Giappone. La rivoluzione delle urne

Ci si aspettava qualche cambiamento, ma è stata quasi una rivoluzione. Le elezioni legislative di domenica 27 ottobre in Giappone si sono concluse con un risultato clamoroso. Il Partito liberaldemocratico (Pld), forza conservatrice al potere per 65 degli ultimi 69 anni, ha perso la maggioranza assoluta. Non solo. Per arrivare ai 233 seggi della Camera bassa del parlamento necessari a governare, non basta nemmeno l’aiuto del Komeito, partito di ispirazione buddhista e storico partner di coalizione. Si tratta di una vera e propria batosta, andata al di là delle più nefaste aspettative di Shigeru Ishiba, premier da nemmeno un mese.

È stato lui a decidere di convocare elezioni anticipate, sconfessando la sua stessa parola, con l’obiettivo di consolidare la leadership conquistata a settembre al voto interno al Pld. La scommessa di Ishiba si basava su due convinzioni. Primo: il poco tempo concesso all’opposizione avrebbe evitato l’ascesa del Partito costituzionale democratico (Pcd), appena riunitosi sotto la guida dell’ex premier Yoshihiko Noda. Secondo: la sua lunga carriera di outsider e critico interno al partito gli avrebbe garantito di evitare le conseguenze dello scandalo sui finanziamenti che ha portato alle dimissioni il predecessore, Fumio Kishida. Entrambe le convinzioni si sono rivelate sbagliate.

Da una parte, Noda ha portato il Pcd da 98 a 148 seggi, grazie a un audace programma di riforme sociali mirate a contrastare l’ormai atavico problema dell’aumento del costo della vita. Dall’altra, le varie retromarce di Ishiba su una serie di promesse lo hanno reso agli occhi degli elettori meno in discontinuità rispetto alle precedenti gestioni del suo partito. Durante la campagna elettorale, Ishiba ha infatti sconfessato due promesse in materia di diritti civili, che lo avevano reso popolare tra i più giovani: la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso e la cancellazione della norma che impone ai coniugi di adottare lo stesso cognome. La mazzata finale è arrivata dalle notizie di stampa, secondo cui il Pld avrebbe continuato a pagare per la campagna elettorale di diversi parlamentari allontanati per il coinvolgimento nello scandalo dei finanziamenti.

Ishiba ora deve affrontare un futuro politico incerto. Il suo mandato potrebbe essere il più breve dalla Seconda Guerra Mondiale. I suoi (unici) vantaggi sono che il Pld non ha tempo di cercare immediatamente un nuovo leader, peraltro di non facile individuazione, e che per Noda sarà quasi impossibile unire tutte le forze di opposizione, che vanno dal Partito comunista alla destra radicale.

Entro 30 giorni, il parlamento si riunirà per conferire l’incarico di governo.

Ishiba sta cercando nuovi alleati, ma lo scenario più plausibile è quello di un esecutivo di minoranza, la cui azione potrebbe essere ampiamente limitata e rivolta soprattutto all’approvazione del bilancio suppletivo di fine 2024 e (forse) di quello dell’anno fiscale 2025 il prossimo aprile. L’orizzonte temporale del possibile gabinetto di Ishiba potrebbe non andare molto più in là, mentre l’ala ultranazionalista del Pld chiede già una riorganizzazione attorno alla figura di Sanae Takaichi.

L’impatto del voto potrebbe farsi sentire anche sulla politica estera e sulle relazioni internazionali del Giappone. La contemporaneità tra l’inedita instabilità di Tokyo e le elezioni presidenziali americane è parecchio sfortunata. Il fatto che il Giappone si trovi in uno stato di incertezza non aiuta a prepararsi a un possibile Trump due o anche a un’amministrazione Harris probabilmente più aggressiva sulla Cina. A risentirne anche la proiezione di Tokyo, che negli scorsi anni era diventato un punto di riferimento per il sistema di alleanze americane e per i vicini asiatici. Nella regione appare quindi un nuovo, imprevisto, punto di domanda. Le risposte del Giappone potrebbero non arrivare così presto.

Lorenzo Lamperti




Corea del Sud. Voglia di armi nucleari

 

«Gli Stati Uniti sarebbero disposti a favorire un programma in grado di dotare la Corea del Sud di sottomarini a propulsione nucleare come fatto con l’Australia?». Primi giorni di giugno, Shangri-La dialogue di Singapore, il massimo vertice sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico. Un delegato di Seul pone questa domanda a Lloyd Austin, il capo del Pentagono, che risponde in maniera evasiva. È il segnale di qualcosa di molto piu ampio: la Corea del Sud sta accarezzando l’idea di dotarsi di armi nucleari.

