Armi, Gang e un uomo al comando

testo di Marco Bello |


La deriva autoritaria dell’élite al potere. L’impunità a livelli mai visti. I banditi che controllano la popolazione. Mentre imperversa l’«economica del rapimento». La diaspora guarda con grande preoccupazione il 2021: l’anno di tutte le sfide.

È il 28 agosto 2020, a Port-au-Prince l’avvocato Monferrier Dorval viene freddato con un proiettile. Dorval era il presidente dell’Ordine degli avvocati della capitale, e stava lottando per migliorare la situazione nel suo paese. L’assassinio suscita indignazione in molti settori della società haitiana.

Quattro mesi dopo, il 28 dicembre, in un assalto è ferito gravemente il giornalista Vario Sérant, e ucciso l’ingegnere Obelson Mésidor, che è in auto con lui. Collaboratore della Nazioni unite e insegnate all’Università di stato di Haiti, Sérant viene salvato per il rotto della cuffia.

Due eventi non isolati, segnali di una situazione sociale ormai al limite del collasso nel paese caraibico.

Ma cerchiamo di capire cosa sta succedendo.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Uomo solo al comando

Il 7 febbraio 2017, dopo un’elezione contestata (svoltasi tra fine 2015 e gennaio 2016) e un anno di transizione (con presidente ad interim il presidente del senato Joselerme Privert), è diventato capo di stato Jovenel Moise. Grande imprenditore agricolo, anche noto come «Neg banan» (l’uomo delle banane, in creolo), Moise rappresenta una ristretta classe di neo arricchiti grazie a traffici e commerci più o meno leciti. Una classe legata alla destra storica duvalierista, di cui fa parte anche il cantante Joseph Martelly, che lo ha preceduto alla presidenza (2011-2016) (si veda MC aprile 2017).

Come già Martelly, anche Moise ha evitato accuratamente di realizzare elezioni, facendo scadere gli eletti locali prima, e poi, a inizio 2020, la camera dei deputati e due terzi del senato. Da allora, non essendoci più il parlamento (ad eccezione di un terzo del senato, dieci senatori), il presidente, governa per decreto, forzando la Costituzione e facendo diventare Haiti una «quasi» dittatura presidenziale.

Mentre Martelly non era riuscito a creare consenso per un Consiglio elettorale provvisorio (Cep), e, quindi, a costituire questo organo fondamentale, Moise ha avuto a disposizione un Cep riconosciuto e funzionante, durante gran parte del suo mandato. Nonostante questo, non ha realizzato le elezioni, fino alle dimissioni del Cep, nell’agosto 2019, a causa della constatazione, da parte dello stesso, che non c’erano le condizioni per realizzare la consultazione elettorale.

«Moise vuole cambiare la struttura istituzionale del paese, ma vuole farlo tutto da solo», ci confida il giornalista Gotson Pierre. «Non ha mai smesso di criticare il fatto che c’è una condivisione di potere (dettata dalla Costituzione, ndr). Lui è per un potere presidenziale, mettendo il presidente della Repubblica a capo supremo della nazione. Come è stato durante la dittature dei Duvalier».

E continua: «Vuole liberarsi istituzionalmente, per governare liberamente. Per questo motivo dice: da quando non c’è più il parlamento, facciamo molte cose. L’organo legislativo è un ostacolo per lui».

Così dal gennaio dello scorso anno, scadute le due camere, Moise ha firmato molti decreti, alcuni dei quali piuttosto discutibili e, soprattutto, senza il controllo di nessuna altra istituzione. Di fatto sta legiferando in modo diretto, e molti sono decreti che modificano le istituzioni repubblicane. «Ha fatto oltre quaranta decreti nei vari settori, per esempio nell’ambito dell’organizzazione degli ordini professionali, del codice penale, e di altri organi indipendenti, come la corte superiore dei conti».

Alcuni decreti mettono a rischio la libertà e i diritti fondamentali, come quello che istituisce l’Agenzia nazionale d’intelligence (Ani), molto criticato da opposizione e società civile. Questa struttura, infatti, ricorda tanto la milizia dei famigerati Tonton Macoute: «Sarà un’agenzia dei servizi segreti, i cui membri possono essere armati, e andare a casa delle persone senza mandato. Renderanno conto solo al presidente, il che assomiglia molto ai Macoute del passato. Anche i diplomatici stranieri hanno detto a Moise che è un decreto pericoloso». Da notare che gli ambasciatori delle diverse cancellerie, in generale mantengono una posizione defilata, omettendo di ostacolare la deriva autoritaria del presidente. Chi ci parla ricorda bene i Duvalier e la loro milizia: padre Jean-Yves Urfié, missionario francese della congregazione dello Spirito Santo, ha iniziato a lavorare ad Haiti nel 1964. Da Duvalier è stato pure espulso nel ‘69, per poi tornare nel paese.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Ritorno al passato?

Il disegno di Moise è chiaro. Con un decreto del 7 gennaio, il presidente rende pubblico il suo calendario elettorale. Vuole realizzare un referendum costituzionale il 25 aprile di quest’anno e poi elezioni presidenziali, legislative e locali, tra il 19 settembre e il 21 novembre. Per arrivare il 22 gennaio 2022 alla proclamazione ufficiale dei risultati, e procedere all’insediamento del presidente della repubblica il 7 febbraio, data simbolo della caduta di Jean-Claude Duvalier (7 febbraio 1986).

Le questioni sul tavolo sono diverse e complesse. Primo: il mandato dell’attuale presidente scade il 7 febbraio 2021 e non 2022 (su questo punto c’è un’ambiguità nella Costituzione). Secondo: il Consiglio elettorale provvisorio si è dimesso e Moise ha creato il proprio Cep (nell’ottobre scorso) che non risponde alla normale procedura, non ha un consenso tra le istituzioni ed è dunque illegale, non avendo neppure prestato giuramento di fronte alla Corte di cassazione. Terzo: la Costituzione, per essere riformata, prevede un iter complesso di modifica, con diversi passaggi in parlamento, a cavallo tra due legislature. Moise invece ha creato un comitato di redazione, «composto da amici suoi», sottolinea padre Jean-Yves, ai suoi ordini, incaricato di redigere un progetto di Costituzione. Questo sarà votato dal popolo al referendum e diventerebbe dunque valido, nei programmi del presidente, entro maggio. Anche questo procedimento è illegale. Come è possibile tutto ciò? Una spiegazione ce la può dare Jaques Stephen Alexis, grande scrittore, medico e uomo politico haitiano (1922-1961), quando diceva che Haiti è il paese del «Réalisme Merveilleux» (realismo meraviglioso).

Gotson Pierre tenta di spiegarci. «Con il referendum costituzionale, Moise vuole modificare la Costituzione, ma violando la Costituzione attuale. È la prima volta dal 1987, quando è stata promulgata, che chi detiene il potere osa metterla di lato. Ci sono stati i colpi di stato, ma la Costituzione è stata sempre menzionata, e si parlava di ritorno all’ordine democratico. Ma con Moise, siamo fuori dalla Costituzione, e lui agisce senza avvertire, senza un discorso: dice “creiamo un comitato per fare una nuova costituzione”, e questo senza contattare nessuno. È pura arbitrarietà».

Inoltre, si conoscono già le grandi linee della nuova carta fondamentale: «Si ha l’impressione che questa Costituzione l’abbia già pensata: massimi poteri al presidente, soppressione del primo ministro, il parlamento diventa unicamerale, eliminando il senato. Siamo in una grande riforma istituzionale, portata avanti in maniera informale, e tutto è fatto dall’esecutivo da solo».

Il rischio per lo stato è dunque elevato, continua il giornalista: «Il referendum consacrerà l’insieme dei decreti che sono già stati pubblicati sui diversi settori della vita pubblica. Cancellerà tutte le acquisizioni democratiche del 1986 in materia istituzionale. Da circa un anno siamo in questo processo».

Qualcuno non è d’accordo

L’opposizione politica e gli altri settori della società haitiana cosa dicono? «Il movimento popolare era più forte nel 2019, aveva bloccato il paese durante diverse settimane», ricorda padre Urfié, riferendosi al cosiddetto «paylock», ovvero il blocco totale del paese nell’autunno di quell’anno, causato da diversi settori della società che protestavano contro la corruzione del presidente e il suo entourage nell’affare Petrocaribe: aiuti venezuelani ad Haiti dirottati nei forzieri di pochi.

