Ancora un massacro ad Haiti, questa volta una vera carneficina perpetrata in modo selettivo e con l’aggravante della persecuzione religiosa.
Tra venerdì 6 e sabato 7 dicembre sono state uccise 184 persone, secondo dati delle Nazioni Unite e di Rnddh (Rete nazionale per la difesa dei diritti umani ad Haiti). La maggior parte sono anziani, molti dei quali fedeli della religione vudù.
Il tutto è avvenuto a Wharf Jérémie, un sobborgo di Cité Soleil. Questa è la più grande bidonville della capitale Port-au-Prince. Situata tra il mare e la route nationale 1 che corre verso Nord, conta oltre 300mila abitanti.
Già nei primi anni Novanta Cité Soleil era nota come uno dei più grandi agglomerati di baracche delle Americhe. Un’intera città di lamiere arrugginite e cartone. Qui, da circa quattro decenni, vivono i più poveri tra gli haitiani.
Le bande armate controllano quasi totalmente la capitale e la maggior parte delle principali vie di comunicazione per il Paese. Il capo gang Micanor Altès, alias Monel Félix (Wa Mikano in creolo), ha fatto chiudere il sobborgo da venerdì 6 e ha mandato i suoi uomini a cercare i sospetti praticanti vudù in un centro di aggregazione e casa per casa. Sono stati catturati anche sacerdotesse (mambo) e sacerdoti (bokor) vudù. Monel Félix li ha poi fatti giustiziare. I cadaveri mutilati sono stati quindi bruciati nelle strade oppure buttati in mare o sotterrati.
Secondo Rnddh oltre 110 vittime avevano più di sessant’anni (ad Haiti, l’aspettativa di vita è di circa 64 anni).
Tra gli uccisi, molte erano persone note nel quartiere per il loro impegno comunitario, riporta il Combite pour la paix et le développement (Cpd, Comitato per la pace e lo sviluppo), associazione locale presente nella zona.
La motivazione del massacro sembra essere la malattia del figlio di Monel Félix, che lui attribuisce a un malocchio causato da riti vodù (che si ricorda essere una religione a tutti gli effetti, molto seguita ad Haiti, e non stregoneria). Il bambino sarebbe poi deceduto domenica.
Il capo banda non è nuovo a questo tipo di persecuzioni, già nel 2012 aveva fatto cercare e uccidere dodici donne praticanti e mambo.
L’eccidio è stato denunciato anche dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, tramite il suo addetto stampa, lunedì 9 dicembre. Il capo dell’Onu ha espresso le sue condoglianze alle famiglie delle vittime e chiesto alle autorità haitiane di realizzare un’inchiesta approfondita per fare in modo che gli autori di queste violenze e di tutte le altre violazioni dei diritti umani siano tradotti in giustizia.
L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, è pure lui intervenuto condannando l’atto durante una conferenza stampa lo stesso giorno a Ginevra. Türk ha detto che le vittime di violenze ad Haiti da inizio anno hanno raggiunto le 5mila unità.
Si ricorda che iI 3 ottobre scorso, un’altra gang aveva compiuto un massacro di oltre 70 persone a Pont Sondé, importante mercato e snodo rurale nell’Artibonite. In quell’occasione gli abitanti erano stati sorpresi a casa nella notte e trucidati.
Ad Haiti, dallo scorso giugno, è presente un contingente di 400 poliziotti provenienti dal Kenya, a cui si sono poi aggiunti 24 giamaicani, nell’ambito della Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas), approvata dalle Nazioni Unite nell’ottobre 2023, ma non sotto suo diretto mandato. In realtà la missione prevista dovrebbe contare circa 3.100 effettivi da diversi paesi dell’area centroamericana e dell’Africa. L’attuale numero è assolutamente insufficiente a contrastare le gang, i cui effettivi conterebbero oltre 10mila uomini ben armati.
Un fiorente traffico di armi dagli Stati Uniti verso Haiti e di cocaina in senso contrario è stato denunciato da un rapporto delle Nazioni Unite.
Attualmente Haiti è governata da un Consiglio presidenziale di transizione (Cpt), composto di 9 membri, che rimpiazza il Presidente (l’ultimo, Jovenel Moise è stato ucciso il 7 luglio 2021). La presidenza del Cpt è a rotazione, e dal 7 ottobre scorso è in carica l’architetto Leslie Voltaire. Ci sono già stati tuttavia problemi, con tre membri del Cpt, indagati per corruzione.
Il governo di transizione, inoltre, ha visto un repentino cambio di primo ministro l’11 novembre scorso. Gary Conille, in carica dal 12 giugno, è stato deposto con una procedura poco ortodossa dal Cpt e sostituito dall’uomo d’affari Alix Didier Fils-Aimé. Un avvicendamento che mostra come tra gli organi di transizione ci siano attriti notevoli, talvolta insanabili.
Le organizzazioni per i diritti umani accusano il Cpt di mancanza di volontà nella lotta contro le gang.
Lo scorso ottobre, il Cpt ha chiesto all’Onu che la Mmas sia trasformata in una missione delle Nazioni Unite con risorse consistenti e l’impiego di militari. Ma gli haitiani hanno già vissuto decenni di presenza dei caschi blu dell’Onu che, lontani dal portare soluzioni, hanno spesso causato problemi.
Marco Bello
Haiti. Massacro in Artibonite
Sono circa le 3 di notte del3 ottobre scorso. A Pont Sondé, importante mercato agricolo della regione Artibonite, viene perpetrato uno dei più sanguinosi massacri di civili degli ultimi anni ad Haiti.
Un gruppo di banditi, chiamati «Gran grif», armati di pistole, mitragliatori e granate, provenienti da Savien, una località poco distante dove hanno la base, sono arrivati con il favore delle tenebre e hanno assaltato le case degli abitanti di Pont Sondé. Hanno ucciso la gente mentre dormiva, sparato a chiunque incontrassero sul loro cammino. Quindi hanno dato fuoco a una cinquantina di abitazioni, a oltre trenta automobili e a diversi magazzini. Si sono poi dileguati, lasciando dietro di loro la devastazione.
Questa gang (banda criminale in creolo) è una delle tante che controllano il paese. È comandata da un certo Luckson Elan, ma ne fa parte anche Ti Pay, originario proprio di Pont Sondé, dove è conosciuto.
Attacco annunciato
Voci di un possibile assalto giravano in paese da un paio mesi, dice il rapporto della Rnddh (Rete nazionale di difesa dei diritti umani). Si è trattato, infatti, di una rappresaglia, in quanto a Pont Sondé è attiva una milizia di autodifesa (pratica oramai comune in un Paese dove vige la legge della criminalità e la polizia non riesce a intervenire) chiamata la La Coalition (la coalizione), che era riuscita a togliere a Gran grif il controllo della strada nazionale numero 1. Questa, che passa da Pont Sondé, unisce il Sud, ovvero la capitale Port-au-Prince, al Nord del Paese, ovvero Cap Haitien (la seconda città di Haiti) e Port-de-Paix. La milizia aveva privato Gran grif degli importanti introiti del taglieggio operato su questa arteria fondamentale.
I membri della Coalition sono stati presi di sorpresa dall’incursione notturna, così come la locale stazione di polizia, i cui agenti non sono intervenuti.
Il bilancio è pesantissimo. Le vittime sono più di 70, tra loro bambini, donne, anziani, intere famiglie. Molti sono i dispersi e sono alcune decine i feriti da arma da fuoco o da taglio che hanno cercato soccorso nell’ospedale della città di Saint Marc, a 13 km.
L’assalto ha spinto alla fuga la popolazione verso la stessa Saint Marc, dove centinaia di famiglie si sono accampate per le strade e nella piazza Philippe Guerrier. Fonti delle Nazioni Unite parlano di 6.270 sfollati.
I padri dello Spirito Santo (Spiritani), che gestiscono l’unica parrocchia di Pont Sondé da decenni, sono stati evacuati da alcuni confratelli in una località più sicura. «Stanno bene fisicamente – ci dicono con un messaggio -, ma sono sotto shock e molto provati».
La voce dei vescovi
Intanto anche la Conferenza episcopale di Haiti fa sentire la propria voce, per mezzo del presidente, monsignor Max Leroy Mésidor, arcivescovo di Port-au-Prince. «La popolazione è all’ultimo respiro, chiede il soccorso dello Stato – dice il prelato all’agenzia stampa Alterpresse -. ll Paese è malato nel suo complesso, ma i dipartimenti dell’Ovest (dove si trova la capitale, nda) e dell’Artibonite (dove è avvenuto l’ultimo massacro), i più estesi di Haiti, sono messi ancora peggio. Mi chiedo se non ci sia un progetto segreto contro queste due zone, e contro la nazione intera». Il dipartimento dell’Artibonite, inoltre, coincide con la valle dell’omonimo fiume ed è il granaio del paese in termini di produzione di riso e altri prodotti agricoli.
L’arcivescovo se la prende con l’indifferenza delle autorità, che hanno abbandonato tutta la zona a se stessa: «Da circa due anni Petite Rivière de l’Artibonite, Liancurt, Pont Sondé sono alla mercé delle bande armate».
Nonostante le voci di un assalto imminente, inoltre, il dispositivo di sicurezza non era stato rinforzato.
«Faccio una domanda al Consiglio presidenziale, al governo, al capo della polizia: chi veglia sulla popolazione?», chiede l’arcivescovo.
Il governo di transizione
Attualmente Haiti è governata da un Consiglio presidenziale di transizione (Cpt), composto di 9 membri, che rimpiazza il Presidente (l’ultimo, Jovenel Moise è stato ucciso il 7 luglio 2021). La presidenza del Cpt è a rotazione, e dal 7 ottobre scorso è in carica l’architetto Leslie Voltaire. C’è inoltre un governo di transizione guidato da Gary Conille, in carica dal 12 giugno. Questo meccanismo, voluto dalla comunità internazionale, non ha per ora sortito grandi effetti sul terreno.
Tre membri del Cpt, inoltre, sono già sotto accusa di corruzione da parte dell’Unità per la lotta contro la corruzione di Haiti.
Da fine giugno scorso, inoltre, è arrivato un contingente di 400 poliziotti dal Kenya, a cui si sono poi aggiunti 24 giamaicani, nell’ambito della Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza, approvata dalle Nazioni Unite nell’ottobre 2023. In realtà la missione prevista dovrebbe contare circa 3.100 effettivi da diversi paesi dell’area centroamericana e dell’Africa.
