I due Dalai Lama


La successione del capo spirituale del buddhismo tibetano prevede la ricerca della sua reincarnazione. L’attuale Dalai Lama fu indicato nel 1937. Sul prossimo leader Pechino vuole dire la sua, ma le autorità religiose (in esilio) non ci stanno. I possibili i risvolti geopolitici.

Regione di Amdo, parte Nord orientale del Tibet. È il 1937, il piccolo Lhamo Dondrub ha all’incirca due anni. Un gruppo di monaci guidato dal lama Kewatsang Rinpoce chiede ospitalità nella casa della sua famiglia. Poco dopo, l’annuncio: Lhamo è la reincarnazione del Dalai Lama. I monaci pagano un ricco riscatto a Ma Lin, governatore della regione per conto del Kuomintang di Chiang Kai-shek, e portano il bambino nella capitale tibetana di Lhasa. Due anni dopo, Lhamo viene ufficialmente «incoronato» XIV Dalai Lama. Da lì in poi, sarà conosciuto col nome di Tenzin Gyatso, letteralmente «oceano di saggezza».

Verso il XV Dalai Lama

Sono passati quasi 90 anni dal viaggio di quei monaci. Ne sono passati 74 da quando, nel 1950, le truppe della Repubblica popolare cinese di Mao Zedong sono arrivate in Tibet dopo aver sconfitto il Kuomintang nella guerra civile. Ancora: sono trascorsi 65 anni da quel marzo del 1959 in cui Tenzin Gyatso ha lasciato per sempre il Tibet fuggendo in India dopo la repressione della rivolta di Lhasa.

Presto, potrebbe arrivare il momento in cui verrà individuato un nuovo bambino o una nuova bambina come XV Dalai Lama. Anzi, con ogni probabilità tutto questo potrebbe avvenire due volte. Da una parte un gruppo di monaci, o Tenzin Gyatso stesso, dall’altra il Partito comunista cinese: i bambini o bambine la cui vita cambierà per sempre sembrano destinati a essere due. Uno nominato dalle autorità spirituali o politiche tibetane in esilio, uno da quelle di Pechino. Risultato: due Dalai Lama.

Pagoda Shwedagon, a Yangoon, Myanmar (foto Piergiorgio Pescali)

La successione

Lo scenario è prossimo, a meno di accordi che al momento appaiono improbabili. Storicamente, quando un Dalai Lama muore, si forma un consiglio di alti lama per cercare la sua reincarnazione. Nel processo di selezione, noto col nome di «urna d’oro», il consiglio consulta vari segni e oracoli, nonché gli scritti e gli insegnamenti del Dalai Lama stesso, per farsi guidare nella ricerca che si conclude solitamente con l’individuazione di un bambino nato intorno al periodo della morte del predecessore.

Una volta identificata una potenziale reincarnazione, al bambino viene presentata una serie di oggetti appartenuti al precedente Dalai Lama e gli viene chiesto di identificare quali gli appartengono. In caso superi il test, serve poi la conferma definitiva di un’autorità politica.

E qui nasce il problema. Pechino sostiene di dover certificare la scelta del prossimo Dalai Lama, come fatto in passato. Un retaggio ereditato dai tempi dell’epoca imperiale e fino all’inizio del secolo scorso, quando il Tibet era governato dalla dinastia Qing. Un retaggio che Tenzin Gyatso non pare intenzionato a riconoscere.

Anche in quest’ottica sarebbe stata effettuata la separazione dell’autorità spirituale da quella politica, quando nel 2011 il Dalai Lama si è dimesso da capo del governo tibetano in favore di un successore eletto dal Parlamento in esilio. Potrebbe, dunque, essere questa entità, non riconosciuta da Pechino che la ritiene «illegale», a certificare la scelta del prossimo Dalai Lama. Quantomeno quello indicato dalle autorità tibetane esuli. Il Partito comunista potrebbe rispondere con un altro nome.

Il «vice Dalai Lama»

Le avvisaglie di quanto potrebbe accadere ci sono già dal 1995, quando un bambino di 6 anni, Gedhun Choekyi Nyima, fu scelto come nuovo Panchen Lama, la seconda figura più importante del buddhismo tibetano. Tre giorni dopo venne preso in custodia dalle autorità cinesi e sostituito con un altro candidato, Gyaincain Norbu. Sino da allora, la sorte del piccolo Gedhun è rimasta incerta. Nel 2022, in occasione del 33° anniversario della nascita, il dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha reiterato la richiesta a Pechino di «rendere conto del luogo e del benessere» di Gedhun.

Ennesimo chiarimento, qualora ce ne fosse stato bisogno, che gli Usa si schiereranno al fianco delle autorità tibetane in esilio nel momento cruciale della scelta del prossimo Dalai Lama.

Nello stesso comunicato del 2022, il dipartimento di Stato ha messo nero su bianco che Washington sostiene «la libertà religiosa dei tibetani e la loro unica identità religiosa, culturale e linguistica, compreso il diritto dei tibetani di scegliere, educare e venerare i propri leader, come il Dalai Lama e il Panchen Lama, secondo le proprie convinzioni e senza interferenze governative». Senza contare che, nel 2020, l’allora capo del governo tibetano in esilio era stato invitato per la prima volta a Washington dall’amministrazione Trump. Un riconoscimento politico, oltre che spirituale, che aveva fatto infuriare Pechino e fatto intravedere all’orizzonte nuove turbolenze sul dossier tibetano.

Giovane monaco in Myanmar (foto Piergiorgio Pescali)

Dalla Mongolia la terza carica

Un’altra anticipazione di quanto potrà accadere nel prossimo futuro è arrivata nel marzo 2023, quando è emersa la nomina del decimo Khalkha Jetsun Dhampa, terza carica del buddhismo tibetano. Si tratta di un bambino di otto anni, originario della Mongolia. La notizia è stata accolta con sentimenti contrastanti in Mongolia: gioia per la scelta di un proprio connazionale, timore per la reazione della Cina. Nel 2016, il governo mongolo aveva ricevuto forti lamentele da Pechino per la visita del Dalai Lama, rimasta, non a caso, l’ultima nel Paese. Il nuovo Khalkha Jetsun Dhampa, erede della famiglia Altannar (una delle più influenti della Mongolia) è peraltro nato negli Stati Uniti. C’è chi potrebbe leggervi un sottile messaggio (geo)politico. Nel frattempo, Tenzin Gyatso ha già lasciato intuire più volte che la sua reincarnazione potrebbe emergere al di fuori del Tibet per evitare le interferenze di Pechino sul processo di selezione. Il successore potrebbe essere originario di uno dei territori in cui si pratica il buddhismo tibetano, in particolare Nepal, Bhutan o, appunto, Mongolia. Il Partito comunista cinese ha finora nicchiato, ma non ha nessuna intenzione di rinunciare a quello che considera il proprio diritto di nomina. Qualche mese fa, l’attuale leader del governo tibetano in esilio, Penpa Tsering, ha dichiarato durante un viaggio in Australia che, se Pechino manterrà l’intenzione di nominare un suo Dalai Lama, ce ne saranno presto due.

Monastero buddhista in Tibet (AfMC)

Tibet: doppio binario

La vicenda ha diverse sfaccettature, sia spirituali che politiche, sia regionali che internazionali.

La prima questione che dovrebbe affrontare Pechino è la gestione del post doppia nomina sul proprio territorio. In particolare nella regione autonoma del Tibet, dove qualcuno potrebbe essere tentato di seguire le indicazioni in arrivo dalle autorità in esilio piuttosto di quelle del Partito comunista. Tutto ciò rischierebbe di riaprire un dossier che i funzionari cinesi sono convinti di aver archiviato dopo la repressione delle proteste del 2008, nei mesi precedenti ai Giochi Olimpici di Pechino.

Forse anche per questo negli ultimi anni è stata intensificata la politica a doppio binario con cui si è rafforzata l’integrazione del Tibet. Il primo binario è quello economico. Nel giro di poco più di 70 anni sono stati investiti nella regione circa 255 miliardi di dollari tra infrastrutture e altri progetti. Nel XIV piano quinquennale (2021-2025) sono stati allocati altri 30 miliardi, soprattutto per progetti legati al settore dei trasporti. Si lavora al cosiddetto «progetto del secolo», una nuova ferrovia che, quando completata (si prevede nel 2030), connetterà Lhasa (in Tibet) al capoluogo del Sichuan, Chengdu, in solo 12 ore: un terzo del tempo attualmente necessario viaggiando per strada. Il secondo binario è quello culturale. A fianco degli investimenti, Pechino ha promosso l’insediamento di cinesi di etnia han nella regione e il turismo interno verso il Tibet, che tra il 2016 e il 2020 ha portato nella regione oltre 160 milioni di turisti da altre province cinesi. Numeri clamorosi se si pensa che nel 2005 il Tibet riceveva meno di due milioni di visite all’anno.

Portare benessere e sinizzare, una duplice manovra che mira a «stabilizzare» in modo definitivo i pezzi di territorio cinesi potenzialmente più critici.

Oltre al Tibet, anche lo Xinjiang (provincia a maggioranza musulmana) e, in misura minore, la Mongolia interna. In questa strategia è importante anche la comunicazione. Non è un caso che dal 2022 in avanti le autorità e i media cinesi usino sempre più spesso il nome in mandarino del Tibet, Xizang (spesso tradotto in «tesoro dell’Ovest» dal suo posizionamento sulla mappa della Repubblica popolare). Soprattutto, non è un caso che lo facciano nei comunicati o contenuti in lingua inglese. Il messaggio all’esterno è chiaro: «La questione tibetana è puramente cinese», per la quale dunque Pechino si aspetta il rispetto del suo celeberrimo principio diplomatico della «non interferenza negli affari interni degli altri Paesi».

monastero Thangu Tashi Choling, Simalchaur Syampati, Nepal (Raimond Klavins Unsplash)

L’India non sta a guardare

In realtà, nella questione è coinvolta, già da tempo, anche l’India, che ospita le autorità tibetane in esilio sul suo territorio. A Nuova Delhi si dà ampio spazio alle manovre del Dalai Lama, soprattutto quando si reca nei pressi dello sterminato confine conteso tra India e Cina. Nell’estate del 2022, si è «schierato», con l’assistenza del governo indiano, sul Ladakh, nei pressi dei territori contesi, dove ha tenuto un discorso critico sul governo cinese. Proprio la disputa territoriale si innesta su quella della successione di Tenzin Gyatso. Il leader buddhista vive infatti in esilio a non molta distanza da una frontiera che resta calda. Nel giugno del 2020 ci sono state diverse vittime causate da scontri tra i militari delle due parti. Diversi altri episodi sono stati registrati anche negli anni successivi. Una situazione che resta volatile dopo che diversi round di colloqui non hanno prodotto accordi significativi. Pechino e Nuova Delhi continuano a reiterare le rispettive pretese di sovranità su un’area altamente strategica anche per le sue risorse idriche, altro elemento che in futuro diventerà sempre più cruciale. Lo scorso settembre, alla vigilia del summit del G20 di Nuova Delhi al quale il presidente cinese Xi Jinping non si è recato, il governo di Pechino ha presentato una nuova mappa dei confini della Repubblica popolare in cui erano stati inclusi i vari territori contesi con l’India. Diverse località di quello che la Cina chiama «Tibet meridionale» e oggi parte dello Stato indiano dell’Arunachal Pradesh, erano ribattezzate con nomi in mandarino. Il premier indiano Narendra Modi l’ha vissuto come uno sgarbo, giunto proprio mentre ospitava l’evento che aveva presentato come fiore all’occhiello del proprio secondo mandato. Durante la campagna elettorale per il voto iniziato ad aprile, Modi si è recato non lontano da alcune aree di confine dove continuano a essere inaugurate strade e vengono dislocate nuove truppe.

Sullo sfondo, ma neanche troppo, gli Stati Uniti che, dopo la guerra in Ucraina, stanno provando a rafforzare i legami militari con l’India, fornendo anche tecnologia satellitare e difensiva potenzialmente utile in uno scenario di confronto alla frontiera con la Cina. Washington sarà con ogni probabilità in prima fila ad appoggiare il Dalai Lama che Pechino riterrà «illegale», facendo tornare prepotentemente il Tibet (o Xizang) in cima all’agenda dei dossier più delicati delle relazioni tra le due potenze.

Lorenzo Lamperti

Monaco buddhista della pagoda di Hpa An Kyaukkanlatt-in Myanmar




Pakistan. Sotto scacco dei militari

Venerdì 5 gennaio, alla periferia di Islamabad, in pieno giorno, una motocicletta con due uomini dal volto coperto si avvicina a un’auto. Uno degli uomini spara una raffica di proiettili contro la vettura. L’ attacco uccide il passeggero e ferisce gravemente l’autista.