Però l’opposizione politica è variegata e divisa, ci ricorda il missionario, che negli anni ‘90 era stato un promotore dei movimenti sociali e della democrazia nel paese, attraverso le comunità di base, rischiando varie volte la vita: «Nell’opposizione ci sono anche personaggi simili a Moise. Quindi, il popolo non ha fiducia in molti dei suoi dirigenti. Inoltre questi non riescono a mettersi d’accordo. Per essere efficace, occorre che il movimento sia generalizzato, invece ci sono gruppi gli uni contro gli altri. Troviamo quelli che sono più radicali e altri meno, quelli favorevoli al dialogo e altri no. Tra i radicali c’è gente come Yuri Latortue, che faceva parte degli squadroni della morte durante il colpo di stato (si riferisce al putsch di Raoul Cédras, 1991-1994, che lui ha vissuto in prima persona, ndr). È qualcuno che è diventato molto ricco grazie a traffici strani».

Gotson Pierre approfondisce: «C’è rivalità fra i leader, ma forse c’è anche un problema di rappresentazione, che rende le cose difficili. Che messaggio comunicano? Stanno iniziando a cambiare, parlano di transizione, perché, secondo loro, Moise deve rispettare la Costituzione. È una richiesta legittima, anche agli occhi della comunità internazionale, la quale sostiene globalmente Moise, anche se c’è stata qualche dichiarazione contro il governare per decreto».

«Ora fanno incontri, anche se è un po’ tardi. Il processo d’intesa a livello dell’opposizione non è facile, per molteplici ragioni. Tendenze, differenze nel panorama politico haitiano, molti ostacoli.

C’è una ricerca di concertazione, quello che si constata è che non arrivano, per il momento, a invertire il rapporto di forza con il presidente. Occorre mobilitare veramente la gente e smuovere le cose».

Il presidente Jovenel Moise © Valerie Baeriswyl / AFP

Vuoto istituzionale

A inizio gennaio, si è riunito quel che resta del parlamento, ovvero dieci senatori (un terzo del senato, che ad Haiti è rinnovato ogni due anni in modo parziale). Questi reduci hanno eletto il presidente del senato, nella figura di Joseph Lambert, che diventa, oltre a Moise, la sola carica istituzionale di vertice attualmente eletta ad Haiti. Politico di lungo corso, è in parlamento dal 1990, e aveva l’ambizione di fare il primo ministro con Moise.

«Il presidente si è fatto il vuoto istituzionale intorno, gli unici eletti sono i dieci senatori. Come la transizione del dopo Martelly è stata guidata dal presidente del senato dell’epoca, così Lambert sarebbe forse l’unico titolato a sostituire Moise dopo il 7 febbraio. Sembra che abbia avuto contatti con l’ambasciata Usa. Potrebbe essere contro Moise oppure suo alleato», analizza il giornalista.

Lambert è un altro personaggio ambiguo, già consigliere di Michel Martelly, una nostra fonte ci dice che è classificato dalla Dea statunitense come responsabile di traffico di stupefacenti.

Diversi gruppi della società civile e dell’opposizione politica hanno iniziato la mobilitazione delle piazze dal 15 gennaio, per opporsi alla permanenza di Moise dopo il 7 febbraio e per una transizione. La repressione da parte dei corpi speciali di intervento rapido (Cimo) e della polizia, è stata violenta, con l’uso di lacrimogeni, proiettili di gomma ma anche armi reali.

La Rete nazionale per la difesa dei diritti umani, Rnddh, il 22 gennaio ha scritto in un comunicato che: «I recenti avvenimenti […] costituiscono una violazione flagrante delle libertà di espressione, circolazione e libertà individuali del popolo haitiano». Dice inoltre: «[La Rnddh] giudica inquietante che questi casi di violazioni si siano intensificati all’indomani delle dichiarazioni minacciose del presidente Jovenel Moise, il 19 gennaio […], e che la sua Agenzia nazionale d’intelligence, già attiva, gli permetta di raccogliere informazioni relative ai cittadini che partecipano o finanziano i movimenti antigovernativi. Perché, ha affermato, quello che era possibile negli anni scorsi, non lo sarà più nel 2021».

Nelle mani delle Gang

Gotson Pierre ci ricorda che per invertire il rapporto di forza occorre una mobilitazione generale. Ma anche che oggi, ad Haiti, c’è una problematica sociale molto forte: «Se queste mobilitazioni riescono, allora è un segnale molto buono. Ma le difficoltà sono tante, perché praticamente tutti i quartieri sono controllati dalle gang. In certi casi la gente non può uscire di casa, c’è il rischio che non possano andare a manifestare».

In molti quartieri la popolazione è in ostaggio, le gang (termine creolo di origine inglese, che indica bande armate di malviventi), sovente hanno in mano la situazione, malgrado le operazioni di polizia. Gang che intessono legami con i politici, e le più importanti sono vicine, o fanno accordi, con chi detiene il potere.

«È un fenomeno che si è già visto nel passato, ma adesso, non solo è più forte, hanno più gente, più armi, ma si è generalizzato. In tutti i quartieri troviamo delle cellule di gang. In alcuni sono molto più sviluppate che in altri, ma non si può dire che ci sia un luogo esente. E le troviamo anche in altre città, oltre che in capitale. In certi quartieri non c’è un’aggressione evidente: le gang ci sono e fanno i loro affari. Ma in altri, è una vera e propria guerra. Ad esempio, Bel Aire (quartiere centrale di Port-au-Prince, ndr): non si può passare adesso, trovi strade sbarrate, vie vuote, tutto è chiuso».

© Valerie Baeriswyl / AFP

L’economia del rapimento

Un altro fenomeno, legato alle gang, che si sta diffondendo sempre più, è quello dei rapimenti a scopo di estorsione, chiamati qui kidnapping. «È il banditismo. Penso che sia un fenomeno che si nutre dell’impunità, il traffico di armi e di droga. Quando la situazione è questa, chi è senza scrupoli riesce a fare di tutto. Inoltre, tutto questo funziona bene quando si ha il banditismo di stato», racconta Gotson Pierre.

«Attraverso i rapimenti fanno molti soldi, e non parlo dei ricavi dei piccoli rapitori, o dei soldà come li chiamano qui. Si tratta di centinaia di migliaia di dollari, talvolta milioni, tutto in cash, che passano di mano e sono gestiti ai livelli alti delle gang. È una vera e propria industria remunerativa, e tutti questi contanti devono sicuramente andare da qualche parte e servire a qualcosa». Qualcuno fa l’ipotesi che questo denaro servirà a finanziare le prossime elezioni.

Occorre purtroppo osservare, che «quando il kidnapping funziona, tutto funziona». Molti soldi girano, molte persone lavorano, è come se ci fosse un’«economia del kidnapping».

Iliana Joseph, presidente di Haititalia, associazione culturale della diaspora haitiana in Italia, mette l’accento su alcuni aspetti: «Hanno inventato rapimenti che non eravamo abituati a vedere: hanno capito che con questo sistema si fanno tanti soldi, allora la cosa si è diffusa, anche grazie alla televisione. Non erano mai arrivati a rapire bambini o famigliari di persone del popolo». E parla delle paure di chi vive lontano: «Se qualcuno sa che un vicino di casa ha un parente all’estero, questo può essere preso di mira. Chiedono dei riscatti molto elevati che spesso non si possono pagare. Se non si paga, i rapiti vengono ammazzati. Neanche le generazioni più anziane di noi avevano mai visto una situazione così nel paese. Io non ho mai avuto paura di prendere un aereo e andare al mio paese, in 25 anni che vivo in Italia. Oggi ci penso bene. Tutto questo è molto grave».

Il Covid ha colpito poco Haiti in modo diretto. Durante la prima ondata è stato abbozzato un lockdown. Ora non più, e i casi stanno aumentando. Ma un effetto importante è stato indiretto.

Ancora Iliana Joseph: «Chi vive all’estero sostiene la sua famiglia con le rimesse, che sono un’entrata rilevante nel bilancio di Haiti. La pandemia, e il conseguente lockdown, ha fatto perdere il lavoro a una gran parte della diaspora nel mondo, con il conseguente crollo degli invii in valuta pregiata. Questo ha aumentato la povertà in maniera diffusa e contribuito a far degenerare la situazione sociale nel paese».

Marco Bello


Nota

Mentre stiamo chiudendo la rivista, gli eventi ad Haiti sono in rapida evoluzione. Torneremo sulla situazione quando si sarà stabilizzata.


