Da Gaza ad Haiti. Bambini nei conflitti

Più di 400 milioni di minori vivono oggi in aree di conflitto. Tra il 2005 e il 2022, secondo le Nazioni Unite, almeno 120mila bambini sono stati uccisi o mutilati.
In poco più di un mese, dal 7 ottobre al 15 novembre, il conflitto tra Israele e Hamas ha ucciso 4.642 bambini (di cui 33 israeliani e 4.609 nella striscia di Gaza) e ne ha feriti almeno 9mila.
I dati dell’Unicef su sei conflitti che oggi si consumano in diverse regioni del mondo.

Erano 56 i conflitti armati nel mondo nel 2022 secondo l’ultimo Sipri Yearbook 2023. Per la maggior parte guerre interne ai singoli paesi.
Dal 7 ottobre scorso un nuovo conflitto si è aggiunto alla lista, quello tra Israele e Hamas, assumendo da subito i contorni di una guerra tra le più sanguinose e spietate degli ultimi anni.

In occasione della giornata dedicata ai diritti dei minori, il 20 novembre, l’Unicef ha diffuso un breve report nel quale fa il punto sulla situazione dei bambini in sei paesi in conflitto: Palestina, Haiti, Siria, Sudan, Ucraina, Yemen.

Più di 400 milioni di minori vivono oggi in aree di conflitto. Tra il 2005 e il 2022, secondo le Nazioni Unite, almeno 120mila bambini sono stati uccisi o mutilati.

In poco più di un mese, dal 7 ottobre al 15 novembre, il conflitto tra Israele e Hamas ha ucciso 4.642 bambini (di cui 33 israeliani e 4.609 nella striscia di Gaza) e ne ha feriti almeno 9mila. Altri 1.500 bambini risultano dispersi nella striscia di Gaza, presumibilmente sotto le macerie, scrive l’Unicef. Sono 30 i bambini israeliani prigionieri.

Questo in un contesto di ferocia che vede nella Striscia più di 3 milioni di persone ridotte in stato di necessità (di cui 1 milioni di minori), 1,5 milioni di sfollati (dei quali i bambini sono la metà) che non hanno accesso all’acqua e a condizioni igieniche sicure.
A Gaza un ospedale su tre e due strutture sanitarie primarie su tre sono chiusi. «155.000 donne in stato di gravidanza e allattamento necessitano di assistenza sanitaria primaria – scrive ancora il brief dell’Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia – e 337.000 bambini sotto i 5 anni sono a rischio di malnutrizione acuta. […] Almeno il 55% della rete idrica è stata danneggiata. […] 275 edifici scolastici hanno subito danni […]. Si tratta di oltre il 56% di tutte le infrastrutture scolastiche».

Il brief dell’Unicef offre altri dati su altri conflitti: in Ucraina, dal 24 febbraio 2022 all’8 ottobre 2023 oltre 560 bambini sono stati uccisi e quasi 1.200 feriti, soprattutto a causa dei bombardamenti, in un contesto di guerra che vede oggi quasi 11 milioni di persone in fuga: 5,1 milioni di sfollati interni e 5,8 milioni di rifugiati in altri paesi.

In Siria, a causa di oltre 12 anni di conflitto e del terremoto di inizio febbraio 2023 che ha provocato 6mila morti e più di 12mila feriti, ci sono 15,3 milioni di persone che necessitano di assistenza (quasi il 70% della popolazione), «7 milioni di bambini, 2,6 milioni di persone con disabilità, 5,3 milioni di sfollati interni», scrive l’Unicef. «Oltre la metà degli sfollati si trova nella Siria nord occidentale. Il 90% delle famiglie vive in povertà e il 55% è in condizioni di insicurezza alimentare. […] Secondo i dati delle Nazioni Unite dall’inizio del conflitto, circa 13.000 bambini in Siria sono stati uccisi o feriti. […] oltre 609.900 bambini sotto i 5 anni, soffrono di malnutrizione cronica. […] Il numero di bambini tra i 6 e i 59 mesi che soffrono di malnutrizione acuta grave è aumentato del 48% fra il 2021 e il 2022».