L’uomo deceduto si chiamava Masoodur Rehman Usmani, leader e portavoce del movimento Sunni ulema council (Suc), organizzazione sunnita molto attiva nella politica pachistana. Leader carismatico per i religiosi del suo Paese, terrorista per gli Stati confinanti, Usmani era stato più volte accusato di fomentare l’odio verso l’India. Rivalità, quella tra Pakistan e India, che sembra ben lontana da una soluzione.

Dopo questo ennesimo attentato, e in vista delle elezioni dell’8 febbraio, la tensione in Pakistan cresce giorno dopo giorno. Continui sono gli arresti. Il 13 gennaio, a Peshawar sono stati fermati due sospetti terroristi, mentre pianificavano un attacco suicida contro una scuola sciita. L’opinione comune, largamente condivisa, è che le elezioni non si potranno tenere a febbraio, ma verranno posticipate a data da destinarsi.

La Moschea di Masjid Baadshahi conosciuta anche come la Moschea Imperiale, è uno dei simboli religiosi del Pakistan. (Foto Angelo Calianno)

Adam (nome di fantasia) è un imam della moschea di una piccola comunità alle porte di Islamabad. Mi spiega il perché: «Se ci fossero davvero le elezioni, le strade sarebbero piene di manifesti elettorali e volantini. Ci sarebbero comizi e camion con bandiere ovunque. Non hai idea di quanto chiasso e fermento c’è nel Paese durante questi eventi. Non vedi nulla perché, anche se si dovesse votare, nessuno ha speranza che le cose possano cambiare. Chiunque andrà al potere, sarà sempre sotto il controllo militare, sono loro che comandano. Lo vedi quello che accade: omicidi, rapimenti, attacchi terroristici. Il Paese ha tante risorse, ma vengono tutte controllate dai militari. L’inflazione è altissima e la gente è arrivata al limite della sopportazione».

I principali candidati alle elezioni di febbraio saranno (o dovrebbero essere): Bilawal Bhutto Zardari, esponente del Partito popolare di centrosinistra (Ppp), e Nawaz Sharif, leader del Partito conservatore islamico (Pml-n). Nawas Sharif è stato già primo ministro, per tre volte. Si è ricandidato in Pakistan dopo quattro anni di autoesilio all’estero.

Nessun candidato, però, ha rimpiazzato nel cuore dei pachistani l’ex primo ministro Imran Khan. Il carismatico leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Movimento per la giustizia in Pakistan) dal 2023 si trova in carcere. Kahn è accusato di oltre 150 reati, tra cui quello di corruzione. Crimini da lui sempre negati.

A Lahore, incontriamo un giovane ricercatore universitario. Sostenitore di Kahn, mi racconta: «Non crediamo che possano esserci elezioni regolari. I militari, in diverse forme, sono ovunque: intelligence, polizia, esercito. Non può esserci una democrazia così. Ufficialmente possiamo anche avere un presidente, un primo ministro, un parlamento. Ma sono trent’anni che chi governa davvero il Paese è lo Stato maggiore militare. Controllando le forze armate e la sorveglianza, questi possono fare tutto quello che vogliono e nessuno ha il coraggio di andargli contro. Chi ci prova fa una brutta fine: guarda cosa è successo a Imran Kahn o a chi ha supportato la causa dell’indipendenza del Balocistan: la gente sparisce, senza lasciare traccia».

Il 2023, per il Pakistan, è stato l’anno record dei morti legati a terrorismo e conflitti interni. Un report del The Hindu, testata che monitora la geopolitica in Asia, riporta oltre 1.500 morti e 789 attacchi terroristici negli ultimi 12 mesi.

Nel frattempo, in questi giorni, un’enorme marcia è arrivata a Islamabad da Quetta. Migliaia di persone hanno camminato dal Balocistan, per protestare contro il governo per le violenze e le sparizioni, avvenute nella regione ai confini con l’Afghanistan. Oltre a quest’ultimo caso, lo Stato dovrà affrontare il problema di migliaia di profughi afghani che arrivano qui ogni giorno, il malcontento generale per l’economia in crisi e la presenza del terrorismo. Con questi presupposti, pochissimi credono nella possibilità di elezioni regolari e in sicurezza.

A Islamabad, sono lunghissime le file di persone fuori dalle ambasciate straniere. L’obiettivo di tantissimi, e unica soluzione per il loro futuro, sembra soltanto quella di cercare asilo in un altro Paese.

Angelo Calianno da Islamabad

 




Un’India troppo solare


Nella regione nord occidentale del Rajasthan i progetti di enormi parchi di pannelli solari provocano gravi conseguenze sociali e ambientali. Il governo centrale, quelli locali e le grandi aziende dell’energia le ignorano nonostante le mobilitazioni delle popolazioni.

Chi l’avrebbe mai detto che l’energia solare avrebbe potuto provocare seri problemi ambientali, sociali ed economici laddove ci si aspettava invece solo benefici?

Eppure, è quello che sta succedendo negli ultimi anni in diverse parti del mondo, tra cui molte regioni dell’India.

Testimonianze di giornalisti e abitanti del Rajasthan, dove si stanno costruendo molti parchi solari, ad esempio, aiutano a comprendere le condizioni e i meccanismi per i quali i progetti di energie rinnovabili non sono esenti da criticità e possono causare notevoli impatti socio-ambientali.

Un problema che dovrebbe interessare anche l’Italia e l’Europa, perché tra i maggiori investitori tramite le loro aziende elettriche a partecipazione pubblica.

L’impatto del solare

Quella solare è considerata una fonte imprescindibile di energia rinnovabile per le sue basse emissioni di CO2. Quando si parla, però, dell’anidride carbonica prodotta dal solare, non si considerano le emissioni provocate dall’estrazione dei materiali necessari (cfr. Daniela Del Bene, Miniere green, MC agosto-settembre 2021, p. 56) e nemmeno la perdita dei terreni utilizzati per i parchi solari, o l’abbandono di pratiche agricole e pastorizie che mantengono la biodiversità del territorio.

Ben conoscono questa problematica gli abitanti dello stato indiano del Rajasthan, molto noto per la meravigliosa architettura dei principati precoloniali, il vivace artigianato, le colorate città, o le escursioni sui cammelli nel deserto.

Proprio questi deserti sono stati considerati il luogo ideale da convertire in una gigantesca batteria di energia solare a beneficio dell’intero Paese.

Parco solare del villaggio di Nedan

Un’India sempre più solare

L’espansione di questa tecnologia è stata dichiarata imprescindibile dal governo di Narendra Modi, in carica dal 2014.

Già nel 2010, l’allora governo in carica aveva lanciato un piano che, secondo molti scettici, sarebbe stato irraggiungibile: la National solar mission. Il suo obiettivo era effettivamente ambizioso: installare 20 gigawatt (GW) di capacità elettrica da tecnologia solare entro il 2022.

Il programma ha raggiunto l’obiettivo con quattro anni di anticipo.

Dati i buoni risultati, il governo Modi ha fissato altri obiettivi, facendo del solare un pilastro di quella che considera un’India moderna e sviluppata.

Già nel 2015, in occasione della Cop21 di Parigi, il primo ministro presentò l’International solar alliance (Isa) con l’impegno di sviluppare 100 GW di progetti solari entro il 2022.

Benché questa volta il progetto si sia dimostrato effettivamente troppo pretenzioso, tuttavia durante il 2023 il Paese sta già raggiungendo i 70 GW di capacità solare, circa il 16% dell’energia totale generata in India.

Il settore è oggi in crescita, con ulteriori obiettivi fissati ai 280 GW da installare entro il 2030 che andrebbero a sommarsi ad altre rinnovabili per un totale di 500 GW di «energia pulita».

Parchi solari nel Rajasthan

Nel 2016, il ministero per le Energie nuove e rinnovabili (Mnre) dichiarò di avere individuato «grandi porzioni di terreno» per sviluppare 34 parchi solari per 20 GW di capacità, molti dei quali nello stato nordoccidentale del Rajasthan.

Nel corso degli anni, questa cifra è aumentata fino all’attuale normativa, la Rajasthan renewable energy policy, nella quale il governo statale ha fissato l’obiettivo di 90 GW di progetti di energia rinnovabile da sviluppare entro il 2029-30. Dei 90 GW, 65 deriveranno dal solare, 15 da fonti eoliche e ibride e 10 da impianti idroelettrici e di pompaggio e da sistemi di batterie per l’accumulo dell’energia.

Il ministero sta dando priorità ai grandi parchi solari chiamati Ultra mega solar plants, con capacità superiori a 0,5 GW. Essi, rispetto ai parchi più piccoli, hanno il vantaggio di ridurre costi e perdite di trasmissione. Inoltre, rendono più semplice l’acquisizione dei terreni e delle autorizzazioni per il cambio di destinazione d’uso della terra.

Ma chi decide quali porzioni di terreno sono disponibili per questi megaprogetti? Chi dichiara il cambio d’uso di un terreno? E poi, chi beneficia di questa elettricità, e per farne cosa?

Il governo centrale e quello statale hanno un ruolo chiave. L’autorità pubblica attrae gli investimenti privati, fornisce assistenza e facilita l’assegnazione dei «terreni governativi». Si tratta di terreni di proprietà pubblica sui quali contadini e pastori locali esercitano diritti d’uso consuetudinari e dai quali dipende il loro sostentamento.

Se invece i terreni individuati appartengono a dei privati, le aziende li prendono in affitto per una quota che per loro risulta irrisoria ma per la gente locale rappresenta una cifra altissima.

Le concessioni alle imprese normalmente sono di 25 anni.

Analizzando la mappa degli attori presenti oggi in Rajasthan si trovano i nomi delle più grandi aziende indiane dell’energia: Adani, Tata e Reliance; ma anche di aziende straniere, tra cui la francese Edf e la nostra Enel.

Nel caso di queste ultime, i loro investimenti sono ancora in una fase iniziale, per cui ciò che succederà intorno ai loro megaprogetti si vedrà nei prossimi mesi e anni. Tuttavia, bene farebbero a prendere in considerazione quanto avviene in altri casi simili e valutare se davvero quella degli Ultra mega solar plants sia una strada da percorrere per una transizione energetica sostenibile e giusta.

Un villaggio in conflitto

Nel 2015 Adani green energy e il governo regionale del Rajasthan, all’epoca nelle mani del partito conservatore Bjp (Bharatiya Janata party), hanno firmato un memorandum d’intesa «per sviluppare il Rajasthan come polo mondiale dell’energia solare» attraverso la costruzione di centrali nel deserto per 10 GW in dieci anni.

I progetti sono stati affidati alla Adani renewable energy park Rajasthan ltd (Areprl), una joint venture tra Adani e l’impresa statale Renewable energy corporation ltd (Rrecl).

Il più grande parco solare costruito da Areprl, il Fatehgarh solar park, si trova oggi vicino al villaggio di Nedan, nella parte occidentale dello Stato e, come si temeva, ha generato un importante conflitto con la popolazione locale.

Nel 2017, infatti, il governo ha cambiato la destinazione d’uso del terreno scelto per il megaprogetto da «agricolo» a «sterile». Tuttavia, la terra in questione – in un territorio dove le zone fertili sono rare e per questo preservate da usi industriali o costruzioni – non era affatto sterile, ma veniva tradizionalmente usata per la coltivazione, il pascolo e la celebrazione di rituali comunitari. Un territorio nel quale la popolazione locale, tra cui i dalit (storicamente conosciuti anche come «intoccabili» o senza casta) e gli adivasis (indigeni), aveva costruito un serbatoio d’acqua, una scuola, un tempio, e si prendeva cura di un oran, un luogo considerato sacro e di grande importanza identitaria. Gli oran sono spazi ricchi di biodiversità che comprendono spesso un corpo idrico. I pastori, da secoli, vi portano il bestiame al pascolo e vi organizzano incontri comunitari, feste e altri eventi legati ai ritmi agricoli.

Cause legali e marce

La popolazione si è dunque rivolta alla magistratura per opporsi a quello che considerava un accaparramento di terra illecito e illegale. Tuttavia, i risultati delle azioni legali sono stati discordanti.

Nel 2018, l’Alta corte del Rajasthan ha parzialmente accolto le argomentazioni degli abitanti dei villaggi e ha stabilito che una parte dell’area assegnata ad Adani fosse riportata a uso comunale. Nel 2020, una volta avviata la costruzione del parco, gli agricoltori hanno intentato un’altra causa contro la ridefinizione dei terreni come sterili. Il caso tuttavia è stato respinto. Nel 2021, è stata presentata una nuova causa d’interesse pubblico per annullare l’assegnazione di un altro lotto per un ulteriore ampliamento del parco solare che si sovrapponeva stavolta a un bacino idrografico ecologicamente sensibile. La petizione è stata nuovamente respinta dall’Alta corte del Rajasthan, e ai firmatari è stato ordinato di pagare 50mila rupie (615 dollari) di spese legali.