Archivio MC

• Marco Bello, «La cultura ci salverà», MC 04/2017.
• Marco Bello, A due passi dalla Tortuga, MC 07/2016.
• Marco Bello, dossier: La cultura è rivoluzione, MC 05/2016.
• Marco Bello, Il presidente a vita è morto, MC 12/2014




P come pace

testo di Gigi Anataloni, direttore di MC |


Ci sono 8.113 vocaboli che cominciano con la lettera «p» nel dizionario italiano. È un mondo di parole ricche di possibilità. Alcune sono indispensabili e parlano al cuore. La prima è Pace. Cominciamo ogni anno con la giornata per la pace (**). Una giornata che è preghiera, sospiro, speranza, ringraziamento e anche protesta. Preghiera, perché la vera pace si ottiene solo da Dio. Ringraziamento, perché la pace è un dono. Sospiro e speranza, perché richiede grande impegno, pazienza e perseveranza. Protesta, perché non si può stare zitti e passivi di fronte a chi, invece della pace, fomenta a tutti i costi la guerra. Guerre e conflitti insanguinano oltre 50 nazioni del mondo, soprattutto in Asia e in Africa, ma non solo. Intanto impinguano le casse dei potenti che, non contenti di produrre armi tradizionali, inventano e sfornano ordigni sempre più sofisticati e distruttivi in un’assurda corsa alla morte. Quante volte si può distruggere un pianeta? Di fronte a questa realtà occorre tirare fuori la parresia cristiana, una parola ben presente nel Nuovo Testamento per indicare il coraggio, l’audacia, la franchezza e la libertà di spirito del cristiano nel testimoniare e vivere la sua fede in colui che è la Parola di Vita e la vera pace del mondo.

La Parresia non manca certo a papa Francesco (***), il quale, tornando dal Giappone dopo la visita a Hiroshima e Nagasaki, ha detto parole chiare. «L’uso delle armi nucleari è immorale, […] e non solo l’uso, anche il possesso, perché un incidente o la pazzia di qualche governante, la pazzia di uno può distruggere l’umanità». Non so se avesse in mente qualcuno in particolare, ma a prescindere dal possesso o meno della bomba atomica, contiamo purtroppo un buon numero di governanti o capi popolo convinti che si ottiene di più con il potere autoritario e intimidatorio, con la guerra e il terrore che con il rispetto delle persone, l’impegno a eradicare povertà e ignoranza, a difendere i deboli, a custodire l’ambiente e a promuovere dialogo e giustizia. Altro che politica come servizio al bene comune e alle persone.

Persona, ecco un’altra parola importante che inizia con la «p». Avere la persona al centro e non il denaro, il potere, il prestigio. Persona e pace vanno insieme. Dove le persone sono calpestate, sfruttate, trafficate, discriminate, umiliate e mantenute nell’ignoranza, non ci può essere pace. Quando ci sono alcuni che si ritengono i «primi» sopra gli altri, non ci può essere giustizia. Quando si distruggono i ponti, si chiudono i porti e sbarrano le porte, non ci può essere pace. Ponti, porti e porte – realtà che implicano sempre due direzioni, una di entrata e una di uscita – sono comunicazione, apertura, incontro, accoglienza, tutti elementi indispensabili per costruire la pace.

Certo l’avventura della pace non è facile richiede poi un ultimo elemento essenziale: il Perdono, un’ultima parola iniziante con la «p» che non può essere dimenticata. Lasciarci perdonare e donare perdono è impegnativo perché cambia il nostro modo di relazionarci con noi stessi e con gli altri. Ci rende più umani o, forse, più divini, perché perdonare è amare e amare è «agire da Dio», essere «perfetti» come Lui, il Padre di tutti, perfetto e misericordioso.
Auguri e benedizioni per un 2020 di pace.

** Messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale della pace 2020

*** Vedi anche le «3P» di papa Francesco

P.S. Vedi l’editoriale (quasi simile) del novembre 2016 «Le tre P: pace, perdono, pazienza»


Haiti, 10 anni dal sisma

Il 12 gennaio 2010, alle 16,53, una potente scossa di terremoto devastò Port-au-Prince, la capitale di Haiti, e le città vicine. Le vittime non sono mai state contate, ma l’ordine di grandezza è 300mila. Fu una tragedia immane. Un punto di non ritorno per uno dei paesi più poveri del mondo.

Sembrava fosse arrivato il momento di rottura per far cambiare la sorte del paese, una specie di azzeramento, per ripartire su basi diverse.

Non fu così. Qualcuno, i soliti noti, ci mise lo zampino, bloccando ogni iniziativa di rinascita promossa dalla società civile.

Questo mese ricorrono i 10 anni da quell’evento. Ironia della sorte, oggi il paese sta attraversando la crisi socio-politica ed economica più grave degli ultimi tre lustri.

All’epoca MC pubblicò l’editoriale dal titolo «Alzati e cammina!», il cui incipit era: «Non esiste un altro posto così al mondo». Nel 2020 non ci siamo dimenticati di Haiti.

Torneremo presto a parlarvi di quel popolo straordinario, di chi ne ha impedito lo sviluppo, e della crisi attuale.

Intanto, il nostro ricordo va alle vittime, e ai loro cari.

Marco Bello




Haiti: «La cultura ci salverà»


Haitiano di origine italiana. Noto per il suo impegno sociale e politico. Da subito si è schierato contro la dittatura di Duvalier e per il rispetto dei diritti umani. Con i suoi lavori ha denunciato soprusi e violazioni. Al suo attivo ha oltre 50 film, tra documentari e fiction. Ci regala la sua visione del rapporto cultura-popolazione nel paese caraibico.

Port-au-Prince. Arnold Antonin, al secolo Celesti Corbanese, è il più famoso cineasta e produttore haitiano, soprattutto per quanto riguarda i documentari. Si contende il primo posto solo con Raoul Peck, altro grande regista, che ha realizzato in prevalenza fiction e il cui recente «I am not your negro» è stato candidato agli Oscar quest’anno come miglior documentario.

Classe 1942, Antonin è di origine italiana ed è molto conosciuto per il suo impegno sociale, politico e culturale. In esilio in Venezuela dal 1973, durante gli anni del duvalierismo (1957-1986) è in prima linea in quel settore della società civile haitiana, costituito dagli intellettuali, che ha lottato contro la dittatura in patria e all’estero. La cacciata di Jean-Claude Duvalier, il 7 febbraio 1986, vede nei mesi successivi il ritorno in patria della maggior parte di loro.

Così è anche per Arnold Antonin, che ha fondato in Venezuela il Centro Pétion-Bolívar, dai nomi di Alexandre Pétion, uno dei padri della nazione haitiana, e Simón Bolívar, il maggiore rivoluzionario e promotore dell’indipendenza dei paesi latinoamericani. Già nel dicembre dell’86 Antonin torna nella sua città natale, Port-au-Prince, e vi trasferisce il Centro culturale. «Si tratta di un centro polivalente di pubblica utilità», ci spiega. Antonin, sempre sorridente e ironico, ci riceve nella nuova sede del Centro. Ci conduce in una sala alle cui pareti sono appesi decine dei suoi premi e riconoscimenti. Oltre che locandine dei film. I più importanti sono il premio Djibril Diop Mambety, ricevuto a Cannes nel 2002 per il documentario Courage de femmes e il premio Paul Robeson, vinto in tre edizioni del Fespaco (Festival del cinema panafricano a Ouagadougou), 2007, 2009 e 2011. Il suo primo film, Duvalier accusé, risale al 1974, mentre tra le sue opere più note ci sono Les amours d’un zombie, e Le président a-t-il le sida?. Antonin, inoltre, insegna alla Facoltà di Scienze umane dell’Università e alla Scuola nazionale d’arte.

«Il Centro si è occupato molto di diritti umani negli anni ‘86-‘87, poi di formazione, anche sindacale, di organizzazioni di giovani e di donne. Il Centro ha fatto formazione politica ai parlamentari, ai sindaci alle autorità locali». Antonin continua a raccontarci del Centro e si percepisce quanto vi si identifichi: «Ci siamo interessati alla produzione audiovisiva in genere, e di materiale educativo, ma da qualche tempo il Pétion-Bolívar è soprattutto un centro di produzione dei miei film».

Il Centro diffonde la cultura e crea dibattito. Ogni mese viene organizzato il forum del giovedì, ovvero un incontro su un tema di interesse nazionale. «È un’attività che facciamo da 28 anni. L’anno scorso gli incontri si sono concentrati su soggetti politici, tranne l’ultimo che è stato sui cambiamenti climatici, e qui abbiamo presentato i risultati della Conferenza sul clima di Parigi».

Il Centro era anche sede dell’Associazione haitiana dei cineasti che, fino a pochi anni fa, realizzava formazioni periodiche e regolari nel campo della cinematografia. «Attualmente abbiamo un cinelcub, frequentato da giovani tra i 20 e i 25 anni, che hanno accesso a film che altrimenti non avrebbero la possibilità di vedere».

L’occasione mancata

Dopo il terribile terremoto del 12 gennaio 2010, Antonin realizza un documentario di 20 minuti, crudo e di denuncia: Chronique d’une catastrophe annoncée ou Haïti: apocalypse now.