Ancora monsignor Mésidor: «Perché, nonostante la forza multinazionale sia nel Paese, la situazione è peggiorata? […] Quante località devono ancora cadere [nelle mani delle gang] affinché [chi governa] mostri che c’è una sensibilità per il popolo? Questa transizione non è una rottura con il passato. Si stanno facendo le stesse cose: stessi scandali, stessi problemi, stessa indifferenza»
Secondo le ultime cifre delle Nazioni Unite, a livello nazionale, 703mila persone sono sfollate dal 2023 a causa delle violenze, mentre sono 5,3 milioni sono gli haitiani a rischio sicurezza alimentare acuta, ovvero quasi la metà della popolazione. Gli assassinii, da gennaio a settembre di quest’anno, sono stati 3.661 e le armi in possesso alle gang arrivano grazie a traffici dagli Stati Uniti.
Marco Bello
Haiti-Kenya. Al via la missione di «salvataggio»
Con l’arrivo a Port-au-Prince dei primi 400 poliziotti keniani, lo scorso 25 giugno, è partita ufficialmente la Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas) per Haiti con lo scopo di aiutare a ristabilire l’ordine.
La Mmasnon è una missione delle Nazioni Unite, è stata però autorizzata dal Consiglio di sicurezza con una risoluzione dell’ottobre 2023. (per approfondire leggi qui)
Dopo mesi di negoziazioni, e la firma di un accordo tra Haiti e il Kenya da parte dell’allora primo ministro a interim Ariel Henry lo scorso febbraio, il paese africano ha finalmente preso il comando della missione.
Oltre al Kenya, parteciperanno Benin, Ciad, Bangladesh, Bahamas e Barbados, per un totale di alcune migliaia di poliziotti.
Gli Stati Uniti, storicamente impegnati nel Paese, in questa occasione hanno preferito non intervenire direttamente (a causa della già complicata situazione internazionale e delle prossime elezioni di novembre), ma hanno fatto pressioni sull’alleato africano e finanziato la missione con circa 300 milioni di dollari.
Ad Haiti, dal 12 giugno scorso è insediato il nuovo governo di transizione con il primo ministro Garry Conille. Al posto del presidente della Repubblica c’è un inedito Comitato presidenziale di transizione, composto da sette membri e due osservatori, presieduto da Edgar Leblanc fils.
Ricordiamo che il Paese versa in uno stato di caos, con il controllo di gran parte del territorio da parte di gruppi criminali (le gang), e l’impossibilità da parte delle forze di polizia di garantire la sicurezza e il funzionamento delle istituzioni, ma anche la stessa normalità della vita della popolazione. Attualmente si contano circa 600mila sfollati nella capitale.
La Mmas ha come missione principale quella di appoggiare la polizia nazionale haitiana (Pnh), e in particolare mettere in sicurezza le infrastrutture strategiche (aeroporti, porti, strade principali, palazzi istituzionali, ecc.), attualmente alla mercé delle bande criminali organizzate.
I poliziotti keniani sono scesi dall’aereo della Kenya Airways in tenuta antisommossa, con tanto di giubbotti antiproiettile, casco indossato e mitragliatore imbracciato. Le immagini dell’arrivo hanno fatto il giro del web tra gli haitiani in patria e all’estero.
L’avvio della missione trova il Kenya in un momento particolarmente delicato. Mentre partiva il primo contingente, a Nairobi, la gente manifestava contro la nuova legge finanziaria voluta dal presidente William Ruto per lottare contro la crisi economica. Tale legge impone tasse più elevate anche su beni sensibili come il pane. La popolazione, già stremata dall’aumento dei prezzi ha preso d’assalto il Parlamento, e la polizia ha sparato sulla folla causando almeno tredici morti.
I sentimenti degli haitiani sulla Mmas sono discordanti. Molti ricordano i fallimenti di altre missioni internazionali, in particolare dell’Onu, ma i più sperano comunque chesia d’aiuto per tornare a una vita normale.
Marco Bello
Haiti. Lo Stato «bandito»
Dall’assassinio del presidente Jovenel Moise la crisi «multidimensionale» non ha fatto che aggravarsi. Oggi il Paese è in mano alle bande armate. La comunità internazionale cerca soluzioni improbabili, senza interpellare i diretti interessati. Come sempre.
«La situazione è molto complicata e ancora più preoccupante. Ci sono i banditi un po’ ovunque, e sparano. In effetti è come una situazione di guerra». Chi parla è Nicolas Pierre Louis, leader contadino dell’organizzazione Tèt kole ti paysan (Tktp) che abbiamo raggiunto telefonicamente. Si trova nella cittadina Pétite Rivière dell’Artibonite, importante snodo nella valle omonima, la più grande area pianeggiante di Haiti, nota per la produzione di riso, alimento base della popolazione.
«È una situazione catastrofica – prosegue -. I contadini della valle non sono più in grado di produrre, perché i banditi hanno occupato le loro terre, inoltre hanno rubato loro gli animali (vacche, capre, maiali che le famiglie usano come salvadanaio, da vendere in caso di bisogno, ndr). E se avevano un mulino, sovente è stato smontato e rubato. I contadini delle montagne hanno difficoltà simili e di approvvigionamento di qualsiasi cosa». Ma rilancia: «La popolazione rurale c’è, resiste, ma la situazione è estremamente critica».
Nicolas ci conferma che in alcuni importanti comuni della valle, come Pétite Rivière, L’Estère, Liancourt, le gang controllano il 100% del territorio.
«Se si ha del prodotto da vendere, è molto difficile raggiungere i mercati o le città, perché tutte le strade sono controllate dai banditi che, come minimo, chiedono un pedaggio. Sovente si utilizzano le moto per arrivare a destinazione attraverso strade secondarie. Ma è più complicato».
In senso inverso, le merci di ogni tipo che arrivavano dalla capitale Port-au-Prince, prima fra tutte la benzina, incontrano la stessa difficoltà per giungere nelle città di provincia, «così si è creata una iperinflazione, ovvero un forte aumento dei prezzi di tutti i beni per il consumatore finale».
Trenta mesi disastrosi
Negli ultimi trenta mesi il paese dei Caraibi ha visto la situazione sociopolitica ed economica degradarsi progressivamente.
Il 7 luglio 2021 il presidente Jovenel Moise è stato assassinato nel suo letto da un commando di mercenari, molti dei quali ex militari colombiani. I paesi «amici» (il virgolettato è d’obbligo), ovvero Usa e Canada, hanno subito appoggiato la presa di potere da parte di Ariel Henry, primo ministro designato da Moise pochi giorni prima dell’assassinio, ma mai investito, il quale ha costituito il suo governo «de facto». Henry è dello stesso partito di Moise, Partito haitiano tèt kale (Phtk), e ha scartato l’opzione di una coalizione proposta da altri partiti e organizzazioni sociali (nota come il Consenso di Montana, dal nome dell’hotel dove è stato firmato), che chiedeva una transizione consensuale tra tutte le parti in causa (partiti politici, organizzazioni sociali, ecc.).
Occorre ricordare che Moise aveva accuratamente evitato ogni tipo di elezione (le ultime nel novembre 2016 lo avevano portato alla presidenza), da quelle amministrative locali a quelle parlamentari, portando a scadenza ogni carica elettiva e concentrando su di sé gran parte del potere. Stava pure tentando di modificare la Costituzione.
Dopo la sua morte, le gang, gruppi di banditi organizzati e ben armati, hanno preso il sopravvento su un Governo debole e inconcludente.
Rapimenti, assassinii e violenze di ogni genere contro la popolazione sono aumentati in modo vertiginoso (secondo l’Onu nel 2023 ci sono stati 5mila omicidi, 2.490 rapimenti, centinaia di feriti). Le gang, forti di armamenti moderni e continui rifornimenti di munizioni, sono cresciute fino a controllare gran parte della capitale (compreso il centro e i quartieri popolari) e le principali vie di accesso ad essa.
La polizia nazionale (Pnh) non riusciva a contrastarli, così nell’ottobre del 2022 il premier Henry ha chiesto in aiuto una forza internazionale.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il 2 ottobre 2023, tramite una risoluzione, ha dato il via libera alla creazione di una Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas). Stati Uniti e Canada non volevano però invischiarsi nell’operazione, visto il contesto mondiale complesso e le elezioni Usa in avvicinamento, oltre a un passato di esperienze fallimentari. Per questo motivo hanno fatto pressioni sul Kenya affinché guidasse tale missione, che sarà finanziata dagli Usa con oltre 120 milioni di dollari. Altri paesi, come il Benin e alcuni Stati caraibici sarebbero disponibili, per un totale di circa 4mila effettivi.
Accelerazione
Nel costante deterioramento della situazione della sicurezza, a inizio 2024 il Governo non aveva fatto alcun progresso, e Ariel Henry, il cui mandato avrebbe dovuto scadere il 7 febbraio (secondo un accordo tra alcuni attori politici e sociali, il Consenso nazionale di transizione, raggiunto il 21 dicembre 2022) non voleva affatto dimettersi.
La popolazione, allora, è scesa in piazza nel mese di gennaio per chiedere le sue dimissioni bloccando le attività del Paese fino a inizio febbraio.
Intanto le gang – una costellazione di gruppi, ognuno con il suo capo carismatico, un territorio di riferimento e spesso in lotta tra loro – sono riuscite a creare una grossa federazione, intorno a un portavoce, l’ex poliziotto Jimmy Cherizier, detto Barbecue.
Questo è stato un passaggio fondamentale, perché la coalizione delle gang, chiamata Viv ansamm (vivere insieme, in creolo), il 29 febbraio ha lanciato un attacco senza precedenti ai palazzi delle istituzioni pubbliche e alle infrastrutture strategiche (porti, aeroporti, posti di polizia e due carceri, facendo fuggire migliaia di detenuti), ma anche a strutture della Chiesa e della sanità.
In quel momento il premier Henry era in Kenya per firmare un accordo quadro che avrebbe consentito al Paese africano di guidare la Mmas.
Ma sono proprio i poliziotti stranieri che le gang non vogliono, e Barbecue in un’uscita di grande impatto mediatico, durante un’intervista, ha minacciato: «Se Henry non si dimetterà e se la comunità internazionale continuerà a sostenerlo, andremo dritti verso una guerra civile e un genocidio». Affermazione che segna un cambio di livello: le gang da esecutori, si traformano in attore politico attivo. Gli Stati Uniti, infatti, voltano le spalle al «loro» premier e il 5 marzo gli chiedono di dimettersi. Henry, trattenuto a Porto Rico (protettorato Usa), infine accetta e fa un passo indietro l’11 marzo.