Gli abitanti del villaggio hanno inoltre denunciato tentativi di cooptazione da parte di uomini che hanno offerto loro un lavoro nella centrale elettrica in cambio della rinuncia alla causa legale. Una volta persa la causa, le offerte di lavoro sono state immediatamente ritirate.

Nel dicembre 2022, è stata organizzata l’Oran bachao yatra, una marcia che ha percorso 300 km e 40 villaggi nella regione di Jaisalmer per chiedere al prefetto la protezione degli oran.

Sumer Singh, un pastore e uno dei leader della marcia, ha dichiarato ai microfoni del giornale indiano The Hindu: «Lo sviluppo dovrebbe andare avanti, ma non in questo modo. Gli alberi vengono tagliati da un giorno all’altro. Alcuni di questi alberi hanno centinaia di anni. Che ne sarà di noi? Questo è il nostro sostentamento».

La povertà è il problema

Abbiamo intervistato la giornalista locale Ankita Mathur che lavora sulla questione. «La gente non è consapevole dell’importanza di questi pascoli. A lungo termine ne vedrà gli impatti, ma per ora si accontenta dei soldi che riceve. La povertà è il grande problema qui».

Ankita ci spiega l’interdipendenza tra l’impatto ambientale e quello socio economico di tali progetti. «L’area è una zona bharani, una terra dove la gente non coltiva grandi quantità di prodotti, ma dove, quando piove, cresce della vegetazione molto nutriente. Con i progetti solari le persone perdono questo raccolto, per piccolo che sia. Anche i frutti secchi selvatici (chiamati ker, sangri, fog, keep, khejri, e roheda), importanti come riserva di cibo durante la siccità, scompaiono».

La biodiversità, resa invisibile dalla narrativa della «terra sterile», dipende dall’interazione della vegetazione con la fauna locale. I terreni da pascolo, quelli cioè che non vengono coltivati e che spesso si presentano con dune di sabbia, sono l’habitat di animali come la volpe del deserto, serpenti, conigli, camaleonti, gatti, lucertole. Per costruire i parchi solari le dune vengono spianate distruggendo l’ambiente degli animali presenti ed eliminando la funzione naturale di barriera per il vento che porta la sabbia sui pochi terreni coltivati e irrigati, compromettendone il raccolto.

Potere e proprietà della terra

Ankita ci spiega che l’impoverimento delle famiglie nel Rajasthan rurale e le difficili condizioni climatiche spingono le persone ad accettare le offerte di acquisto delle imprese per il loro terreno. «Quando le persone hanno i soldi, migrano verso le città. Altre volte no, ma trovandosi con una quantità di denaro che non avevano mai visto prima, non sanno come gestirlo, e diventano perfetti consumatori: comprano auto e si godono la vita, per qualche tempo. Dimenticano come coltivare la terra e, in un ambiente così difficile, si arrendono facilmente. Con la diminuzione della terra disponibile per l’allevamento, la gente finisce il foraggio per i propri animali e deve comprarlo al mercato. Ma tanto, dicono, ricevono soldi dalla cessione dei loro terreni, quindi chi se ne importa? Molti agricoltori rinunciano ai loro animali perché non ne hanno più bisogno. Ora possono comprarlo, il latte, non serve mungere la propria mucca. Gli animali vengono abbandonati, soprattutto bufali, mucche, pecore, capre.

L’agricoltura in India non è un’attività redditizia e la gente, se non viene supportata, se ne va non appena ne ha la possibilità. Intanto, nei villaggi le persone influenti stanno concentrando su di sé il potere politico e la proprietà della terra.

Non dimentichiamo che in India i grandi proprietari terrieri sono solitamente politici, o entrano presto in politica. Si crea così un circolo vizioso che toglie mezzi di sussistenza alle persone e accumula ricchezze nelle mani di pochi. Questi pochi poi garantiscono la presenza indisturbata delle grosse aziende».

Risorse scarse, violenza in aumento

L’arrivo di queste imprese porta importanti cambiamenti e, con essi, dei rischi per la popolazione locale. «Capita che persone estranee entrino nelle comunità con i loro grossi veicoli e si fermino per qualche giorno. Ma qui il cibo e l’acqua sono scarsi, quindi la gente dei villaggi finisce per non averne abbastanza.

Nelle famiglie, i membri che danno in affitto o cedono la terra, o svolgono una mansione per l’azienda, si ritrovano con un’improvvisa disponibilità di denaro che non sanno gestire. Si danno spesso all’alcol, a droghe, e questo porta un aumento della violenza, ad esempio la violenza domestica, e quindi la disintegrazione delle famiglie».

Anche sulla sostenibilità delle politiche aziendali e della visione del Rajasthan come «batteria solare» dell’India, Ankita esprime perplessità: «Alcune aziende hanno promesso di piantare alberi per compensare la perdita dell’habitat locale. E dove li pianteranno? In un altro territorio. Una compensazione senza senso. C’è poi un problema serio con l’acqua: i pannelli solari devono essere puliti, perché qui abbiamo venti sabbiosi. Le imprese prendono l’acqua dall’unico canale che abbiamo, l’Indhira Gandhi, che è l’unica acqua potabile in Rajasthan.

Ci sono mesi nei quali non riceviamo nemmeno una goccia d’acqua dal canale. Le aziende pensano alla terra solo in termini monetari, e non capiscono come funzionano le cose qui. E poi, per cosa useremo l’energia prodotta? Questa energia è destinata a qualcos’altro, non certamente a noi».

L’abbaglio di una soluzione facile

Questioni e conflitti fondiari simili si stanno scatenando in tutta l’India. In alcune località, manifestanti e oppositori dei progetti, sentendosi abbandonati da magistratura e governo di fronte alle grandi multinazionali, attuano sabotaggi e danneggiamenti delle centrali.

Per questo motivo i memorandum d’intesa tra aziende e governo prevedono per i cantieri personale di sicurezza 24 ore su 24, telecamere a circuito chiuso, muri e recinzioni.

I megaprogetti «verdi» del Rajasthan diventano così enormi enclave militarizzate. Oltre al forte impatto ambientale, determinano una perdita di sovranità e autonomia alimentare per le comunità locali e un aumento della concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di vecchie e nuove élite.

Questo modello di transizione energetica presenta sfide forse inaspettate. Ignorarle a causa di un abbaglio e un’ostinata fede in una soluzione facile capace di risolvere l’avidità energetica dell’India moderna potrebbe portare a circoli viziosi di ulteriore povertà e marginalità.

Daniela Del Bene

• www.ejatlas.org
• www.envjustice.org




Black friday e l’alternativa del commercio equo

 

Nella settimana del Black friday, un meme circola sui social: «Black friday. Se non compri niente risparmi il 100% su ogni prodotto».

Noi potremmo aggiungere: «Per Natale, valuta l’acquisto di prodotti del commercio equo e solidale». Mettere sotto l’albero regali che hanno una storia di giustizia, fatta di rispetto dei diritti umani (di bambini, donne, lavoratori, persone con disabilità), dell’ambiente, che contribuiscono a costruire dialogo e pace è possibile.
E in molti, da diversi anni, lo fanno.

Così ci si può orientare a un tipo di commercio che garantisce la giusta paga e condizioni dignitose a persone come Nilanjana Banerjee, donna indiana sordomuta che ha studiato progettazione al Silence training institute e oggi è una delle migliori designer di Silence, una Ong locale che esporta prodotti artistici in diversi paesi del mondo nel circuito del Wft (World fair trade organization), l’organizzazione mondiale per il commercio equo e solidale.

La storia di Silence dovrebbe accompagnare la confezione del pacchetto da porgere il giorno della festa, perché, a differenza di un prodotto qualsiasi, di cui si ignora la provenienza, con il Commercio equo, insieme all’oggetto, si regala anche un pezzo di storia concreta di persone che vivono e lavorano in paesi e contesti a volte difficili di immaginare. È raccontata in uno dei podcast che si trovano sul sito di Equo garantito, l’associazione di categoria delle organizzazioni italiane di Commercio Equo e Solidale.

«Silence è un’organizzazione che si dedica alla riabilitazione socioeconomica di persone con disabilità, in particolare persone sorde», dice il podcast. Nasce a Calcutta, in India, nel 1979 «dallo sforzo collettivo di un piccolo gruppo di artisti sordi alla ricerca dell’autosufficienza economica» e dall’idea di produrre biglietti di auguri dipinti a mano.
Presto l’iniziativa diventa una Ong. Nel tempo, grazie alle vendite in paesi come Usa, Canada, Regno Unito, Germania, Italia, Austria, Francia, Australia e Nuova Zelanda, «diventa in grado di coprire la maggior parte dei costi di produzione e del personale» e di offrire servizi pensionistici per i suoi lavoratori, così come un fondo di previdenza, un fondo volontario di risparmio mensile e si occupa anche di assicurazione sulla vita e copertura di infortuni.
Circa l’80% del personale di Silence è composto da persone con disabilità fisiche, mentali o psichiche che, per la gran parte, hanno dovuto abbandonare la scuola fin dall’infanzia e sono soggette a umiliazioni e discriminazioni.

Il Commercio equo e solidale non concepisce se stesso come beneficenza. È un modo di impostare il mercato diverso dallo sfruttamento e, allo stesso tempo, dall’elemosina e dal paternalismo.

In Italia se ne parlava molto alla fine degli anni Novanta e nel primo decennio del 2000. Oggi se ne parla di meno, ma i dati raccolti e divulgati da Equo garantito nel suo rapporto annuale del 2023, pubblicato a maggio, in occasione dei 20 anni dalla fondazione dell’associazione, ne offrono una fotografia positiva: le dieci organizzazioni italiane di importazioni dirette dai produttori del Sud del Mondo, nel 2021 hanno importato prodotti da 16 organizzazioni locali africane per 3,3 milioni di euro, da 80 organizzazioni in Asia per 5 milioni, da 50 organizzazioni in America Latina per 5,3 milioni e da tre organizzazioni in Europa per 243mila euro. Un totale di 43 paesi del mondo coinvolti, migliaia di famiglie che lavorano dignitosamente, mandano i figli a scuola, hanno la possibilità di immaginare un futuro.

In Italia il commercio equo nel 2021 ha dato lavoro a 491 persone, coinvolto 3.960 volontari e 29.135 soci. E promosso, nel suo piccolo, la cultura della sostenibilità sociale e ambientale.

Luca Lorusso

Sul tema leggi anche:

– Luca Lorusso (a cura di), Natale possibile, Dossier MC dicembre 2012.

– Luca Lorusso, Senza dono, che Natale è? Una conversazione col teologo Roberto Repole, MC dicembre 2014, p 27.




A riflettori spenti


Pierpaolo Mittica è un fotogiornalista conosciuto a livello internazionale. Il centro del suo lavoro è il racconto della vita di chi ha subito guerre o catastrofi. Ciò che accade alle persone quando l’attenzione dell’informazione cala. In Bosnia come in Ucraina.

Fotografo umanista: Pierpaolo Mittica, classe 1971, non potrebbe essere definito diversamente. Conosciuto e premiato a livello internazionale, le sue fotografie sono state esposte in Europa, Stati Uniti e Cina e pubblicate dai più importanti periodici in Italia e all’estero1.

I suoi documentari trasmessi da Prime video, Al Jazeera e Discovery Channel, solo per citare alcune delle piattaforme più note.

Eppure, il successo non ha scalfito l’umanità e l’attenzione che Pierpaolo dedica a ogni storia.

Lo intervisto poco dopo il suo rientro dall’Ucraina dove si è recato a distanza di diversi mesi dallo scoppio della guerra. Ha aspettato ad andarci, perché quello che interessa a lui non sono sangue e pallottole, ma ciò che resta, le piccole storie dimenticate dai grandi media.

Polaroid e Neorealismo

Ha solo dodici anni Pierpaolo quando lo zio, Alfredo Fasan, fotografo professionista, gli regala una Polaroid e lo inizia ai segreti della camera oscura. Subito capisce che la narrazione attraverso le immagini è qualcosa di potente, e se ne innamora.

A diciotto anni si reca a Spilimbergo e fa da assistente a Giuliano Borghesan, uno dei maestri della fotografia italiana che negli anni Cinquanta scrisse con la luce pagine memorabili del Neorealismo in Friuli.

Pierpaolo che spazia dal ritratto alla fotografia di viaggio, sempre mantenendo alta l’attenzione sulle persone.

Sono le persone, infatti, le loro storie, la loro cultura, ad attrarre lo sguardo del giovane fotografo, specialmente le vite dimenticate, quelle ai margini.