«Il terremoto è stato catastrofico con proporzioni inimmaginabili, a causa dello stato di precarietà nel quale viveva la popolazione. Ci sono stati terremoti della stessa intensità che hanno causato centinaia di morti, mentre ad Haiti sono stati centinaia di migliaia», riprende Antonin. «Noi speravamo che il sisma avrebbe segnato una svolta nella storia del paese, cioè che a partire da quell’evento avremmo potuto ricostruire Haiti su nuove basi. Innanzitutto ambientali, economiche, sociali e anche politiche. Io dicevo che grazie al terremoto avremmo potuto fare di Port-au-Prince la “città faro” dei Caraibi. Tutti i grandi architetti del mondo erano disposti a fare dei progetti gratuitamente per Haiti. Anche Renzo Piano lo avrebbe fatto. Ma chi era al potere non ha voluto, perché la catastrofe è stata anche un gigantesco mercato. Il sisma, come anche il caos politico e la povertà di massa, è stato un’occasione per diverse persone di guadagnare molti soldi. Per altri di farsi una specie di credito politico. Così non è stata fatta la ricostruzione. La sola cosa che il potere di Michel Martelly (presidente dal 2011 al 2016, ndr) è riuscito a fare è ripulire gli spazi pubblici e i parchi di Port-au-Prince dai terremotati. Ma hanno creato nuove bidonville all’uscita della città, che sono peggiori di quelle precedenti».

Poco è stato fatto, denuncia il regista, qualcosa nel centro amministrativo e poi l’aeroporto che oggi è moderno. «Quello che chiedevamo noi era un nuovo piano di gestione del territorio, in modo che si potesse sapere, in un piccolo paese come il nostro con 10 milioni di abitanti, come fare una suddivisione in zone di diverse tipologie: abitazioni, industrie, agricoltura».

«Port-au-Prince è diventata una città nella quale si trovano baraccopoli ovunque. A causa dell’esodo rurale per la mancanza di lavoro, la maggior parte degli abitanti sono dei sotto proletari, quelli che possiamo chiamare Lumpenproletariat (in tedesco “proletariato straccione”, termine creato da Karl Marx, per indicare il ceto infimo delle grandi città, formato di elementi economicamente e socialmente instabili, ndr), per cui possiamo parlare di “lumpenizzazione” della società haitiana. Si tratta di individui che sono molto facili da manipolare, non hanno delle vere radici, non sanno dove sono e sono affamati, alla mercé di chiunque, in primis dei politici e criminali».

La cultura che salva

Haiti è il paese più povero delle Americhe e uno dei più destrutturati del Mondo. Gli esperti lo classificano come «stato fallito». Chiediamo al regista e attivista politico se la cultura potrà salvare Haiti. «Sì, in un certo senso la cultura può salvare Haiti. Perché la cultura salva tutti i paesi che sono in pericolo. Se non c’è nella testa della gente, nel loro modo di fare, nella loro cultura in generale, una volontà di salvare o cambiare il paese, allora non è possibile. Solo la cultura può cambiare un paese in grande difficoltà come il nostro. Ma non deve essere una cultura che confonde il sogno con la realtà. Ad Haiti troppo spesso domina il pensiero magico, un sistema per cui agli uomini al potere basta dire una cosa e le parole si trasformano in realtà. Occorre pensare a delle azioni concrete sulla realtà socio politica se si vuole salvare questo paese. Ma alla base ci sono questioni politiche e culturali. Ovvero se c’è la volontà politica, allora occorre che la cultura giochi il suo ruolo.

Qui la cultura è molto forte. In generale questi paesi sono complicati e difficili. Un uomo politico statunitense diceva: “Haiti è il paese che abbiamo occupato più a lungo – ci sono stati 19 anni di occupazione statunitense dell’isola – ma è l’unico nei Caraibi dove non si gioca a baseball”. È vero, è uno sport che non ci ha mai penetrati. Allo stesso modo c’è una forma di democrazia e di sviluppo che non riescono a imporsi ad Haiti.

Tutto lo sviluppo deve partire da una realtà culturale del paese. Non bisogna credere che per un paese differente occorra una democrazia al ribasso, elezioni fasulle o truccate. Gli haitiani hanno dimostrato che non lo accettano».

E lo stato come si pone nei confronti di questa ricchezza culturale?

«Ad Haiti diciamo che questo è il paese della cultura, però non esiste alcun aiuto dello stato alla cultura. Un paese di 10 milioni di abitanti in cui non c’è una sala per spettacoli, non un cinema, c’è un solo quotidiano. E non c’è un museo degno di questo nome. Lo stato appoggia solo il carnevale che è il grande evento culturale di Haiti. Ma anche questo è un carnevale povero, del sotto proletariato».

«Io ho realizzato diversi film su artisti haitiani, sia pittori e scultori che scrittori. Devo riconoscere che esiste una situazione generale, nel tropico, per la quale le crisi (politico sociali, ndr) generano una grande perdita di energia. E ogni crisi ne innesca un’altra che crea una maggiore perdita di energia. In questa dissipazione, dovuta in gran parte alla follia distruttrice di uomini avidi di potere e soldi, ovvero quelli che sono sempre stati i dirigenti di questo paese, troviamo l’energia creatrice di una parte della popolazione. Ed è questo che mi interessa e che studio.

Nel mezzo di questa situazione incredibile, ci sono persone che senza alcun aiuto scrivono, e fanno della buona letteratura, che dipingono dei quadri superlativi, realizzano sculture ottime senza essere mai stati a una scuola di anatomia. Poi c’è la gente del popolo. Ne parlo nel documentario che ho realizzato su due donne spacca pietre che, invece di prostituirsi, o prostituire i figli, in mezzo alla miseria inumana fanno un lavoro duro. Oppure c’è la storia della donna meccanico che ha un progetto di vita per diventare tra i migliori di questo paese nel suo lavoro, in mezzo agli uomini».

La cultura che resiste

La cultura ad Haiti è anche cultura tradizionale, radicata soprattutto in ambito rurale. Che momento storico sta passando e che relazioni ha con la politica?

«La cultura haitiana è in crisi. La cultura rurale, malgrado il vodù che ne è alla base, è molto attaccata dalle sètte protestanti che pullulano (si veda anche articolo a pag. 51). Il vodù stesso sta subendo delle grandi trasformazioni, si sta mercantilizzando. Sotto Duvalier c’era già una specie di volontà di controllo da parte della politica, che utilizzava molti preti vodù ai suoi scopi. Tutte le religioni e tutte le culture hanno aspetti positivi e negativi. Fattori che ti portano verso la trasformazione e il cambiamento, altri alla resistenza per sopravvivere e altri ancora verso la chiusura al cambiamento. Nella società haitiana troviamo tutto questo. Di fronte a una modernizzazione che è copiata dall’estero e sponsorizzata da certi dirigenti del paese, assistiamo a una resistenza, e quelli che resistono fondamentalmente sono i contadini.

Jacques Roumain (grande poeta e scrittore haitiano, impegnato in politica, scomparso misteriosamente nel 1944, ndr) diceva che gli unici elementi validi di questo paese sono i contadini. Sono i soli che hanno una cultura propria e questo ha permesso loro di sopravvivere. Hanno un attaccamento alla terra natale e hanno una tradizione. Ma la popolazione rurale sta diminuendo e stiamo diventando un paese con una maggioranza di popolazione urbanizzata. Però non c’è una vera cultura urbana, perché lì c’è gente che ha lasciato la campagna ed è come piovuta in città, dove non ha nessun attaccamento, mentre perde le radici rurali. Sono persone declassate e disorientate che vanno ad abitare le immense bidonville delle diverse città haitiane, ma anche tutte le piccole baraccopoli che troviamo ovunque a Port-au-Prince, in centro, in periferia, di fianco ai quartieri dei ricchi. Questo fenomeno crea una situazione molto particolare, paradossale. E i paradossi interessano molto gli artisti. Si dice che Haiti sia un “paradiso infernale”, è un ossimoro. Un ossimoro invivibile per molte persone. Non per noi della classe media, gli intellettuali. Noi riusciamo a sopravvivere, ad avere un minimo livello di vita dignitosa. Ma per la maggioranza, ovvero i contadini che non riescono a vivere in campagna, emigrare diventa obbligatorio. Molti vanno in Repubblica Dominicana e nelle Antille.

La classe media, gli intellettuali, i professori, contribuiscono alla cultura tramite la letteratura, la musica, ecc. Ma anche loro sono in difficoltà in modo permanente, perché a ogni crisi economica e politica si innesca una fuga di cervelli, un’emorragia che costituisce un duro colpo per chi rimane.

Le gallerie d’arte sono sempre meno numerose, gli artisti non vivono più di pittura, devono avere un altro mestiere. Chi fa cinema pure. Ci sono artisti che hanno tre o quattro mestieri».

Il nuovo presidente di Haiti Jovenel Moise, insediato il 7/2/2017. / AFP PHOTO / HECTOR RETAMAL

 

Una politica miope

L’ex presidente René Preval, morto il 3/3/2017.