Intanto c’è una riunione d’urgenza del Caricom (Organizzazione dei paesi dei Caraibi) su Haiti, in Giamaica, a cui partecipano anche Usa (con Antony Blinken), Canada, Francia e Unione europea. Ma senza la presenza di Henry (trattenuto a Porto Rico) né di una delegazione haitiana. Il gruppo decide che il Paese sarà guidato da un Consiglio presidenziale di transizione (Cpt), composto da sette membri e due osservatori, e dovrà essere espressione dei diversi settori politici e sociali del paese. Il Cpt, dopo lunghe trattative tra settori haitiani, si insedia il 25 aprile, con gli ambiziosi obiettivi di riportare la sicurezza e organizzare le elezioni. Il suo mandato non può andare oltre il 7 febbraio 2026.
Chi tira le fila
Allo stato attuale delle cose, chi ha il controllo reale del Paese, sono le gang grazie alle armi. In un quadro nel quale le istituzioni sono assenti e quelle provvisorie sono deboli e non legittimate.
Le gang sono presenti ad Haiti da fine anni Ottanta, ma – come detto – sono oggi diventate un attore imprescindibile nel quadro haitiano.
Abbiamo chiesto il parere a un militante sindacale, che ci ha chiesto l’anonimato per motivi di sicurezza: «Sono le grandi famiglie dell’oligarchia haitiana che hanno armato le gang e le riforniscono di munizioni. Ma anche i politici che chiamiamo granmanje (corrotti), i grandi senatori, deputati, sindaci. Hanno creato le gang per difendersi e difendere le proprietà dell’oligarchia (qui si intendono poche grandi famiglie haitiane, ndr) e dei grandi latifondisti. Si noti, infatti, che questi non vengono mai attaccati. Le gang, di fatto, combattono contro la popolazione, sono presenti per impedire la mobilitazione popolare contro il Governo».
I banditi controllano i quartieri popolari impedendo che la gente vada a manifestare. Negli ultimi mesi sono oltre 340mila gli haitiani sfollati a causa delle violenze e degli scontri tra bande criminali, mentre sono cresciuti gli omicidi, i rapimenti e gli stupri. Le sparatorie nei quartieri sono quotidiane.
«Ci sono deviazioni e contraddizioni interne – continua -. Ad esempio, alcune fazioni delle classi dominanti foraggiano le gang, mentre il Cpt (espressione sempre delle classi ricche, ndr) si oppone alle stesse gang, perché deve riportare la sicurezza. Ma è la popolazione che deve lottare contro questi banditi, in modo organizzato».
Quando gli chiediamo se si potrebbe negoziare con i supposti leader, è chiaro: «No, occorre combatterli e deve essere il popolo a farlo».
L’ultima speranza
Abbiamo fatto la stessa domanda a padre William Smarth che raggiungiamo telefonicamente a Port-au-Prince. Sacerdote haitiano diocesano, associato con i padri dello Spirito Santo (Spiritani), è stato molto attivo nel movimento della società civile che portò Jean-Bertrand Aristide a vincere le elezioni del dicembre 1990, le prime democratiche dopo la cacciata di Jean-Claude Duvalier il 7 febbraio 1986.
«Non ci sono negoziazioni possibili con questi banditi. Se interviene una forza seria (si riferisce a una forza internazionale di polizia, ndr), la gente stessa aiuterà, perché la popolazione ha bisogno di liberarsi: è quella che subisce di più, anche se ci sono delle zone nelle quali i banditi distribuiscono del cibo».
Padre William si sfoga: «Non va per niente bene ad Haiti. I banditi imperversano. Il Cpt funzionerà? Speriamo di sì, se i partiti politici lo faranno funzionare, e se darà vita a un Governo di transizione. A livello della sicurezza la polizia da sola non può affrontare i banditi. Ma se ci fosse una forza multinazionale la potrebbe aiutare. Che non sia però una forza di occupazione, come quella Usa del 1915». E prosegue: «I banditi si sono sviluppati ulteriormente e continuano a ricevere munizioni dall’estero in grandi quantità. Io credo che negli Usa molti pensano che il Governo sarebbe capace di controllare questo commercio di armi verso Haiti. Ma è un grosso giro di soldi. E anche di droga (vedi box). La crisi profonda è anche economica. Mentre le scuole sono chiuse da settimane a Port-au-Prince».
L’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu (Ocha) ha dichiarato che 5,5 milioni di haitiani (su 11,7) sono in emergenza umanitaria e ha chiesto una raccolta di 674 milioni di dollari per intervenire. Ma questi basterebbero solo per 3,6 milioni di persone. Massima urgenza, quindi, per la sicurezza alimentare di due milioni di persone a rischio fame.
Marco Bello
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Un rapporto Onu spiega come si alimenta la crisi haitiana
Il «pane» della guerra
Un interessante rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite su droghe e crimine (Unodc), «Haiti’s criminal markets: mapping trends in firearms and drug trafficking», uscito nel 2023 aiuta a decifrare alcune cause della crisi haitiana.
Attualmente nel Paese ci sarebbero tra le 150 e le 200 gang, bande criminali, profondamente legate alle élite politiche ed economiche. Da fine anni Ottanta Haiti è un punto di snodo fondamentale del traffico di droga dai paesi produttori (Colombia per la cocaina e Giamaica per la cannabis) ai mercati di Usa e Canada, ma anche Europa. Negli ultimi anni si è intensificato il commercio illegale di armi da fuoco e munizioni, prevalentemente dagli Stati Uniti verso Haiti.
I due traffici incrociati spiegano lo sviluppo di uno «Stato criminale» ad Haiti.
I fattori ambientali
Secondo il rapporto Unodc, alcuni fattori hanno favorito i due traffici.
Una frontiera vasta e poco controllata: 1.771 km di coste e 392 km di frontiera terrestre con la Repubblica Dominicana. Un grande numero di porti e moli privati, strade e piste di atterraggio clandestine rendono il paese estremamente accessibile al contrabbando di ogni genere di merce.
La dipendenza del Paese dall’import implica un grande flusso di merci in arrivo. Per fare un esempio, nel campo alimentare Haiti potrebbe produrre tutto il riso necessario, ma a causa di politiche economiche e doganali che hanno sfavorito i produttori haitiani, oggi circa l’80% del riso è importato. Merci (legali) che sono prima smistate in altri porti nelle vicinanze (Bahamas, Giamaica, Panama) e poi sono portate ad Haiti su battelli più piccoli.
In aggiunta l’elevato grado di corruzione, a tutti i livelli, fa di Haiti uno dei paesi più corrotti al mondo.
Inoltre, le principali strade del Paese, da Nord a Sud, dalla Repubblica dominicana verso Port-au-Prince, sono oggi controllate dalle gang, che hanno in mano tutti i punti di accesso alla capitale.
Secondo il rapporto Unodc, a causa della scarsità dei controlli e la frammentazione, è facile inserire grossi volumi di droga e di armi e munizioni nel normale flusso di merci.
Armi e munizioni
Una stima del 2020 della Commissione nazionale per il disarmo, smobilitazione e reintegrazione parlava di 500mila armi leggere presenti nel Paese, di cui solo una piccola parte sarebbe detenuta legalmente (10-15%).
La maggioranza di queste armi sono importate illegalmente, tramite reti della diaspora haitiana e intermediari, in container che giungono via mare, via aerea o via terra, nascoste in camion e auto individuali attraverso la frontiera terrestre. Sono spesso mischiate a cibo, come fagioli, farina o riso. Le armi partono dalla Florida, passano da altri porti caraibici come Kingston (Giamaica) e ovviamente dalla Repubblica dominicana. Altre sono le armi e munizioni importate legalmente (come quelle fornite da Usa e Canada a supporto della polizia haitiana) ma poi deviate e immesse in circolazione sul mercato clandestino, grazie alla mancanza di controllo e alla corruzione.
Clamoroso è l’aumento del prezzo di un’arma che raggiunge il suolo haitiano: una pistola da 500 dollari può essere rivenduta ad Haiti a 10mila (venti volte il costo negli Usa). Fucili mitragliatori da guerra, molto richiesti dalle gang, raggiungono prezzi maggiori.
Questo ci fa capire quanto sia redditizio il traffico di armi e munizioni verso Haiti, e immaginare la vastità della rete di intermediari che può alimentare. Secondo il rapporto Unodc, in Florida esistono veri punti di concentrazione di armi recuperate sul territorio statunitense, che poi sono nascoste tra altra mercanzia e dirette verso Haiti.
Le autorità della Florida hanno osservato un incremento dal 2021 al 2022 del numero di armi che transitano illegalmente per raggiungere Haiti ma anche un aumento del loro livello di sofisticazione.
Un altro aspetto fondamentale è quello delle munizioni, che garantiscono l’utilizzo delle armi, dalle pistole ai fucili d’assalto, e quindi alimento al potere alla gang. Il rapporto Unodc cita alcuni sequestri: nel luglio del 2022, di 120mila cartuccere in un caso singolo e di 25mila caricatori in un altro.
Droga
Mentre per le armi e munizioni Haiti è un paese di destinazione, per la droga, in particolare cocaina e cannabis, si tratto di un paese di transito. In alcuni casi la droga diventa merce di scambio tra gruppi criminali e per acquistare armi.
La storia di Haiti è stata influenzata da questo traffico fino dalla cacciata di Jean-Claude Duvalier, il 7 febbraio 1986, e l’avvento di governi militari. Da allora influenti politici e uomini d’affari, membri delle oligarchie haitiane, sono stati coinvolti nel traffico.
La cocaina prodotta in Colombia, arriva direttamente o attraverso altri paesi, come il Venezuela. Viene mischiata ad altre merci nei container o lanciata in mare nei pressi della costa in pacchi localizzabili con Gps, che sono poi raccolti da piccole imbarcazioni e portate a riva. Da qui passano via terra in Repubblica dominicana, oppure su altri mezzi per la Florida, le Bahamas o verso altre isole come Turks and Caicos.