La Bosnia: ciò che resta

È il 1998 quando Pierpaolo decide di documentare le conseguenze della guerra dei Balcani.

Il fotografo parte per Sarajevo perché gli sembra impossibile che il conflitto, così vicino a casa sua, sia già dimenticato.

Va in Bosnia con due idee molto chiare sul suo lavoro: la prima è che la guerra guerreggiata non fa per lui. Non vuole raccontare il sangue, il dolore dei soldati feriti, il lutto per i compagni morti, lo strazio delle armi e della violenza.

In fondo, un soldato che muore sul campo fa il proprio lavoro, come un giornalista di guerra, un umanitario, o qualsiasi figura legata allo sporco affare che sono i conflitti in armi.

La seconda idea chiara, forse ancora più importante, è quella di voler raccontare chi è sopravvissuto e deve sopravvivere in un paese dove non ci sono più Stato, leggi, rispetto per la vita.

Pierpaolo vuole raccogliere ciò che resta quando si è perso tutto, le piccole storie, quelle che si tende a dimenticare o a nascondere. E racconterà l’alienazione delle persone di fronte al loro presente, al futuro, e rispetto al loro passato. E la coscienza sporca dell’Europa che ha permesso per troppi anni genocidi e pulizie etniche.

India in bianco e nero

Dopo la guerra dei Balcani, Pierpaolo, spinto dalla voglia di incontrare un luogo dell’anima, decide di partire per l’India.

Il Paese lo colpisce più forte del previsto, nel bene e nel male. Si rende presto conto che l’impatto emotivo non è mai calcolabile, esistono cose, infatti, che non si possono capire senza viverle in prima persona.

Racconta Varanasi e le città legate a culti spirituali profondi, le tradizioni, le baraccopoli, le fogne a cielo aperto, gli odori terribili che si mescolano agli incensi votivi. L’olfatto, in India, viene temprato per sempre. E poi la vista: caos, disordine, densità di persone, cose e colori. E suoni ovunque.

I sensi vengono coinvolti totalmente, e Pierpaolo comprende che l’unico modo per non farsi distrarre da tutta quella realtà è l’uso del bianco e nero. Eliminando una parte di sollecitazioni, può toccare l’anima di quel mondo straordinario.

Chernobyl: il veleno invisibile

È nel 2002 che il lavoro di Pierpaolo incontra una realtà che non abbandonerà mai: quella di Chernobyl e dell’Ucraina.

Non è per lui una realtà sconosciuta, ma l’incontra in modo particolare durante una cena con amici, dove conosce Ivana Rizzo, presidente di un’associazione che aiuta i bambini vittime dell’esplosione della centrale nucleare avvenuta nel 1986: i piccoli vengono portati in Italia durante le vacanze perché possano allontanarsi per un periodo dalle zone contaminate.

Pierpaolo ascolta Ivana parlare di villaggi contaminati ma ancora abitati, sia in Bielorussia che in Ucraina, e di una seconda zona di esclusione oltre i 30 km di raggio attorno alla centrale. Decide così di partire per vedere con i propri occhi. Ben presto comprende che quel poco che sapeva era solo la punta di un iceberg sporco e profondissimo.

Le zone contaminate, infatti, sono abitate, e i cittadini non sanno nulla dell’effetto delle radiazioni a lungo termine.

Il popolo si fida del governo e così coltiva, alleva, utilizza terre che provocano effetti disastrosi sulla salute: infarti del miocardio, malformazioni, tumori.

Il 70% dei bambini nati dopo l’esplosione della centrale è destinato a morire fra i trenta e i quarant’anni.

Pierpaolo si concentra sulle zone di esclusione. Va a Radinka, un villaggio situato a 300 metri oltre il margine della zona di esclusione di Chernobyl, nell’oblast’ di Kiev, a 50 km dal confine con la Bielorussia. Incontra lo scienziato bielorusso Yuriy Bandazhevsky che da anni studia le conseguenze della contaminazione sui bambini residenti a Radinka e nella provincia di Ivankov e combatte, per far conoscere la verità, contro le autorità locali, internazionali e la lobby atomica.

Oggi l’80% degli oltre 3.700 bambini esaminati residenti in quelle terre ha turbe del ritmo cardiaco in relazione diretta con la quantità di cesio incorporata. Inoltre, il 30% presenta una contaminazione interna da cesio 137 sopra i 50 Bq/kg (Becquerel al chilogrammo), livello che provoca diverse patologie.

Da questo progetto lungo di versi anni, deriverà un altro lavoro del fotografo su Kiev, città che al tempo dell’incidente nucleare aveva ospitato molti sfollati dalla zona coinvolta.

Ucraina: seconda famiglia

È il 24 febbraio del 2022: la Russia invade l’Ucraina alle 4 del mattino. Pierpaolo vorrebbe partire subito, ma non è possibile: Chernobyl è occupata dai russi e, anche quando viene liberata, i permessi per entrare e documentarla non arrivano.

Lui non vuole raccontare i soldati, l’occupazione, le morti: ancora una volta il suo sguardo è rivolto al popolo che subisce le conseguenze della guerra.

Questa volta però, a differenza della Bosnia, per Pierpaolo la storia si svolge nella sua seconda casa. Le persone con cui ha condiviso anni di lavoro per raccontare disastri, censure, dolore, dimenticanza, ora sono di nuovo in pericolo.

I permessi arrivano nel novembre 2022, e il fotografo parte con Alessandro Tesei, il videomaker con cui lavora da anni.

L’idea è di arrivare a Kiev e poi spostarsi, permessi permettendo, a Chernobyl. Ma subito i due si rendono conto che Kiev, come le cittadine limitrofe, racconta storie che non trovano voce e ascolto.

L’inverno è freddo, si arriva a meno venti gradi, e le persone si preparano ad affrontarlo senza elettricità e riscaldamento, avvolti dalla neve e dalla paura.

Pierpaolo si muove, dunque, raccontando le persone che provano a sopravvivere. Si fa strada tra le case e i palazzi divelti dalle bombe, ascolta e racconta le vite quotidiane senza cercare la foto d’effetto. Allo stesso tempo vuole comprendere le reali motivazioni dell’attacco russo: pensa che la Nato e il sentirsi minacciati siano una scusa di Putin per prendersi territori che offrono molte opportunità. Da anni infatti, Russia e Cina si contendono l’Africa, e uno sbocco sul mare rende questo continente più raggiungibile. Accesso al mare e accesso alla quinta riserva di gas più grande al mondo, quella del Donbass, sono motivazioni più che valide, più della minaccia della Nato.

Il timore di Pierpaolo, oggi, è che la guerra si incancrenisca, continuando a fare vittime fra una popolazione già allo stremo.

Il senso del fotogiornalismo

Passione, amore, empatia, modestia: per fare il lavoro più bello del mondo non c’è la ricetta perfetta, ma questi quattro elementi non devono mancare.

Pierpaolo parla dei sacrifici necessari per raccontare le vite degli altri, ma anche della bellezza delle esperienze che si fanno.

Accanto ai progetti raccontati finora, dal 2002 Pierpaolo ne porta avanti un altro intitolato Living Toxic, un lavoro a lungo termine che si propone di raccontare tutti i tipi di inquinamento che stanno mettendo in pericolo l’ambiente. Da Chernobyl a Fukushima, dall’incidente nucleare di Mayak fino all’estrazione di carbone in Cina. Sempre con l’obiettivo di sensibilizzare e far comprendere con un linguaggio semplice ciò che rischiamo di perdere, perché, come dice il fotografo, «stiamo distruggendo la nostra casa, esserne consapevoli è il primo passo per attuare un cambiamento».

Valentina Tamborra

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Note

1- Tra le testate che hanno pubblicato foto di Pierpaolo Mittica: l’Espresso, la Repubblica, il Corriere della Sera, Days Japan International, Asahi Shinbum, The Telegraph, The Guardian, Sueddeutsche Zeitung, Der Spiegel, De Zeit, Wired USA, Asian Geo, China Newsweek, National Geographic.




India. Un turbante sikh è per sempre

Tra Canada e India c’è tensione a causa dell’assassinio di un esponente della comunità sikh, molto numerosa nel paese nordamericano. Proviamo a spiegare i termini della questione.

L’assassinio di connazionali ritenuti «scomodi» da parte dei governi di alcuni paesi non è una pratica nuova. Lo ha fatto (più volte) Vladimir Putin. Ad esempio, con l’agente Alexander Litvinenko nel 2006, a Londra. Lo ha fatto il principe saudita Mohammad bin Salman con il giornalista Jamal Khashoggi, ucciso a Istambul, nella propria ambasciata, nel 2018. Potrebbe averlo fatto anche Narendra Modi – il primo ministro indiano protagonista del recente G20 – con il leader sikh Hardeep Singh Nijjar, ucciso vicino a Vancouver, in Canada, lo scorso giugno da due sicari incappucciati.

Il sikhismo è una religione fondata nel XVI secolo nel Punjab, una regione divisa tra India e Pakistan dopo il 1947, alla fine del dominio britannico. Esso nacque con una nobile ambizione: unire indù (maggioritari in India) e musulmani (maggioritari in Pakistan) nella fede in un Dio unico. Gran parte delle credenze dei sikh (come il karma e la reincarnazione) deriva dall’induismo, ma i sikh sono monoteisti e rifiutano ogni distinzione di casta.

Nella mappa la regione del Panjab indiano, cuore della comunità sikh.

Ci sono circa 25 milioni di sikh in tutto il mondo. La stragrande maggioranza vive in India, dove costituisce circa il 2% degli 1,4 miliardi di abitanti del paese. Ma esistono comunità sikh numericamente consistenti anche in altri paesi. Il Canada ospita la popolazione più numerosa al di fuori dell’India, con circa 780mila sikh – più del 2% della popolazione del paese -, mentre sia gli Stati Uniti che il Regno Unito ne ospitano circa 500mila, l’Australia circa 200mila (come l’Italia). È importante ricordare che la comunità sikh canadese riveste un ruolo importante anche per il governo di Justin Trudeau. Il sikh Jagmeet Singh Dhaliwal, nato in Canada nel 1979 da genitori del Punjab, è parlamentare e leader del Nuovo partito democratico (Ndp), formazione politica di centro sinistra che appoggia l’attuale governo canadese. Nuova Delhi considerava Hardeep Singh Nijjar un «terrorista» in quanto esponente del Khalistan (Khalistan liberation force, Klf), movimento che si batte per la creazione di uno stato sikh indipendente nel Punjab. In India, i separatisti del Klf furono attivi soprattutto negli anni Ottanta. L’azione storicamente più eclatante avvenne il 31 ottobre 1984 quando due guardie del corpo sikh uccisero l’allora prima ministra Indira Gandhi.

Nijjar è il terzo leader sikh scomparso in pochi mesi, una sequenza questa che pare ricalcare quanto avvenuto con vari avversari di Putin.

Jagmeet Singh Dhaliwal, sikh canadese, parlamentare e leader del Nuovo partito democratico. (Immagine tratta da sikhnet.net)

Il governo Trudeau ha accusato l’India di aver ucciso Nijjar, immigrato in Canada nel 1997 e divenuto nel frattempo cittadino canadese, sul proprio territorio violando così la sovranità nazionale. Sono seguiti inevitabili scambi di accuse e proteste. La questione è delicata non soltanto per il fatto in sé, ma anche perché coinvolge l’India, nazione emergente che sta cercando di ritagliarsi un posto di rilievo sulla scena internazionale. L’assassinio del leader sikh può, infatti, compromettere le ambizioni indiane e, soprattutto, la credibilità democratica del governo nazionalista di Narendra Modi.

Paolo Moiola




India. A Delhi, promesse e gaffe

Da Narendra Modi a Lula da Silva. Nel 2024, il vertice delle venti maggiori economie del mondo (G20) si terrà nel paese latinoamericano.

Modi è stato abile, abilissimo. Non tanto per aver fatto conoscere al mondo il nome originale del suo paese, Bhārat (al posto del coloniale India), quanto per il suo fantastico equilibrismo. Al pari del turco Erdogan (con il quale condivide anche un’interpretazione piuttosto discutibile della democrazia), il primo ministro indiano è stato capace di barcamenarsi tra Joe Biden e Xi Jinping, quest’ultimo strategicamente assente dal vertice dopo aver partecipato di persona a quello dei Brics, a fine agosto.

«Siamo una sola terra, una sola famiglia e condividiamo un futuro» con queste (belle) parole inizia il preambolo della dichiarazione finale della due giorni (9-10 settembre) di Nuova Delhi. E subito dopo, ai punti 3 e 4, s’introduce la questione ambientale: «Le emissioni globali di gas serra (Ghg) continuano ad aumentare, di pari passo con il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l’inquinamento, la siccità, il degrado del territorio e la desertificazione, minacciando vite e mezzi di sussistenza. […] Noi affermiamo che nessun paese dovrebbe scegliere tra la lotta alla povertà e la lotta per il nostro pianeta». Insomma, nel documento finale del G20 le buone intenzioni non mancano, ma – si sa – quelle non costano nulla.

