e 47 anni, 181 hanno tra i 31 e i 40 anni e 108 tra i 21 ed i 30 anni. La vita media di un reattore nucleare di I, II e terza generazione si aggira sui 40 anni, prolungabile a 60 per quelli di III generazione.

(17) IAEA, Vienna, maggio 2017.

(18) Ibidem.

(19) International Energy Agency (IEA): www.iea.org/weo2017/.

(20) A parità di massa la quantità di energia prodotta dalla fissione nucleare è superiore di sei ordini di grandezza (un milione di volte) quella del petrolio.

(21) ASPO Italia, «Associazione per lo studio del picco del petrolio», 2005.

(22) OECD International Energy Administration (IEA), 2015.

(23) IAEA, Vienna, Maggio 2017.

(24) Il numero di reattori nucleari non coincide necessariamente con il numero di impianti nucleari in quanto in uno stesso sito possono essere in funzione più reattori nucleari.

(25) IAEA, Vienna, Maggio 2017.

(26) World Nuclear Association (WNA), luglio 2017.

(27) Le principali compagnie che estraggono, lavorano e smerciano uranio solo la kazaka KazAtomProm (21% del mercato mondiale), la canadese Cameco (17%), la francese AREVA (13%), la russo-canadese ARMZ-Uranium One (13%) e l’australiana BHP Billiton (5%) (fonte: WNA, luglio 2017).

(28) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, OECD 2016, p.9.

(29) I principali siti minerari da cui viene estratto la pechblenda, il minerale che contiene uranio, sono: la McArthur River (Canada), proprietà della Cameco per il 69,8%, che estrae l’11% dell’uranio mondiale, la Cigar Lake (Canada), proprietà della Cameco al 50% (11% dell’uranio mondiale), la Tortkuduk & Myunkun (Kazakhstan), di proprietà del consorzio KatcoJV/Areva (6% dell’uranio mondiale), l’Olimpic Dam (Australia), proprietà della BHP Billiton (5% dell’uranio mondiale), l’Inkai (Kazakhstan), di proprietà del consorzio Inkai JV/Cameco, 5% dell’uranio mondiale e SOMAIR (Niger), per il 63,6% di proprietà dell’Areva, 4% dell’uranio mondiale (fonte: WNA, luglio 2017) .

(30) World Nuclear Association, luglio 2017.

(31) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, Annual reactor-related uranium requirement to 2035, OECD 2016, p.99-100.

(32) IEA, World Energy Outloook 2017.

(33) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016, ibidem.

(34) Ibidem.

(35) Attualmente le riserve totali stimate sono sui 16.130.000 tonnellate; anche presupponendo lo scenario di richiesta più elevato proposto per il 2035 dall’IAEA (93.510 tonnellate totali nel mondo), le riserve basterebbero per 170 anni. (fonte: Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, Annual reactor-related uranium requirement to 2035, OECD 2016, p.99-100).

(36) IAEA, Estimation of Global Inventories of Radioactive Waste and Other Radioactive Materials, June 2008, p.13.

(37) https://whatisnuclear.com/waste.html.

(38) L’emivita (o tempo di dimezzamento) di un isotopo radioattivo è definita come il tempo occorrente perché la metà degli atomi di un campione puro dell’isotopo decadano in un altro elemento.

(39) I depositi ILW e LLW sono situati nel Regno Unito (LLW Repository a Drigg, in Cumbria gestito da un consorzio formato da AREVA, Serco e Studsvik UK), Spagna (El Cabril gestito da ENRESA), Francia (Centre de l’Aube gestito dall’Andra), Giappone (LLW Disposal Centre a Rokkasho-Mura gestito da Japan Nuclear Fuel Limited), USA (in 5 siti, Texas Compact vicino al confine col New Mexico, gestito da Waste Control Specialists; Barnwell, South Carolina gestito da EnergySolutions; Clive, Utah gestito da EnergySolutions; Oak Ridge, Tennessee gestito da EnergySolutions e Richland, Washington, gestito da American Ecology Corporation), Svezia (a Forsmark, in un deposito situato a 50m sotto le rive del Baltico, gestito dal Swedish Nuclear Fuel e dal Waste Management Company) e Finlandia, nel deposito di Onkalo a Olkiluoto e Loviisa, con profondità a 100 metri.

(40) http://www.posiva.fi

(41) http://www.skb.com/future-projects/the-spent-fuel-repository/

(42) Elaborazione ISPRA dei rapporti attività dei gestori impianti e ARPA/APPA, 2014.

(43) I 19 siti principali che oggi custodiscono i rifiuti nucleari sono le 4 centrali nucleari (gestiti da Sogin), 4 impianti di riciclo di combustibile esausto (gestiti da Enea e Sogin), 7 centri di ricerca nucleare (ENEA di Casaccia, CCR Ispra, Deposito Avogadro, LivaNova, CESNEF -Centro Energia e Studi Nucleari Enrico Fermi- Università di Pavia, Università di Palermo), 3 centri del Servizio Integrato ancora attivi (Nucleco, Campoverde e Protex) e 1 centro di Servizio Integrato non attivo (Cemerad).

(44) https://www.iter.org/sci/Fusion.

(45) «Tokamak» è l’acronimo russo che sta per «camera toroidale a confinamento magnetico».

(46)  https://www.iter.org/faq#collapsible_5.




Perú, mons. Baretto, la storia del vescovo ambientalista

Testo dell’incontro col vescovo cardinal Pedro Baretto e Mauricio López Oropeza di Paolo Moiola |


In Perú sono in corso centinaia di conflitti ambientali. Sia in Amazzonia (la selva) che nelle Ande (la sierra). La salvaguardia dell’ambiente e la salute delle persone costituiscono elemento centrale della missione pastorale di mons. Pedro Barreto?Jimeno, arcivescovo di Huancayo (Junín), vicepresidente della Conferenza episcopale peruviana e neocardinale (dal 29 giugno). Da pochi mesi, in qualità di socio fondatore della «Red Eclesial Panamazónica» (Repam), il prelato è stato anche nominato membro della commissione vaticana che sta preparando il Sinodo amazzonico del 2019. Lo abbiamo incontrato nella sua Lima poco prima della sua nomina a cardinale.

@ Paiolo Moiola

Miraflores (Lima). Nelle giornate di sole da Miraflores, noto distretto di Lima, si può ammirare un magnifico panorama sull’Oceano Pacifico. Arriviamo al centro ignaziano della locale parrocchia di Fátima per approfittare della presenza di mons. Pedro Barreto Jimeno, gesuita e arcivescovo di Huancayo, capoluogo del dipartimento di Junín, regione andina nel centro Ovest del paese. In Perú il prelato è molto conosciuto per le sue battaglie in favore dell’ambiente (el obis­po eco­ló­gi­co).

Dal 2004 presta servizio tra le Ande, ma ci confessa quasi subito che il suo cuore «è amazzonico». Un sentimento nato durante i tre anni da vicario apostolico a Jaén, capoluogo dell’omonima provincia amazzonica (selva alta) del dipartimento di Cajamarca.

In quello stesso periodo entra nel consiglio permanente della «Conferenza episcopale peruviana» e nella «Conferenza episcopale latinoamericana» (Celam).

Jaén è la porta d’ingresso dell’Amazzonia Nord orientale del Perú. «L’Amazzonia – spiega mons. Barreto – comprende quasi otto milioni di chilometri quadrati e nove paesi, con il Brasile in testa (65% della superficie totale) seguito dal Perú. Come uomini di chiesa ci rendevamo conto che il lavoro da fare era tanto e disperso su un territorio immenso. Nell’aprile del 2013, a un mese dall’elezione del papa Francesco, il Celam si riunì in Ecuador per dibattere la questione. Nel settembre 2014 ci ritrovammo – vescovi, religiosi e religiose – a Brasilia e decidemmo di creare la “Rete ecclesiale panamazzonica”, la Repam. Che non è una vera istituzione, né una struttura, ma – come dice il suo nome – una rete che cerca di unire con il dialogo e l’aiuto reciproco popoli indigeni e non indigeni che vivono in Amazzonia. Ciò che ci sorprese fu l’immediato messaggio di felicitazioni del papa. Questo ci spinse a considerarne lui il fondatore».

A partire da quel momento la crescita della Rete panamazzonica è molto rapida.

«Il papa ci chiese di presentare al mondo la Repam. Lo facemmo il 4 marzo del 2015 a Roma, nell’aula Giovanni Paolo II. Poco dopo, il 19 marzo, tenemmo un’udienza tematica sulle attività minerarie in Amazzonia davanti alla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) a Washington».

Il ruolo e la visibilità della Repam prendono in seguito grande impulso da due eventi importanti: l’uscita, nel maggio 2015, dell’enciclica Laudato si’, interamente dedicata all’ambiente e, nell’ottobre 2017, l’annuncio del papa di un Sinodo panamazzonico per l’ottobre 2019.

© Malcom K.

Dall’Amazzonia alle Ande

Dopo l’esperienza a Jaén, mons. Barreto deve lasciare l’Amazzonia per le Ande: regione di Junín, nella cosiddetta sierra. «Fui nominato – racconta – arcivescovo di Huancayo, una città posta in una valle dentro alle Ande, la valle del rio Mantaro. È la valle interandina più grande del Perú: 77 chilometri di lunghezza e una media di 22 di larghezza».

Luoghi molto diversi dall’Amazzonia, ma afflitti da problematiche identiche: il difficile rapporto tra l’ambiente naturale e le attività umane e tra il diritto al lavoro e quello alla salute.

Nel dipartimento di Junín, le concessioni minerarie riguardano circa il 20% del territorio totale. Si estraggono rame, piombo, zinco, molibdeno, argento. Vi operano diverse imprese tra cui la cinese Chinalco, la canadese Pan American Silver, la peruviana Volcan, la brasiliana Milpo. La più famosa, per i disastri provocati, è la statunitense Doe Run, da anni in liquidazione. Queste attività minerarie danno un po’ di lavoro (sottopagato) alla popolazione locale, ma portano soprattutto tanti danni, all’ambiente e alla salute delle persone.

«Da secoli – racconta il vescovo (cardinale dal 29 giugno, ndr) – è una zona eminentemente mineraria. C’è una città che si chiama La Oroya, a 3.700 metri d’altezza, che è considerata una delle cinque città più inquinate al mondo. Da alcuni anni non vengono più emessi gas tossici perché il complesso metallurgico della Doe Run è fermo, ma se si vedono le foto dall’alto – su internet è possibile – si nota una massa bianca. Non è neve, sono particelle di piombo, rame, zinco, tutti metalli pesanti che in questi 90 anni di produzione (l’attività iniziò nel 1922, ndr) si sono accumulati sulle montagne». E nel sangue degli abitanti, soprattutto bambini e anziani. Acqua, aria e suolo presentano livelli di contaminazione decine di volte superiori ai limiti consentiti.