In Yemen «tra marzo 2015 e novembre 2022, le Nazioni Unite hanno verificato che oltre 11.000 bambini sono stati uccisi o gravemente feriti. Oltre 4.000 bambini sono stati reclutati e utilizzati dalle parti in conflitto e si sono verificati oltre 900 attacchi e uso militare di strutture scolastiche e sanitarie». Oltre 2,3 milioni di bambini vivono in campi per sfollati interni nei quali hanno uno scarso accesso all’acqua, al cibo, ai servizi sanitari, all’istruzione; 2,2 milioni soffrono di malnutrizione acuta.

In Sudan, il conflitto esploso il 15 aprile 2023 ha provocato un numero elevatissimo di sfollati interni (arrivati a 7,1 milioni ad agosto, 4,4 milioni a ottobre) e 1,2 milioni di rifugiati in altri paesi. Tra questi, si stima che i bambini siano circa 3 milioni. «700.000 bambini colpiti da malnutrizione acuta grave rischiano di non ricevere le cure e hanno un rischio di morte 11 volte maggiore rispetto ai loro coetanei. 7,4 milioni di bambini non hanno accesso all’acqua potabile», scrive l’Unicef, e prosegue: «Sono ben 19 milioni i bambini sudanesi che non possono tornare nelle aule scolastiche, il che fa di questa situazione una delle peggiori crisi dell’istruzione al mondo».

Haiti è il sesto paese preso in considerazione dalla pubblicazione del Fondo della Nazioni Unite per l’infanzia (ne abbiamo parlato qui e qui). Nel paese caraibico «circa metà della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria, compresi quasi 3 milioni di bambini, vittime di una complessa storia di povertà, instabilità politica e rischi naturali». Circa 2 milioni di persone vivono in aree del paese che risultano controllate da gruppi armati. Da inizio 2023 al 30 settembre «sono stati registrati 5.599 casi di violenza legati a gruppi armati, tra cui 3.156 uccisioni». Molti bambini sono stati feriti o uccisi durante scontri a fuoco, altri sono stati reclutati nei gruppi armati.
Oggi sono circa 115mila i bambini che soffrono di malnutrizione acuta grave, il 30% in più rispetto al 2022.

Se i dati non offrono la comprensione dei motivi politici, economici, ideologici dei molti conflitti che insanguinano il mondo, né suggerimenti per la loro risoluzione, offrono però la possibilità di considerare la loro violenta assurdità.

Luca Lorusso




Israele-Palestina. «Dov’è l’uomo?»

 

Nella città vecchia di Gerusalemme, di norma, a dare la sveglia è, intorno alle 5 di mattina, la preghiera del muezzin; poco dopo suonano le campane delle chiese cristiane.

Sabato 7 ottobre, una data che purtroppo rimarrà nei libri di storia, a squarciare il silenzio dell’alba è stato il suono delle sirene. Nitido quanto inatteso.
Un suono sinistro che preannunciava i rumori della guerra. E la Terra Santa, che fino alla sera prima era animata dalla grande festa ebraica di Sukkot, dalle file dei pellegrini cristiani nei luoghi santi, dalla preghiera in tutte le moschee, si è trovata a fare i conti con i morti, le distruzioni, la paura, la solitudine.

Tutto cambiato improvvisamente, con un salto indietro di decenni, ma soprattutto soffocando i semi di speranza per questa terra che negli anni sono stati gettati da tante persone di buona volontà.

Una via della città vecchia di Gerusalemme, il giorno prima degli attentati di Hamas. ©Manuela Tulli

La guerra è in queste ore in pieno svolgimento.
Israele ha negli occhi un eccidio, quello dei terroristi di Hamas nei kibbutz al confine con Gaza e al pacifico rave che i giovani stavano tenendo nel deserto del Negev. Qualcosa che non si verificava, per la crudeltà e le proporzioni, «dai tempi della Shoah», come sottolineato dal premier israeliano Benyamin Netanyahu.

Dall’altra parte è cominciato un assedio su Gaza che colpisce indiscriminatamente la popolazione civile, rimasta senza cibo, acqua, energia, medicine e costretta a un esodo al Sud della Striscia verso un confine che resta però sigillato.