Modi saluta Sergej Lavrov, ministro degli esteri russo. (Foto da www.g20.org)

Poco sotto, nel paragrafo titolato «Per il pianeta, la gente, la pace e la prosperità», al punto 8 si legge della guerra in Ucraina, ma la Russia di Vladimir Putin non viene neppure citata. Come se quel conflitto si fosse autogenerato al pari di una combustione spontanea o, meglio, di una partenogenesi. Sergej Lavrov, l’ineffabile ministro degli esteri russo, ha gradito molto. Una scelta grave quella del G20 perché alla legalità internazionale si è preferito il compromesso ipocrita.

Per il resto, nella lunga dichiarazione (sono 38 pagine) non manca quasi nulla: economia e sviluppo, ambiente e clima, tecnologia, finanza, lotta al terrorismo, alla xenofobia e alla strumentalizzazione delle fedi religiose, migrazioni. Difficile trovare un passaggio su cui non concordare: le parole sono scelte con estrema cura, come consuetudine nei documenti finali. È il successivo passaggio, dalle parole ai fatti, che risulta sempre problematico.

Non manca, tuttavia, qualche elemento positivo. Per esempio, verso la fine del documento (al punto 76), si legge una novità potenzialmente interessante: l’entrata dell’Unione africana – organizzazione similare all’Unione europea – come membro permanente del G20.

Il punto precede le righe che riguardano le migrazioni, la questione mondiale più rilevante di questi anni, al pari dei cambiamenti climatici. Vale la pena di riportarne alcune righe: «Riaffermiamo il nostro impegno – scrivono i leader – a sostenere i migranti, compresi i lavoratori migranti e i rifugiati, nell’ambito dei nostri sforzi verso un mondo più inclusivo, in linea con le politiche nazionali, legislazioni e circostanze, garantendo il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, indipendentemente dal loro status migratorio. Riconosciamo anche l’importanza di prevenire i flussi migratori irregolari e il traffico di migranti, come parte di un approccio globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare rispondendo, nel contempo, ai bisogni umanitari e alle cause profonde degli sfollamenti. Sosteniamo il rafforzamento della cooperazione tra paesi di origine, transito e destinazione».

Come volevasi dimostrare, non c’è una parola fuori posto. Ma di soluzioni concrete e immediatamente attuabili non c’è traccia alcuna.

Interessante anche il punto 78, nel quale si difende la libertà religiosa. «Deploriamo fortemente – scrivono i leader – tutti gli atti di odio religioso contro le persone, nonché quelli di natura simbolica, […], anche contro i simboli religiosi e i libri sacri». Il passaggio è importante, ma dovrebbe stonare un po’ per l’anfitrione indiano. Narendra Modi, infatti, è primo ministro del paese asiatico, ma anche leader del Bharatiya janata party (Bjp), partito induista poco rispettoso delle minoranze religiose. In particolare, sono i musulmani (14,2% pari a quasi 173 milioni di indiani) e i cattolici (1,5%, circa 20 milioni) a essere fatti oggetto di discriminazione e violenza.

Modi con il presidente Lula. Il Brasile ospiterà il G20 del 2024. (Foto da www.G20.org)

A conclusione del vertice, Modi ha passato le consegne a Lula, presidente del Brasile, prossimo paese a ospitare il G20. Come primo gesto, il leader brasiliano ha offerto a Vladimir Putin, ricercato dalla Corte penale internazionale (alla quale anche il paese latinoamericano aderisce), la possibilità di presenziare di persona al summit del 2024 senza correre il rischio di essere arrestato. Il giorno dopo Lula ha ritrattato: «Su Putin deciderà la magistratura», ha precisato. Aggiungendo però un’altra affermazione infelice: «Non sapevo nemmeno che esistesse questo tribunale».

Paolo Moiola




San Lazzaro Devasahayam


«La canonizzazione del beato Lazzaro, chiamato Devasahayam, è un’affermazione del suo essere stato discepolo di Gesù, avendo vissuto pienamente il Vangelo nella sua vita. Era un laico, e questo rivela che la santità è per ogni persona, non solo per i religiosi. Oggi parliamo sempre più spesso della vocazione dei laici nella Chiesa, e qui c’è un laico indiano, un padre di famiglia, che ha offerto una testimonianza vera e genuina dei valori del Vangelo. Amava i poveri e i Dalit ed era un potente testimone dello Spirito di Cristo» (card. Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai).

Nel regno di Travancore (Thiruvitankur nella linga locale), situato nell’India Sud occidentale, dal 1720 regnava Martanda Varmâ. Nel XVIII secolo questi territori erano ambiti dalla Compagnia olandese delle Indie. Ma il regno di Travancore si opponeva decisamente a questo dominio straniero e nella battaglia di Colachel (10 agosto 1741), sconfisse i mercenari della Compagnia, liberandosi dai legami coloniali e dalle tasse sul commercio delle spezie, in particolare sul pepe nero.

Diversi soldati della Compagnia furono fatti prigionieri, tra di essi il comandante degli olandesi, Eustache de Lannoy, un cattolico francese, che poi accettò di mettersi al servizio del re che gli diede il compito di modernizzare la flotta e l’esercito del suo regno. Da abile stratega militare, De Lannoy organizzò l’esercito di Travancore secondo lo standard europeo. Introdusse le armi da fuoco, promosse un sistema di tassazione accurato, e fece eseguire lavori d’irrigazione per rendere fertili e coltivabili le terre aride della parte interna del paese, salendo di grado fino a diventare ammiraglio capo. Ebbe infine un ruolo importante nella conversione di Nilakandan, un ufficiale dell’esercito reale.

Il regno di Travancore era uno stato principesco del subcontinente indiano. Comprendeva la maggior parte del Sud dell’attuale stato del Kerala e il presente distretto di Kânyâkumârî dello stato del Tamil Nadu. Aveva come capitale Thiruvananthapuram, l’odierna capitale del Kerala.

L’ampio territorio era incorniciato da alte montagne sui cui versanti prosperavano piantagioni di ogni tipo. Con le spiagge degradanti fino al mare, si godeva di un clima tropicale caldo e umido, ricco di precipitazioni e di piogge monsoniche, con temperature elevate durante tutto l’anno. Nel 1503 era stato la prima colonia portoghese in India, e fu per secoli uno snodo fondamentale per il commercio delle spezie verso il Medio Oriente e l’Europa. Era il regno del cocco, del peperoncino, del pepe nero, delle foglie di curry, del cardamomo, dei semi di senape e dei chiodi di garofano, spezie ancora oggi apprezzate dalla popolazione locale.

Statue of Devasahayam Pillai, St. Francis Xavier Cathedral, Kottar, Nagercoil – CC BY-SA 3.0

La nascita di Nilam

Nel piccolo villaggio di Nattalam, in una famiglia indù, il 12 aprile 1712 nacque Nilam, detto anche Nilakandan. Ricevette subito il titolo di «pillai» perché apparteneva all’alta casta dominante, i Nair, i cui membri lavoravano come soldati al servizio del re.

La carriera militare

Nilam fu educato da tutori competenti e raggiunse un alto livello di preparazione. Si esercitò anche nelle arti marziali tradizionali, mentre studiava e imparava molte lingue.

Con la meditazione e lo yoga, le arti marziali avevano lo scopo di aiutarlo a dominare il corpo e la mente, infondendo nell’animo serenità e pace per servire la divinità con tutto il cuore. Non erano semplici esercizi fisici per difendersi da attacchi improvvisi, ma strumenti di primaria importanza per portare l’esercitante nella via della pace interiore, nell’autocontrollo e nella pratica della nonviolenza. La morbidezza e la cedevolezza nei movimenti erano qualità essenziali nella pratica delle arti marziali. Non bisognava infatti opporsi alla forza dell’avversario, ma utilizzare piuttosto la sua forza per batterlo.

In quanto indù tradizionalista, Nilakandan si dedicò sempre fedelmente alle devozioni degli dei e all’osservanza religiosa, divenendo un ufficiale presso il tempio di Nilakandaswamy, nel Padmanabha­puram.

Grazie alla sua grande intelligenza e ai suoi talenti, intraprese la carriera militare divenendo ministro del regno di Travancore, come funzionario del palazzo reale addetto al tesoro e alle finanze. Era molto amato dal re, perché era un uomo buono e fedele al suo dovere.

Convertito dalla storia di Giobbe

Con il passare del tempo, quando, dopo alcuni cattivi raccolti e una cattiva gestione, perse i suoi beni, Nilakandan corse il pericolo di perdere anche il posto di lavoro e la sua onorabilità. Fu Eustache de Lannoy a consolarlo narrandogli la storia biblica di Giobbe. Gli raccontò che, messo alla prova da Satana, Giobbe aveva sopportato con rassegnazione la perdita dei suoi beni, dei suoi sette figli e tre figlie morte nel crollo della casa, e anche le sofferenze dovute alla malattia che lo aveva colpito.

Fortemente impressionato da questo personaggio, Nilakandan si avvicinò al cristianesimo e, nonostante fosse ben consapevole dell’ostilità che il re aveva verso i convertiti, chiese di ricevere il battesimo dal gesuita padre Giovanni Battista Buttari. Così il 14 maggio 1745 divenne cristiano, scegliendo per sé il nome di Devasahayam, traduzione in lingua tamil del biblico Lazzaro, o Eleazar, che in ebraico significa «aiuto di Dio».

Si consacrò solennemente a Cristo

Nel giorno del suo battesimo Devasahayam si consacrò solennemente a Cristo: «Nessuno mi ha costretto a venire, sono venuto dalla mia propria volontà. Egli è il mio Dio. Ho deciso di seguirlo e lo farò per tutta la mia vita». La sua vita non fu più la stessa: Devasahayam si dedicò alla proclamazione del Vangelo per quattro anni.

I capi indù non videro di buon occhio la sua conversione al cristianesimo. I bramini cominciarono a muovere false accuse contro Devasahayam presso il re che lo fece arrestare nel febbraio del 1749, intimandogli di ritornare all’induismo.

La conversione di un ministro del re era, infatti, ritenuta un tradimento e un pericolo per la solidità dello stato. Il suo rifiuto di adorare le divinità indù e di prendere parte alle tradizionali feste religiose irritò molto il re e i suoi ufficiali che non tolleravano la sua predicazione sull’uguaglianza di tutti i popoli, il superamento delle caste e l’amicizia con gli intoccabili, cosa proibita per una persona di casta elevata.

Tutti gli sforzi del re risultarono vani e Devasa­hayam rimase fermo nella sua nuova fede e si rifiutò di abbandonare Gesù Cristo. In seguito a ripetuti e inutili tentativi di fargli abiurare la fede cristiana, il re ordinò che venisse torturato a lungo pubblicamente, come monito per coloro che pensavano di convertirsi al cattolicesimo.

Persecuzione e tortura

Gli ufficiali di palazzo e i soldati misero in mostra Devasahayam attraverso il regno in un modo ignominioso e straziante. Fu fatto fatto girare nei villaggi seduto su un bufalo e gli furono offerte ridicole corone di fiori, mentre veniva regolarmente picchiato in pubblico con bastoni e spine. Misero polvere di peperoncino sulle sue ferite per aumentare il dolore e le sofferenze. Lo costrinsero a stare in mezzo a insetti voraci. Lo fecero camminare per molti chilometri sotto il sole cocente, con le mani e i piedi incatenati. Arrivati presso una roccia a Puliyoorkurichy, era molto assetato, ma i soldati si rifiutarono di dargli da bere. Cadde allora in ginocchio e pregò: l’acqua sgorgò e placò la sua sete, e sulla roccia rimasero le impronte delle sue ginocchia.

Gli ufficiali per intensificare le sue sofferenze lo portarono in un posto chiamato Peruvilai dove lo consegnarono ai carnefici. Essi lo legarono strettamente a un albero, impedendogli così di sedersi o sdraiarsi. All’aperto, sotto il sole cocente, la pioggia o il vento, soffrì la fame per sette mesi. Accettò ogni cosa felicemente e offrì tutto per la gloria di Dio. In mezzo a tutte queste sofferenze, la sua fede in Gesù non fu mai scossa ed egli rimase fedele a Cristo, non smise mai di pregare e meditare.