Venuto a conoscenza dei gravi problemi ambientali, mons. Barreto si dà subito da fare. Nel marzo 2005, a pochi mesi dal suo insediamento come arcivescovo, istituisce un tavolo di dialogo (Mesa de diálogo) con l’ambizioso obiettivo di trovare una «soluzione integrale e sostenibile al problema ambientale e lavorativo a La Oroya e il recupero della conca del fiume Mantaro».

Il dialogo è però lungo e complicato. In gioco ci sono gli interessi della multinazionale statunitense e il lavoro di ben 2.000 persone. A mons. Barreto arrivano minacce di morte e intimidazioni.

Il complesso metallurgico di La Oroya passa attraverso fasi di insolvenza economica (2009), contenziosi con lo stato per i mancati investimenti di adeguamento ambientale (Programa de Adecuación Medio Ambiental, Pama) e, infine, nel 2017-2018 alcuni tentativi di vendita, finora falliti.

Il Cardinal Pedro Baretto © Paolo Moiola

I cinesi di Morococha

Il problema – ancora irrisolto – di La Oroya non è il solo. A circa 40 chilometri di distanza sorge Morococha, cittadina cresciuta sopra un enorme giacimento di rame a cielo aperto. Dal 2008 il giacimento – noto come progetto Toromocho – è di proprietà della Chinalco, impresa appartenente al governo cinese. «Il primo problema da affrontare – racconta mons. Barreto – fu quello di spostare la popolazione. La Chinalco costruì una nuova città: Nueva Morococha. Il trasferimento delle 1.200 famiglie iniziò nel 2012 e ancora non si è concluso».

Nel frattempo, tra gennaio e luglio 2017, l’impresa ha estratto 106mila tonnellate di rame. «Anche nel caso di Toromocho – precisa mons. Barreto -, c’è un danno ambientale perché un’attività mineraria, per quanto si possa essere attenti, contamina sempre. Il problema è che nella regione non ci sono molte alternative lavorative. Anche se, come chiesa, abbiamo iniziato un piccolo progetto di produzione tessile che impiega soprattutto donne ma che comunque non basta».

Secondo l’Istituto peruviano di economia, l’attività mineraria genera circa l’11% del Prodotto interno lordo (Pil) del paese, la metà della valuta straniera che entra in Perú, il 20% delle entrate fiscali, oltre a migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti.

«Il Perú – racconta mons. Barreto – è sempre stato un paese minerario. Però è anche un paese agricolo. Nella valle del Mantaro le miniere inquinano e, allo stesso tempo, in agricoltura si stanno utilizzando fertilizzanti che nel resto del mondo sono proibiti. Dovrebbe essere trovato un equilibrio tra un’attività mineraria responsabile e un’agricoltura egualmente responsabile».

Mons. Barreto, il vescovo (cardinale) ambientalista, non è a priori contro le miniere. «Io – precisa – direi che l’attività mineraria è necessaria. Non possiamo cioè dire “no” alle miniere. Quello che dobbiamo dire è: in questa riserva, in questo biotopo, in questo parco non può esserci attività mineraria. Un esempio: in questo momento un’impresa mineraria sta esplorando la laguna di Marcapomacocha. Qui occorre rispondere con un secco “no”».

Di certo, guardando al territorio peruviano, sembrerebbe che tutto il paese sia stato dato in concessione. «È vero – conferma il prelato -. Si parla della stessa piazza d’Armi di Cuzco. Un’assurdità. L’attività mineraria dovrebbe essere responsabile e con chiare restrizioni. Non possiamo opporci, ma dobbiamo dire: prima delle miniere sta la responsabilità per la vita e la salute delle persone».

Amazzonia, bioma universale

Dall’Amazzonia alle Ande l’impegno di mons. Barreto in difesa dell’ambiente non è mai cambiato. «A volte mi chiedono come mai un arcivescovo che vive in mezzo alle Ande sia entusiasta dell’Amazzonia. Il fatto è che qui si parla di un bioma che dà vita non solamente a noi ma a tutta l’umanità. Nella Laudato si’ – al numero 38 – il papa descrive l’Amazzonia come uno dei polmoni del mondo assieme alla conca fluviale del Congo».

In generale, però, la consapevolezza della sua importanza vitale è molto scarsa. Anche per questo gli attacchi alla sua integrità si fanno ogni giorno più numerosi. Come ammette anche mons. Barreto:?«Se si chiede a un peruviano della costa se il suo paese è amazzonico, questi risponderà che abbiamo la selva. In realtà, il 63 per cento del territorio peruviano è amazzonico. Abbiamo ancora zone intatte ma abbiamo anche zone infernali come a Puerto Maldonado (visitata dal papa a gennaio 2018, ndr), dove le attività minerarie illegali e informali hanno prodotto disastri. Quando si arriva in aereo si vedono nella foresta grandi fette di territorio dove ormai non cresce un solo filo di vegetazione, distrutta da mercenari che utilizzano il mercurio per cercare l’oro».

Da pochi mesi mons. Barreto, vicepresidente della Repam, è stato nominato membro della commissione (riquadro) istituita per preparare un’assemblea straordinaria sulla Panamazzonia.

«Quella di convocare un sinodo sulla regione amazzonica – chiosa il prelato – è stata una decisione sorprendente di papa Francesco. La prima volta nella storia della Chiesa. In precedenza e in più occasioni, il papa aveva detto che la Chiesa deve avere un volto amazzonico e indigeno (un rostro amazónico y indígena). Come va interpretata questa affermazione? Significa spingere per una conversione ecologica, un nuovo stile di vita, basato non su un paradigma tecnocratico ma su un nuovo paradigma che porti a soluzione il problema socioambientale e offra a tutti una vita degna e solidale».

Paolo Moiola

© Graham Styles


Il segretario esecutivo della Repam

«Vogliamo “amazzonizzare” il mondo»

In tanti parlano di Amazzonia, ma in pochi agiscono per contrastare la sua distruzione. Nata meno di quattro anni fa, la «Rete ecclesiale panamazzonica» (Repam) sta operando nei nove paesi amazzonici e tentando di coscientizzare il resto del mondo sul problema. Ne abbiamo parlato con Mauricio López Oropeza, segretario della Repam.

@ Paolo Moiola

Puerto Leguízamo (Colombia). «Da quando sono entrato in questo territorio, mi è stato rubato il cuore». Mauricio López Oropeza, 40 anni, è messicano e l’Amazzonia l’ha conosciuta in Ecuador dove arrivò dieci anni fa per completare gli studi. Oggi è sposato con Ana Lucía, cittadina ecuadoriana, lavora con la Caritas nazionale ed è segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) dalla sua fondazione.

Mauricio, come si può descrivere l’Amazzonia in poche parole?

«L’Amazzonia non è soltanto un territorio. È un bioma unico. Un sistema vivo in cui i fiumi rappresentano il sangue e le vene. Un sistema diverso e complesso di cui ancora oggi conosciamo pochissimo. I popoli originari che vi vivono rappresentano un modello distinto da quello occidentale».

Negli ultimi cinquant’anni è cambiato il modo di guardare all’Amazzonia.

«È vero. Prima l’Amazzonia era il patio trasero (cortile di casa) del pianeta. Era vista come una terra praticamente disabitata che occorreva dominare, controllare, colonizzare. Le sue popolazioni erano considerate composte da indios selvaggi da civilizzare. Oggi l’Amazzonia si è trasformata in plaza central (piazza centrale) su cui tutti si riversano a causa degli enormi interessi che su di essa si sono scatenati».

Quali sono le minacce principali che gravano sull’Amazzonia?

«La prima minaccia è il modello di sviluppo seguito. È un modello neoliberista che ha nell’estrattivismo la propria manifestazione più devastante. Essendo ricca di petrolio e di risorse minerarie, l’Amazzonia è colpita dalla “maledizione dell’abbondanza”. Ciò produce una pressione enorme a favore dell’estrazione. In questo modo è come bruciare un archivio naturale: non sappiamo quanta ricchezza genetica potrebbe perdersi.

La seconda minaccia è l’espansione della frontiera agricola (con la soia in prima fila) e dell’allevamento bovino in un territorio inadatto a queste attività. La capacità organica dell’Amazzonia è molto più bassa rispetto ad altri territori. Tuttavia, essendo considerata uno spazio disponibile (a dispetto di eventuali territori indigeni), il disboscamento è incessante (siamo ormai al 25% del totale) e questo sta mettendo a rischio tutto il sistema, in primis quello del ciclo dell’acqua».

Distruggere l’ambiente amazzonico significa implicitamente distruggere coloro che lo abitano.

«La terza minaccia riguarda infatti la sopravvivenza stessa dei popoli amazzonici. I più minacciati sono quelli in isolamento volontario (popoli non contattati). Sarebbero 140 nel mondo, 130 di essi nella Panamazzonia e 110-120 nella sola Amazzonia del Brasile. È una sfida enorme. Come salvare queste sorelle e fratelli che vivono in modo completamente distinto da quello occidentale? I popoli indigeni hanno tutto il diritto di entrare, qualora lo vogliano, nelle dinamiche del nostro mondo, ma debbono anche avere la possibilità di preservare il proprio territorio e la propria cultura.

In questo hanno fallito i governi – di destra e di sinistra – che sono andati contro le proprie costituzioni e accordi internazionali sottoscritti».

Qual è la situazione attuale nei paesi amazzonici?

«In tutti i nove paesi abbiamo situazioni problematiche. Il Brasile – sia con Temer che con Dilma – certamente ha fatto passi indietro rispetto al passato. Per esempio, rispetto alla demarcazione delle terre indigene. Il modello neoliberale e accaparratore sta dominando le decisioni politiche brasiliane. Anche in Bolivia, dove si parlava dei diritti della madre terra, si è fatta marcia indietro come nel caso del Tipnis. Qui si è tolta la intangibilità e una strada taglierà in due la riserva. Pare per favorire gli interessi dei produttori di coca con i quali il governo ha una relazione molto diretta. Infatti, il tracciato della strada non favorisce le comunità, ma segue proprio il percorso della coca.

Anche in Ecuador abbiamo fatto tanti bei discorsi, ma oggi – con il paese dipendente dal petrolio – si sta parlando sempre e soltanto di permettere l’esplorazione petrolifera in zone intangibili, naturali, ancestrali. Quando è uscito il primo barile di petrolio dal parco Yasuní hanno festeggiato. Dicono che ci siano standard elevatissimi per la sicurezza, ma sappiamo tutti che non esiste un impatto ambientale nullo.

