Rwanda. Dopo 30 anni ferite ancora aperte
«Le conseguenze del genocidio avvenuto nel mio Paese nel 1994 sono ancora tante. Le ferite non sono ancora del tutto risanate. È come se fosse successo ieri», dice monsignor Edouard Sinayobye, vescovo di Cyangugu, in Rwanda, durante un incontro a Roma, a margine dei lavori del Sinodo che si è tenuto lo scorso mese di ottobre in Vaticano.
Il genocidio del Rwanda è stato uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’umanità dell’ultimo secolo. Secondo le ultime stime, in circa cento giorni, dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994, nel piccolo Paese dell’Africa orientale furono massacrate a colpi di armi da fuoco o di machete oltre un milione di persone.
Si scontravano due etnie: quella maggioritaria Hutu e quella minoritaria Tutsi. Le vittime furono prevalentemente Tutsi, ma le violenze da parte delle frange estremiste dei primi finirono per colpire anche Hutu moderati.
Dopo quei terribili giorni è stato avviato «un processo di riconciliazione. La nostra opera quotidiana – dice monsignor Sinayobye – è quella di cercare di guarire le persone, di accompagnarle, sia le vittime che i colpevoli, nelle loro sofferenze».
Anche il processo sinodale che ha coinvolto la Chiesa di tutto il mondo, dice il vescovo, «noi lo abbiamo accolto come un kairos», un tempo giusto per lenire le piaghe che ancora investono la società del Rwanda.
«Per noi il Sinodo è stato dunque un processo di guarigione, di rinascita, di resurrezione», perché «lo abbiamo vissuto come un’opportunità di rafforzare l’unità e la riconciliazione nel nostro Paese, per capire che siamo una cosa sola, che possiamo vivere in fraternità».
«In ogni parrocchia, in ogni comunità, dobbiamo rafforzare ancora il nostro impegno per creare degli spazi dove la gente possa trovare una guarigione, possa imparare a perdonare e a pensare che sia possibile tornare a vivere insieme».
Il vescovo di Cyangugu spiega:«Non è affatto facile parlare di riconciliazione in un Paese che ha vissuto la tragedia del genicidio, perché bisogna accompagnare tutti, sia le vittime che gli aguzzini. Questo è il solo modo per affrontare veramente la riconciliazione. È un cammino che stiamo facendo e che continueremo a fare».
Un tassello di questa opera della Chiesa rwandese è la sua pastorale carceraria. Gli incontri negli istituti penitenziari permettono di guardare negli occhi proprio quelle persone detenute per essere state tra gli autori della terribile mattanza di trent’anni fa.
Il perdono e la riconciliazione sono anche al centro del doppio Giubileo che sta celebrando la Chiesa cattolica del Rwanda. Oltre al Giubileo del 2025, che coinvolge i fedeli di tutto il mondo, nel Paese africano si celebrano i 125 anni dall’inizio dell’evangelizzazione con un fitto calendario di eventi che sono cominciati a febbraio di quest’anno e che si concluderanno il 6 dicembre del 2025 con una messa solenne a Kigali, la capitale.
Tra i prossimi appuntamenti, il 27 dicembre, si terrà un evento rivolto ai bambini, a Kibeho, nella diocesi di Gikongoro, il luogo che dal 1981 fu al centro delle apparizioni mariane riconosciute dalla Chiesa nel 2003. Già nel 1982 i veggenti parlavano di fiumi di sangue, di persone che si ammazzavano tra loro, di teste mozzate. Dodici anni dopo, proprio la città di Kibeho fu uno dei centri del genocidio.
Alle apparizioni di Kibeho, monsignor Edouard Sinayobye ha dedicato un libro («Io sono la Madre del Verbo») pubblicato in Italia da Ares nel 2015: testimone diretto di quegli eventi, decise di abbracciare la vita sacerdotale.
«I rwandesi – conclude -, così colpiti da quel massacro, grazie a Kibeho hanno imparato a portare cristianamente la pesantissima croce della sofferenza».
Manuela Tulli