L’assenza di un effettivo controllo delle coste (il corpo di guardacoste ha un solo battello funzionante, così anche il gruppo haitiano antidroga) e la mancanza di equipaggiamento tecnico, come gli scanner, da parte degli uffici della dogana, favoriscono il traffico. L’aumento di produzione di cocaina in Colombia e il maggiore controllo del territorio da parte delle gang sono altri fattori che hanno incrementato il transito attraverso Haiti.
L’anello debole
La Polizia nazionale haitiana (Pnh) è il punto debole della catena, nonostante abbia beneficiato di programmi di rinforzo da almeno tre decenni. Una valutazione della Binuh (Ufficio delle Nazioni Unite ad Haiti), ha recensito 13mila effettivi, di cui circa 9mila in servizio (fine 2022). Da confrontare con il personale delle compagnie di sicurezza private (circa un centinaio), stimato tra le 75 e le 90mila unità.
È dunque chiaro che occorre rinforzare l’apparato della polizia haitiana, il controllo delle frontiere, il personale di guardacoste e della dogana, oltre che fornire loro mezzi adeguati e moderni per lavorare.
Un intervento necessario per riportare sicurezza e stabilità ad Haiti, continua il rapporto Unodc, è il controllo del traffico di armi e di quello della droga. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, oltre ad avere espresso preoccupazione per questi aspetti, ha evidenziato l’importanza di smantellare i collegamenti tra gli attori politici ed economici del Paese e le gang. Per questo motivo ha emanato alcune sanzioni a individui (noti uomini politici e membri dell’oligarchia haitiana), come il congelamento dei beni e il divieto di viaggio (risoluzione 2653/2022), e una risoluzione di embrago su armi e munizioni (2645/2022). Ma non sembrano avere dato frutti.
Ma.Bel.
Haiti. Contro il governo, contro le gang
Haiti vive lo stato di «peyi lòk» (paese bloccato) da metà gennaio, quando le manifestazioni popolari scoppiate in diverse città hanno bloccato tutte le attività. Dalle scuole, alla sanità, ai trasporti e le attività commerciali. La popolazione è scesa in piazza per chiedere che il primo ministro de facto Ariel Henry, faccia un passo indietro.
Henry aveva preso il potere, grazie all’appoggio degli Stati Uniti, il 20 luglio 2021, pochi giorni dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moise. Il suo governo – de facto perché non rispetta le procedure costituzionali, in quanto le elezioni non si tengono da diversi anni– non è riuscito a dare risposte dal punto di vista della sicurezza. I gruppi armati (chiamati in creolo gang) hanno preso il controllo gran parte della capitale Port-au-Prince, di diverse città e delle principali vie di comunicazione del Paese. Le guerre tra gang nei quartieri, inoltre, hanno causato centinaia di morti e circa 313.000 sfollati. Si tratta di cittadini costretti a lasciare i propri quartieri, perché diventati insicuri o perché obbligati dai banditi. Durante il solo 2023 circa 8.400 persone son state uccise, ferite o rapite, secondo dati del Binh (Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti). Sempre dati Onu indicano un aumento di assassinii, con circa 5mila persone uccise, mentre i rapimenti sono quasi raddoppiati rispetto all’anno precedente, portandosi a 2.490.
Un accordo del 21 dicembre 2022, chiamato Consenso nazionale per la transizione, firmato da alcune parti in causa (partiti e società civile), prevedeva che Henry lasciasse il potere il 7 febbraio, data simbolo nella storia haitiana (giorno della cacciata di Jean-Claude Duvalier nel 1986). Non essendoci nessun progresso o segnale di dimissioni la gente è scesa in piazza. Ma le agitazioni popolari sono degenerate in violenza. Strade bloccate con pneumatici incendiati e pietre, saccheggi e incendi, in diverse città. La polizia ha represso le manifestazioni con violenza e lacrimogeni, causando alcuni morti e diversi feriti.
L’8 febbraio, il primo ministro Henry ha dichiarato che il suo scopo è portare il paese ad elezioni, che però non si possono organizzare in una situazione come quella attuale.Non ha quindi senso «sostituire una transizione con un un’altra transizione» e per questo motivo è deciso a non lasciare.
In questo contesto, il progetto di Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas) guidata dal Kenya, approvato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu del 2 ottobre 23, avrebbe dovuto portare ad Haiti un migliaio di poliziotti keniani e altrettanti di altri paesi disponibili già il mese scorso. Missione con lo scopo di appoggiare la polizia haitiana a riportare la sicurezza. Ma il 26 gennaio scorso la Corte suprema del Kenya ha dichiarato incostituzionale la decisione di dislocare ufficiali di polizia al di fuori dei confini nazionali. Mentre il presidente del Kenya, William Ruto si dice ottimista, di fatto l’impasse sullo spiegamento della Mmas è totale.
L’8 febbraio l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, Ocha, ha espresso la sua preoccupazione per la chiusura di oltre mille scuole, l’aumento dei prezzi di generi alimentari di base a causa del blocco del commercio, e l’impossibilità del lavoro di assistenza umanitaria agli sfollati. L’organizzazione ha lanciato un allarme sul rischio di una crisi alimentare sempre più ampia.
Nella stessa data, in una nota, la Conferenza episcopale di Haiti ha lanciato un chiaro appello per «mettere fine alla sofferenza del popolo, la cui volontà si è espressa su tutto il territorio, in particolare il 7 febbraio. Il sangue, le lacrime sono colate attraverso assassinii, rapimenti, stupri perpetrati nel corso degli ultimi tre anni. Ne abbiamo abbastanza! […]».
E rivolgendosi direttamente al primo ministro: «Testimoni della miseria e della sofferenza dei nostri concittadini nei diecidipartimenti del paese, noi vescovi della Ceh lanciamo un appello vigoroso al primo ministro, Ariel Henry, affinché si renda conto della gravità della situazione attuale e prenda una decisione saggia per il bene di tutta la nazione che è seriamente minacciata nelle sue stesse fondamenta». Una richiesta ad Henry di passare la mano.
Marco Bello
Da Gaza ad Haiti. Bambini nei conflitti
Più di 400 milioni di minori vivono oggi in aree di conflitto. Tra il 2005 e il 2022, secondo le Nazioni Unite, almeno 120mila bambini sono stati uccisi o mutilati.
In poco più di un mese, dal 7 ottobre al 15 novembre, il conflitto tra Israele e Hamas ha ucciso 4.642 bambini (di cui 33 israeliani e 4.609 nella striscia di Gaza) e ne ha feriti almeno 9mila.
I dati dell’Unicef su sei conflitti che oggi si consumano in diverse regioni del mondo.
Erano 56 i conflitti armati nel mondo nel 2022 secondo l’ultimo Sipri Yearbook 2023. Per la maggior parte guerre interne ai singoli paesi.
Dal 7 ottobre scorso un nuovo conflitto si è aggiunto alla lista, quello tra Israele e Hamas, assumendo da subito i contorni di una guerra tra le più sanguinose e spietate degli ultimi anni.
In occasione della giornata dedicata ai diritti dei minori, il 20 novembre, l’Unicef ha diffuso un breve report nel quale fa il punto sulla situazione dei bambini in sei paesi in conflitto: Palestina, Haiti, Siria, Sudan, Ucraina, Yemen.
Più di 400 milioni di minori vivono oggi in aree di conflitto. Tra il 2005 e il 2022, secondo le Nazioni Unite, almeno 120mila bambini sono stati uccisi o mutilati.
In poco più di un mese, dal 7 ottobre al 15 novembre, il conflitto tra Israele e Hamas ha ucciso 4.642 bambini (di cui 33 israeliani e 4.609 nella striscia di Gaza) e ne ha feriti almeno 9mila. Altri 1.500 bambini risultano dispersi nella striscia di Gaza, presumibilmente sotto le macerie, scrive l’Unicef. Sono 30 i bambini israeliani prigionieri.
Questo in un contesto di ferocia che vede nella Striscia più di 3 milioni di persone ridotte in stato di necessità (di cui 1 milioni di minori), 1,5 milioni di sfollati (dei quali i bambini sono la metà) che non hanno accesso all’acqua e a condizioni igieniche sicure.
A Gaza un ospedale su tre e due strutture sanitarie primarie su tre sono chiusi. «155.000 donne in stato di gravidanza e allattamento necessitano di assistenza sanitaria primaria – scrive ancora il brief dell’Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia – e 337.000 bambini sotto i 5 anni sono a rischio di malnutrizione acuta. […] Almeno il 55% della rete idrica è stata danneggiata. […] 275 edifici scolastici hanno subito danni […]. Si tratta di oltre il 56% di tutte le infrastrutture scolastiche».
Il brief dell’Unicef offre altri dati su altri conflitti: in Ucraina, dal 24 febbraio 2022 all’8 ottobre 2023 oltre 560 bambini sono stati uccisi e quasi 1.200 feriti, soprattutto a causa dei bombardamenti, in un contesto di guerra che vede oggi quasi 11 milioni di persone in fuga: 5,1 milioni di sfollati interni e 5,8 milioni di rifugiati in altri paesi.
In Siria, a causa di oltre 12 anni di conflitto e del terremoto di inizio febbraio 2023 che ha provocato 6mila morti e più di 12mila feriti, ci sono 15,3 milioni di persone che necessitano di assistenza (quasi il 70% della popolazione), «7 milioni di bambini, 2,6 milioni di persone con disabilità, 5,3 milioni di sfollati interni», scrive l’Unicef. «Oltre la metà degli sfollati si trova nella Siria nord occidentale. Il 90% delle famiglie vive in povertà e il 55% è in condizioni di insicurezza alimentare. […] Secondo i dati delle Nazioni Unite dall’inizio del conflitto, circa 13.000 bambini in Siria sono stati uccisi o feriti. […] oltre 609.900 bambini sotto i 5 anni, soffrono di malnutrizione cronica. […] Il numero di bambini tra i 6 e i 59 mesi che soffrono di malnutrizione acuta grave è aumentato del 48% fra il 2021 e il 2022».
In Yemen «tra marzo 2015 e novembre 2022, le Nazioni Unite hanno verificato che oltre 11.000 bambini sono stati uccisi o gravemente feriti. Oltre 4.000 bambini sono stati reclutati e utilizzati dalle parti in conflitto e si sono verificati oltre 900 attacchi e uso militare di strutture scolastiche e sanitarie». Oltre 2,3 milioni di bambini vivono in campi per sfollati interni nei quali hanno uno scarso accesso all’acqua, al cibo, ai servizi sanitari, all’istruzione; 2,2 milioni soffrono di malnutrizione acuta.