Nel Perú ci sono continue perdite di petrolio nei territori delle comunità indigene. I popoli Awajún e Wampis sono stati criminalizzati per avere richiesto la consultazione preventiva, anche se essa è un diritto riconosciuto come costituzionale. E poi c’è la terribile situazione di Madre de Dios (vedere MC, giugno 2012).

In Colombia, come in Perú e in Brasile, c’è molta attività mineraria illegale che usa metalli pesanti che contaminano i fiumi. Già ci sono casi di popolazioni indigene malate a causa del pesce contaminato da mercurio. La condizione di postconflitto ha inoltre determinato dinamiche nuove e una situazione paradossale. Riserve naturali che ricadevano nei territori in mano alla guerriglia erano rimaste integre, ora sono esplorate e date in concessione anche per finanziare il processo di pace e dare alternative agli ex guerriglieri.

In Venezuela, c’è la questione legata al cosiddetto arco minero del fiume Orinoco (negli stati Bolivar, Amazonas e Delta Amacuro, ndr). Qui c’è il più grande progetto di estrazione mineraria del paese, proprio in un luogo di alta biodiversità e di presenza indigena. L’impatto sarà molto grave, come dimostrano varie ricerche. Infine, anche nei paesi amazzonici più piccoli – Guyana, Suriname e Guyana francese – ci sono gravi problemi a causa delle miniere. Insomma, il modello estrattivista si sta approfondendo praticamente ovunque».

I governi dei paesi amazzonici sostengono che non ci sia un’alternativa all’estrattivismo.

«Ma neppure si sforzano di trovare strade alternative. Questo modello ha generato un grande debito con le popolazioni originarie e soprattutto il costo della distruzione dell’Amazzonia è assai maggiore dei benefici e mette a rischio il futuro delle prossime generazioni».

Cos’è la «Red eclesial panamazónica»?

«La Repam è uno sforzo di articolazione di distinte istanze della Chiesa cattolica nel gran territorio amazzonico. Anche se è stata fondata soltanto tre anni fa, essa è il risultato di decenni, per non dire secoli, di presenza sul territorio. Una presenza che ha avuto matrici positive ma anche negative. Come dice papa Francesco, dobbiamo iniziare chiedendo perdono per gli errori storici, i peccati e i crimini commessi nel processo di colonizzazione. Oggi però esiste anche una Chiesa profetica con uomini che hanno dato la propria vita per l’Amazzonia. Approfittando della sua presenza capillare su tutto il territorio, la Repam si è posta al servizio della realtà amazzonica e dei suoi problemi».

In quanto «rete», quali modalità di comunicazione privilegiate?

«Come Repam abbiamo relazioni con varie istituzioni del territorio, tra cui anche quelle che si occupano di comunicazione. O meglio di comunicazione per la trasformazione. Come l’Asociación Latinoamericana de Educación Radiofónica (Aler) o Radialistas Apasionadas y Apasionados».

Con Radialistas (vedere MC, aprile 2016) avete collaborato per un lavoro sulla Laudato Si’.

«Vero. Con José Ignacio López Vigil e i suoi collaboratori abbiamo pensato come far arrivare la Laudato Si’, una delle encicliche più potenti in tema ambientale, al cuore della gente e delle comunità. L’enciclica è scritta in un linguaggio diverso, ma rimane anche un’impronta teologica, scientifica e politica. Il nostro obiettivo era di abbassare il tono per renderla comprensibile alle persone semplici. Per questo abbiamo creato una serie radiofonica di 20 puntate in cui San Francesco d’Assisi ritorna sulla terra e scopre i disastri prodotti dall’uomo. Sfruttando la sua abilità nel parlare con tutti, lo facciamo dialogare con il fratello petrolio, con la sorella soia transgenica, con il fratello mais e via dicendo, percorrendo tutta l’America Latina per far intendere l’impatto del cambio climatico e la gravità della situazione».

Mauricio, come avete accolto l’annuncio del Sinodo panamazzonico dell’ottobre 2019?

«Come una grande opportunità. Il nostro slogan è “amazonizar el mundo” (amazzonizzare il mondo). Che significa rendere cosciente il mondo intero dell’importanza vitale di questo territorio unico. Bellissimo, fragile e profondamente minacciato».

Paolo Moiola


Siti

• il sito della diocesi di Huancayo: www.arzobispadodehuancayo.org
• il sito dell’«Observatorio de Conflictos Mineros en el Perú»: http://conflictosmineros.org.pe/
• il sito della «Rede eclesial panamazónica» (Repam): http://redamazonica.org/




Catalogna toxic tour


Un gruppo di settanta attivisti ha visitato a fine ottobre alcuni siti industriali nella provincia di Terragona, in Catalogna, per valutae e denunciae l’impatto ambientale, culturale, sociale. Una carovana alla sua terza edizione che ha offerto uno spazio di libertà per indignarsi, intuire nuovi stili di vita, studiare alternative, costruire vincoli di affetto con il territorio.

Conoscere la propria terra e la sua gente, costruire narrative comuni, trovare strategie di resistenza, scoprire e condividere modi nuovi di vivere la vita e il mondo. Essere il filo che tesse insieme territori a volte isolati o dimenticati, o sacrificati. Questo è il senso dei cosiddetti toxic tours, carovane di attivisti che visitano e documentano siti ambientali in condizioni di particolare pericolo, per verificarne la tossicità, il livello di inquinamento a causa, spesso, dell’industria estrattiva ed energetica.

I toxic tours, nati nelle terre zapatiste del Messico, si sono diffusi negli Stati Uniti, in Italia, Ecuador, Colombia e altrove.

Il tour catalano

Lo scorso 29 ottobre uno di questi toxic tours si è svolto nella provincia di Terragona, territorio della comunità autonoma di Catalogna affacciato sul mar Mediterraneo, a Sud Ovest di Barcellona. Obiettivo, quello di visitare e valutare l’impatto ambientale di alcune attività industriali come quelle di Repsol o Dow Chemical nel polo petrolchimico della città di Tarragona, o della piattaforma di deposito di gas Castor nel territorio della cittadina di Alcanar, oltreché di interrogarsi sull’«architettura dell’impunità» con cui le grandi corporations operano.

Sovranità energetica

La terza edizione del Volt ha radunato, per tre giorni, un gruppo di 70 attivisti. Tra loro c’erano lavoratori di cornoperative, insegnanti, studenti, ingegneri, cooperanti, ricercatori, operai e rappresentanti di movimenti sociali indigeni colombiani e guatemaltechi. L’iniziativa, organizzata dalla Xarxa per la Sobirania Energètica (Xse, rete per la sovranità energetica1), ha riunito non solo un ventaglio ampio di competenze e conoscenze, ma anche di cittadini preoccupati per gli impatti ambientali, sociali ed economici dell’attuale modello energetico. Ha creato uno spazio «mobile», dove imparare, indignarsi, studiare alternative e costruire vincoli d’affetto con il territorio.

Central nuclear Vandellós

Grandi progetti (e interessi)

Molti degli attivisti del Volt3 avevano partecipato anche alle precedenti edizioni. Nella prima, con lo slogan «Anche sull’energia vogliamo decidere noi!», il gruppo aveva visitato, nella provincia di Terragona, la piattaforma terrestre del progetto di deposito di gas Castor, le centrali nucleari di Vandellós, le terre minacciate dall’immobiliare Bcn World, quelle che resistevano al fracking, le coste di Palamós a rischio per le prospezioni petrolifere marine. I progetti visitati dal Volt1 erano molto diversi tra loro, ma con alcuni comuni denominatori: l’assenza di consultazione della popolazione locale, gli insufficienti studi d’impatto ambientale e l’opacità dei grandi interessi economici e finanziari.

Il Volt2 aveva lanciato quindi «una sfida ai grandi progetti energetici» e riunito 90 partecipanti per visitare le grandi infrastrutture di interconnessione per il gas e l’elettricità tra la penisola iberica e il resto d’Europa: il gas-dotto Midcat, il deposito di gas di Balsareny, le torri dell’autostrada elettrica Mat di Graus (grandi investimenti per un progetto poi abbandonato a metà2) e Sabiñanigo in Aragona, paese già noto per il più grande caso di inquinamento chimico d’Europa3.

La Mat, il Midcat e molte altre infrastrutture simili vengono sponsorizzate con forza dall’Unione europea che ha messo a disposizione il fondo Connecting Europe Facility (Cef) e il Fondo europeo per gli investimenti strategici, meglio conosciuto come Plan Junker. Sono circa 248 i megaprogetti, spesso individuati senza un dibattito democratico nei paesi membri, in attesa di essere dichiarati Progetti di interesse comune (Pic), con cui Bruxelles spera di costruire «l’Unione dell’energia, integrando i mercati europei del settore e diversificando le fonti e le rotte». I Pic ufficialmente dovrebbero contribuire «a porre fine all’isolamento energetico che caratterizza alcuni stati membri e favoriranno la penetrazione delle rinnovabili nella rete, riducendo le emissioni di biossido di carbonio»4. Più sicurezza energetica, più servizi e più benessere: chi rifiuterebbe un’offerta così?

Tuttavia, da un esame più accurato, risulta che i progetti favoriranno più che altro la «sicurezza energetica» delle imprese che controllano il mercato degli idrocarburi. Le stesse in coda per completare il mercato unico europeo di gas ed elettricità attraverso infrastrutture di interconnessione tra i diversi paesi. Il piano lascia a desiderare per la mancanza di un processo democratico nelle decisioni e non spiega perché la Spagna debba aumentare il potenziale di produzione di energia e di trasporto di risorse quando quelle già esistenti sono sottoutilizzate e la produzione è superiore alla domanda e al bisogno. Rimane poi incredibile la mancanza di responsabilità e riparazione o compensazione delle imprese che spesso sono parte di grandi gruppi oligopolistici.

Dov’è finita la sovranità degli stati sul tema? È la garanzia democratica che ne dovrebbe guidare le scelte? A favore e a scapito di chi viene erosa la sovranità energetica, e come recuperarla?

Un’impunità che corre lungo la catena delle commodities

Quest’anno il Volt3, con lo slogan «Di fronte all’impunità corporativa, sovranità popolare!», si è interrogato su ciò che il prof. Juan Heandez Zubizarreta, docente dell’Università del País Vasco e promotore della campagna Dismantle Corporate Power5, ha chiamato l’«architettura dell’impunità» delle grandi corporazioni. Gli attivisti hanno visitato molti progetti, tra cui il polo industriale e petrolchimico della città di Terragona, enorme e costante produttore di rumore e fumi. Ciascuno indossava una mascherina foita dal collettivo di attivisti locali Cel Net (Cielo Pulito). In quel sito industriale imprese come Repsol o Dow Chemical trasformano il petrolio in derivati per gli usi più vari, da quello agricolo al bellico. Nell’aria, un forte odore di fumo e di bruciato che spesso impedisce alla gente residente nei dintorni di aprire le finestre di casa. Il collettivo locale Cel Net è impegnato nella costruzione di un «Tavolo per la qualità dell’aria», ne monitora la costituzione e denuncia i tentativi delle imprese di difendere la propria immagine a danno di verità e trasparenza.