Ad Haiti esiste un potenziale enorme di produzione artistica e culturale che potrebbe essere valorizzato e dare un apporto economico notevole, oltre che diffondere un’immagine molto più positiva del paese nel mondo. Al contrario, dopo il terremoto l’impostazione dei politici è stata quella di attirare un «turismo di alta gamma». Così sono stati costruiti tre hotel di lusso, di un livello inesistente prima nel paese. E sono stati favoriti gli sbarchi delle crociere sulle più belle spiagge, opportunamente isolate dal resto del contesto. Tutto questo anziché appoggiare gli artisti, o la creazione culturale in genere.

«È un paese potenzialmente ricco di cultura. C’è una ricchezza immateriale enorme qui. La storia di Haiti può attirare molti. Poi ci sono anche ricchezze materiali, come le rovine coloniali. Haiti è il paese dei Caraibi che ne ha di più: forti militari, palazzi coloniali, ecc. Ma ho visto la gente togliere le pietre di Fort Mercredi per andare a costruirsi la casa. Se non c’è una politica statale per preservare e valorizzare queste ricchezze, presto si deterioreranno.

Poi c’è il vodù. In Luisiana, a New Orelans, fanno uno sfruttamento turistico enorme del vodù, e si paga per vedere cerimonie fasulle. Le manifestazioni del vodù, come il Guédé (pronuncia ghedé, sono gli spiriti degli antenati morti, molto presenti nelle cerimonie, ndr) si stanno deteriorando, lumpenizzando. In passato erano spettacoli incredibili.

Per questo occorrerebbe una politica turistica intelligente, radicata nella cultura. Poi c’è un contesto globale: occorre togliere le immondizie per strada altrimenti i turisti saranno disgustati.

C’è pure una natura che resiste, nonostante tutto quello che è stato fatto contro di lei in questo paese. È qualcosa di miracoloso. Mare, montagna, deserto, microclimi differenti. Poi la grande gentilezza della gente. Tutte condizioni molto favorevoli al turismo».

La cultura per chi?

Chi ha accesso alla cultura, nelle sue varie forme?

«Come valore di utilizzo, da non confondere con il valore commerciale, la cultura è alla portata di tutti. Le persone che officiano nei templi vodù producono cultura e allo stesso tempo la consumano. Così come i musicisti rap, che copiano i rapper statunitensi, una moda che sta invadendo le bidonville con i suoi modelli. È una cultura trash.

Se parliamo di belle arti, allora non ci sono molti consumatori ad Haiti. C’è un impresario haitiano che ha prodotto la maggior parte dei musicisti del paese che mi dice: “Ad Haiti ci sono 300 consumatori per i prodotti che facciamo, i dvd dei tuoi film e i cd che io produco”. Non ci sono consumatori paganti.

In passato c’erano i turisti che compravano i quadri e altri prodotti culturali, adesso questo mercato non esiste più. Anche per questo gli artisti non riescono più a vivere.

Allora ci chiediamo: come riuscire a fare dei film in un paese così povero come Haiti? Io, per fortuna, sono conosciuto e ho qualcuno che mi apprezza e finanzia i miei film. Inoltre ci sono diverse televisioni che li acquistano».

Il regista si gira e ci mostra un quadro alle sue spalle. Raffigura uno scheletro, sul cranio un cappello nero a tese larghe, intento a suonare una chitarra elettrica.

«Alle mie spalle avete il più grande Guedé di tutto l’universo. Lo riconoscete? È Micheal Jackson, è lui il re dei Guedé».

Marco Bello




La cultura è rivoluzione


1. La crisi di oggi e le sue cause nel passato

Vent’anni dopo

Haiti è un paese davvero strano. Unico, con una cultura forte, speciale, che affonda le sue radici nella singolarità della storia del suo popolo. La dominazione di un piccolo gruppo su una moltitudine, un passato di schiavitù e di rivoluzione antischiavista, antirazzista e anticoloniale. Come ci spiega bene il professor Laënnec Hurbon nell’intervista che segue. Un paese che provoca due reazioni opposte alla prima visita. Chi prova repulsione e vuole andarsene appena possibile, chi invece vi rimane attaccato per la vita.

Dopo due decenni di frequentazione mi viene spesso rivolta la domanda: cosa è cambiato ad Haiti in questi 20 anni? Difficile rispondere. Poco, se si guarda il livello di vita della grande maggioranza degli haitiani. Molto, se si esaminano gli stati d’animo delle persone incontrate.

Atterro all’aeroporto internazionale Toussaint Louverture che è già sera e non fa particolarmente caldo. È fine febbraio, è vero che anche qui è inverno, seppure tropicale. Forse è arrivato il fenomeno del cambiamento climatico. Quest’arietta fresca non me la ricordavo. Il mio pensiero va al 1995. Era luglio, quando per la prima volta misi piede sull’isola. Il clima era diverso, e non solo quello meternorologico.

Si grondava di sudore tutto il giorno. I marines statunitensi erano ovunque. Avevano appena riportato il presidente Jean-Bertrand Aristide al potere, amato dal popolo, ed esautorato tre anni prima, a fine 1991, da un colpo di stato, organizzato e finanziato dagli stessi Stati Uniti, con a capo George Bush (padre). Era un esempio troppo pericoloso per gli altri paesi sotto l’influenza statunitense.

Per riportarlo in patria, Bill Clinton, diventato presidente degli Usa, aveva imposto ad Aristide di firmare le famigerate concessioni ai piani di aggiustamento strutturale, tra le quali l’abbassamento dei dazi doganali per il riso e il mais, che avrebbero sancito l’invasione dei prodotti alimentari made in Usa e di conseguenza la miseria di centinaia di migliaia di famiglie di contadini haitiani e il loro inurbamento in enormi bidonville.

Ma in quel momento l’euforia era grande. Titid (come Aristide veniva chiamato in creolo) era il messia, tornato per salvare la sua gente. Il sacerdote salesiano era diventato presidente a furore di popolo con le prime elezioni davvero democratiche e partecipate, nel dicembre 1990. Il prete era espressione dei movimenti della società civile, che affondavano le loro radici nella classe povera rurale, quei contadini animati attraverso le comunità ecclesiali di base portate dal vento della Teologia della liberazione.

Purtroppo però, Titid, in esilio proprio negli Usa, era stato comprato dai democratici con a capo Clinton.

Il messia è perso

Anche la speranza in un futuro migliore, in quel lontano 1995, era negli occhi e nelle parole di tutti. A luglio fu eletto il parlamento e a dicembre il nuovo presidente della Repubblica, il delfino di Aristide, l’agronomo René Préval. Gli «amici» Usa avevano impedito che Titid recuperasse i tre anni di presidenza rubatigli dal golpe. Préval sarebbe diventato famoso in tutto il mondo i giorni successivi al 12 gennaio 2010, per la sua ignavia di fronte al terremoto che avrebbe distrutto la capitale Port-au-Prince. In quei giorni terribili Préval, al suo secondo mandato, avrebbe consegnato le chiavi del paese agli Stati Uniti. Lo ricordiamo camminare nervoso, con una sigaretta in mano, senza sapere cosa dire o fare.

L’euforia del ’95 si spense negli anni successivi e la fiducia nel futuro si trasformò in desolazione. Tutti si accorsero che Aristide era diventato molto ricco, era cambiato, si era trasformato un politico ambizioso e scaltro.

Due anni dopo ebbi la fortuna di vivere a Port-au-Prince, dove lavorai come fotografo e formatore per il settimanale in lingua creola Libète (Libertà), legato ai movimenti sociali. A causa del lavoro, girai in lungo e in largo il paese. Fu in quel periodo che persone di ogni livello sociale, mi raccontarono la delusione e il disincanto rispetto a una classe dirigente che, venuta dalla base dopo che la rivolta popolare aveva scalzato il duvalierismo (1986), aveva approfittato del potere solo per fare il salto nella ristretta classe alta, a spese di tutto il paese.

Ricostruzione a «cinque stelle»

Poi venne il terremoto che in pochi minuti distrusse ampie zone della capitale e di altre città e falciò circa 300.000 vite. Nessuno ne saprà mai il numero reale. Complice l’inurbamento selvaggio, dovuto all’impoverimento delle masse rurali, e l’assenza di regole nella pianificazione territoriale e nell’edilizia. Fu un «momento zero» per il paese.

Tornato ad Haiti alcuni mesi dopo, parlando con la gente vi ritrovai una grande voglia di rinascita, di ricostruzione. Quasi il sisma fosse stato un’opportunità per ricominciare tutto su basi nuove. Fu la conferma della capacità degli haitiani di resistere, adattarsi e reagire, anche di fronte ai colpi più duri. Anche in quel momento, al di là di una grande tristezza e della paura di nuove scosse, si sentiva nella gente la voglia di fare, di cambiare il paradigma di dominazione e di miseria subito fino ad allora.