In Sudan, il conflitto esploso il 15 aprile 2023 ha provocato un numero elevatissimo di sfollati interni (arrivati a 7,1 milioni ad agosto, 4,4 milioni a ottobre) e 1,2 milioni di rifugiati in altri paesi. Tra questi, si stima che i bambini siano circa 3 milioni. «700.000 bambini colpiti da malnutrizione acuta grave rischiano di non ricevere le cure e hanno un rischio di morte 11 volte maggiore rispetto ai loro coetanei. 7,4 milioni di bambini non hanno accesso all’acqua potabile», scrive l’Unicef, e prosegue: «Sono ben 19 milioni i bambini sudanesi che non possono tornare nelle aule scolastiche, il che fa di questa situazione una delle peggiori crisi dell’istruzione al mondo».
Haiti è il sesto paese preso in considerazione dalla pubblicazione del Fondo della Nazioni Unite per l’infanzia (ne abbiamo parlato qui e qui). Nel paese caraibico «circa metà della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria, compresi quasi 3 milioni di bambini, vittime di una complessa storia di povertà, instabilità politica e rischi naturali». Circa 2 milioni di persone vivono in aree del paese che risultano controllate da gruppi armati. Da inizio 2023 al 30 settembre «sono stati registrati 5.599 casi di violenza legati a gruppi armati, tra cui 3.156 uccisioni». Molti bambini sono stati feriti o uccisi durante scontri a fuoco, altri sono stati reclutati nei gruppi armati.
Oggi sono circa 115mila i bambini che soffrono di malnutrizione acuta grave, il 30% in più rispetto al 2022.
Se i dati non offrono la comprensione dei motivi politici, economici, ideologici dei molti conflitti che insanguinano il mondo, né suggerimenti per la loro risoluzione, offrono però la possibilità di considerare la loro violenta assurdità.
Luca Lorusso
Haiti, a un passo dalla fine
«La situazione non è mai stata così grave. Siamo molto colpiti sul piano personale, famigliare e professionale», ci dice una nostra fonte giornalistica locale, contattata a Port-au-Prince.
Haiti vive una crisi senza precedenti, peggiore, sembra alle tante vissute nella sua storia.
Dal 7 luglio 2021, quando il presidente Jovenel Moise è stato assassinato, e un governo de facto, ovvero non leggitimo, presieduto da Ariel Henry, è stato insediato con l’avvallo di Usa, Canada e altri stati «amici», nel paese non ci sono più istituzioni repubblicane elette. Fanno eccezione dieci senatori non scaduti (la camera alta viene eletta nella misura di un terzo ogni due anni), mentre il presidente del senato, Joseph Lambért, è l’unica figura eletta attualmente in carica. Moise infatti, si era premurato di ritardare le elezioni amministrative locali e quelle parlamentari, portando a scadenza tutte le istituzioni nazionali.
Il paese è, di fatto, controllato da bande criminali (gang), che si dividono il territorio, sia in capitale Port-au-Prince, sia nelle altre città e nelle vie di comunicazione principali. Sono legate a ricche personalità politiche ed economiche e si finanziano anche con l’uso massiccio del rapimento a scopo di estorsione (abbiamo approfondito questa situazione su MC nei mesi di gennaio e marzo 2022, articoli reperibili sul sito).
Ultimo atto
Dal 12 settembre scorso, una potente gang, G9 an fanmi ak alye, controlla e blocca il terminale petrolifero di Varreux, nel porto della capitale, dove sono presenti gli stock di carburante (già successo nell’ottobre 2021). Benzina e gasolio sono diventati introvabili, e la super reperibile sul mercato nero ha raggiunto i 5.000 gourd al gallone (circa 9 dollari al litro). In questo modo il paese è bloccato. I mezzi di trasposto sono paralizzati, le scuole non hanno potuto riaprire, gli ospedali hanno iniziato a chiudere i reparti, gli uffici non funzionano (l’energia elettrica è prodotta con generatori a gasolio).
Il governo de facto, non ha fatto nulla per riportare la sicurezza nel paese, mentre ha annunciato il raddoppiato il costo dei carburanti a metà del mese scorso (sarebbe il secondo raddoppio dopo quello del dicembre 2021). Da allora, forti movimenti di protesta di strada sono cominciati, molto spesso degenerati in saccheggi e violenze.
In ultimo, dall’inizio del mese di ottobre, ha fatto la sua ricomparsa sull’isola il vibrione del colera, e i casi di malati e decessi si stanno moltiplicando, anche a causa della difficoltà, talvolta l’impossibilità, di fornire cure, a causa del blocco del paese.
Una nuova occupazione?
Così, in un consiglio dei ministri, il 6 ottobre scorso, il governo de facto ha autorizzato il primo ministro a «sollecitare e ottenere dai partner internazionali un supporto effettivo per il dispiegamento di una forza armata specializzata, per fermare su tutto il territorio la crisi umanitaria causata, tra l’altro, dall’insicurezza, risultato dell’azione delle bande armate […]».
Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha girato la richiesta di aiuto al Consiglio di sicurezza.
Una richiesta illegittima da parte di un governo de facto, per chiedere una nuova occupazione militare del paese. Un atto anticostituzionale, questo hanno denunciato i diversi settori della società civile e dell’opposizione politica.
Il gruppo nato da società civile e alcuni partiti di opposizione, il 30 agosto 2021, noto come l’accordo del Montana (firmato appunto in quella data), aveva tentato una negoziazione con il potere de facto, per una gestione più concordata e aderente alla Costituzione della crisi degenerata con l’assassinio del presidente Moise. A inizio 2022, però, ha gettato la spugna, vista la reticenza di Henry ad ascoltare altri settori della società, per raggiungere un consenso più ampio su un governo di transizione.
Si ricorda che le occupazioni militari di Haiti, Usa 1915-1934, Usa 1994 poi sostitutita da Nazioni Unite (fino al 1997), e ancora caschi blu dell’Onu dal 2004 al 2017, hanno portato enormi problemi, non hanno risolto quelli presenti e, di fatto, hanno contribuito a portare il paese alla situazione attuale aumentandone, nei decenni, la dipendenza dall’estero.
Tra il 12 e il 13 ottobre, una delegazione statunitense, guidata dal vice segretario di stato per gli affari dell’emisfero occidentale Brian A. Nichols, è stata ad Haiti dove ha incontrato separatamente il governo de facto, il gruppo di Montana, e alcuni settori imprenditoriali e sociali. Intanto, una delle maggiori navi guardacosta Usa, ha iniziato a incrociare al largo di Port-au-Prince.
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Sebbene gli haitiani abbiano mostrato nella storia una grande resilienza, la popolazione è oggi davvero allo stremo. La fame, la violenza, l’insicurezza, le malattie, stanno colpendo tutti. Il rischio, ben visibile, è quello di un’insurrezione popolare generalizzata. A breve.
Marco Bello
Haiti, la transizione può attendere
Dopo l’assassinio del presidente, alla guida del paese si è insediato un governo de facto. È sostenuto dalla comunità internazionale e dal maggiore Gruppo di potere. Lo fronteggia una larga coalizione alternativa. Ci sarà scontro o negoziato?
Scaduto il parlamento (ad eccezione di 10 senatori, un terzo del senato, che da soli non possono legiferare), scadute le autorità locali, assassinato il presidente della repubblica (il 7 luglio scorso), ad Haiti il vuoto istituzionale sembra toccare i massimi livelli.
Dopo la morte del presidente Jovenel Moise, una fazione del suo partito, il Phtk (Partito haitiano tèt kole), appoggiata dalle ambasciate occidentali (che insieme a Onu e Osa si riuniscono nel Core group), è riuscita a imporre il medico Ariel Henry come primo ministro de facto. Questi era stato designato dallo stesso Moise due giorni prima di morire. Henry ha poi trovato un accordo con alcuni partiti dell’opposizione, in quello che è passato sotto il nome di «accordo dell’11 settembre». Questa è l’alleanza attualmente al potere che si è data tre obiettivi principali: la riforma della Costituzione, la creazione di un nuovo Consiglio elettorale provvisorio (Cep) per realizzare elezioni generali, e la messa in sicurezza del paese, in preda alle bande armate.
L’accordo prevedeva un nuovo governo de facto, nel quale avrebbero potuto partecipare anche gli altri partiti firmatari. Esso è stato realizzato il 24 novembre scorso. De facto perché non può essere validato da un parlamento, e perché ha un primo ministro che governa da solo, non in collaborazione con il presidente della repubblica, come prevederebbe la Costituzione.
La voce dei movimenti
All’opposizione si trovano diversi schieramenti. L’accordo firmato il 30 agosto da diverse entità del mondo associativo, società civile e alcuni partiti politici (che si dichiarano a sinistra), noto come «accordo di Montana» (dal nome dell’hotel dove è stato siglato), è sicuramente quello più importante per numero e statura degli aderenti. Prevede una transizione più vicina alla Costituzione, con un esecutivo bicefalo. Non essendoci istituzioni repubblicane attive, i firmatari dell’accordo hanno previsto meccanismi consensuali per arrivare alla nomina di un presidente e un primo ministro. Hanno quindi formato il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), costituito da 40 membri tra i quali leader di organizzazioni contadine, femministe, socioprofessionali, e partiti politici.
Il Cnt, il 30 gennaio, ha eletto un presidente e un primo ministro di transizione, nelle figure di Fritz Jean e Steven Benoit, non riconosciuti dalle altre fazioni. «Il Cnt si contrappone allo schema di chi ha il potere in questo momento. La questione è vedere come andranno i rapporti di forza, per poter realizzare una negoziazione tra le due parti. Per ora hanno avuto solo qualche incontro interlocutorio», ci confida un osservatore haitiano.
Un’ulteriore novità è stata un’alleanza tra il gruppo del Montana e il Protocollo d’intesa nazionale (Protocole d’entante nationale, Pen), un gruppo di partiti politici appartenenti alla destra storica. Ne fa parte, ad esempio, l’ex senatore Yuri Latortue. Tale alleanza, o «consenso politico», suggellata l’11 gennaio scorso, ha suscitato anche qualche perplessità in diversi esponenti della sinistra e dei movimenti sociali.