Che cosa esattamente venga prodotto là dentro e da dove derivino le materie prime non è informazione facile da ottenere. Inoltre, la condotta di quelle stesse imprese in altri paesi non dice nulla di buono sui loro principi di trasparenza, giustizia e responsabilità. Sono casi noti, infatti, quelli di inquinamento massivo e di violenza sulle popolazioni locali nell’Amazzonia peruviana per l’estrazione di petrolio, o quello della exit strategy dall’India della Union Carbide (dal 2001 di proprietà della Dow Chemical) dopo aver provocato la più grande contaminazione della storia del paese nella città di Bhopal.

«Non avrei mai immaginato che queste imprese facessero danni anche nei paesi europei», ha affermato Aparicio, ricercatore dell’Università Indigena Autonoma del Cauca (Colombia), durante la visita, fissando la colonna di fumo: «Noi vediamo gli effetti dell’estrazione del petrolio, ma non immaginavamo cosa avviene durante la sua trasformazione e la produzione di derivati».

Un tribunale di giustizia della società civile organizzata

Il Volt3 ha voluto denunciare soprattutto il progetto Castor, la piattaforma di deposito di gas che ha drammaticamente socializzato le perdite mentre privatizzava i benefici a favore di oligarchie corporative. Di proprietà dell’impresa Escal Ugs, vede la partecipazione per il 66,7% dell’impresa costruttrice Acs, il cui presidente, Florentino Perez, è uno degli imprenditori più controversi del paese anche se il suo nome è più comunemente legato alla presidenza del Real Madrid. Al largo della costa di Alcanar, Acs ha costruito una piattaforma marina destinata a immagazzinare fino a 1,3 miliardi di metri cubi di gas, mentre nella terra ferma il suo terminale terrestre occupa una superfice di 28 ettari. La stessa impresa costruttrice in altri paesi è associata a dighe per la produzione di energia idroelettrica come la Renace in Guatemala, o la Inga in Congo RD, responsabili di violazioni del diritto ambientale e delle comunità locali. Ciò che doveva essere il progetto all’occhiello della Eu Project Bond Initiative per trovare sul mercato finanziario investitori di megaprogetti energetici, non ha fatto però i conti con il territorio e le sue condizioni geomorfologiche, nonché con le norme di legge. Il progetto di Acs ha creato più di mille terremoti che hanno recato danni materiali nei comuni di Vinarós e Alcanar e non ha rispettato le normative riguardanti il previo studio ambientale. Al manifestarsi della sua pericolosità, il governo ha sospeso l’attività nel settembre 2013 e la causa legale è tuttora in corso. Ciò che però è già deciso è chi paga il debito di 4,7 miliardi di euro venutosi a creare con lo stop al progetto: la clausola 14 del contratto prevede il diritto per l’impresa di reclamare indennizzi economici dal governo, cioè dai cittadini ignari di ciò che si celava fra le righe dell’accordo, che restituiranno il loro «debito» tramite una quota nella loro bolletta del gas per i prossimi 15 anni.

«L’impresa Escal Ugs e i suoi partner sono i veri debitori, ma ora è sparita dalla mappa degli attori coinvolti, e sembra che siamo noi i padroni di questo mostro: è diventato un impianto pubblico!», osserva sarcastico Joan Ferrando, portavoce della Plataforma en Defensa del Sénia, di fronte ai giornalisti presenti alla conferenza stampa convocata di fronte alla piattaforma terrestre6. Le entità promotrici del Volt3 seguono da anni ormai le vicissitudini del Castor e annunciano la nascita di un Tribunale Popolare per il giugno 20177. «Questo progetto è una vergogna, il simbolo dell’arroganza e dell’impunità delle imprese e dell’omertà del potere pubblico, nonché della politica europea chiaramente in difesa di interessi affaristici a discapito di un sistema energetico più ecologico e democratico», afferma il comitato promotore. Mònica Guiteras, rappresentante della Xse, afferma che «il giudizio è un’azione simbolica ma anche effettiva, perché non vogliamo che si zittisca questa resistenza».

Ricostruire il territorio

Il Volt si è riconfermato anche quest’anno come un importante momento conviviale per tessere relazioni, formarsi in una scuola itinerante, capire che lo spazio in cui abitiamo non è solo terra e aria e acqua, ma un territorio con la sua complessità ecologica, la sua memoria storica, i suoi abitanti, le persone e gli altri esseri viventi, meritano uguale ascolto. Uno spazio conviviale per ricostruire fiducia e narrative alternative, per difendere quei modi di vita e di gestire la «cosa pubblica» per il bene comune che vengono calpestati o negati; e per confermare legami di solidarietà internazionale, per arrivare laddove altri chiudono gli occhi.

Daniela Del Bene


Note:

1- La Xse (www.xse.cat) si è costituita nel 2012 su iniziativa di alcune Ong e comitati catalani allo scopo di ripensare collettivamente il modello energetico. Il Volt è uno dei suoi appuntamenti più importanti.

2- In Francia il progetto prevedeva linee sotterranee, mentre in Spagna erano previsti corridoi ampli fino a 400m sospesi su alte torri di 60 m. L’enorme impatto paesaggistico e ambientale si sarebbe sommato a quello sociale conseguente all’acquisizione forzosa di terre agricole e abitate. A Graus la popolazione si è organizzata nella Plataforma Unitaria contra la Autopista Electrica: autopistaelectricano.blogspot.com.es.

Ulteriori dettagli nell’Ejatlas: ejatlas.org

3- A Sabiñanigo, nella zona prepirenaica della comunità di Aragón, al confine con la Catalogna, dal 1975 si produceva il lindano, un insetticida usato in agricoltura per anni nonostante fosse altamente contaminante. I residui di produzione sono stati sistematicamente versati nel fiume Gallego dall’impresa responsabile, Inquinosa. Per la sua tossicità, la produzione è stata sospesa nel 1989, ma l’impresa l’ha continuata fino al 1994, dichiarando falsa attività. Successivamente il prodotto è stato bandito dall’Ue, ma l’impresa non ha mai ripulito il fiume e la terra. La fabbrica rimane in piedi, abbandonata, con barili di prodotto contaminante al suo interno. Se ne parla in ejatlas.org

4- Tratto dal comunicato stampa della Commissione europea, 18 novembre 2015.

5- La Global Campaign to Reclaim Peoples Sovereignty, Dismantle Corporate Power and Stop Impunity (Campagna Globale per reclamare la sovranità popolare, smantellare il potere corporativo e fermare l’impunità) nasce nel 2011. Nell’ottobre 2016 raggruppa piú di 200 organizzazioni da tutto il mondo, tra cui il Transnational institute, Friends of the earth inteational, La via campesina. La campagna lavora a piú livelli, dalla base dei movimenti sociali per studiare, analizzare, raccogliere prove, fino alla pressione in seno alle Nazioni unite con la finalità di ottenere un trattato internazionale vincolante contro le violazioni dei diritti umani da parte delle imprese multinazionali. Grazie a tale pressione, il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha accettato di lavorare su una proposta di trattato, nonostante le azioni di boicottaggio di molti paesi, tra cui diversi dell’Unione europea. Per maggiori informazioni: www.stopcorporateimpunity.org; e per approfondire alcuni casi: ejatlas.org

6- Il video della conferenza stampa si trova su Youtube: La Calamanda. Presentacio del Judici Popular contra el Projecte Castor.

7- Il Tribunale popolare per il progetto Castor si ispira alle molte iniziative di giurisprudenza popolare nate negli anni ’70 su iniziativa dell’avvocato e senatore italiano Lelio Basso. I Tribunali popolari si avvalgono di esperti di diritto, di diritti umani e del sapere radicato nei territori colpiti da ingiustizie con l’obiettivo che «la coscienza pubblica diventi fonte riconosciuta di diritto»: http://permanentpeoplestribunal.org/




Giappone 1 / L’Eredità di Fukishima

Dopo il disastro dell’11 marzo 2011: l’incubo durerà a lungo.  Si dice che la bonifica durerà 40 anni. Intanto, nella centrale devastata dallo tsunami del marzo 2011, gli allarmi continuano. Acqua radioattiva è arrivata fino in Califoia. Nonostante gli evidenti problemi, il premier Abe ha confermato la scelta nucleare del paese. E l’ottimismo viene alimentato anche con l’assegnazione al Giappone delle Olimpiadi del 2020. A Fukushima abbiamo camminato tra le rovine e parlato con i sopravvissuti. Queste sono le loro storie.

Il semaforo giallo continua a lampeggiare ritmicamente. Incessantemente. È l’unico segnale di presenza umana rimasto nella cittadina di Futaba, meno di tre chilometri in linea d’aria dalla centrale di Fukushima Daiichi, l’impianto nucleare colpito dallo tsunami del marzo 2011 e da cui continuano a fuoriuscire notevoli quantità di isotopi radioattivi. La statale numero 6, l’importante arteria stradale che segue la costa verso nord, è improvvisamente interrotta: un cartello spiega che oltre è impossibile proseguire, ma non ne indica il motivo, del resto troppo facile da intuire. La ferrovia è completamente avvolta nella fiorente vegetazione.

Parcheggio l’auto lungo quella che era la via principale del nucleo abitato: il silenzio penetra fin dentro le ossa. Improvvisamente un grugnito: dietro me un maiale, a una decina di metri di distanza, mi scruta immobile e titubante prima di riprendere la sua strada e immergersi nel giardino incolto di una casa privata. A Minamisoma, l’ultima città prima di entrare nella zona proibita, mi avevano avvertito della presenza di animali domestici inselvatichiti: maiali, cani, gatti, mucche che si aggirano indisturbati tra i campi abbandonati alimentandosi di prodotti di un suolo dove il Cesio 137 è decine di volte superiore alla norma. Animali destinati a morire nel giro di qualche anno, uccisi da invisibili atomi che rilasciano particelle ad alta energia danneggiando il loro Dna.

Poco più avanti, a Tomioka, i segni dello tsunami sono ancora evidenti: la stazione del treno è distrutta e l’intero paese, anch’esso disabitato, è devastato. Qui il tempo si è fermato a quell’11 marzo del 2011. Nel piccolo ristorante di fronte al porticciolo i piatti sono impilati uno sull’altro in attesa di clienti che ormai non arriveranno più, mentre nelle case sventrate si intravedono giocattoli, quadri, giornali. Un calendario magnetico ha ancora il cerchietto centrato sulla casella dell’11 marzo. Da allora nessuno lo aggiorna, così come nessuno fa ripartire le lancette di un orologio fermo all’ora del disastro. Tutto intorno, per chilometri e chilometri, case distrutte, elettrodomestici accatastati, carcasse di auto, negozi sbarrati da fogli di compensato.