«È una tragedia immane, non capisco il disegno di Dio per questa terra, la sua terra», è uno dei messaggi che arriva sul mio whatsapp da quella terra martoriata.

La stessa domanda corre in un incontro online con il Patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, che solo la settimana prima dell’attacco di Hamas era stato creato cardinale dal Papa in Vaticano. «La domanda non è “dov’è Dio”, ma “dov’è l’uomo”», risponde il francescano.

Gerusalemme, il giorno prima degli attentati di Hamas. ©Manuela Tulli

Uno degli effetti «collaterali» della guerra è la cappa di solitudine scesa su questo paese: l’allegria e la vita che normalmente si riversano per gran parte della giornata in strada, che è un po’ la cifra di questo angolo del pianeta, si sono trasformate in deserto. Le botteghe della città vecchia di Gerusalemme hanno tirato giù le serrande come ai tempi del covid. La guesthouse dei Melchiti, a pochi passi dalla Porta di Jaffa, gira la chiave nel portone, non sapendo quando riaprirà i battenti.

Così è anche a Betlemme, in Cisgiordania: «La gente è molto preoccupata, sanno che perderanno il lavoro e che sarà difficile andare avanti; qui si vive principalmente di turismo religioso», racconta Giulia, una giovane volontaria italiana di Pro Terra Sancta.
Da Betlemme arriva anche la preoccupazione di chi assiste i bambini orfani e malati nella struttura Hogar Niño Dios, gestita dai sacerdoti e dalle suore del Verbo Incarnato. «Il nostro contatto con loro – riferiscono dall’Unitalsi (Unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali) che da quindici anni aiuta i religiosi con i propri volontari – è giornaliero, e nelle loro parole si sente il dolore e la preoccupazione per la situazione che stanno vivendo. A noi il compito di pregare».

La preghiera dunque. Per questo, nonostante l’eco delle sirene e il rombo degli aerei, i luoghi santi continuano a rimanere aperti.

Come a Ein Karem, dove si trova la chiesa che ricorda la Visitazione di Maria a Elisabetta: «Il luogo dove tutti vengono a pregare per la pace», dice padre Rafael Sube, francescano messicano della Custodia di Terrasanta.
Il Magnificat qui è declinato in oltre quaranta lingue, scritto su grandi piastrelle di ceramica che decorano le mura del cortile. «Questo vuol dire che i popoli possono stare vicini, possono vivere insieme, non sono loro a volere le guerre. Qui preghiamo per la pace in tutto il mondo perché la guerra non c’è solo in Ucraina, dobbiamo guardare a tutti i paesi che soffrono».
Era il 6 ottobre quando padre Rafael pronunciava profeticamente queste parole. Forse pensava proprio alla Terra Santa in cui vive da 31 anni.
Dal giorno dopo, con i missili arrivati da Gaza anche nei cieli della città vecchia, la preghiera per la pace guarda, infatti, soprattutto a questo angolo del pianeta, Gerusalemme, Urusalim, che si traduce: «Città della pace».

Manuela Tulli

Aeroporto di Tel Aviv. 9 ottobre 2023. ©Manuela Tulli




Se la pace è solo uno slogan

testo di Piergiorgio Pescali |


Il quarto conflitto tra Israele e Hamas si inserisce in una problematica complessa e mai risolta: la questione palestinese. Conversazione con monsignor Pierbattista Pizzaballa, già custode di Terrasanta, oggi patriarca di Gerusalemme.

il francescano Pierbattista Pizzaballa, massima autorità cattolica in Terrasanta. Foto Piergiorgio Pescali.

Il francescano padre Pierbattista Pizzaballa non è solo l’autorità ecclesiastica cattolica più elevata in Terrasanta, è anche una delle figure più esperte e soprattutto rispettate nella difficile situazione politica, culturale e religiosa che caratterizza la tormentata regione mediorientale. Arrivato in Terrasanta nel 1990, è stato «custode di Terrasanta» tra il 2004 e il 2016 (poi sostituito dal trentino Francesco Patton). Successivamente, ha ricoperto il ruolo di amministratore apostolico di Gerusalemme dei Latini per divenire poi patriarca della città il 24 ottobre 2020.