L’alleanza Montana-Pen, per risolvere il problema presidenziale, propone una presidenza collegiale, composta da cinque membri, alla quale fare partecipare anche un esponente dell’attuale gruppo al potere. Ci sarebbe poi un primo ministro e un gabinetto ministeriale, e questi organi guiderebbero una transizione di due anni che porterebbe alle elezioni generali. «Difficile che il governo di Phtk accetti questo cosiddetto “consenso politico”, se i rapporti di forza si mantengono quelli attuali».
Chi tira i fili
«Il politico più influente del momento rimane l’ex presidente Michel Martelly, che punta a riconquistare la presidenza. Attualmente molti lo vedono dietro alle decisioni del governo di Henry, che di fatto lo rappresenta», continua il nostro interlocutore.
Da notare la spaccatura in seno al partito Phtk, causata proprio dall’assassinio del presidente, che pare essere stato un affare interno. In opposizione alla fazione Martelly-Henry, si trova la moglie di Moise, Martine, che ha mostrato ambizioni politiche, e con lei tutto il settore che appoggiava il presidente assassinato, come l’ex primo ministro e influente uomo d’affari, Laurent Lamothe.
Secondo un articolo del New York Times1 , che riporta un’intervista al businessman, ex trafficante di droga, Rodolphe Jaar, arrestato il 7 gennaio scorso in Repubblica Dominicana nell’ambito delle indagini sull’assassinio di Moise, il premier Henry era in costante contatto con alcuni dei principali indiziati del complotto, prima e dopo gli eventi. Secondo certi analisti, Martelly stesso potrebbe essere stato attivo nell’assassinio.
È però verosimile che le due fazioni, figlie dello stesso partito e della stessa cultura politica, all’ultimo momento, trovino un accordo per governare il paese.
Dove sta il popolo
«Quelli del Montana vorrebbero una “transizione di rottura”, che escluda i corrotti e gli attori del precedente potere, e coloro che hanno partecipato ai massacri di questi ultimi anni (ne sono stati compiuti diversi). Chiedono un processo partecipativo, che metta avanti le associazioni della società civile organizzata, e i partiti politici, in una dinamica democratica. Ma, per avere un peso nel negoziato, dovrebbero poter contare anche su una mobilitazione a livello popolare, cosa che non sembra tanto possibile per il momento, a causa del controllo da parte delle bande armate dei quartieri cittadini e delle principali vie di comunicazione. Gang che obbediscono ancora, almeno in parte, ad alcuni politici del campo opposto.
Il peso che possono giocarsi oggi è di tipo morale, le associazioni hanno una certa rappresentatività, sono circa un migliaio, sono conosciute. Se riuscissero a esprimere la loro forza con manifestazioni di piazza potrebbero portare le forze dominanti e la comunità internazionale ad ascoltarli, a pensare che occorre procedere in modo diverso».
Malgrado tutto, i «Montana» hanno un certo ascolto. Ad esempio, l’ambasciata statunitense e il dipartimento di stato li hanno già incontrati più volte per sapere cosa propongono.
«Penso che la comunità internazionale vorrebbe che il gruppo di Montana integrasse il governo attuale. Brian Nichols, sottosegretario Usa agli affari emisferici, durante un incontro ha chiesto loro di negoziare seriamente con Henry», chiosa il nostro osservatore.
Marco Bello
1 – �Haitian prime minister had close links with murder suspect, New York Times, 10/01/2022.
Nomi e numeri/ Le tappe dello scandalo PetroCaribe
Dove sono i soldi degli haitiani
Da un’ottima idea di Hugo Chávez, quella di aiutare i paesi del Sud con le risorse del Sud, nasce una vicenda di corruzione di proporzioni gigantesche. Essa ci spiega, almeno in parte, perché al popolo di Haiti venga negata la dignità.
Il presidente del Venezuela (1999-2013) Hugo Chávez voleva sviluppare accordi di cooperazione con i paesi limitrofi per aiutarne lo sviluppo. Da questa idea nacque l’accordo PetroCaribe, che permetteva ai paesi firmatari di beneficiare del petrolio venezuelano su una corsia preferenziale.
L’accordo fu firmato nel 2005 da 12 paesi dei Caraibi. All’epoca Chávez non volle firmare con il presidente ad interim di Haiti Boniface Alexandre, in quanto non era stato democraticamente eletto (si trattava di un presidente di transizione, che aveva sostituito Jean-Bertrand Aristide fuggito in esilio nel 2004).
Il giorno dopo l’insediamento di René Préval come presidente, nel maggio 2006, Chávez lo chiamò per proporgli l’accordo. L’ambasciatore Usa ad Haiti, però, fece pressioni affinché non accettasse, pur ammettendo in segreto (rivelano documenti Wikileaks) che l’operazione avrebbe portato un beneficio economico al paese. Dopo una serie di negoziazioni, l’accordo venne firmato nell’ottobre dello stesso anno, per diventare esecutivo a gennaio 2007.
Cosa prevede
L’accordo PetroCaribe prevede che il Venezuela fornisca petrolio ad Haiti a un costo pari al 30% di quello del mercato internazionale. Il restante 70% sarà restituito dallo stato haitiano dopo 25 anni, con un tasso di interesse dell’1%. Unico vincolo posto dal Venezuela: che i fondi derivanti dal 70% risparmiato sia impiegato dal governo in progetti di sviluppo, di infrastrutture e di investimento per il paese (strade, scuole, ospedali, ecc.).
Il meccanismo prevede che lo stato acquisisca il petrolio e lo venda alle società private presenti sul territorio, che lo utilizzano per produrre elettricità. In questo modo verrebbero ricavati i fondi spendibili per le opere a favore degli Haitiani.
Per rendere operativo l’accordo, il presidente Préval costituì il Bureau de monetisation de programmes d’aide au développement, Bmpad, (Ufficio di monetizzazione dei programmi di aiuto allo sviluppo) che sarebbe stato l’organo incaricato di gestire i fondi PetroCaribe.
Nell’arco del 2007 i fondi accumulati (il 70%) risultarono essere 197,5 milioni di dollari. A inizio settembre 2008 l’isola fu colpita da quattro forti uragani, che causarono centinaia di morti e distruzione, in particolare nella città di Gonaives. Préval, insieme alla primo ministro Michèle Pierre-Louis, decise di impegnare i fondi PetroCaribe per la ricostruzione.
Cattiva gestione?
I governi che si sono succeduti e hanno impegnato i fondi accumulati da PetroCaribe sono stati i seguenti.
René Préval con primo ministro Jean-Max Bellerive, tre decreti per un impegno totale di 450 milioni di dollari. Il presidente Michel Martelly, succesore di Préval (maggio 2011), con il primo ministro Gary Conille, firmò un decreto il 22 febbraio 2012 per lo sblocco di 220 milioni. Due giorni dopo il primo ministro si dimise. Sarebbe stato sostituito da Laurent Lamothe (imprenditore di una famiglia della ricca borghesia haitiana).
Martelly e Lamothe spesero altri 900 milioni, oltre ai 220 precedenti.
Il presidente Martelly, contestato dalla popolazione, cambiò primo ministro, nominando nel gennaio 2015 Evans Paul, uomo politico di lungo corso, già legato alla sinistra. Durante il periodo Martelly-Paul i fondi PetroCaribe impegnati furono 250 milioni di dollari.
Infine, le elezioni per il successore di Martelly non andarono a buon fine, e venne nominato un presidente di transizione, Jocelerme Privert, che sarebbe stato in carica un anno (da febbraio 2016).
Insieme al primo ministro Enex Jean-Charles, impegnarono 33 milioni del fondo PetroCaribe.
Ad eccezione della prima tranche utilizzate per Gonaives, gli altri fondi diedero origine a progetti «bidone», pagamenti non tracciati, realizzazioni inesistenti.
Altre perdite
Ci sono altri fondi che mancano all’appello. Come detto, il petrolio venezuelano veniva venduto a compagnie private che producono energia (Sogener, e-Power e altre). Queste vendono i chilowattora alla compagnia di stato Eléctricité d’Haiti (EdH). L’EdH, però non pagava i fornitori, per cui questi, a loro volta, non pagavano il petrolio fornito da Bmpad. Questo produsse una perdita secca nell’intero periodo (2008-2016) di altri 600 milioni di dollari.
Infine, sul 30% da pagare subito alla fornitura al Venezuela, il paese di Chávez concesse una moratoria di due anni perché Haiti aveva forti problemi socio economici e di liquidità. Risultò che, di questa parte, solo l’85% venne pagato, mentre il 15% ancora rimane senza tracciamento: circa 200 milioni di dollari statunitensi.
Facendo i conti, dei fondi non tracciabili o spesi in modo dubbio, si raggiunge il valore minimo di 2,653 miliardi di dollari, per il periodo 2008-2016.
Va notato che questa cifra ha lo stesso ordine di grandezza del bilancio annuale del paese caraibico (intorno a 4 miliardi).
La Corte superiore dei conti e dei contenziosi amministrativi (Cscca) di Haiti ha realizzato tre audit finanziari sull’utilizzo dei fondi PetroCaribe che hanno dato origine a tre rapporti: gennaio 2019, maggio 2019 e l’ultimo1, completo, agosto 2020, dai quali sono dedotte le cifre sopra citate. La Corte ha messo in evidenza come «i progetti di investimento e i contratti relativi ai fondi PetroCaribe non sono stati gestiti secondo i principi di efficienza ed economia». La Corte ha lamentato, inoltre, la cattiva cooperazione dei funzionari statali e la mancanza di giustificativi per milioni di dollari.
Il popolo chiede conto
Ancora prima della pubblicazione del primo rapporto, nell’agosto 2018, una mobilitazione aveva preso piede sui social media, sotto l’hastag #PetrocaribeChallenge. La popolazione chiedeva alla classe politica di rendere conto su questi fondi2.
Per assurdo (o cecità di chi governava), il 7 luglio l’esecutivo, spinto dal Fondo monetario internazionale, aveva previsto l’aumento del 50% del prezzo del carburante alla pompa. È stata la scintilla che ha scatenato due giorni di proteste e guerriglia urbana a Port-au-Prince.
Il primo rapporto della Cscca metteva in causa il presidente Jovenel Moise, all’epoca non ancora in carica, per essere al centro dello schema di appropriazione indebita dei fondi, attraverso alcune sue imprese (tra cui Agritrans). La contestazione popolare è divampata in piazza in modo massivo nel febbraio 2019, mettendo a rischio lo stesso presidente3. Tali disordini hanno portato al cosiddetto «payi lok» (paese bloccato, in creolo) negli ultimi mesi di quell’anno, durante i quali la popolazione ha fermato tutte le attività in molte città.