Della «Tepco», ovvero  del crollo del mito giapponese.

Se Chernobyl è stata una sciagura, Fukushima continua a essere un cataclisma. Gli incidenti nella centrale giapponese non sono mai cessati e la popolazione si è sentita ingannata da una compagnia elettrica – la Tepco, gestore dell’impianto – inetta e pasticciona appoggiata da un governo bugiardo e infingardo. A tutto questo si aggiunga anche l’incompetenza dei tecnici, e ci troviamo di fronte a un quadro assolutamente desolante e raccapricciante.

Per evitare la bancarotta, Tokyo ha deciso di nazionalizzare, almeno in parte, la Tepco: 22 miliardi di euro che andranno ad aggiungersi ai 190 miliardi di euro (rispetto ai 75 preventivati solo qualche mese fa) necessari per la bonifica dell’area che, secondo l’ultimo rapporto della Commissione per la Sicurezza Nucleare giapponese durerà all’incirca quarant’anni. Nonostante la centrale di Fukushima sia divenuta una divoratrice di denaro pubblico, i problemi che continuano a nascere uno dopo l’altro senza interruzione pongono una seria incognita sul futuro dell’intera regione e sulla sorte dei suoi abitanti.

Lo sversamento in mare di centinaia di tonnellate d’acqua radioattiva utilizzata per il raffreddamento dei reattori fusi è solo l’ultimo di una impressionante catena di incidenti causati, per la maggior parte, dall’imperizia e dalla superficialità con cui la Tepco e il governo hanno affrontato l’incidente. Ora si è aggiunta la paura del cedimento della struttura che ingloba il reattore numero 4, sprofondata per una ventina di centimetri nel terreno reso fradicio dalle perdite di acqua.

La situazione rischia di non essere più controllabile, come dimostra la continua oscillazione delle misure di radioattività che vengono continuamente monitorate nei vari punti della prefettura di Fukushima.

Il passaggio di consegne dello scettro di primo ministro da Yoshihiko Noda, esponente del Partito Democratico (Pd) a Shinzo Abe, del Partito Liberaldemocratico (Pld), avvenuto il 26 dicembre 2012, ha ulteriormente ingarbugliato la matassa politica ribaltando, per l’ennesima volta, l’agenda energetica del paese. Dopo lo tsunami del 2011, infatti, i democratici, allora al governo, avevano deciso di varare un programma che azzerasse, entro il 2040, la produzione di energia nucleare nell’arcipelago dando il via alla nascita di una serie di proposte per l’utilizzo di fonti energetiche alternative a quelle tradizionali. Il più prolifico e concreto tra gli scienziati è Tetsunari Iida, fondatore e direttore dell’Isep (Institute for Sustainable Energy Policies): «Il nostro obiettivo è quello di creare una società che possa essere alimentata per il 100% da energie rinnovabili» afferma il ricercatore con un passato da ingegnere nucleare alle spalle. L’idea, per raggiungere tale traguardo, è esattamente l’opposto di quello che è accaduto in Italia fino a qualche anno fa: anziché tappezzare vaste superfici di terreno con pannelli solari sottraendole alla produzione agricola o di creare megacentrali idroelettriche costruendo dighe ed enormi bacini artificiali, Iida, e con lui molti altri ricercatori giapponesi, propongono piccoli impianti a livello domestico e comunale. «In questo modo l’impatto ambientale sarebbe minimo e competerebbe alla stessa comunità provvedere al suo mantenimento, abbattendo i costi di gestione». Secondo uno studio del ministero dell’Ambiente giapponese, l’introduzione di piccole e medie centrali idroelettriche, l’energia eolica (da potenziarsi principalmente lungo le coste del Tohoku e di Hokkaido), l’energia geotermica potrebbero fornire un contributo energetico importante. Secondo un rapporto del Wwf, il divario tra energia prodotta e energia consumata potrebbe essere colmato entro il 2050 affiancando un aumento dell’efficienza e del risparmio energetico alle fonti rinnovabili (oggi solo il 3,79% dell’energia totale consumata in Giappone proviene da queste ultime).

 

Le certezze di Shinzo Abe

Di diverso avviso è, invece, l’attuale primo ministro Shinzo Abe il quale, dopo essere salito al governo ha confermato l’opzione nucleare adducendo come giustificazione il fatto che la tecnologia delle energie rinnovabili, con la loro stretta dipendenza dagli eventi naturali, non è ancora pronta a sostituire la continuità produttiva che garantisce la fissione dell’atomo.

Così, dopo anni di sospensione, è ripresa la costruzione di due nuove centrali: quella di Ohma-1, nella provincia settentrionale di Aomori, e Shimane-3, sulla costa meridionale del Mar del Giappone.

A Wakinosawa, nella penisola di Shimokita, Takayuki Isoyama oltre a gestire un ostello è anche membro della Commissione ambientale della Riserva naturale della regione. A lui chiedo se, dopo Fukushima, si sono levate voci contro il completamento della centrale di Ohma-1: «Ben poche» è la sua risposta; «La costruzione della centrale offre opportunità di lavoro a migliaia di locali e, visto che questa è una delle regioni più povere del Giappone, le opzioni sono due: o si emigra o si sfruttano le possibilità che si vengono a creare».

Questa scelta obbligata è uno dei principali motivi per cui il movimento antinucleare trova ostilità anche tra gli stessi abitanti della provincia di Fukushima. Nelle ultime elezioni, tenutesi nel luglio 2013, il Partito Liberaldemocratico ha ottenuto più del doppio dei voti del Partito Democratico. «Merito dei posti di lavoro che l’incidente della centrale ha creato» spiega Sachiko Goto, un membro del movimento antinucleare che, assieme alla sua famiglia, gestisce una tenuta agricola proprio alla periferia della città di Fukushima, ad una cinquantina di chilometri dalla centrale atomica. Ma non è solo questa la motivazione: un impiegato della prefettura (l’equivalente della nostra provincia), che si occupa di misurare la radioattività nel terreno, aggiunge che la vera ragione per cui le ue hanno decretato il trionfo del Pld «non è un premio alla sua politica pro-nucleare, ma un modo per spronare il premier, Shinzo Abe, a varare piani di recupero e di salvaguardia per far rientrare la situazione di emergenza creatasi dopo lo tsunami del 2011». Abe, infatti, ha sempre imputato la scarsa incisività del governo per risolvere la questione di Fukushima, alla divisione del parlamento giapponese. La camera bassa, a maggioranza liberaldemocratica, avrebbe varato leggi e decreti che sarebbero poi stati ostacolati nella loro attuazione dalla camera alta, in mano democratica. Tutti, in realtà, sanno che la vera spiegazione dell’indecisione politica è da ricercarsi nella divisione interna del Pld e nelle sue correnti, che fanno a gara per favorire questa o quella parte industriale nell’accaparramento dei lucrosi appalti. «Ora, però, che il Pld ha la maggioranza assoluta in entrambe le camere, Abe non ha più scuse» conclude l’impiegato prefettizio.

Gli interessi sono enormi, non solo a livello locale, ma anche su scala nazionale e internazionale, visto che la Abeconomy deve passare necessariamente dallo sviluppo nucleare per poter decollare.

Il Giappone ha già concluso contratti miliardari per foiture di impianti e macchinari atomici con Turchia (17 miliardi di euro) ed Emirati Arabi, mentre sta siglando accordi con India, Brasile, Arabia Saudita, Vietnam per un totale di 200 miliardi di euro.

La stessa Keidanren, l’equivalente giapponese della Confindustria, si è apertamente schierata a favore del nucleare, bollando di irresponsabilità la proposta di chiusura definitiva delle centrali atomiche lanciata dall’Enecan, l’Energy & Environment Council giapponese recentemente sciolta dal governo. Gli stessi principali conglomerati nipponici sono pesantemente coinvolti nell’industria della fissione nucleare: la Mitsubishi e l’Hitachi hanno partecipazioni nell’Areva e nella General Electric, mentre la Westinghouse è stata assorbita dalla Toshiba.

Per dimostrare che Fukushima è stato un incidente isolato, i centri di pubbliche relazioni delle centrali nucleari più esposte a eventuali tsunami, hanno aggiunto nuovi pannelli che illustrano le misure di sicurezza intraprese per fronteggiare eventi simili a quelli accaduti nel marzo 2011. Con l’assegnazione delle Olimpiadi 2020 a Tokyo, anche la comunità internazionale ha voluto dare fiducia agli sforzi che si stanno conducendo per tamponare la critica situazione che si è venuta a creare in Giappone.

Nella sua tragedia umana e ambientale, l’incidente di Fukushima ha, però, avuto il merito da una parte di sollevare il problema della sicurezza e dall’altra di rinvigorire lo stremato movimento antinucleare dell’arcipelago.

Così, le stesse industrie impegnate nel nucleare come Mitsubishi e Toshiba, oggi stanno guardando con maggior interesse alle energie rinnovabili. Con un giro di affari che si aggira, nel 2013, sui 20 miliardi di euro, l’industria dell’energia «verde» è appena agli inizi ed è ancora poco competitiva, in fatto di prezzi e di tecnologie, rispetto alle fonti tradizionali, ma la ricerca sta continuamente implementando nuove soluzioni più redditizie.

È comunque la stessa Enecan (quella tacciata di irresponsabilità dalla Keidanren) ad aver indicato che l’attuale costo per kWh dell’energia nucleare in Giappone è di 8,9 yen (0,068 centesimi di euro; in questo conteggio sono compresi i costi di gestione per il rafforzamento della sicurezza), contro i 23-58 yen/kWh (0,176-0,441 Euro) delle energie rinnovabili, a seconda del tipo di energia utilizzata e della potenza dell’impianto.

Stili di vita insostenibili

«Se vogliamo dare un futuro ai nostri figli, dobbiamo deciderci ad abbandonare l’atomo» mi dice Iwasa Miko, accesa sostenitrice del movimento antinucleare che vive ad Hippo, nella prefettura di Miyagi.

Il problema è che, per riuscire a raggiungere l’obiettivo proposto dalle associazioni ambientaliste, non basta aumentare decisamente la produzione di energia «verde»; occorre convincere milioni di giapponesi a modificare radicalmente il loro stile di vita.