Un tema tabù, anche per la volontà dichiarata da sempre di Washington di perseguire la denuclearizzazione della penisola. Eppure, dopo anni di continuo innalzamento delle tensioni con la Corea del Nord, l’opinione pubblica e la posizione del governo in materia sta rapidamente mutando. Soprattutto dopo il recente accordo di mutua difesa siglato a Pyongyang tra Kim Jong-un e Vladimir Putin, che preoccupa non poco Seul.
Un recente sondaggio condotto dal potente think-tank Korea Institute for National Unification, un’entità statale, ha rilevato che il 66% degli intervistati ha espresso «sostegno» o «forte sostegno» per un deterrente nucleare indipendente, con un aumento di 6 punti percentuali rispetto allo scorso anno. Alla richiesta di scegliere, il numero di intervistati che ha espresso una preferenza per il possesso di armi nucleari proprie da parte di Seul rispetto al ricorso alle truppe statunitensi è aumentato di quasi 11 punti percentuali rispetto al 2023, superando per la prima volta il sostegno alla presenza militare di Washington.

Storicamente, la Corea del Sud si affida all’alleato statunitense per la «deterrenza estesa», con la consapevolezza che Washington è disposta a dispiegare i propri mezzi militari, comprese se necessario le armi nucleari, in difesa di Seul. E gli Stati Uniti si sono sempre opposti fermamente allo sviluppo di un proprio arsenale nucleare da parte della Corea del Sud, per il timore che questo possa far naufragare gli sforzi di non proliferazione globale e dare una scusa alla Corea del Nord (ma anche alla Cina) per giustificare l’accelerazione del rafforzamento del proprio arsenale. Ma molti sudcoreani sono convinti che i tempi siano cambiati e l’approccio classico non basti più a garantire la sicurezza.
Dopo gli incontri di Singapore e Hanoi tra Kim e Donald Trump, dal 2019 il dialogo è naufragato. Nella primavera del 2020 la Corea del Nord ha fatto saltare in aria il centro di collegamento intercoreano di Kaesong e dal 2022 ha aumentato esponenzialmente il ritmo dei test missilistici. Sempre nella primavera del 2022, le tensioni sono aumentate dopo la vittoria alle elezioni presidenziali sudcoreane del conservatore Yoon Suk-yeol, che ha abbandonato la linea dialogante del predecessore Moon Jae-in per adottare una retorica della risposta «colpo su colpo».
Anche a causa della guerra in Ucraina e del timore di un crescente allineamento tra Cina e Russia, Seul ha rafforzato drasticamente la propria alleanza militare con gli Usa e ha avviato una partnership con la Nato.

Da qualche mese, è stato anche cancellato l’accordo intercoreano del 2018 che aveva ridotto le manovre militari lungo la frontiera. Il tutto in seguito al lancio del primo satellite spia nordcoreano, che secondo la Corea del Sud sarebbe avvenuto con il sostegno di Mosca. Pyongyang ha ricominciato a muoversi nei pressi della zona demilitarizzata, con brevi sconfinamenti di truppe e la costruzione di nuove strutture. Seul ha risposto con una serie di esercitazioni estese con gli Usa. Le due Coree hanno anche dato una svolta a livello politico-retorico. Kim ha fatto emendare la Costituzione per etichettare il Sud come «nemico principale e immutabile». Yoon ha presentato un piano di unificazione che non prevede alcun ruolo per Kim e il sistema politico nordcoreano. Insomma, Nord e Sud iniziano a pensare che la riunificazione possa avvenire solo cancellando l’altra metà.

Rispetto al passato, le capacità sempre più avanzate della Corea del Nord e la revisione della dottrina nucleare del regime per consentire attacchi preventivi in un’ampia gamma di scenari stanno spingendo diversi deputati sudcoreani a chiedere una rivalutazione della politica in materia di armi. Le voci in tal senso potrebbero aumentare di tono qualora Donald Trump tornasse alla Casa Bianca. In Corea del Sud ricordano bene cosa è successo durante il suo primo mandato, con la richiesta di aumenti monstre delle spese militari per mantenere i circa 29mila militari statunitensi sul territorio del Paese asiatico. Pretese talmente esose da provocare una sospensione delle trattative. Con l’arrivo di Joe Biden, si è invece trovato rapidamente l’accordo per un aumento ridotto al 4% delle spese. Non solo. L’amministrazione democratica ha rafforzato la rete di alleanze in Asia-Pacifico, favorendo il disgelo tra Corea del Sud e Giappone e fornendo nuove e ampliate garanzie sull’ombrello nucleare americano in caso di crisi.
Non a caso, Seul sta provando, sottotraccia, a trattare con la Casa Bianca il rinnovo dell’accordo prima delle elezioni o comunque del cambio della guardia tra Biden e il suo successore, nonostante la scadenza sia nel 2025. La mossa è pensata per evitare di dover trattare nuovamente con Trump, il cui ritorno, al di là degli effetti concreti, potrebbe causare conseguenze psicologiche, con i sudcoreani che presumibilmente si convincerebbero ancora di più che è necessario fare da soli. E che forse è meglio avere un proprio «ombrello», piuttosto che fare affidamento su quello altrui.

Lorenzo Lamperti