Ma ancora una volta intervennero gli Stati Uniti, e Bill Clinton, ormai presidente emerito, che si installò a capo della commissione per la gestione dei fondi della ricostruzione. Lui, non un dirigente hatiano, avrebbe deciso come spendere i soldi. E così sarebbero nate alcune nuove zone industriali (la più importante nella baia di Caracol, splendida insenatura nel Nord, inaugurata dai coniugi Clinton nel 2012) dove le imprese statunitensi del tessile avrebbero sfruttato la manodopera haitiana per 2-2,5 dollari al giorno. E a Port-au-Prince sarebbero spuntati tre grandi hotel, mai visti da quelle parti, tra i quali il Meriott, finanziato, guarda caso, proprio dalla Fondazione Clinton e inaugurato un anno fa.

Oggi, negli haitiani, anche quella voglia di rivincita, di ricostruire meglio la propria società, è svanita. E la ricostruzione? Molti mi chiedono. A parte gli hotel cinque stelle, e le zone industriali, sono state rimosse le macerie e asfaltate alcune strade verso Nord. Ma la maggior parte degli edifici pubblici non sono stati rifatti, mentre tra i privati, solo qualcuno è riuscito a liberarsi delle macerie e a ricostruire a spese sue. Diversi sono stati anche gli istituti religiosi che si sono occupati del problema della casa per la gente più povera.

Alle elezioni post terremoto di fine 2010, gli Usa (di Barak Obama), imposero il presidente nella figura del cantante di kompa Michel Martelly. Questa volta lo fecero senza preoccuparsi troppo delle apparenze, intervenendo direttamente sui risultati del primo tuo e facendoli modificare da una commissione di revisione elettorale. L’operazione fu cornordinata direttamente da Hillary Clinton, all’epoca segretario di stato Usa, in una visita di 24 ore. Il cantante è anche legato alla corrente duvalierista e affarista. Dopo 20 anni la destra toò al potere.

Fallimento elettorale

A Port-au-Prince il traffico è sempre asfissiante e imprevedibile. Ma trovo un certo miglioramento dagli anni ’90. All’epoca non riuscivo a passare gli ingorghi neppure in moto. Oggi ci sono più strade asfaltate nei quartieri e i conducenti sono un minimo più disciplinati.

Qualità che non vedo nella politica haitiana. L’impasse politico-elettorale di questi ultimi mesi si sta radicalizzando ogni giorno di più e rischia di portare il paese in un vero caos.

Michel Martelly ha evitato di organizzare elezioni durante i cinque anni della sua presidenza, così le cariche istituzionali dello stato sono andate in scadenza, senza essere rinnovate. Finalmente, grazie a una mediazione della Chiesa cattolica, a inizio 2015 si è potuto formare il Consiglio elettorale provvisorio (Cep), organo preposto per organizzare le consultazioni. Erano previste amministrative, legislative e presidenziali.

«All’inizio si diceva che il Cep era equilibrato. Ma c’erano politici che non volevano le elezioni – ci confida Ricardo Augustin, consigliere del Cep delegato dalla chiesa -. Quando il Cep ha bocciato alcune candidature che non rispondevano ai criteri, si è allargato il fronte dei contrari». Le prime consultazioni (legislative) si sono tenute il 9 agosto, e sono state macchiate da violenze in diversi seggi elettorali di provincia. «L’8 agosto si avevano ancora dei dubbi se realizzare le elezioni. Dopo siamo stati criticati, come se avessimo forzato. Abbiamo verificato che il 70% dei verbali erano validi. Accettate le critiche, abbiamo corretto gli sbagli». Due mesi dopo è stata la volta delle presidenziali: «Le elezioni del 25 ottobre sono andate bene. Abbiamo ricevuto i complimenti da parte di molti, e il rapporto degli osservatori inteazionali è stato favorevole». Poi, due giorni dopo, gli oppositori hanno iniziato a versare fango sulla consultazione. «Hanno denunciato frodi senza avere prove. È stato un piano preparato e ben eseguito per affossare le elezioni. Al Cep abbiamo subito pressioni, diffamazione e menzogne. Ma abbiamo pubblicato i risultati». I due candidati ammessi al secondo tuo delle presidenziali erano Juvenal Moise, candidato del partito di Martelly, e Jude Célestin, uomo dell’ex presidente Préval. Lo stesso Célestin che era stato estromesso dal ballottaggio di inizio 2011.

Il balletto dei politici

Le elezioni sono state contestate con forza dall’opposizione e rimandate due volte. Si sarebbero dovute tenere il 24 gennaio ma violente manifestazioni di piazza si sono susseguite quotidianamente. La notte tra giovedì 21 e venerdì 22, due scuole sedi di seggi a Gonaives e Léogane, sono state date alle fiamme. «La violenza si stava annunciando – continua Agustin -. Il presidente del Cep ha deciso di rinviare ulteriormente il secondo tuo, perché il rischio di derive era evidente. Così chi non voleva le elezioni ha vinto», dice il consigliere del Cep, che è stato il primo a dimettersi, seguito dagli altri membri dell’organismo elettorale.

Dall’esterno sembra che il popolo haitiano non abbia voluto le elezioni perché manipolate. In realtà sono i partiti di opposizione, tra cui quelli di Préval e di Aristide, che hanno bloccato il processo, sicuri che altrimenti Moise avrebbe vinto.

«Le manifestazioni di piazza –  ci racconta il neoeletto senatore del Nord Ovest, Onondieu Louis – non sono state popolari, anche se i media si sono affrettati a sdoganarle come tali, ma decise a tavolino e pagate dai politici». Che non si trattasse di una rivolta popolare è d’accordo anche la sociologa e politica Suzy Castor che fa un’analisi più ampia: «Ho visto molta disaffezione per le elezioni. La gente ha perso la speranza. Nel 1990, andare a votare, era stato come esercitare un potere. Oggi non vale più nulla. Nel 2010 c’era ancora l’idea di provare a voltare pagina, votando il cantante Martelly. Ma sono seguiti cinque anni di delusioni. Le manifestazioni sono state fatte da pochi agitatori professionisti, che hanno coinvolto i delusi».

Creatività  istituzionale

Nelle settimane successive è regnata la confusione istituzionale. Il presidente Martelly ha finito il suo mandato il 7 febbraio, secondo la Costituzione, e non è stato eletto un nuovo presidente. Il parlamento non era completo e il governo era anch’esso in scadenza.

I presidenti di Senato, Camera dei deputati e Martelly hanno firmato un accordo, per il quale il parlamento – la cui legittimità è contestata perché figlio di queste elezioni – avrebbe eletto un presidente provvisorio che, in 120 giorni al massimo, dovrà organizzare il secondo tuo e installare un nuovo presidente. Nell’accordo non si parla invece della Commissione di verifica delle elezioni, richiesta da diversi settori.

Il Parlamento ha scelto, il 14 febbraio, Joselerme Privert, presidente del Senato (che così è rimasto senza presidente), già ministro di Aristide e vicino a Préval. Ma per fare questo è stato affossato un primo accordo, più equilibrato, richiesto dalla società civile, che prevedeva come presidente provvisorio l’attuale presidente della Corte di Cassazione. «L’opposizione vuole accedere al potere, e l’unico modo è cacciare Juvenal Moise, l’imprenditore agricolo arrivato in testa al primo tuo. Narcisse vuole prendere il potere, ha dietro Aristide. Lei è arrivata quarta». Ci spiega Ricardo Augustin.

Grazie a questa operazione, sebbene per un mandato provvisorio, partito al potere e opposizione hanno invertito i ruoli. Oggi è Lavalas (partito di Aristide e, in passato, di Préval) che gestisce il potere. Ci dice il senatore Onondieu: «Noi vogliamo continuare il processo elettorale, ma non sembra questa l’intenzione del presidente, che vuole restare al potere il più a lungo possibile». È abbastanza chiaro che non ci sono i tempi tecnici per una revisione elettorale e per l’organizzazione di elezioni anche parziali entro la scadenza del presidente provvisorio. Suzy Castor: «Un’opzione è che il governo provvisorio si proroghi, altrimenti se ne deve fare un altro. Ma la transizione durerà 8-12 mesi. È una situazione molto complessa, non è solo una crisi elettorale, ma è più vasta, è una crisi sociale. E non data ieri». E continua: «C’è anche una profonda crisi economica. Il debito è enorme e pesa sulla popolazione, salvo un piccolo gruppo di potere. Il costo della vita è aumentato a causa della svalutazione della moneta. Assistiamo all’affondamento dello stato, alla sua delegittimazione, e alla degradazione della classe media, che si è impoverita e si è ridotta».