Lo abbiamo intervistato per chiedergli una sua opinione sull’ultimo conflitto israelo-palestinese e su quali potrebbero essere nuove vie in grado di aprire spiragli di dialogo che, ad oggi, sembrano essere preclusi.

La questione Gerusalemme

Lo scorso 21 maggio il quarto conflitto tra Hamas e Israele ha raggiunto una tregua. Da dove ricominciare per evitare che questo sia solo il preludio per un’altra serie di scontri?

«Credo si dovrebbe usare il condizionale: da dove si dovrebbe cominciare. Perché i motivi del conflitto sono sempre gli stessi, non sono cambiati, anche se ogni volta ci sono delle novità, una sorta di corsi e ricorsi alla Giambattista Vico. Ma, fino a quando non si risolverà la questione palestinese, noi saremo costretti a rivedere questi episodi. Quello che in questo momento ha scatenato la violenza è stata Gerusalemme, che rimane il cuore del problema. La questione di Sheikh Jarrah (il piccolo quartiere a Gerusalemme Est dove ebrei e palestinesi si contendono terreni e case, ndr) è stata presentata come una questione legale, quale in effetti è, ma è, prima di tutto, una questione politica.

Mi pare di capire che la nuova generazione, quella dopo la seconda intifada, sia ben connessa con la comunità internazionale, preparata anche culturalmente, determinata e disposta a tutto. Gerusalemme è diventata un punto sul quale non si può scendere ad alcun compromesso. Non più, proprio non più.

Quindi, queste sono le due cose da risolvere perché si possa evitare un nuovo conflitto: primo, la questione palestinese; secondo, riconoscere l’universalità di Gerusalemme, su cui tutti hanno eguali diritti».

Sull’universalità della città santa, l’Onu si è già espressa più volte e, sin dal 1948, ha riconosciuto a Gerusalemme e Betlemme uno status internazionale che nessuno dei due contendenti vuole riconoscere. Sia Israele che Palestina considerano Gerusalemme loro capitale. E qui possiamo passare a una delle cause principali del perdurare del conflitto tra Israele e Palestina: la mancanza assoluta di una volontà di dialogare. Da quando esiste il problema israelo-arabo-palestinese tutti parlano di necessità del dialogo in Terrasanta, ma alla luce dei comportamenti e delle prese di posizione da tifosi da stadio (non solo da parte dei principali attori, ma anche di chi osserva il conflitto dall’esterno), oramai questa dichiarazione d’intenti ha perso credibilità. A me sembra che nessuno abbia intenzione di trovare una via al dialogo.

«Parlare di dialogo, adesso e qui, è soltanto uno slogan. Perché ci sia dialogo debbono, in primo luogo, sussistere delle condizioni su cui fondarlo. Il dialogo, innanzitutto, presuppone che ci sia un desiderio di incontro e scambio che significa volontà di riconoscere l’altro o, per lo meno, di ascoltare le sue ragioni».

E evidentemente non c’è né l’uno né l’altro.

«No, non c’è. Si sta andando verso la colonizzazione politica e – ahimè – anche religiosa, perché le due cose si mischiano. I palestinesi in questo conflitto non gridavano “Palestine”, ma “al-Aqsa” (nome della moschea della vecchia Gerusalemme, ndr). È vero che al-Aqsa è anche il simbolo della Palestina libera, ma il cambio di slogan è simbolico di come stia cambiando il clima.

E questo, come dicevi tu, è il clima generale del Medio Oriente. Non si va verso una cittadinanza che precede le appartenenze settarie e identitarie, ma sono le appartenenze settarie e identitarie che divengono i canali attraverso i quali passa il concetto di cittadinanza. Purtroppo, questo non è un buon segnale per il futuro».

Arabi ed ebrei

Cittadinanza che, all’interno dello stesso stato di Israele, viene messa in discussione per gli israeliani di etnia araba e questo è forse uno degli elementi nuovi che sembra aver elevato la tensione tra Israele e il mondo arabo: l’attrito interno tra arabi israeliani ed ebrei israeliani. Su questo punto in particolare, quanto reale è il rischio di una guerra civile, specialmente dopo che, il 19 luglio 2018, il parlamento israeliano ha adottato una legge che definisce Israele «stato-nazione del popolo ebraico»?