A closer look of the rock where Devasahayam is believed to have prayed and left imprints of his knee and elbow – CC BY-SA 3.0 Jayarathina

Il martirio

A Peruvilai una grande folla cominciò a recarsi presso di lui ogni giorno, per ricevere le sue benedizioni e preghiere. I soldati lentamente cominciavano a essere gentili con lui fino al punto da suggerirgli di fuggire. Venuto a conoscenza della nuova situazione, il re e gli ufficiali di palazzo si sentirono sconfitti nel loro desiderio di far cambiare idea a Devasahayam e, per evitare che ancora più gente diventasse cristiana, ordinarono che fosse portato in una prigione segreta presso Aralvaimozhy, al confine Sud Est del regno.

Anche a Aralvaimozhy le torture continuarono e, giorno dopo giorno, la sua salute divenne precaria. Infine, arrivò il momento supremo del martirio, che egli desiderava da molto tempo.

Il 14 gennaio 1752 gli ufficiali ricevettero l’ordine speciale da parte del re di ucciderlo in segreto. Devasahayam fu svegliato prima della mezzanotte e i soldati lo portarono sulle loro spalle, non essendo in grado di camminare, fino in cima a una collinetta nella foresta di Aralvaimozhy.

Per l’ultima volta egli chiese ai soldati un po’ di tempo per pregare. Nel mezzo della notte si inginocchiò sulla roccia e si abbandonò completamente al Signore.

Quando finì di pregare, chiese ai soldati di fare il loro dovere, ed essilo fecero. Gli spararono tre volte e Devasahayam cadde sulla roccia gridando: «Gesù, salvami!». Quindi per assicurarsi che fosse morto, gli spararono altri due colpi. Lo gettarono nella foresta perché il suo cadavere venisse divorato dalle belve e così distruggere ogni prova della sua uccisione.

Dopo cinque giorni, i cattolici che vivevano nelle vicinanze vennero a sapere dell’esecuzione. Raccolsero i suoi resti e li seppellirono nella Chiesa di San Francesco Saverio a Kottar, l’attuale cattedrale della Diocesi di Kottar, nello stato di Tamil Nadu.

Una santità riconosciuta

Tomb of Devasahayam Pillai, St. Francis Xavier Cathedral, Kottar, Nagercoil (CC BY-SA 3.0)

Ben presto Devasahayam venne venerato nella regione, e nel 1993 la diocesi di Kottar aprì canonicamente la causa di beatificazione.

La sua santità era ancorata a due capisaldi: anzitutto il grande desiderio di offrirsi a Dio, di appartenergli totalmente donandogli la vita, anche in modo cruento nel martirio. Poi, vivere in ascolto della parola di Dio, sottomettendosi totalmente al servizio della verità del Vangelo nella società. Visse così da vero testimone di Cristo la sua fede battesimale e il suo impegno cristiano. Dopo lunghe ricerche, Benedetto XVI autorizzò la promulgazione del Decreto super martyrio il 28 giugno 2012.

«La Chiesa indiana è grata per questa figura così eroica nel diffondere il Vangelo nella nostra terra anche nelle tribolazioni. È un dono all’India e alla Chiesa universale: sono sicuro che guiderà la vita di molti cristiani» (cardinal Baselios Cleemis, siro-malankarese).

Nella città di Nagercoil (diocesi di Kottar), il 2 dicembre 2012, si svolse la cerimonia di beatificazione, con grandissima partecipazione di popolo.

La canonizzazione è stata poi resa possibile dal riconoscimento di un miracolo avvenuto per sua intercessione, cioè la guarigione nel grembo di una donna indiana di un feto di 20 settimane che la medicina aveva ufficialmente dichiarato morto.

Gli esami ecografici a cui si era sottoposta laa donna avevano riscontrato mancanza di battito cardiaco e di movimento fetale. La donna, di religione cattolica, si fece portare dai genitori dell’acqua attinta dal pozzo di Nattalam, luogo di nascita del beato Lazzaro, di cui era molto devota: la bevve e continuò a pregare. Circa un’ora dopo aver bevuto, la donna sentì che il feto si muoveva. L’attività cardiaca fetale fu accertata da successive ecografie. Il bambino nacque senza parto cesareo, sano e in buone condizioni cliniche generali.

Papa Francesco nel concistoro del 3 maggio 2021 fissò la data di canonizzazione per il 15 maggio 2022.

Monsignor Peter Remigius, vescovo emerito di Kottar, dove si trovano i luoghi di nascita e di martirio di Devasahayam, assicura che «Da quando papa Francesco ha autorizzato il processo di canonizzazione, migliaia di persone stanno accorrendo nel luogo in cui è stato fucilato. In tutte le parrocchie della diocesi c’è grande giubilo, la notizia è diventata virale sui social. Inoltre, la donna del miracolo appartiene alla diocesi e abita molto vicino alla casa natia del beato».

Giuseppe Ronco

 




Variante Delta, variabile Modi

testo di Maria Tavernini |


Il disastro era previsto e annunciato, ma la classe politica al potere ha minimizzato, preferendo raccogliere consensi più che mettere in sicurezza il paese. E le conseguenze dello tsunami seconda ondata hanno colpito anche il resto del mondo.

A fine gennaio scorso, al vertice di Davos del Forum economico mondiale, il primo ministro indiano Narendra Modi aveva sostenuto che il paese avesse dimostrato al mondo come gestire una pandemia.

«Quando è arrivato il Covid-19, anche l’India ha avuto i suoi problemi – aveva dichiarato il premier -. All’inizio dello scorso anno, diversi esperti e organizzazioni avevano previsto che l’India sarebbe stata il paese più colpito dalla pandemia. Qualcuno aveva anche detto che si sarebbero contagiate 700-800 milioni di persone e che due milioni di indiani sarebbero morti».

Secondo Modi, l’India – che ospita quasi il 18% della popolazione mondiale con 1,38 miliardi di persone, ed è il più grande produttore globale di vaccini, tanto da essere definita la «farmacia del mondo» – non solo si era presa cura dei suoi cittadini, ma aveva anche aiutato altri paesi esportando kit, mascherine e, più di recente, vaccini.

Un lockdown brutale

Dopo la prima ondata di Covid-19 che aveva solo lambito il paese con un tasso di mortalità molto basso e contagi relativamente sotto controllo, soprattutto se rapportati alla popolazione, enorme e molto giovane (età media 29 anni), le autorità avevano cantato vittoria e abbassato la guardia. Sembrava già lontana la brutalità del primo lockdown, imposto a fine marzo 2020 con sole quattro ore di preavviso, che in un’economia basata per l’86% su scambi e rapporti informali, aveva scatenato un incontrollato esodo di lavoratori a giornata e di poveri urbani verso le campagne, e innescato così una grave crisi umanitaria per milioni di persone ai margini della società.

11 marzo 2021. I Naga Sadhus (uomini santi) s’immergono nel Gange per espiare i loro peccati in occasione del Kumbh Mela, il più grande raduno religioso del mondo che si svolge ogni 12 anni in quattro luoghi diversi. Quest’anno è stato ad Haridwar dal 15 gennaio al 27 aprile. (Photo by Prakash SINGH / AFP)

La super diffusione del Kumbh Mela

Dopo un inverno di apparente quiescenza del virus con meno di 10mila nuovi casi al giorno, l’allora ministro della salute Harsh Vardhan, a marzo scorso, aveva trionfalmente annunciato la fine della pandemia nel paese e il ritorno alla «normalità».

Niente poteva essere più lontano dalla verità, ma il governo guidato dai nazionalisti hindu del Bharatiya Janata Party, spinto da una contrazione del Pil del 7,7%, aveva deciso di allentare le restrizioni e far ripartire l’economia.

Mentre il mondo era costretto in casa dalla violenza della seconda ondata e i numeri iniziavano a risalire anche in India, il governo aveva permesso che si tenesse il Kumbh Mela, il più grande raduno umano al mondo: un festival hindu che si celebra a cadenza ciclica in quattro città indiane.

Nonostante le restrizioni, tra gennaio e marzo 2021, oltre tre milioni di pellegrini erano arrivati ad Haridwar da tutta l’India, ammassati sulle rive del Gange per il bagno rituale nel fiume sacro.

Il Kumbh Mela si sarebbe trasformato in un evento «super diffusore» con migliaia di casi collegati.

Solo un anno prima, durante la prima ondata, un altro raduno religioso, in quel caso musulmano, della Tablighi Jamaat, tenutosi nella moschea di Nizamuddin a Delhi – quando i casi giornalieri erano ancora bassi – i fedeli musulmani (poche migliaia, non milioni) erano stati bollati come «corona jihadi» e incolpati dalla destra hindu di aver fatto detonare i casi di Covid-19 nel paese.

Diversi media indipendenti avevano poi smontato quella narrazione ed evidenziato come la comunità musulmana – la più grande minoranza religiosa in India, oltre 200 milioni di persone – fosse stata usata come capro espiatorio dell’aggravarsi della pandemia nel paese.

I comizi oceanici di Modi

Un anno dopo, con i casi in rapido aumento e il Kumbh Mela ancora in corso, il premier si era limitato a esortare i fedeli a fare un bagno solo «simbolico» nel Gange. Nel frattempo, però, si tenevano le elezioni in cinque stati e, mentre l’opposizione aveva sospeso i comizi elettorali con l’aggravarsi della situazione epidemiologica, il Bharatiya Janata Party aveva continuato a tenere comizi oceanici, soprattutto nel secolarissimo Bengala Occidentale, dove Modi sperava di conquistare l’elettorato e dove poi avrebbe invece incassato una pesante sconfitta.

Durante un comizio, nel bel mezzo della seconda ondata, il premier aveva detto di non aver mai visto tante persone a una manifestazione politica: «Dovunque mi volti, vedo gente», aveva esclamato estatico.

In quei giorni, l’India veniva travolta da uno tsunami di casi che avrebbe messo a nudo le fragilità del sistema sanitario indiano e l’impreparazione di una classe politica inadeguata che ha condotto il paese verso una catastrofe di proporzioni inaudite.

24 marzo 2021. I sostenitori del Bharatiya Janata Party (Bjp) durante uno dei comizi elettorali del primo ministro indiano Narendra Modi, a Sipajhar, Assam, India. (Photo by ANUWAR HAZARIKA / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Tsunami seconda ondata

A inizio aprile 2021, il paese è stato letteralmente travolto dalla seconda ondata di infezioni superando un milione di casi attivi.

Nel giro di poche settimane, l’India ha superato il Brasile come secondo paese al mondo per numero di casi dopo gli Usa, con oltre 2,5 milioni di positivi, una media di 300mila nuovi casi e duemila morti al giorno.

Ai primi di maggio, l’India ha registrato in un solo giorno oltre 400mila nuovi casi – l’incremento giornaliero più alto al mondo dall’inizio della pandemia – e oltre 3.500 decessi: una cifra che molti analisti considerano una sottostima (poi rivista al rialzo).

Le immagini dei crematori che bruciavano corpi (come da tradizione nei riti funerari hindu) senza sosta, giorno e notte, anche fuori dagli spazi adibiti, hanno restituito la vera proporzione della tragedia in corso, i cui numeri reali, probabilmente, non si conosceranno mai.

Con gli ospedali pieni, i posti in terapia intensiva ormai saturi, ossigeno e medicine introvabili se non a prezzi esorbitanti sul mercato nero, in un sistema sanitario fatiscente – almeno nel settore pubblico -, diverse grandi città hanno registrato un numero molto maggiore di cremazioni e sepolture rispetto al bilancio ufficiale delle vittime di Covid-19.

Se la seconda ondata ha travolto le megalopoli indiane, le zone rurali sono state letteralmente devastate. Molte persone sono morte per mancanza di ossigeno. La carenza di legna per le cremazioni, le lunghe file e l’inflazione sui prezzi degli ultimi riti ha costretto molte persone (anche hindu) a seppellire i propri cari sulle rive sabbiose dei fiumi: piccoli cumuli di sabbia adornati da ghirlande di fiori. Con le piogge dei monsoni che hanno gonfiato i fiumi, i corpi sono poi venuti a galla, riportati a riva in un macabro spettacolo.

Stime di una catastrofe

Mentre scriviamo, i casi totali ufficiali hanno superato i 30 milioni, e i morti sono più di 400mila: cifre che difficilmente riflettono la realtà. Secondo alcune stime, i numeri relativi a contagi e morti potrebbero essere fino a cinque volte superiori a quelli ufficiali, complice la poca trasparenza delle istituzioni, metodi di registrazione dei decessi frammentari e un inefficace sistema di tracciamento.

Il New York Times ha delineato quattro possibili scenari sui reali numeri della pandemia in India: uno scenario definito «conservatore» stima che i morti siano almeno 600mila; una stima più probabile parla di 1,6 milioni di decessi da Covid-19, mentre lo scenario più catastrofico stima siano 4,2 milioni (stime effettuate alla fine di maggio 2021).