Le case, ad esempio, sono un insulto al risparmio energetico: caldissime d’estate e gelide d’inverno, sono estremamente energivore. Solo in questi ultimi anni si è cominciato a costruire appartamenti secondo criteri più consoni all’economia del risparmio. Gli stessi giapponesi hanno scoperto da poco che esiste, nel loro vocabolario, la parola setsuden, «risparmio di energia», ma ci vorrà del tempo per educare un’intera fetta di popolazione a rispettare anche le più elementari regole dell’avvedutezza.

E se, nella prefettura di Tokyo, rispetto agli anni precedenti, ho riscontrato un uso più oculato dell’aria condizionata nei luoghi pubblici, al di fuori delle cinture metropolitane si continuano ad utilizzare condizionatori a temperature inaccettabilmente basse.

«È possibile che il Giappone passi a energie alternative al nucleare, ma tutti dobbiamo impegnarci a raggiungere questo traguardo» mi dice Sachiko Goto.

Lei, assieme ad altri contadini, ha subito le conseguenze del fallout radioattivo perdendo circa il 20% dei suoi clienti: «Tra gli agricoltori della nostra zona siamo stati fortunati. La maggior parte ha subito contrazioni anche del 40%. Noi ci siamo salvati grazie alla scelta di vendere direttamente ai privati, senza passare attraverso cooperative o grandi catene alimentari».

La prospettiva di Sachiko è stata profetica, così come profetica (purtroppo) è stata la sua campagna antinucleare, pressoché solitaria, iniziata all’indomani dell’incidente di Cheobyl.

 

Problemi e paure di chi è rimasto

Oggi le aziende agricole, per dimostrare che i loro prodotti non contengono isotopi radioattivi, controllano i raccolti con un contatore Geiger. «È un lavoro lungo e faticoso, oltreché costoso, ma, anche se nessuna legge ci obbliga a farlo, preferiamo effettuare le analisi per una questione di sicurezza sociale» afferma Shigeki Oota, marito della già citata Iwasa Miko. Una ventina d’anni fa hanno lasciato Tokyo per trasferirsi tra le montagne di Hippo. Qui hanno iniziato a produrre miso, la salsa usata sulle tavole giapponesi per insaporire la verdura. A differenza degli agricoltori della prefettura di Fukushima, Shigeki e Miko, che vivono nella contigua prefettura di Miyagi, non hanno diritto ad alcun rimborso per le perdite subite a causa del fallout. Le strette vallate e le coltivazioni che si arrampicano sulle pendici dei monti, rendono la vita particolarmente difficile e dura, ma la famiglia Oota, assieme ai loro quattro figli, non si lamenta. «Molti se ne sono andati dopo l’incidente alla centrale nucleare» spiega Miko. «Noi, dopo qualche settimana di trasferimento a Tokyo aspettando che i livelli di radioattività si abbassassero, abbiamo preferito tornare». Una scelta coraggiosa, oltreché difficile, e non solo per l’asprezza della vita. L’impegno antinucleare di Shigeki e Miko non è stato accolto benevolmente dalla comunità montana: «Esiste sempre il timore che prendere precauzioni per controllare i livelli di radioattività, significhi ammettere che si ha un problema di inquinamento atomico, allontanando ancora più i consumatori e incancrenendo la crisi».

Naturalmente non è così, ma il costante martellamento dei media abbinato agli allarmi, molte volte scientificamente infondati, lanciati da alcune associazioni ambientaliste e antinucleari dell’ultima ora, non fanno altro che alzare il livello di guardia dell’opinione pubblica, aggravando le tensioni sociali. Così, la popolazione di Hippo si è divisa tra chi voleva monitorare costantemente il territorio e chi, invece, avrebbe preferito non intervenire. Alla fine molti abitanti antinucleari (per lo più famiglie di recente immigrazione provenienti dalla città), si sono arresi e hanno deciso di trasferirsi. Shigeki e Miko, invece, hanno continuato a combattere per le loro idee trovando, alla fine, un felice compromesso: «Tutti hanno capito che controllare il territorio e i suoi prodotti avrebbe confortato non solo i consumatori, ma gli abitanti stessi».

Meno conflittuale, ma altrettanto drammatica, è stata la vicenda di un altro piccolo produttore locale: Yasuhiko Niida, presidente della Kinpou, una ditta che, dal 1711 produce sake secondo il metodo tradizionale utilizzando solo riso coltivato biologicamente. La nube radioattiva è arrivata anche qui, nella regione di Koriyama, ad una sessantina di chilometri di distanza dalla centrale. «A causa della radioattività il fatturato è crollato del 30%» dichiara Yasuhido. Ma per la famiglia Niida, oltre al danno si è aggiunta anche la beffa: «Nel 2011 la Kinpou avrebbe compiuto trecento anni di vita ed eravamo tutti pronti a festeggiare il traguardo con un anno di eventi già organizzati. Invece ci siamo trovati a lottare per la sopravvivenza dell’azienda».

L’attaccamento alla tradizione famigliare abbinato al carattere tenace di Yasuhido, ha permesso alla ditta di superare il periodo più buio della sua lunga storia e a guardare, oggi, a un futuro più roseo: «Pur tra mille difficoltà siamo riusciti a non licenziare nessuno dei nostri venti dipendenti». Il segreto di tanta costanza sta nell’alta qualità dei prodotti: nel minuscolo ufficio condiviso con i suoi collaboratori più stretti, Yasuhido mostra orgoglioso la lista dei premi nazionali assegnati alla sua azienda. Mentre degustiamo il suo sake mi confida il suo ultimo sogno: «Convincere, entro il 2025, quando varcherò la soglia dei sessant’anni, tutti i contadini del villaggio in cui sorge la fabbrica a coltivare esclusivamente riso biologico». Un desiderio, questo, che manifesta la volontà di riscatto lasciandosi il passato alle spalle.

 


Quel che resta del mare

Non per tutti, però, è possibile dimenticare ciò che è successo quel terribile 11 marzo 2011. A Ishinomaki, un grosso centro peschereccio a nord della centrale di Fukushima, i pescatori continuano a lottare contro la radioattività. Questa volta proveniente dal mare.

Nonostante la ricostruzione abbia rinnovato la cittadina, le rovine ancora presenti lungo la costa continuano a ricordare agli abitanti che l’oceano è sempre lì, pronto a dare la vita, ma anche a riprendersela.

Prima del 2011 Ishinomaki era il principale punto di rifornimento di prodotti marini di Tokyo. Le perdite nelle acque costiere di sostanze radioattive dalla vicina centrale di Fukushima, hanno convinto gli acquirenti della capitale a rifoirsi più a nord, ad Hokkaido, mettendo in ginocchio l’intera industria ittica della regione. Alle cinque di mattina vado a osservare i primi pescherecci che scaricano il pescato sulle banchine del porto. Alle sei i compratori cominciano ad arrivare: sono tutti locali che riforniscono ristoranti o piccoli centri commerciali della zona. Nessuno di loro manderà i prodotti acquistati a Tokyo. «Una volta che il mercato ha segnato le proprie rotte commerciali, è pressoché impossibile cambiarle» spiega un ricercatore dell’Università di Tokyo che al problema di Ishinomaki ha dedicato uno studio approfondito. Ma forse il luogo che più di tutti rappresenta il dramma che stanno vivendo i giapponesi attorno alla centrale nucleare, è Iitate. Nonostante il paesino non sia stato colpito né dal terremoto né tantomeno dallo tsunami trovandosi ad una sessantina di chilometri dalla costa, nessuno dei suoi duemila abitanti è rimasto a risiedervi. I venti che soffiano dal mare continuano a trasportare atomi di Cesio 137 e Stronzio 90, assieme a finissime particelle di Uranio liberatisi dai tre reattori fusi, che si depositano sul terreno. Le montagne che delimitano le splendide vallate di questa regione sono state una delle cause della sua rovina, incanalando le correnti provenienti direttamente dalla centrale nucleare. Così, mentre attraverso le strade di Iitate, non vedo altro che desolazione ed abbandono: case chiuse, negozi vuoti, pali della luce arrugginiti, cartelloni pubblicitari avvolti nella vegetazione. E al posto delle mandrie di mucche la cui carne era famosa in tutto il Giappone, oggi vedo solo ruspe che scavano il suolo sino a venti centimetri di profondità nella speranza di estirpare la radioattività.

Tutta la terra dragata viene poi raccolta in grossi sacchi neri numerati e stoccata in appositi siti in attesa di trovare un modo sicuro per decontaminarla.

Questo immane lavoro dovrà essere fatto su tutta la superficie colpita dal fallout, vale a dire una striscia di territorio lunga una cinquantina di chilometri e larga dai cinque ai venti. È la lingua lungo la quale gli elementi che fuoriescono dalla centrale si disperdono nell’aria prima di depositarsi a terra. Migliaia di metri cubi di suolo sono già stati raschiati, ma è solo una piccolissima parte di ciò che si deve ancora completare.

Per snellire il lavoro ed evitare di saturare i centri di raccolta, nelle zone meno colpite ci si è limitati a sotterrare il terreno radioattivo coprendolo con suolo incontaminato. Nessuno, però, è in grado di promettere che l’emergenza sia terminata: il Cesio 137 potrebbe trovare il modo di giungere in superficie o, viceversa, penetrare più profondamente trasportato dalle piogge sino ad incontrare falde acquifere inquinandole.

 


Lontani da Fukushima

Al termine del mio viaggio visito uno dei tanti centri temporanei in cui sono stati smistati circa centocinquantamila abitanti della zona evacuata. Le abitazioni sono state ricavate in container ed ogni famiglia ha diritto ad una o due camere da letto, un minuscolo bagno, una cucina. La difficoltà maggiore è rappresentata dalla totale mancanza di privacy: gli «appartamenti» sono separati da sottili pareti da cui trapela tutto, e la convivenza diviene molto difficile, specialmente per coloro erano abituati a vivere in grandi case coloniche separate le une dalle altre da distese di campi.
Così, per mitigare la disperazione, molti contadini, appena possono, durante il giorno ritornano nelle loro dimore con la scusa di dover accudire al giardino o di prendere qualche vestito.
Per aiutarli il Centro di Volontari per la Ricostruzione di Minamisoma, in collaborazione con la Caritas locale, organizza giornalmente alcuni campi lavoro. Partecipo a uno di questi: ripulire dalle sterpaglie il giardino di una casa appartenente a un vecchio contadino. Un lavoro «a perdita», nel senso che tutti i partecipanti sanno che la zona non sarà abitabile per anni (se non per decenni), ma «oltre all’aspetto pratico dobbiamo valutare quello psicologico», chiarisce il coordinatore del gruppo. «Il solo fatto di sapere che c’è gente che ti aiuta, che non sei solo a lottare, infonde quella speranza di cui molti hanno estrema necessità per poter continuare a vivere».
La speranza che molti giovani hanno già perduto, abbandonando una terra ormai sterile e cercando di rifarsi una vita. Lontani da Fukushima.