Mi vengono in mente le parole di un leader contadino di Gros Moe, nel Nord (povero) del paese: «Haiti è un paese ricco, ma l’ipocrisia dei paesi che lo circondano non vuole che si sviluppi. Noi stiamo bene qui e vogliamo sfruttare la nostra risorse».

È la coscienza di avere una grande ricchezza culturale, naturalistica, produttiva e volerla sfruttare al meglio per fare andare avanti le cose, per migliorare la vita delle persone.

Sono passati vent’anni. Una generazione. Sono sulla Grande rue, il centro pulsante della capitale. Guardo davanti a me un giovane bagnato di sudore che spinge un carretto. Vedo un neonato del 1995. Non ha avuto molto di più di suo padre. Anzi, forse a lui è pure negata la speranza in una vita migliore. Per sé e i suoi figli.

Marco Bello


2. Incontro con il professor Laënnec Hurbon

Da Haiti venne… la libertà

di Marco Bello

Pittura, musica, danza. Poi poesia e letteratura. Un paese fucina di creazioni culturali. Che hanno una base comune: la religione Vodù. Un ambiente naturalistico stupendo da valorizzare. Ma i politici guardano solo a interessi immediati e personali. Potrà la cultura salvare il popolo di Haiti? Lo abbiamo chiesto a un grande intellettuale haitiano.

Il professor Laënnec Hurbon, sociologo e teologo, è uno dei più noti studiosi haitiani contemporanei. Ha scritto numerosi saggi sui rapporti tra religione, cultura e stato. Direttore di ricerca al Cnrs (Centro nazionale di ricerca scientifica) di Parigi dal 1987, è professore all’Università Quisqueya (Port-au-Prince) di cui è uno dei fondatori (1990). Ci ha accolti nella sua tranquilla casa di Port-au-Prince dove vive.

Professore, Haiti è ricca di cultura, che ruolo può giocare oggi essa per una rinascita del paese?

«Come spiegare una tale profusione di pratiche culturali, creatrici, dalla pittura – forse la più nota – , alla musica, dalla danza alla letteratura? Certo è che siamo in un paese ancora dominato dall’analfabetismo. Haiti ha due lingue, il francese, che è parlato da chi è andato a scuola, quindi una minoranza, e il creolo che è parlato da tutti. Al popolo haitiano il sistema non ha offerto molte possibilità d’espressione della propria dignità. Prima di tutto il sistema della schiavitù. È stato necessario, durante quegli anni, che gli schiavi si creassero la loro propria cultura, diversa da quella dei padroni. Quindi si è avuto un lavoro di inventiva, che è consistito nel porsi come esseri umani in cerca di dignità e di un senso da dare alla propria vita. Questa situazione è cambiata con la rivoluzione haitiana del 1791 e con gli anni dell’indipendenza (dal 1804).

Da quel momento in poi si può osservare tutta la difficoltà che il paese ha avuto per fondare uno stato davvero sovrano. Ci sono stati molti ostacoli, provenienti in primo luogo dall’estero, perché Haiti era circondata, durante tutto il XIX sec., da paesi nei quali la schiavitù era ancora un’istituzione dominante. È nel 1848 che i popoli dei Caraibi francesi hanno potuto ottenere l’abolizione della schiavitù. A Portorico è arrivata molto tardi, alla fine del XIX, così anche a Cuba, e in Brasile (1888). Haiti ha dovuto farcela da sola in un contesto ostile all’indipendenza della nazione haitiana, e ha forgiato il suo proprio orientamento attraverso pratiche culturali che non sempre corrispondevano a quello che lo stato dominante offriva sull’isola. Quest’ultimo, infatti, non considerava l’insieme dei cittadini. Dopo l’indipendenza si erano costitute, di fatto, due società. Una dominata da coloro, chiamati “grandon”, che ottenevano i vantaggi del governo, e potevano approfittare del nuovo stato indipendente; l’altra costituita dalla massa di ex schiavi, una società contadina che viveva chiusa e non aveva molte possibilità.

La cultura haitiana, la più importante, si è costituita in un contesto quasi di apartheid sociale, perché c’era un élite urbana di fronte a una maggioranza contadina. Abbandonata dallo stato, quest’ultima era costituita da cittadini di serie B, e sono loro che hanno forgiato una cultura propria, nella quale troviamo il Vodù. Come se ci fosse stata la creazione di un’altra civilizzazione, durante tutto il XIX secolo, nella quale troviamo pratiche culturali di grande invenzione che riprendevano elementi e rituali imposti dalle chiese dominanti, dallo stato, dall’estero, integrandoli con l’eredità tramandata dall’Africa. E attraverso il Vodù, si sono sviluppate pratiche di danza, mitologia, leggende – i racconti in particolare -, architettura e tecniche varie. Possiamo dire che se Haiti oggi ha una cultura eccezionale nei Caraibi, è grazie a quanto sviluppato dalle masse della gente povera delle campagne, considerate come cittadini di second’ordine. Le élite, quelle con una visione, un sogno per Haiti, hanno attinto da lì per produrre una pittura molto conosciuta a livello mondiale, una musica molto apprezzata nei Caraibi, che prevede una grande capacità d’inventiva. Tutto questo si appoggia al Vodù, anche se non è Vodù. La poesia e la letteratura hanno preso anche loro da quello che le masse contadine hanno costruito.

Ad Haiti abbiamo una cultura molto forte perché abbiamo vissuto delle situazioni di dominazione, dove l’espressione non era libera, con governanti preoccupati più dell’estero che dell’insieme dei cittadini. Ed è questo il problema specifico di Haiti. Occorre capire come fare diventare la nazione haitiana una comunità di cittadini che si rispettano e hanno diritti. Diritti fondati su una storia ben precisa, quella della prima grande rivoluzione di schiavi vittoriosi grazie a una lotta condotta, dal 1791 al 1804, anche contro l’esercito di Napoleone. Un pezzo importante nella storia universale, perché ha dato il via a tutte le lotte che sono state combattute dagli altri paesi. Haiti ha dato l’esempio, ha aperto tutta una serie di insurrezioni antirazziste, antischiaviste e anche anticoloniali, con grande anticipo. È qualcosa che è molto forte, che Haiti ha prodotto e le va riconosciuto».

Risorse culturali importanti e uniche che potrebbero anche portare reddito al paese, ma occorre promuoverle. Pensa che ci sia oggi la volontà politica di valorizzare questa cultura nel mondo?

«Io penso che manchi una reale volontà politica di promuovere la cultura haitiana. C’è piuttosto una volontà di sfruttamento, di strumentalizzare, di mantenere la società nello stato in cui è. Mentre tutto quello che esprime la cultura haitiana nasce da una vera utopia, un sogno di una nuova Haiti, di un paese nel quale ognuno riconosce l’altro nei suoi diritti.

Ecco il problema, la cultura haitiana non è mai stata veramente sostenuta dai governanti. Si vede qualche sforzo ogni tanto per il carnevale, che rappresenta un’altra sorgente d’espressione e diversità della nostra capacità di fare cultura. Anche a livello della letteratura, molto spesso si riconosce prima all’estero l’importanza di alcune opere, e solo in un secondo momento in patria.

Oltre a questo, il grosso lavoro che deve fare lo stato haitiano è sul fronte dell’educazione, dell’insegnamento, del riconoscimento del creolo, che è molto importante, l’alfabetizzazione per permettere a tutti di entrare in comunicazione gli uni con gli altri, a livello politico e sociale (il creolo è utilizzato nella scuola primaria sono da fine anni ‘70, nda). Si sente palpitare attraverso le associazioni più diverse, i movimenti sociali, una ricerca molto forte di dignità, espressa in diversi tipi di pratiche, come musica e pittura. C’è tanto da fare, ma ci sono stati progressi: è stata creata l’Accademia di creolo, vi sono testi, radio e Tv in creolo. C’è un nuovo rapporto con la lingua, anche se gli uomini politici spesso si mettono a parlare in francese per escludere la maggioranza della popolazione. La questione culturale è centrale per l’avvenire di Haiti».

Nei servizi, la Chiesa cattolica in molti casi ha sostituito lo stato. Come ha potuto collegarsi alla cultura tradizionale, come il Vodù?

«La Chiesa cattolica in fondo ha giocato un ruolo importante nello sviluppo di Haiti, perché grazie al concordato del 1960, tra il Vaticano e lo stato haitiano, religiosi e religiose hanno potuto aprire scuole e hanno avuto anche responsabilità di scuole pubbliche, ed è grazie a queste persone che abbiamo potuto avere una vera cooperazione sull’educazione. La Chiesa ha avuto un ruolo capitale per la cultura e, allo stesso tempo, è stata responsabile di strutture a carattere sociale: ospedali, aiuto ai più poveri. La Chiesa cattolica è stata un apparato che ha permesso allo stato haitiano di sopravvivere, di esistere. Ma, evidentemente, c’è qualcosa di contraddittorio e paradossale, perché i missionari non sempre hanno capito la cultura haitiana e questo ha spesso spinto a voler eradicare il Vodù, che è un’eredità africana. C’erano molti pregiudizi contro la cultura africana: tutto quello che arrivava da quel continente era considerato come stregoneria, era demonizzato. Questo ha creato nella mentalità ad Haiti, una tendenza a separare la gente cattolica da coloro che vivevano nelle campagne e praticavano il Vodù.