Disastro annunciato

Programma di sensibilizzazione della Trinity care foundation contro il Covid-19 a Jangamakote Village nello stato del Karnataka, nel Sud dell’India.

Secondo l’agenzia di stampa Reuters, nei primi giorni di marzo 2021, un forum di esperti scientifici aveva avvisato i funzionari indiani di una nuova variante del coronavirus, molto contagiosa, che si stava diffondendo nel paese, denominata B.1.617.2, o anche variante Delta, oggi predominante nel Regno Unito.

Nonostante l’avvertimento, il governo centrale non era intervenuto con restrizioni per fermare il contagio: milioni di persone senza mascherine, incuranti delle minime norme di contenimento, avevano partecipato ai festival religiosi e ai comizi elettorali tenuti dal primo ministro Modi, permettendo al virus di circolare liberamente e di mutare.

L’allarme per la nuova variante era stato lanciato a inizio marzo dall’Indian Sars-CoV-2 Genetics Consortium (Insacog), che per primo aveva sequenziato la variante B.1.617.2 del coronavirus, a febbraio. Non si sa se i risultati fossero stati trasmessi direttamente al premier Modi, ma è oramai chiaro che le autorità avevano deliberatamente sottovalutato gli avvertimenti.

Sebbene il rapporto non abbia ricevuto molta attenzione sui principali media indiani, la catastrofe della seconda ondata in India ha messo in luce le ombre dell’amministrazione Modi, ampiamente criticata – in India e all’estero – per la sua incapacità di prevenire e arginare la pandemia. I principali media internazionali hanno infatti puntato il dito contro un esecutivo che ha creduto nel «miracolo indiano», e non si è premurato di contenere il disastro. Piuttosto, di minimizzarlo o negarlo.

I vaccini indiani

Mentre scriviamo, dopo settimane di impennata, la curva dei contagi sembra essere finalmente in lieve flessione: un nuovo lockdown ha fatto rallentare la corsa della contagiosa variante indiana.

Intanto, il piano vaccinale, applicato molto lentamente per mesi, sembra accelerare: l’India è il più grande produttore al mondo di vaccini e ne fabbrica due contro il coronavirus – Covaxin, di Bharat Biotech e Covishield, del Serum Institute of India -. Sono state somministrate 376 milioni di dosi, il numero più alto al mondo dopo Cina e Stati Uniti, ma, in rapporto alla popolazione, un tasso di vaccinazione molto più basso di tanti altri paesi.

Nei giorni peggiori del picco pandemico, l’India ha bloccato le esportazioni del vaccino fino alla fine del 2021 per soddisfare l’enorme domanda interna. La decisione ha avuto un pesantissimo impatto sui 91 paesi a medio e basso reddito che dipendono dal vaccino indiano nell’ambito del piano dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il Covax, che mira a immunizzare due miliardi di persone, ha affermato lo scienziato capo dell’Oms, dr. Soumya Swaminathan.

La campagna vaccinale indiana, iniziata lo scorso gennaio, si era inizialmente concentrata su anziani e persone fragili. Modi aveva poi annunciato di voler mettere il vaccino sul libero mercato per somministrarlo ai più giovani, tramite i governi statali e le strutture sanitarie private, a prezzi maggiorati, creando un doppio binario: chi poteva e chi non poteva permetterselo.

A seguito dell’impennata di infezioni ad aprile e (forse) sulla scia del richiamo ricevuto dalla Corte suprema indiana, che aveva definito il piano «arbitrario e irrazionale», il primo ministro ha poi aperto le inoculazioni gratuite dal 1° maggio per la fascia 18-45 anni. Peccato che non siano state aumentate le scorte, e l’India fa affidamento anche su vaccini prodotti all’estero.

Un leader inadeguato

«Il mondo è sull’orlo di un catastrofico fallimento morale, e il prezzo di questo fallimento sarà pagato con vite e mezzi di sussistenza dalle popolazioni più povere», aveva avvisato a gennaio Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore esecutivo dell’Oms durante una sessione del comitato esecutivo.

La crisi indiana ha confermato i timori di Tedros e dimostrato che in questa pandemia non ci si salva da soli. La mala gestione di un governo impreparato e la conseguente assente pianificazione indiana, ha avuto pesanti ricadute per i cittadini di ogni estrazione e provenienza. Ma anche per quei paesi che dipendevano dalle esportazioni indiane per il piano vaccinale.

Come in altri luoghi del mondo guidati da leader autoritari e populisti, la pandemia ha messo in luce l’incapacità della leadership di rispondere adeguatamente alla crisi, barcamenandosi tra negazione, ottimismo infondato e soluzioni di facciata.

La pandemia ha fatto emergere con violenza le storture del sistema e l’inadeguatezza della leadership indiana: di un partito che, negli ultimi sette anni di governo, si è reso responsabile di un grave declino delle libertà e delle istituzioni democratiche.

Durante i giorni più neri della catastrofe, il primo ministro si è tenuto lontano dai riflettori sostenendo che «il sistema era collassato». Non appena i numeri sono iniziati a calare, come da tradizione, Modi si è assunto i meriti dell’appiattimento della curva.

Peccato che la parola d’ordine «Aatmanirbhar Bharat» (India autosufficiente) sia stata disattesa. L’amministrazione è stata interessata più a controllare la narrativa, silenziare le critiche e nascondere la polvere sotto il tappeto che a tenere a bada il contagio.

E mentre l’India difficilmente dimenticherà questa tragedia, gli esperti avvisano che la terza ondata di contagi potrebbe colpire il paese tra settembre e ottobre.

Maria Tavernini

Programma di sensibilizzazione della Trinity care foundation contro il Covid-19 a Jangamakote Village nello stato del Karnataka, nel Sud dell’India.


I cristiani indiani durante la seconda ondata

Perseguitati ma al servizio

Se il subcontinente indiano è stato travolto dalla seconda ondata di Covid-19, trasformatasi nel giro di poco tempo in una catastrofe senza precedenti nella storia repubblicana, per i cristiani d’India e per le altre minoranze religiose, la crisi è stata ancora più drammatica.

La comunità cristiana indiana è la terza comunità religiosa dopo quella hindu e quella musulmana, con oltre 27 milioni di fedeli, ed è costituita in larga parte da Dalit (i «fuoricasta» secondo la rigida stratificazione sociale indiana) convertitisi anche nella speranza di sfuggire a discriminazioni e umiliazioni.

I cristiani indiani, di questi tempi, pregano per i vaccini, per il cibo e per l’ossigeno: ventilatori e bombole di ossigeno scarseggiano, e le restrizioni hanno impedito a coloro che lavorano alla giornata di guadagnare abbastanza per sfamarsi.

Inoltre, l’appartenenza religiosa ha creato non poche discriminazioni anche nella rete di distribuzione di aiuti alimentari durante i giorni più duri del lockdown. Nell’India a maggioranza hindu, con una leadership che avalla politiche settarie e maggioritarie, le minoranze sono destinate a diventare sempre più un bersaglio, «cittadini di serie B».

La persecuzione delle minoranze religiose è, infatti, significativamente aumentata sotto l’amministrazione Modi: la pandemia non ha fatto che acuire questa tendenza e aggravare le discriminazioni, l’autoritarismo e la violenza.

Benché i cristiani siano stati duramente colpiti dalla pandemia e molti siano stati ridotti alla fame, complici anche le condizioni economiche di molte comunità dal background Dalit e il fatto di essere stati spesso deliberatamente lasciati fuori dagli aiuti ufficiali, le organizzazioni cristiane, come anche quelle sikh e musulmane, sono state in prima linea per assistere poveri e malati.

Sono circa 60mila i posti letto che la Chiesa cattolica indiana ha messo a disposizione grazie alle proprie opere sanitarie per arginare la seconda ondata della pandemia. Le istituzioni sanitarie cristiane si sono concentrate in larga parte sulle aree rurali, quelle più devastate dal contagio, dove le strutture pubbliche sono sottodimensionate e in condizioni pessime.

«Le nostre scuole funzioneranno come centri di isolamento e quarantena; le nostre sedi come centri di vaccinazione; e il nostro personale religioso inizierà una campagna per incoraggiare le persone a vaccinarsi», ha detto il presidente dei vescovi indiani a «Vatican News».

Secondo l’emittente vaticana, molte diocesi indiane si sono attivate mettendo in campo anche metodi innovativi per aiutare ad alleviare le sofferenze della gente: nei giorni dell’emergenza sanitaria, l’arcidiocesi di Bangalore, nel Sud dell’India, ha reso disponibili le sue strutture adibendole a ospedali temporanei per i pazienti Covid. L’arcidiocesi ha inoltre attivato una linea telefonica di supporto per le vittime e i loro familiari, fornendo informazioni sulla gestione domiciliare della malattia e sulla disponibilità di posti letto e ossigeno.

M.T.

 




Modi e la deriva maggioritaria

testo di Maria Tavernini |


Delegittimare i processi e le istituzioni democratiche, criminalizzare il dissenso e calpestare i principi costituzionali è una tendenza sempre più frequente nell’India di oggi. A rimetterci, soprattutto poveri e minoranze.

«Il vero buio all’orizzonte è la svolta che sta prendendo la democrazia indiana, come se fosse sulla strada della perdizione», si legge nel duro editoriale dello scrittore Pratap Bhanu Mehta, sul quotidiano Indian Express, all’indomani della storica marcia di trattori che il 26 gennaio scorso – 72ª festa della Repubblica – ha sfilato nella capitale indiana in parallelo alla parata militare ufficiale.

È stata una manifestazione enorme, con centinaia di migliaia di contadini e contadine provenienti da tutta l’India.

Dopo due mesi, accampati ai confini di Delhi, hanno invocato (e ancora oggi, mentre scriviamo, invocano) il ritiro delle liberalizzazioni decise a settembre dal governo nazionalista guidato dal Bharatiya Janata Party (Bjp). Riforma considerata lesiva dai lavoratori della terra che rappresentano oltre la metà della forza lavoro indiana, in quanto favoriscono i colossi dell’agroalimentare ai danni dei piccoli produttori.

Una protesta che ha raccolto enorme sostegno dalla società civile, anche internazionale, alla quale il governo ha risposto con indifferenza prima, e con la repressione poi.

Nuova India intollerante

La tendenza a delegittimare i processi e le istituzioni democratiche, criminalizzare il dissenso e calpestare i principi costituzionali, è sempre più frequente nell’India di oggi, tanto che lo svedese V-Dem Institute a marzo ha declassificato l’India come «autocrazia elettorale», rilevando che gran parte del declino delle libertà democratiche è avvenuto dopo la vittoria di Narendra Modi.

Lo schema usato contro il movimento dei contadini è lo stesso impiegato contro altri movimenti precedenti: screditare l’agitazione, sobillare le violenze e accusare manifestanti e giornalisti di attività «anti nazionali».

Il buio sembra davvero calare sul subcontinente, su quell’idea di democrazia laica e inclusiva che prese corpo quando, nell’agosto del 1947, l’India Britannica ottenne l’indipendenza dalla Corona, smembrandosi in un Pakistan musulmano e un’India a maggioranza hindu.

Per capire il lento e inesorabile declino delle istituzioni democratiche indiane e la svolta autoritaria e maggioritaria dell’esecutivo, bisogna raccogliere elementi sparpagliati in un arco temporale di diversi anni. L’instabile democrazia indiana, che ha resistito a passate derive autoritarie, è oggi messa a repentaglio dal suprematismo identitario del governo guidato dai nazionalisti hindu; ma, soprattutto, dall’ascesa di una «nuova idea» di India: intollerante e sciovinista.

Quella dei contadini – una mobilitazione senza precedenti, ancora in corso – è stata la prima grande protesta dopo la sospensione imposta dal coronavirus.

Foto iconica di gioventù induista sul tetto della moschea Bari del 16° secolo, pochi minuti prima che fosse totalmente distrutta nel 1992. (Photo by DOUGLAS E. CURRAN / AFP)

Islamofobia hindu

La pandemia in India si è innestata in un periodo molto delicato: a dicembre 2019, il governo aveva varato il Citizenship amendment act (Caa), un emendamento alla legge sulla cittadinanza, considerato discriminatorio verso la comunità musulmana e in netto contrasto con i principi costituzionali in quanto avrebbe reso l’appartenenza religiosa un prerequisito per la naturalizzazione.

Il Caa era solo l’ultima di una serie di azioni volte ad alienare la popolazione musulmana dell’India e a consacrare il suprematismo hindu, ma aveva avuto il merito di riunire le minoranze del paese – musulmani, Dalit, comunità tribali, donne, lgbt – in una protesta trasversale e pacifica che era stata però da subito repressa.

A fine febbraio 2020, poi, la capitale – epicentro nazionale della mobilitazione – era stata travolta da un’ondata di violenza settaria in risposta alle proteste che avevano riempito le strade del paese.