 


       Gli Eventi                           

  • 11 marzo 2011, ore 14.46: un forte terremoto fa tremare la terra della provincia del Tohoku, nel Nord del Giappone. Con l’interruzione di energia elettrica, i generatori di emergenza della centrale nucleare di Fukushima entrano in funzione.
  • Ore 15.27: arriva la prima onda dello tsunami causando lo spegnimento della pompa di raffreddamento del reattore numero 1.
  • Ore 15.46: la situazione si aggrava con l’arrivo della seconda onda, la cui altezza (circa 14 metri) supera il muro di sbarramento a difesa della centrale, costruito per fronteggiare tsunami di massimo 10 metri.
  • Ore 19.30: i sistemi di raffreddamento si sono interrotti e il combustibile del reattore numero 1, senza liquido di raffreddamento, inizia a fondere.
  • Ore 21.00: la situazione è compromessa, tanto da indurre il governo a dare l’ordine di evacuazione di tutti coloro che vivono entro un raggio di 3 km dalla centrale.
  • 12 marzo 2011, ore 04.15: le barre di combustibile del reattore numero 3 iniziano a fondere.
  • 12 marzo 2011, ore 21.00: l’ordine di evacuazione viene esteso a 20 chilometri dalla centrale.
  • 14 marzo: è la volta del reattore numero 2 (la Tepco ammetterà soltanto nel maggio 2011 la fusione dei reattori).
  • settembre 2013: i problemi continuano. Acque radioattive vengono riscontrate dall’altra parte dell’oceano, in California.
       PER APPROFONDIRE                     

• Nicola Armaroli – Vincenzo Balzani, Energia per l’astronave Terra, Zanichelli, Bologna 2011 (il saggio ha vinto il Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica).
• Mirco Elena, Cheobyl e il Trentino. La paura atomica nel piatto, Trento 2007 (l’ultimo capitolo è dedicato a come i media dell’epoca trattarono l’evento, sottolineando anche errori e imprecisioni). Per eventuali richieste: elena@science.unitn.it.

       GLI AUTORI                        

Piergiorgio Pescali – Gioalista e scrittore, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, penisola coreana e Giappone. Suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Bbc, Cnn, Avvenire, Il Manifesto, Panorama e riviste specializzate. Dal 2010, cura per Asia Maior (www.asiamaior.org) il capitolo sul Myanmar. Ha scritto il saggio Indocina, Edizioni Emil, Bologna 2010.
Il suo blog: www.pescali.blogspot.com.

Mirco Elena – Fisico e ricercatore trentino, lavora da anni come divulgatore scientifico. Si occupa in particolare di pace e disarmo, di rapporti tra scienza e società e di energia nucleare.

Tiziano Tosolini – Missionario saveriano. Vive a Osaka, in Giappone, e dirige il Centro Studi Asiatico. Oltre che di cultura e religioni (si veda il suo Inteo giapponese. Tracce di un dialogo tra Oriente e Occidente, Emi, Bologna 2009), si occupa anche di filosofia giapponese (Scuola di Kyoto), e ha ultimamente tradotto il
volume di Tanabe Hajime, Il nulla e la croce. Due saggi filosofici su Buddhismo e Cristianesimo, Mimesis editore, Milano 2013.

Paolo Moiola – Redattore MC, per il coordinamento giornalistico del dossier.

Piergiorgio Pescali




Nulla si salva Allattamento e seno femminile (seconda parte)

(Nulla?si?salva) … dall’inquinamento. Neppure il latte materno. Nel corpo umano entrano decine di composti estranei («xenobiotici») che producono gravi conseguenze, fin dalla gravidanza. Le statistiche fotografano una situazione preoccupante: in Italia il tasso di tumori infantili è quasi il doppio degli altri paesi europei.

 


Il modello di sviluppo della nostra società ha portato a
grandi vantaggi economici (per qualcuno), ma ha causato una tale dispersione
ambientale di contaminanti chimici che probabilmente non c’è più ecosistema al
mondo che non ne sia interessato. L’inquinamento ambientale è causa di
molteplici patologie, che interessano una parte rilevante della popolazione,
tra cui i bambini. Questi ultimi sono particolarmente vulnerabili; in
particolare, durante la fase dello sviluppo prenatale l’esposizione a sostanze
chimiche avviene attraverso il sangue placentare. Tuttavia è importante anche
quella postnatale, in cui i contaminanti chimici giungono al bambino attraverso
il latte materno, il latte artificiale e gli alimenti successivi. Si stima che
le sostanze chimiche (prodotte dall’uomo e disperse nella biosfera e nella
catena alimentare), rintracciabili nel corpo umano – sostanze dette «xenobiotici»,
composti estranei all’organismo -, siano oltre 300. Diversi xenobiotici sono
liposolubili e la loro presenza può essere rilevata e misurata in diverse
matrici biologiche come sangue, siero, urina, sperma, cordone ombelicale e
latte materno. La consapevolezza di potere trasmettere sostanze tossiche
(potenzialmente molto pericolose) al proprio figlio può indurre una madre a
sospendere l’allattamento. Si tratta però di una decisione sbagliata. È infatti
scientificamente provato da diversi studi che, pur in presenza di contaminanti
chimici, l’allattamento al seno è da preferirsi per diversi motivi all’uso del
latte artificiale. Innanzitutto il latte materno contiene sostanze protettive,
che aiutano lo sviluppo neuromotorio, cognitivo e del sistema immunitario e può
pertanto mitigare gli effetti avversi di una precedente esposizione in utero,
cosa che il latte artificiale non può fare. Quest’ultimo, inoltre, può essere
contaminato come e anche più del latte materno, visto che i latti in formula
vengono preparati a partire da latte vaccino, spesso fortemente contaminato da
inquinanti ambientali. Bisogna inoltre considerare che anche gli oggetti
utilizzati nell’allattamento artificiale come biberon, tettarelle, pellicole di
materiale plastico per la conservazione del latte in polvere possono rilasciare
sostanze chimiche tossiche per il bambino e, al rischio chimico, può
aggiungersi quello biologico, dal momento che possono essere presenti cariche
batteriche già in fase di produzione del latte artificiale, oppure durante la
sua ricostituzione per effetto di un’errata preparazione, manipolazione o
conservazione.

Tra i principali inquinanti, rintracciabili nelle
matrici biologiche (e quindi anche nel latte materno), ci sono metalli come il
mercurio, il piombo, il nichel, l’arsenico ed il cadmio ed inoltre benzene,
idrocarburi aromatici policiclici, pesticidi, ritardanti di fiamma, diossine,
furani e policlorobifenili (Pcb). La maggior parte di questi inquinanti entra
nella catena alimentare, quindi sono assorbiti dal corpo umano attraverso i
cibi. Altre vie d’ingresso sono la pelle e il sistema respiratorio. La loro
pericolosità raggiunge l’apice quando riescono a contaminare le cellule
germinali che danno origine a ovociti e spermatozoi, perché in tal caso possono
interferire con la salute delle future generazioni e non solo del singolo
individuo. Vediamo quali sono le principali patologie causate dagli xenobiotici
succitati.

Per quanto riguarda i metalli pesanti, mercurio, piombo, arsenico e cadmio sono
cancerogeni, procancerogeni e tossici per il sistema nervoso, con effetti sullo
sviluppo cognitivo e sull’intelligenza. Il mercurio causò il famoso disastro di
Minamata in Giappone negli anni ’50. Venne rilasciato metilmercurio nelle acque
reflue dell’industria chimica Chisso Corporation. Esso contaminò pesci e
crostacei nella baia di Minamata (da cui prende il nome l’omonima sindrome),
entrando nella dieta delle gestanti. A seguito di ciò nacquero bimbi con
gravissime lesioni cerebrali e danni permanenti a vista, udito ed arti. La
principale fonte di mercurio è quindi l’alimentazione a base di pesce
contaminato.

Il piombo è classificato dalla Iarc  (Inteational Agency for Research on
Cancer
) come possibile cancerogeno (gruppo 2B) per l’uomo ed è inoltre
causa di una gravissima forma di anemia, il satuismo, oltre che di
ipertensione arteriosa e danno renale. Se assimilato in gravidanza, è associato
a lievi disturbi neurologici e comportamentali nell’infanzia. L’esposizione al piombo
può essere professionale (veici, batterie, esplosivi, costruzioni, miniere,
fonderie), domestica (ristrutturazioni, hobby come la colorazione dei soldatini
di piombo, uso di vecchio vasellame smaltato per alimenti), dovuta all’acqua
potabile trasportata in vecchie tubature di piombo oppure a vecchie otturazioni
dentarie a base di piombo.

L’arsenico può essere ingerito con acque di falda, dove
può trovarsi per cause naturali in quantità pericolose per la salute, oppure
per la presenza di pesticidi e fertilizzanti, che lo contengono. Anche il riso
coltivato in acqua contaminata può essere fonte di arsenico.

La fonte principale di cadmio è il fumo di sigaretta. I
metalli appena citati, se presenti nel sangue materno, possono attraversare la
placenta durante la gravidanza e danneggiare lo sviluppo del cervello in epoca
prenatale e nella prima infanzia. Il livello del mercurio nel cordone
ombelicale può essere 1,5 volte rispetto a quello nel sangue materno. La
contaminazione massima da metalli si ha alla nascita, poi i valori tendono a
diminuire, perché i metalli pesanti sono secreti solo in piccola quantità con
il latte materno, tanto che, con l’allattamento esclusivo al seno, nei primi 3
mesi i valori del mercurio nel sangue del neonato possono ridursi del 60%. Lo
stesso non avviene con i latti artificiali, che possono contenere quantità di
metalli pesanti superiori a quello materno già in partenza o per loro
ricostituzione con acqua contaminata, e che non offrono la stessa protezione di
quest’ultimo. È importante tenere presente che latti artificiali contaminati
con metalli pesanti sono stati trovati in Germania, Australia, Canada, Svezia e
Cina, mentre latte vaccino (con cui vengono preparati i latti artificiali)
contaminato è stato trovato in tutto il mondo.