«Se è fuori discussione che gli arabo-israeliani vivono in condizioni decisamente migliori rispetto a qualsiasi altra entità sia in Palestina, che negli altri paesi mediorientali, è anche vero che queste comunità hanno un grosso problema di identità. Un problema che si trascina da molto tempo e che è diventato evidente innanzitutto con la legge basica di tre anni fa, la quale definisce lo stato ebraico senza alcuna menzione della minoranza non ebraica. Va poi detto che, in questi ultimi anni, abbiamo assistito a una maggiore polarizzazione della politica israeliana spostata sempre più a destra e sempre più antagonista verso il mondo arabo. Un antagonismo che si esplica anche con un linguaggio spesso violento e sprezzante che ha approfondito il solco tra le due parti. C’è da dire che forse non ci eravamo resi conto di quanto fosse profondo».

Netanyahu e la destra

Benjamin Netanyahu, storico leader della destra israeliana.

In questo spostamento della politica israeliana verso destra e nello scavare in profondità questo solco tra arabi e israeliani, Netanyahu ha giocato un ruolo preponderante. È il vero responsabile dell’attuale situazione e tre delle quattro guerre con Hamas sono scoppiate durante i suoi mandati. È anche vero che gli israeliani negli ultimi undici anni sono andati sette volte alle urne e ogni volta hanno scelto Netanyahu.

«Netanyahu si sposta sempre più a destra e questo è evidente. Pare che Israele non riesca a trovare un’alternativa a Netanyahu. Prima di questo conflitto abbiamo visto che c’era la possibilità di sostituirlo. La nuova guerra tra Hamas e Israele ha rimescolato le carte riportandolo al centro della politica nazionale. Non bisogna farsi illusioni: Israele ideologicamente naviga decisamente a destra. Qualunque sia il primo ministro, sarà molto difficile che la questione palestinese venga affrontata in maniera sistematica come invece sarebbe stato possibile un paio di generazioni fa».

(A inizio giugno, è stato formato un nuovo governo che esclude Netanyahu e il suo Likud. Primo ministro è diventato – per il momento – Naftali Bennet, ndr).

Iran, Turchia e Stati Uniti

Hamas e il Palestine islamic jihad godono di appoggi iraniani e turchi. Al netto delle incomprensioni storiche tra palestinesi ed ebrei, è possibile vedere l’attuale conflitto come una ritorsione della Turchia e dell’Iran contro gli «Accordi di Abramo» (tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti, ndr)? Se così fosse, come mai Teheran ha aspettato l’arrivo di Biden alla Casa Bianca e non ha invece iniziato la sua offensiva tramite terzi quando c’era Trump, il vero scardinatore dei delicati equilibri regionali?

«Non credo che queste situazioni siano state scatenate dall’esterno. L’Iran e la Turchia hanno “preso l’autostop”, come si dice qui. Sono salite sul carro e hanno approfittato della situazione per fare quello che desideravano fare. Credo però che si debba prendere atto che le situazioni sono state scatenate qui e si risolvono qui. La comunità internazionale, che sia Biden o che sia Erdogan o Khamenei, possono contribuire in un senso o nell’altro, ma non possono sostituirsi ai due attori principali che sono Israele e la Palestina».

 

Gli incontri interreligiosi

Incontri interreligiosi tra musulmani, cristiani e, in misura minore, con gli ebrei ce ne sono stati, ma non hanno mai portato a sviluppi concreti nel processo di pace. Si era parlato anche di «educare alla pace» le nuove generazioni, fondando scuole, villaggi interreligiosi, anche scuole musicali. Tutto questo cosa serve se poi, una volta nei loro quartieri, tra i loro amici e magari anche in famiglia, ognuno torna ad essere antiqualcosa?