Il fenomeno è andato scemando a inizio 2020 per diversi motivi, dall’arrivo del Covid-19 all’intervento delle gang che impedivano alla gente nei quartieri di uscire di casa e andare a manifestare.
Resta un rapporto di oltre 1.000 pagine, un lavoro esemplare dei giudici della Corte superiore dei conti, che aspetta in un cassetto che i responsabili della gestione, politici al potere e alti funzionari, siano convocati in tribunale per rendere conto.
Marco Bello
�Audit spécifique de gestion du fonds PetroCaribe. Cour supérieure des comptes et du contentieux administratif. Rapport 3, 12/08/2020.
�#PetrocaribeChallenge, la campagne qui mobilise les haitiens contre la corruption, France24, 15/02/2020.
�PetroCaribe scandal: Haiti court accuses officials of mismanaging $2 bln in aid, France24, 18/08/2020.
Testimoni/ L’ultima intervista a padre Jean-Yves Urfié
«Bisogna che lascino in pace Haiti»
«Finché [il governo di] Haiti è agli ordini di Washington, la situazione non può migliorare. È un sistema di sfruttamento allo stato puro».
Ho conosciuto Jean-Yves Urfié nel 1995, a Port-au-Prince. Mi avevano parlato di lui, fondatore e direttore dell’unico settimanale in lingua creola (la lingua ufficiale) del paese, Libète. Sacerdote della congregazione dello Spirito Santo, da sempre si occupava di comunicazioni sociali. Mi aveva accordato un’intervista. In seguito ho avuto la fortuna di lavorare con lui al suo giornale.
Arrivato nel 1964 ad Haiti, ne era poi stato espulso da François Duvalier nel 1969. Aveva continuato a lavorare con la diaspora haitiana, prima a Brooklyn, New York, e poi in Guyana francese. Per poi tornare nel paese dei Caraibi a cui avrebbe dedicato la vita.
Nel gennaio dell’anno scorso, gli ho fatto l’ultima intervista sulla situazione del paese. Questa volta per telefono, perché da qualche anno viveva in Francia. Neanche tre settimane dopo, il 9 febbraio 2021, il Covid se l’è portato via all’età di 83 anni. Jean-Yves stava ultimando il suo libro di memorie, una vita che racconta anche la storia di Haiti di oltre mezzo secolo.
Riascoltando l’intervista, trovo una grande lucidità e visione. Ne riporto qui alcuni stralci che aiutano a comprendere l’attuale situazione haitiana.
La presidenza di Jovenel Moise non rischia di trasformarsi in una dittatura?
«È già una dittatura perché il presidente governa per decreto. […] L’opposizione ha cominciato a manifestare contro questo. […]
È soprattutto l’opposizione politica, ma incominciano ad aggiungersi dei movimenti nella società civile perché si rendono conto che alcuni decreti del presidente, sono contro la libertà.
Ad esempio ha creato un’agenzia di servizi segreti i cui membri possono essere armati, e andare dalle persone senza mandato e rendono conto solo al presidente. Una modalità che assomiglia molto ai Macoute del passato. Anche i diplomatici stranieri hanno detto a Moise che è un decreto pericoloso.
I diplomatici stranieri sono, però, molto ipocriti, perché informalmente criticano un decreto, ma non fanno nulla affinché non sia pubblicato.
O meglio, quando vogliono intervenire, lo fanno. Quando non vogliono, dicono che rispettano l’indipendenza del paese. Soprattutto gli Stati Uniti e il cosiddetto Core group».
Ma cosa sta succedendo al movimento popolare?
«Il movimento popolare era più forte nel 2019: avevano bloccato il paese per diverse settimane (si riferisce al payi lok per protestare contro lo scandalo PetroCaribe, vedi box pag. 13, ndr). Ma il problema è che, nell’opposizione stessa, ci sono persone molto simili a Moise, quindi il popolo non ha fiducia in tutti i suoi leader. Inoltre, non riescono a mettersi d’accordo. Per essere efficace, occorre che il movimento sia generale, ma oggi i vari gruppi lottano gli uni contro gli altri. Ci sono quelli che sono più radicali e altri meno, quelli favorevoli al dialogo e altri no. Tra i radicali c’è gente come Yuri Latortue, che faceva parte degli squadroni della morte durante il colpo di stato (parla del golpe di Raoul Cédras, 1991-1994, ndr). È diventato molto ricco grazie a traffici strani. La gente non si fida».
Cosa ne pensi del fatto che sia stato ripristinato l’esercito?
«Questo è un altro pericolo, perché l’esercito è sempre stato contro il popolo, almeno dall’occupazione americana (gli Usa hanno occupato militarmente Haiti dal 1915 al 1934, ndr). Sono loro che hanno riformato le Forze armate d’Haiti durante l’occupazione e questo esercito lavora sempre per gli interessi americani. Nella Costituzione l’esercito esiste, ma aveva una reputazione talmente cattiva che, dopo colpo di stato (di Cédras, ndr), al suo ritorno, Aristide l’aveva eliminato (1994). Da allora tutto il settore macoute (la destra duvalierista, ndr) cerca di rimetterlo in piedi».
Il fenomeno delle gang armate esiste da decenni, ma adesso sembra fuori controllo. Perché?
«Ci sono gang dappertutto, e sono al servizio dei politici. Hanno un grosso arsenale: si parla di 500mila armi leggere che sono entrate nel paese. Latortue e altri politici le ordinano e le fanno arrivare nei porti. E si assiste a una moltiplicazione.
È molto difficile disarmare questi gruppi. È come in Repubblica Centrafricana e altri paesi africani, dove i miliziani non rimettono le armi, neppure con i programmi di demilitarizzazione.
Inoltre tra di loro ci sono poliziotti. A volte si apprende che poliziotti sono arrestati, perché erano coinvolti nei rapimenti. Rapiscono anche gente del popolo. Il loro modo di sopravvivere è utilizzare le armi per fare soldi. Il mezzo più rapido è il rapimento. Chiedono delle somme enormi: uno o due milioni di dollari. Quando non sono pagati, i rapiti vengono uccisi».
Quali speranze ci sono affinché migliori la situazione sociale ad Haiti?
«Il fondo del problema è un cambiamento di sistema. Non puoi migliorare la situazione ad Haiti cambiando un solo uomo. Fintanto che il sistema resta com’è, ovvero che Haiti è agli ordini di Washingon, non può funzionare. Siamo in pieno sistema capitalista selvaggio: nelle fabbriche le operaie prendono 5 dollari al giorno, un modello di sfruttamento che non può continuare. Questa è la base di tutto. Moise non fa che perpetuare un sistema di disuguaglianze. Finché sarà così, ci saranno le bidonville dove le persone languiscono, bevono acqua sporca, non hanno alcun confort, vivono sotto un tetto di lamiera con 40 gradi all’interno. Sono gli Stati Uniti che hanno le fabbriche al Parc industriel. L’interesse degli Usa per Haiti sono i bassi salari. Una seconda preoccupazione degli americani sono i boat people (migranti sui barconi, ndr) che hanno ripreso a partire. È come un termometro: quando le cose vanno veramente male, i boat people partono.
Gli americani non vogliono i profughi ma vogliono tenere i salari bassi. È un sistema di sfruttamento allo stato puro: “Non siete contenti ma restate a casa vostra, non vi vogliamo da noi, ma voi lavorate per noi”».
Con il presidente Joe Biden le cose potrebbero cambiare?
«Non cambia con i presidenti Usa. Abbiamo avuto Obama e Carter, adesso abbiamo Biden. Anche se non è cattivo come Trump, però rappresenta un sistema pieno di disuguaglianze, che fa la fortuna di Wall Street, il vero simbolo di tutto questo».
Marco Bello
Nota
Jean-Yves Urfié ebbe un ruolo importante nella resistenza al colpo di stato di Raoul Cédras (1991-1994), organizzato dalla Cia (Usa). In quel periodo pubblicò un romanzo contro la dittatura, uscito con lo pseudonimo Paul Anvers, che, se letto in creolo, suona come «pelle all’inverso», in quanto si riteneva haitiano bianco, quindi con la pelle rivoltata. Paul Anvers, Rizierès de sang, L’Harmattan, Paris, 1992. Ancora disponibile in formato elettronico sul sito dell’editore.
I vescovi di Haiti, il 3 febbraio scorso, hanno fatto un appello pubblico «affinché i protagonisti trovino un consenso il più largo possibile per uscire dalla crisi in modo definitivo, perché è necessario un compromesso storico».
L’ora che viviamo è estremamente grave e particolarmente decisiva, in questo momento irreversibile della nostra storia. Quello che è in gioco è il nostro presente e il nostro avvenire, e dunque la nostra esistenza stessa come popolo, come nazione e come stato. È quindi necessario prendere delle decisioni coraggiose.
Sì, la nostra cara Haiti non ne può davvero più. È stanca, estenuata, sfinita. Ne ha abbastanza di vivere in condizioni totalmente alienanti, umilianti, inumane e disumanizzanti.
È il momento è per l’unità, l’unione che fa la forza, la messa in comune delle nostre idee e dei nostri sforzi. L’ora del consenso nazionale e patriottico per fare uscire definitivamente il nostro paese dalla crisi profonda che perdura da troppo tempo, e che minaccia seriamente la sua stessa esistenza.
È tempo di uscire dalla nostra indifferenza, dal nostro torpore, le nostre paure reciproche. È tempo di raccoglierci in un sussulto morale, patriottico e di cittadinanza, prima che sia troppo tardi.
Di fronte alla situazione drammatica nella quale è precipitato il nostro caro paese, noi, i vescovi cattolici di Haiti, rivolgiamo una volta di più, un appello urgente a tutti i protagonisti che sono sulla scena sociopolitica, affinché trovino insieme un consenso più ampio possibile, che possa condurre all’uscita definitiva dalla crisi, in vista della riconquista della nostra sovranità e di un risollevamento di Haiti.
Noi esortiamo a lavorare insieme, in sinergia, in vista di costruire un avvenire solido e radioso per Haiti, le sue figlie e si suoi figli.
Haitiane e haitiani, noi dobbiamo coniugare tutte le nostre forze, le nostre energie, le nostre intelligenze, nostre risorse e lavorare insieme affinché il 7 febbraio sia un giorno di dialogo, di consenso, e di compromesso storico per l’unità del nostro popolo, la salvaguardia e la trasformazione del nostro paese che si trova sul bordo dell’abisso.