Una situazione cambiata con il Concilio Vaticano II, quando la Chiesa ha iniziato a riconoscere, ai più alti livelli, il diritto alla libertà religiosa e la necessità di avere un altro tipo di rapporto con le popolazioni dove si inseriva.

Oggi la questione si pone in altri termini, perché la Chiesa cattolica è in competizione con molti movimenti religiosi, che hanno invaso il paese a partire dall’occupazione statunitense (1915-34). Da una ventina di anni il movimento pentecostale si è diffuso, soprattutto nelle classi popolari.

La Chiesa cattolica ha mitigato la sua volontà di combattere il Vodù, e ne ha introdotto alcuni elementi nella liturgia, come l’uso dei tamburi in chiesa. Ha introdotto il creolo e ha avuto un ruolo molto importante per la sua promozione e accettazione come normale lingua di comunicazione. Stessa cosa hanno fatto anche i protestanti. Ma il protestantesimo, soprattutto nella sua versione pentecostale, ha lottato contro il Vodù, ha voluto che la gente abbandonasse il Vodù, che considera come qualcosa che viene dal demonio. Evidentemente in questo modo il protestantesimo agita ancora di più l’immaginario religioso che diventa ancora più presente, si difende e oggi dispone di una sua organizzazione autonoma (vedi MC giugno 2014) e comincia a essere riconosciuto nello spazio pubblico, dalla radio alla televisione. Molti si dichiarano oggi apertamente vuduisti. La battaglia è per la tolleranza religiosa, la libera competizione dei movimenti, la laicità dello stato, che permetterà la protezione di tutte le religioni».

Il 9 agosto e il 25 ottobre 2015 si sono svolte le elezioni per il parlamento e per il presidente della repubblica. Perché la partecipazione alle elezioni è stata così bassa?

«Dal 1986 il movimento di democratizzazione del paese ha fatto progressi e il paesaggio sociale è cambiato. La differenza che esisteva tra élite urbane e classi popolari delle campagne e bidonville oggi si esprime diversamente. La gente fa delle richieste allo stato, reclama i propri diritti, vuole più uguaglianza, partecipare alla vita politica e cittadina, e questo crea una continua crisi a livello politico. Perché le strutture dello stato e la classe politica si trovano in ritardo rispetto al livello di coscienza popolare ad Haiti.

La bassa affluenza esprime una mancanza di fiducia nelle istituzioni dello stato e in particolare in quella elettorale. Intanto c’è stata una pletora di candidati (i candidati presidente erano 54, nda), che non fanno realmente campagna, e non hanno programmi politici. Non si vede la differenza tra un partito e l’altro. Di fronte a questo le persone sono perse, non sanno chi votare.

Inoltre la gente ha boicottato anche perché ci sono prove di tentativi di manipolazione da parte dell’esecutivo, nel modo in cui le elezioni sono state condotte. E questo succede sempre, ogni volta che ci sono elezioni in questo paese. È qui che si vede che abbiamo a che fare con una classe politica chiusa su se stessa, non intenzionata a scendere in mezzo alla gente, interessarsi ai problemi reali espressi dai diversi strati sociali del paese. Sono più portati a risolvere i loro problemi personali, legati ai posti e alle ricompense da ottenere».

La lotta politica alla quale assistiamo è una lotta di potere e di interessi o anche ideologica e di classe?

«Non vedo lotta ideologica né lotta di classe espressa nettamente. Quello che è chiaro è che il governo degli ultimi cinque anni è stato imposto in maniera quasi diretta dagli statunitensi. Gli Usa si sono introdotti nel paese attraverso la Minsutah (contingente Onu presente dal 2004, nda) e hanno voluto che fosse Martelly a diventare presidente. C’è stato tutto uno sforzo per scartare la persona che era arrivata seconda (Jude Célestin, nda). Martelly è arrivato al potere senza alcun programma e oggi vediamo in che stato si trovano le istituzioni a causa del suo governo. È stato un periodo di apertura al business, nel quale non ci si doveva più interessare di politica. Si sarebbero dovute fare strade, organizzare elezioni. Ma il presidente era più interessato a organizzare il martedì grasso del carnevale. È simpatico, però ci sono cose più importanti e serie da risolvere nel paese. Abbiamo avuto a che fare con un governo di business man e oggi ne paghiamo le conseguenze».

A livello della ricostruzione, che risultati vede in questi sei anni?

«Molti soldi sono stati promessi, ma pochi sono stati dati. C’è stata l’espressione di una grande compassione per Haiti, ma spesso le Ong hanno preso il paese come un grande campo di gente da assistere, quando invece si sarebbe dovuto avere una visione molto più ampia, di medio e lungo termine, al di là della ricostruzione. Il sisma è stato un’opportunità offerta ad Haiti per realizzare una vera costruzione del paese. Questo non è stato fatto. Non metto tutto sul conto degli stranieri, perché era compito del governo presentare dei progetti che avrebbero potuto accogliere questo aiuto e orientarlo. E se il governo non ha un piano, l’aiuto arriva da diverse parti e c’è un certo spreco. Si è portato un po’ di appoggio a gente che non aveva nulla, ma che continua a non avere nulla. Ci sono molte critiche che sono state fatte sugli aiuti. Raul Peck, cineasta molto conosciuto, ha realizzato il film “Assistenza mortale”, una critica radicale dell’aiuto. La gente è in continua richiesta di “stato”: scuole, sicurezza, salute, lavoro, casa, ma tutto questo è trascurato».

La cura dell’ambiente è fondamentale e le risorse possono essere utilizzate per il turismo. Ma come fare?

«Ci sono associazioni che lavorano su queste questioni, ma non sono tenute in conto dal potere, non ricevono sovvenzioni. Occorre che ci sia un governo con un programma, che ci siano uomini politici attenti all’ambiente. I candidati alla presidenza hanno molta fame di potere, ma poco appetito per le questioni importanti come ambiente, sviluppo sostenibile, lotta all’inquinamento, prevenzione dei terremoti e intemperie. È un paese che ha bisogno di pensare il suo avvenire, di avere gente che presenti dei piani più generali a livello di politiche nazionali».

I rapporti con la Repubblica Dominicana sono particolarmente tesi in questi ultimi mesi, perché?

«Haiti è in una situazione particolare, perché una buona parte degli scambi economici avviene con la Repubblica Dominicana (Rd), ma con un grosso deficit nella bilancia commerciale. I dominicani vendono per due miliardi, mentre Haiti esporta per qualche centinaio di milioni. Buona parte della popolazione che non ha lavoro va in Rd, dove vivono molti haitiani, da oltre un secolo. C’è una volontà della Rd di controllare i lavoratori haitiani, di cui però ha molto bisogno. Questo ha creato situazioni gravi. Come nel 1937, quando ci fu un vero genocidio di haitiani, organizzato dal dittatore Trujillo. Questo massacro fu dovuto alla volontà di chi governava in Rd di fare una pulizia etnica, perché per i dominicani tutto quello che viene da Haiti viene dall’Africa, dal Vodù, è nero, mentre invece loro si considerano come indios ed europei. I dominicani hanno ancora il problema su come assumere il passaggio della loro storia che riguarda la schiavitù. Allo stesso tempo hanno bisogno degli haitiani per il lavoro nella canna da zucchero, nell’agricoltura, nelle costruzioni. La situazione è grave anche perché c’è un atteggiamento di scarso interesse da parte dei governanti haitiani. I vicini, hanno approvato una legge per espellere tutti gli haitiani che non hanno documenti. È un modo per ripulire Santo Domingo e le altre città da chi, secondo loro, non dà una bella immagine. Nonostante questo, ci sono sforzi che sono già stati fatti. Adesso sono i governanti haitiani che devono capire come gestire i rapporti con Rd, come trattare i problemi relativi al commercio e alla cultura. Come i due popoli possono vivere insieme. Occorre pensare a quello che ci avvicina, quello che è simile e quello che è diverso, per permettere dei rapporti e liberare dai pregiudizi. Ripensare il modo di vedere l’economia e la cultura haitiana, facendo attenzione al rapporto con la Rd. La storia tra i due paesi è complessa, e loro adesso sono più avanti come sviluppo, come educazione, università. Ci vuole uno sforzo da parte degli haitiani».

Marco Bello
con la collaborazione di Alessandro Demarchi