«Bisogna distinguere: ci sono dialoghi interreligiosi visti come grandi eventi, che lasciano senz’altro il tempo che trovano. Credo che si debba continuare a farli perché, nell’era delle immagini, esse contano e sono importanti. Il problema di questi incontri religiosi ad alto livello è che non arrivano al territorio e i leader che li guidano o che partecipano, molto spesso non hanno un concreto legame con il territorio. In secondo luogo, bisogna dire che, soprattutto nel caso di ebraismo e islam, non esiste un’autorità comune a tutti. Quindi, tu puoi trovare l’ebreo che partecipa, ma ce ne sarà un altro che la pensa esattamente al contrario; non c’è un’autorità che unifica e che accompagna tutti. Questo rende tutto oggettivamente molto più complesso. A livello di territorio ci sono, è vero, tantissime iniziative, a partire dalle scuole. A cosa servono? Servono innanzitutto a noi perché ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di incontrare e trovare gente che ci crede e che ti dà un respiro, che credono nell’azione. È vero, molti di questi torneranno a essere sostenitori di Hamas o di Bennet, forse della destra estrema di qui o di là, ma non tutti. Credo, quindi, che sia importante avere queste piccole oasi di antivirus che non riusciranno certo a fermare la malattia, però qualche anticorpo resterà in circolo. Non guardiamo all’esito perché, se guardassimo solo a esso, non faremmo nulla. Bisogna agire innanzitutto perché ci crediamo».

Mahmoud Abbas , leader di al-Fatah e presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).

Hamas, tra ideologia e pragmatismo

Nel 2017, Hamas ha emesso un documento in cui accetterebbe i confini dello stato palestinese del 1967, senza però riconoscere Israele. È una contraddizione o un primo passo verso il riconoscimento o, almeno, verso la coesistenza di «due popoli e due nazioni»?

«Hamas è una galassia, non è un partito solo. In lei convivono l’ala militare, l’ala pragmatica, l’ala ideologica; c’è quindi un po’ di tutto. Credo che anche loro siano molto pragmatici e sanno molto bene che Israele non sparirà. D’altro lato, penso che sia molto difficile anche per loro rinnegare quello che è il loro mainstream, quella che è stata la loro ideologia di un rifiuto dello stato di Israele per tutti questi anni. C’è, quindi, da un lato un senso di pragmatismo e dall’altro la difficoltà a cambiare quella che è la loro ideologia principale. Credo che il Medio Oriente non sia mai “aut-aut”, ma piuttosto è sempre “et-et”».

Ismail Haniyeh, leader di Hamas.

Meno di mille cristiani

I cristiani a Gaza sono una piccola minoranza, meno di mille persone su due milioni di abitanti. Che ruolo hanno nella vita sociale della Striscia?

«I numeri parlano da soli: 800 persone su due milioni sono ben poca cosa. Però, nel loro piccolo, le attività sono tante, forse in proporzione anche maggiori rispetto al loro numero reale. Ci sono scuole, una casa per disabili, cliniche mobili della Caritas al servizio della popolazione, soprattutto là dove non ci sono ospedali. Quella cristiana, seppur piccola, è quindi una realtà molto attiva e aperta ai bisogni generali della popolazione».

Gli aiuti e la corruzione

Cosa può fare la comunità europea – e intendo la società e le organizzazioni civili, non i governi o la politica – per favorire la crescita del dialogo?

«Favorire innanzitutto lo sviluppo di questi territori. La gente vive ancora in condizioni miserrime dal punto di vista sociale. Non ha senso parlare di dialogo e di pace quando si vive in condizioni disumane. Paolo VI diceva che sinonimo di pace è sviluppo. Bisogna fare attenzione anche ai bisogni fondamentali di queste popolazioni e poi favorire tutte le occasioni di incontro e dialogo, di attenzione e vicinanza. Insomma, far sentire che c’è qualcuno che li ascolta».

Non c’è il rischio che la politica palestinese, corrotta e inefficiente, dilapidi gli aiuti economici?

«Occorre trovare altre forme per far arrivare questi aiuti, che già ci sono. Bisogna individuare forme di sostegno che non passino dai governi palestinesi attraverso le comunità locali e le Ong che sono sparse sul territorio. Le soluzioni si trovano».

Piergiorgio Pescali
autore del libro
Il custode di Terrasanta. Un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa, Add Editore, Torino 2014

Ebrei ortodossi al «muro del pianto», a Gerusalemme. Foto Pixabay.