Le responsabilità del pogrom contro la comunità musulmana a Delhi Nordest erano state fatte ricadere sulle vittime, anziché sulla destra hindu, nonostante alcuni esponenti del partito avessero intimato di «dare una lezione ai traditori». Poi è arrivata la pandemia. Le proteste sono state sgomberate, ma non la criminalizzazione del dissenso.

Covid e repressione

Quando il coronavirus ha raggiunto l’India, il lockdown nazionale si è tramutato in una tragedia tristemente annunciata.

Il contesto di forte povertà, e un’economia già in forte recessione, basata per oltre l’80% su scambi informali, ne hanno amplificato l’impatto sociale.

Quando il 24 marzo 2020 il premier Narendra Modi ha annunciato la chiusura, 1,35 miliardi di persone hanno avuto quattro ore per prepararsi. Molti dei cosiddetti urban migrants, centinaia di milioni di persone che negli anni si erano trasferite dalle campagne impoverite alle grandi metropoli nel tentativo di sfuggire alla fame, ingrossando le fila dei poveri urbani, non hanno avuto altra scelta che affidarsi alla rete familiare tornando nei villaggi di origine.

Il caso dell’India – il terzo paese al mondo per numero di contagi in termini assoluti, ma i cui numeri vanno letti in rapporto alla popolazione – è particolarmente drammatico anche a causa della repressione che si è abbattuta come una scure sulla società civile, proprio nei mesi in cui si consumava una gravissima emergenza sanitaria, sociale e umanitaria.

Una famiglia nello slum di Sonagachi, Kolkata, India. / Photo ID 451906. 20/06/2010. Kolkata, India. UN Photo/Kibae Park.

Dissenso sotto la lente

Il 2020 ha visto sconvolgimenti epocali in tutto il mondo – soprattutto in termini di distruzione dei mezzi di sussistenza e aumento della povertà -, e l’India non ha fatto eccezione.

Il lockdown indiano è stato disumano, almeno per i più poveri.

Il governo, quando interrogato, non ha fornito i numeri di quanta gente sia morta di stenti nel tentativo di tornare a casa, di quanti posti di lavoro siano andati perduti per il lockdown, di quanti milioni di persone (ri)sprofonderanno nella povertà, in barba al millantato Indian dream.

La mancanza di dati sui migranti e le fasce deboli, e in generale sulla tragedia in corso, a fronte di migliaia di pagine e dati raccolti per incastrare attivisti e manifestanti accusati di sedizione e attività anti nazionali, dà la misura della distanza dell’esecutivo da una fetta di popolazione politicamente invisibile.

Nessuno tocchi il governo

https://www.flickr.com/photos/duncan/49631159326/ India – dove le mucche sono più sicure dei musulmani foto del marzo 2020

Proprio nei mesi dell’emergenza Covid, centinaia di persone sono state arrestate o accusate ai sensi della legge sulle attività illegali o di quella sulla sicurezza nazionale: due norme in base alle quali si può essere incarcerati per un semplice sospetto.

Tra gli arrestati, c’erano diversi studenti e attivisti legati alle proteste di fine 2019, incolpati di aver istigato i Delhi riots.

Altri, invece, almeno 16, sono stati fermati sulla base di accuse mai provate, per il caso di Bhima Koregaon, gli scontri tra alte caste e Dalit del gennaio 2018.

La repressione in questi mesi si è abbattuta sulle voci libere e su chi difende i diritti degli ultimi: dietro le sbarre delle sovraffollate carceri indiane in tempo di Covid sono finite attiviste incinte, anziani poeti, stimati frati, leader contadini, studenti, attivisti anticaste, noti giornalisti e docenti. La lista dei prigionieri politici è lunga: un esempio su tutti, padre Stan Swamy, gesuita che difende i diritti dei popoli tribali nelle foreste più remote del paese. Il sacerdote 83enne e gravemente malato, è in cella, in condizioni terribili, accusato di sostenere il maoismo.

La repressione del dissenso oggi, in India, non fa distinzioni: chiunque osi criticare il governo, rischia di essere accusato, intimidito, perseguitato. Anche i media e la Corte suprema hanno perso, pezzo dopo pezzo, indipendenza e imparzialità.

Declino graduale

L’ascesa del suprematismo identitario hindu è stato un processo graduale, accompagnato dal progressivo smantellamento delle istituzioni e delle salvaguardie democratiche.

Una tendenza – quella verso il nazionalismo maggioritario e militante – iniziata già dal primo mandato del Bjp.

Alle elezioni del 2014, Narendra Modi si era presentato come l’uomo del progresso, colui che avrebbe dato all’India il posto che meritava nel mondo: la sua ricetta di neoliberismo e industrializzazione sfrenata era riuscita a conquistare un elettorato stanco di scandali e corruzione, affamato di riscatto.

Già durante il primo mandato, però, l’agenda dell’esecutivo si è gradualmente spostata dalla retorica dello sviluppo alle politiche maggioritarie, escludenti e islamofobe, fedeli alle frange più estreme della destra hindu.

La marginalizzazione e la stigmatizzazione della comunità musulmana – e delle minoranze più in generale – è stata graduale e inesorabile: in questi ultimi sei anni si è tradotta in leggi antislamiche, linciaggi pubblici, violenze settarie, arresti di «voci critiche», e un diffuso clima di impunità tra le squadracce hindu.

Hindutva, o hinduità

Se le avvisaglie del primo mandato Modi non fossero state abbastanza evidenti, con il secondo mandato è ormai chiaro che l’enfasi sul progresso ha ceduto il passo all’etnonazionalismo confessionale del Bjp.

L’hindutva, o «hinduità», teorizzata da Vinayak Damodar Savarkar nel 1923, è la forma prevalente di nazionalismo in India.

Quando il partito capeggiato da Modi è stato riconfermato alle politiche nella primavera del 2019 con un mandato senza precedenti, l’esecutivo ha accelerato il progetto di un’India a trazione hindu in cui le minoranze, soprattutto quella musulmana, saranno sempre più ai margini.

Il 2020 era considerato l’anno in cui l’India sarebbe diventata una «super potenza». Stiamo invece assistendo è una profonda crisi della democrazia, del pluralismo e del secolarismo indiano.

La questione Kashmir

Pochi mesi dopo l’inizio del secondo mandato Modi, New Delhi ha unilateralmente abolito l’autonomia del Kashmir, l’unico stato a maggioranza musulmana dell’India: un territorio al centro di un’annosa disputa territoriale con il vicino Pakistan, insanguinato da 30 anni d’insurrezione separatista e una brutale repressione delle forze dell’ordine.

Da allora, il Kashmir è sotto un assedio permanente – che si somma a decenni di presenza militare massiccia, percepita come un’occupazione dai civili – con leader politici locali arrestati, giornalisti e media silenziati, attivisti perseguitati e incarcerati e diffuse violazioni dei diritti umani, come dimostrano diversi rapporti e inchieste indipendenti. Al lockdown militare e digitale – il più lungo mai imposto in una democrazia – ha poi fatto seguito quello per il coronavirus.

Un tempio al posto della moschea

Poi, a novembre 2019 è arrivata un’importante sentenza della Corte suprema su un’annosa disputa legale: quella riguardante il caso di Ayodhya. La Corte ha dato il via libera alla costruzione del tempio di Rama sulle rovine della moschea di Babur, distrutta nel ‘92 dagli estremisti di destra, avallando il fanatismo hindu.

Infine, l’emendamento alla legge sulla cittadinanza del dicembre del 2019 ha concesso alle minoranze provenienti da Bangladesh, Afghanistan e Pakistan che risiedono in India – tranne quella musulmana – di avere accesso preferenziale alle procedure per la naturalizzazione.

Tutto sembra andare nella direzione dell’Hindu Rashtra, la nazione a trazione hindu anelata dal Rashtriya Swayamsevak Sangh (l’organizzazione paramilitare volontaria della destra hindu apertamente ispirata al fascismo cui era appartenuto anche l’assassino del Mahatma Gandhi), in cui non c’è spazio per le minoranze, soprattutto per i musulmani, che in India sono 200 milioni, il 14,2% della popolazione.

Frattura insanabile

Negli anni ’90, la destra hindu aveva conquistato sempre maggior peso nel panorama politico indiano. Le organizzazioni della Sangh Parivar, la cosiddetta «famiglia» – la destra hindu militante e sciovinista -, credono nella superiorità degli hindu (l’80% della popolazione) sulle altre comunità religiose, e guardano a quella musulmana come a una minaccia, alimentando un senso di insicurezza utile per mobilitare le masse.

Gli scontri settari – come quelli che avevano accompagnato la partizione dell’India britannica e l’enorme migrazione delle minoranze religiose oltre l’allora neonato confine – non sono una novità in India, ma ad Ayodhya, una polverosa cittadina nello stato dell’Uttar Pradesh, nel 1992, con la distruzione della moschea costruita nel XVI secolo dalla dinastia moghul, e i successivi massacri compiuti dagli estremisti hindu che hanno portato a migliaia di morti, si è consumata una delle pagine più buie della storia dell’India repubblicana. Tutt’oggi una frattura insanabile tra hindu e musulmani.

Foto del 2002. Una donna cerca di rimettere in sesto quel che rimane della sua casa bruciata dopo pesanti scontri tra hindu e msusulmani a Ahmedabad / AFP PHOTO/Indranil Mukherjee /AFP

La carovana dei fanatici

In quegli anni, il Ram Yath Ratra, il movimento capeggiato dalle organizzazioni della destra hindu, sostenute da Lal Krishna Advani, tra i fondatori del Bjp e allora presidente del partito, mirava alla costruzione del tempio del dio Rama ad Ayodhya.

Gli hindu reclamavano la terra dove sorgeva la moschea di Babur del XVI secolo, perché considerata il luogo natale del dio hindu e perché, a detta loro, il luogo di culto musulmano era costruito sulle rovine del preesistente tempio hindu dedicato, appunto, a Rama.

Il movimento aveva organizzato un pellegrinaggio di kar sevaks, i volontari della causa hindu: una carovana di fanatici che raccoglieva adepti e seminava violenze al suo passaggio, tanto che Advani era stato arrestato infiammando ancora di più i suoi sostenitori.

Quando i militanti avevano raggiunto Ayodhya, nel dicembre del 1992, il comizio ai piedi della moschea era stato solo il preludio dell’azione: arrampicati sulle cupole, armati di mazze e picconi, gli estremisti avevano buttato giù l’edificio sotto gli occhi della polizia. La demolizione della Babri Masjid aveva poi innescato un’ondata di scontri tra hindu e musulmani che avevano portato ad almeno duemila morti. La recente sentenza del 2019 ha chiuso il cerchio: concedendo agli hindu quel terreno e dando il via libera alla costruzione del tempio, ha legittimato di fatto il fanatismo hindu.

Modi e il pogrom del Gujarat

Quando nel 2014 l’India ha messo il suo futuro nelle mani di Modi, che prometteva di essere l’uomo del cambiamento, in molti hanno chiuso un occhio sul suo passato: lui, «figlio di un umile venditore di tè», fin da ragazzo aveva militato nel Rss, scalando poi i quadri del Bjp fino a diventare il governatore dello stato del Gujarat ai tempi del pogrom antimusulmano che nel 2002 ha insanguinato lo stato Nord occidentale, facendo oltre duemila morti, quasi tutti musulmani.

I Gujarat riots avrebbero scosso profondamente l’opinione pubblica mondiale. La scintilla che aveva innescato le violenze era stata l’incendio di un treno carico di militanti della causa hindu che stava rientrando proprio da Ayodhya, dove si era tenuto un raduno per la costruzione del tempio di Rama. L’incidente del treno – le cui reali cause non sono mai state appurate – aveva scatenato la furia dei fanatici hindu che hanno messo a ferro e fuoco lo stato in tre giorni di violenze mirate: un vero e proprio pogrom, avallato dalla polizia e dalle autorità politiche dello stato. Modi, accusato di non aver fermato le violenze, sarebbe stato poi prosciolto.

Un personaggio così polarizzante e controverso a capo dell’esecutivo, forte di una legittimazione enorme, in soli sei anni di governo si è reso artefice di un preoccupante declino delle istituzioni e dei valori democratici e costituzionali che sta facendo dell’India un paese molto diverso da quello che abbiamo finora conosciuto e raccontato.

Maria Tavernini*


* Giornalista indipendente, ha vissuto per diversi anni in India, di cui scrive per «Altreconomia», «TRT World», «Reset Doc», «Q Code Magazine», «Osservatorio Diritti», tra gli altri, occupandosi di tematiche sociali, diritti umani, questioni di genere e ambientali, nel quadro dei più ampi cambiamenti politico sociali. Nel 2021 ha pubblicato il libro No going back, Prospero editore.