Gli idrocarburi aromatici policiclici (Ipa), tra cui benzene, toluene,
benzo(a)pirene, naftalene, ecc. sono classificati dalla Iarc come cancerogeni
certi per l’uomo (classe 1). Essi sono sottoprodotti di combustioni incomplete,
tra 300°- 600° di temperatura, di materiale organico come sigarette, benzina,
cibo, rifiuti, quindi possono trovarsi nel fumo di sigaretta, nei cibi cotti
alla brace, nei gas di scarico degli autoveicoli, nel fumo dei caminetti, degli
inceneritori e di impianti industriali quali fonderie, acciaierie e
cementifici. Si trovano soprattutto nell’aria, ma anche in alcuni alimenti e
nelle fonti d’acqua (per caduta al suolo, dato che sono molecole pesanti),
quindi possono essere assimilati dal corpo attraverso la respirazione, la pelle
o per ingestione. Molti Ipa sono associati a danni al midollo osseo, ad
alterazioni ematiche, ad anomalie dello sviluppo fetale (ridotta crescita,
alterata formazione del sangue fetale, ritardata ossificazione), ad alterazioni
dello sperma, del sistema immunitario e a tumori, in primis leucemie. I bambini
possono essere esposti agli Ipa già in utero, attraverso la placenta e dopo la
nascita con il latte materno, con quello artificiale e con gli alimenti per
l’infanzia. Va tenuto presente che latti artificiali e prodotti per l’infanzia
possono arrivare a contenere Ipa in quantità 2-3 volte maggiore rispetto al
latte materno, senza fornire però analoga protezione. Molti Ipa si comportano
come interferenti endocrini, cioè possono interferire con il sistema endocrino
e quindi con gli ormoni responsabili dello sviluppo e di molte funzioni del
corpo, come il comportamento, la fertilità e la regolazione del metabolismo
cellulare.  Possono causare alterazioni
dell’apparato riproduttivo, con mascolinizzazioni delle femmine e
femminilizzazione dei maschi, alterazioni della pubertà, dei cicli mestruali e
della fertilità. Inoltre possono alterare lo sviluppo del cervello con
conseguenti problemi cognitivi, di apprendimento e difetti alla nascita. Gli
Ipa sono responsabili di varie forme di cancro, soprattutto degli organi
riproduttivi, ma non solo. Infine essi possono agire sulle cellule germinali,
compromettendo la salute delle generazioni future.

I pesticidi organoclorurati, tra cui il Ddt ed i loro metaboliti come l’esaclorobenzene
sono stati tra i primi residui chimici trovati nel latte materno, dove si
accumulano con estrema facilità, grazie alla loro lipofilia e al loro lungo
tempo di dimezzamento dovuto alla difficoltà di metabolizzarli e di eliminarli.
Pur essendo stati banditi in tutto il mondo dalla Convenzione di Stoccolma
sugli inquinanti organici persistenti (Pops o Persistent organic pollutants)
del 2004, essi sono ancora presenti in esseri umani e animali, sebbene in
diminuzione rispetto al passato. Anch’essi possono agire come interferenti
endocrini, sono cancerogeni e, in caso d’intossicazione acuta, possono causare
depressione respiratoria e del sistema nervoso, provocando la morte. La loro
concentrazione è superiore nel latte materno, rispetto ai latti artificiali e
altri alimenti.

Un discorso approfondito meritano diossine, furani e Pcb, per la loro estrema
pericolosità oltre che per la loro grande lipofilia e facilità di reperimento
nel latte materno.

Le diossine sono un gruppo di 210 composti organici
eterociclici, in cui sono sempre presenti carbonio, idrogeno, ossigeno e cloro.
La sostanza più tossica conosciuta è la Tcdd o
2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina, detta «diossina di Seveso», in quanto liberata
nell’aria dal reattore della multinazionale svizzera la Roche nell’incidente
del 6 maggio 1976. La nube tossica che si formò determinò danni acuti e cronici
alle persone esposte. Recentemente sono stati pubblicati dati secondo cui i
figli di madri coinvolte nella loro infanzia in questo incidente presentano
alla nascita alterazioni della funzione tiroidea statisticamente significative.
Poiché questi neonati non sono stati direttamente esposti alla fuoriuscita di
diossina, ciò significa che le conseguenze hanno colpito la generazione
successiva  a quella esposta e sono
tuttora riscontrabili, a distanza di oltre 30 anni dall’incidente1. Sono molecole
particolarmente stabili e persistenti nell’ambiente con tempi di dimezzamento
variabili a seconda della molecola e a seconda della matrice esaminata; la Tcdd
si dimezza tra 7-10 anni nel corpo umano, mentre persiste nel sottosuolo fino a
100 anni. Sono sostanze insolubili in acqua, ma estremamente lipofile e
soggette a bioaccumulo e biomagnificazione, quindi si concentrano negli
organismi viventi in misura molto superiore a quella dell’ambiente circostante.
Esse vengono assunte dall’uomo per oltre il 90% attraverso l’alimentazione,
soprattutto con latte, carne, uova e formaggi. Queste molecole fanno parte degli
inquinanti organici persistenti banditi dalla Convenzione di Stoccolma. Le
diossine sono sottoprodotti involontari dei processi di combustione e si
formano a particolari temperature ed in presenza di cloro. In Italia le loro
fonti principali sono le combustioni industriali (64%), di cui oltre la metà
(37%) sono rappresentate dall’incenerimento di rifiuti solidi urbani. I Pcb o
policlorobifenili sono invece molecole prodotte volontariamente dall’uomo ed
usate sia in dispositivi elettrici, materiali plastici, tappeti, tessuti,
mobili come ritardanti di fiamma sia come antiparassitari fino al 1985, quando
sono stati banditi2. La tossicità di diossine, furani e Pcb è tale che
viene misurata in picogrammi (pg), cioè miliardesimi di milligrammo. Queste
molecole presentano una grande affinità per il recettore AhR (Aryl
Hydrocarbon Receptor
) largamente diffuso sia nelle cellule umane che in
quelle di vertebrati marini, terrestri ed aviari. Il recettore AhR sembra avere
un ruolo chiave per il normale sviluppo del sistema immunitario, vascolare,
emopoietico ed endocrino ed è coinvolto in molteplici funzioni cellulari
(proliferazione, differenziazione, morte cellulare programmata) e nella
regolazione del ritmo sonno-veglia. L’esposizione a queste molecole è correlata
allo sviluppo di tumori (linfomi, sarcomi, tumori a fegato, mammella, polmone,
colon), a disturbi riproduttivi, endometriosi, anomalie dello sviluppo
cerebrale, endocrinopatie (soprattutto diabete e malattie della tiroide),
disturbi polmonari, danni metabolici (aumento di colesterolo e trigliceridi),
epatici, cutanei e deficit del sistema immunitario. Inoltre l’esposizione pre e
postnatale può comportare ritardi nella crescita del feto e del neonato.

Poiché gli inquinanti descritti sono liposolubili, essendo il latte particolarmente
ricco di grassi, quello materno rappresenta un mezzo particolarmente idoneo per
la valutazione dell’inquinamento «in vivo», permettendo di stimare
l’esposizione presente e pregressa di una popolazione. Grazie alle misure di prevenzione
attuate in seguito alla Convenzione di Stoccolma è stata documentata in molti
paesi europei una diminuzione della presenza di diossine e simili nel latte
materno. Tuttavia i valori restano elevati, rispetto alla raccomandazione
dell’Oms, secondo cui non si dovrebbero superare assunzioni di diossina oltre i
2 pg/Kg di peso corporeo al giorno, quindi un uomo di 70 Kg dovrebbe assumee
al massimo 140 pg al giorno. Sono state eseguite analisi del latte materno su
puerpere di diversi paesi del mondo, abitanti sia in aree altamente
industrializzate, che rurali: in Germania sono state rilevate concentrazioni di
diossine/furani e Pcb tra 3,01-78,7 pg Teq3/g di grasso con valore medio pari a 27,27 pg; a Tokyo
il valore medio nel latte materno della concentrazione di queste molecole è
stato di 25,6 pg/g di grasso; in Cina è stato in media di 5,42 pg/g (range
2,59-9,92). Il latte prelevato nelle aree industriali è risultato sempre più
contaminato che nelle aree rurali.

Appare evidente l’assoluta necessità di monitorare
sistematicamente la situazione delle aree critiche del nostro paese,
soprattutto in considerazione del fatto che l’Italia ha un incremento annuo dei
tumori infantili del 2% (circa il doppio degli altri paesi europei). Il fatto
che finora questo biomonitoraggio in Italia non sia mai stato effettuato sembra
non essere casuale, viste le attuali politiche di incenerimento e combustione
di biomasse e di rifiuti.

È fondamentale inoltre che le persone siano informate su
questi fatti, soprattutto chi ha figli. In Italia invece quasi non si parla di
latte materno contaminato.

Una società come la nostra, che non si preoccupa delle
ricadute sull’infanzia del proprio modello di sviluppo è, a dir poco,
dissennata.

Rosanna
Novara Topino

Note

1 – Queste molecole sono divise in due famiglie, cioè Pcdd (policloro-dibenzo-p-diossine) e Pcdf
(policloro-dibenzo-furani) e le diverse molecole appartenenti alle due famiglie
vengono definite «congeneri» (75 diossine e 135 furani).

2 – Sono 209 congeneri, di cui 12 molto affini alle diossine, detti perciò «dioxin-like».

3 – Con Teq si indica la «tossicità equivalente» dei diversi congeneri, paragonata a quella della Tcdd, la più
pericolosa, che per convenzione vale 1, mentre quella di tutti gli altri
congeneri è sempre inferiore a 1 ed è data dalla somma dei prodotti tra i
fattori di tossicità dei singoli congeneri per la loro concentrazione nelle
matrici in esame.

Italia: pochi dati  (e preoccupanti)

In Italia non sono mai stati fatti studi sistematici sul latte materno, ma sono disponibili solo dati relativi a due donne residenti
presso l’inceneritore di Montale (Pt), a tre presso l’Ilva di Taranto e ad una
presso l’area della dismessa Caffaro, industria produttrice di Pcb di Brescia*.
Queste persone si sono sottoposte spontaneamente alle indagini. Nei due casi di
Montale i valori riscontrati variavano tra 3,984-5,507 teq pg/g di grasso per
diossine/furani e tra 9,485-10,621 Teq pg/g di grasso per diossine/furani/Pcb.
A Taranto sono stati trovati valori di Teq diossine/furani/Pcb  di 31,37 pg, 26,18 pg e 29,40 pg/g di grasso.
A Brescia nell’unico campione esaminato sono stati rilevati ben 147 pg/g di grasso.

Poiché la componente grassa del latte materno è il 4%,
la dose di queste molecole introdotta quotidianamente da un bimbo di 5 Kg, che
assuma 800-1000 ml di latte al giorno varia da 80-90 a 500-600 fino a 1000 pg
di Teq al giorno, a seconda che abbiamo 3, 15 o 30 Teq pg/g di grasso. Nel caso
di Brescia si arriva a 6000 pg! Ricordiamo che la dose giornaliera raccomandata
dall’Oms è di 140 pg per un uomo adulto di 70 Kg.

* Dati della dottoressa Patrizia Gentilini, medico Isde («Associazione
medici per l’ambiente», www.isde.it).

 Rosanna Novara Topino