Haitiane e haitiani, mettiamo il bene supremo della Nazione al di sopra di ogni altro interesse personale, per evitare che il nostro paese precipiti nel caos più totale.
Facciamo appello alla coscienza e al senso di responsabilità dei nostri dirigenti, al fine che essi mettano tutto in opera per l’ordine, la pace, la sicurezza e il rispetto delle vite e dei beni sia ristabilito e consolidato. Così prevarranno infine nel nostro paese il diritto e la giustizia.
Ai gruppi armati e ai rapitori che seminano, in totale impunità, la violenza, la paura, il lutto, la desolazione, e la disperazione nelle famiglie haitiane, noi chiediamo di deporre le armi, di rinunciare alla violenza, al rapimento e di smettere di fare colare il sangue delle loro sorelle e fratelli.
Firmato da tutti i vescovi haitiani (liberamente tradotto dal francese)
Haiti: Una vita in lockdown
Il paese dei Caraibi, nel Settecento la colonia più ricca al mondo, e seconda nazione indipendente delle Americhe, oggi vive una situazione di «stato fallito». Non è una questione di sfortuna. Le cause storiche e geopolitiche sono precise e definite.
È la notte tra il 6 e il 7 luglio 2021. Un commando di una trentina di uomini vestiti di nero si introduce nella residenza del presidente della Repubblica di Haiti, Jovenel Moise, senza sparare un colpo. Giunti in camera da letto, scaricano raffiche di mitragliatore sul presidente, poi infieriscono brutalmente sul suo cadavere. La moglie Martine resta ferita e, evacuata a Miami, si salverà. Le macabre immagini del corpo martoriato fanno il giro dei social, a bella mostra di quanto è successo.
Chi era Jovenel Moise
Moise era espressione della classe borghese del paese, in particolare dei neo arricchiti, non delle famiglie dell’oligarchia storica. Lui aveva fatto i soldi con l’agro business, l’export delle banane, e per questo era chiamato Nèg banann, in creolo, l’uomo delle banane. Era succeduto al presidente Michel Martelly (2011-2016), come suo candidato designato, del suo stesso partito, il Partito haitiano tèt kale (Phtk), di estrema destra, filo duvalierista. Aveva inizialmente perso le elezioni contestate (ottobre 2015) e, dopo un anno di transizione, con il presidente a interim Jocelerme Privert, era stato eletto nel novembre 2016 entrando in carica il 7 febbraio 2017 (cfr. MC aprile 2017).
Moise, in contrasto con la Costituzione, aveva poi evitato di organizzare le elezioni alle scadenze fissate, sia per gli eletti locali, che per il parlamento, il cui mandato si era concluso nel gennaio 2020.
Da allora legiferava per decreto, intervenendo anche su aspetti molto delicati delle istituzioni haitiane. Stava inoltre preparando una riforma costituzionale – percorrendo però una procedura anticostituzionale – che avrebbe aumentato ulteriormente i poteri del presidente.
La popolazione lo aveva duramente contestato già nel 2018 e poi di nuovo, con manifestazioni che avevano bloccato il paese, dall’autunno 2019.
C’era pure una diatriba sulla scadenza del suo mandato, che sarebbe stata il 7 febbraio 2021, ma che lui aveva portato al 2022, giocando su un’ambiguità costituzionale (cfr. MC marzo 2021).
Il dopo Moise
All’indomani dell’efferato assassinio, che sciocca il paese, si innesca una contesa a tre per la gestione della transizione. I protagonisti sono: Claude Joseph, primo ministro in carica, ma sfiduciato dallo stesso Moise che due giorni prima di essere ucciso aveva designato una nuova figura, il dottor Ariel Henry, a succedergli. Il secondo è Henry stesso, che rivendica la nomina. Infine il terzo è Joseph Lambert, presidente di un terzo del senato (composto da dieci senatori, un terzo del totale, non scaduti, perché la Costituzione ne prevede il rinnovo di un terzo ogni due anni), le uniche cariche elette rimaste nel paese.
La Costituzione del 1987, emendata, prevederebbe (art. 149) che, in caso di vacanza improvvisa del capo di stato, sia il presidente della Corte di Cassazione a prendere la guida del paese, ma il giudice René Sylvestre è morto un mese prima dell’omicidio, a causa delle complicanze del Covid-19.
Come spesso è accaduto nella storia di Haiti, è un intervento esterno che prevale su tutti. Il cosiddetto Core Group (coordinamento delle ambasciate di Germania, Francia, Stati Uniti, Canada, Spagna, Unione europea, e rappresentanti di Organizzazione degli stati americani, e Nazioni Unite), i paesi «amici» di Haiti, appoggia apertamente Ariel Henry, che diventa dunque premier de facto di un governo de facto. Esso infatti non potrà essere validato da un parlamento, che non esiste, e non potrà gestire il potere esecutivo insieme a un presidente della Repubblica che non c’è. Un «deserto istituzionale» senza precedenti.
Un popolo in ostaggio
La morte violenta del presidente fa precipitare la già precaria situazione di sicurezza del paese. Se le gang (bande armate di malviventi, in creolo) sono sempre esistite, e negli ultimi anni erano diventate più forti, adesso si dividono il controllo di gran parte del territorio, nella capitale come nelle principali vie di comunicazione.
La gang di Jimmy Chérisier, detto Barbecue, che si fa chiamare G9 an fanmi ak alye (Gruppo 9 in famiglia e alleati), nei mesi di ottobre e novembre 2021 arriva a impedire la fuoriuscita delle autobotti dal terminale petrolifero di Varreux (gli autisti sono uccisi o rapiti), bloccando di fatto il funzionamento del paese per mancanza di carburante. I prezzi dei trasporti e di tutti i generi alimentari, anche di base, si impennano e molti servizi, inclusi ospedali e banche, devono chiudere. Gran parte dell’energia elettrica ad Haiti è infatti prodotta da centrali termiche e da gruppi elettrogeni privati.
Barbecue, vicino al presidente assassinato Moise, chiede le dimissioni di Ariel Henry. Poi, quasi fosse il capo di stato, pubblica un video in cui dichiara una tregua di una settimana, in onore della battaglia di Vertières (18 novembre 1803: la vittoria dell’esercito «indigeno» contro l’armata napoleonica, porta all’indipendenza), lasciando uscire i camion dal deposito. Nello stesso video dice di essere a capo di un gruppo rivoluzionario, denuncia la fame del popolo e dunque chiama i suoi seguaci a prendere le armi perché «la rivoluzione sta per cominciare».
Nella festa di commemorazione della morte di Jean-Jaques Dessalines, padre della patria, il 17 ottobre, la stessa gang impedisce al primo ministro de facto, al capo della polizia Léon Charles (che si dimetterà a fine ottobre), e al loro seguito, di svolgere la cerimonia di suffragio. I suoi uomini attaccano la scorta che batte in ritirata, e in seguito Chérisier in persona, a volto scoperto e in giacca bianca, deposita una corona di fiori alla base della stele che ricorda l’assassinio di Dessaline a Pont Rouge (Port-au-Prince).
Rapimenti
Un’altra gang famosa, la 400 Mawozo, controlla l’uscita Nord della capitale e la strada principale verso la frontiera con la Repubblica Dominicana. È nota per alcuni rapimenti di massa. Il 16 ottobre compie un salto di qualità, sequestrando 17 stranieri (16 statunitensi e un canadese), missionari protestanti legati all’organizzazione Usa Christian aid ministries. Il rapimento di stranieri, che finora non è una pratica frequente, è la punta dell’iceberg di un fenomeno che si è esteso a tutti i livelli sociali. Chiunque può essere rapito, e i riscatti richiesti variano da decine di migliaia di dollari a milioni. Spesso, se il riscatto non è pagato, il malcapitato viene ucciso.
«I rapimenti sono una media di quattro, sei al giorno, mentre abbiamo contato una media di cinque omicidi al giorno nei primi sette mesi del 2021», ci dice Antonal Mortimé, segretario generale di Defenseur plus, associazione per la difesa dei diritti umani ad Haiti.
«La situazione è molto peggiorata dopo l’assassinio del presidente Moise, e la gente vive un clima di terrore quotidiano. Possiamo dire che il diritto alla vita è negato, in questo momento, nel paese».
Mortimé, contattato telefonicamente, ci descrive la mappa delle gang che controllano la capitale Port-au-Prince, a Nord, Nord-Est, Sud e al centro: «Siamo circondati, siamo presi in ostaggio in modo collettivo. Abbiamo paura di portare i bambini a scuola, di andare all’Università, o al lavoro. Poi ci sono tante micro gang, in guerra tra di loro».
E continua: «Ariel Henry non ha saputo ristabilire l’autorità dello stato, la sicurezza, la fiducia dei cittadini».
Un popolo sotto controllo
«Non è un fenomeno di oggi, i gruppi armati erano presenti già 30 anni fa», ci ripete una fonte autorevole haitiana, che chiede l’anonimato, perché «qui ti ammazzano per molto poco». «Le gang sono organizzazioni paramilitari, come erano i Macoute al tempo dei Duvalier, create per controllare la popolazione. Sono i grandi proprietari terrieri e i grandi padroni dell’import-export che, in accordo con il potere fascista (del partito Phtk, nda), hanno messo in piedi e controllano le gang. Fanno parte dell’azione repressiva del Phtk».
Alcuni osservatori sostengono che questi gruppi armati stiano andando fuori dal controllo di chi li ha creati e finanziati. Il nostro interlocutore non è d’accordo: «Le gang si scontrano con la polizia, ma questa è una contraddizione secondaria. Ci sono battaglie tra gang per il controllo del territorio, dei traffici di droga, ma anche questo è secondario rispetto alla repressione perpetrata ai danni della popolazione. Ci sono gang che tentano di diventare autonome, ma non ci riusciranno. L’imperialismo (intende il controllo esercitato da parte dei paesi vicini, gli Usa in primis, nda), che ha l’ultima parola, non lo permetterà, come è già successo tante volte in America Latina».
E continua spiegando l’approccio comunicativo delle gang: «A volte i loro leader dicono che lottano per la popolazione, come Chérisier, che va in video e accusa i borghesi, e dice di volere le dimissioni del primo ministro Ariel Henry. Ma è l’esatto contrario. Se davvero volessero, potrebbero andare a prenderlo quando vogliono, perché sono più forti della polizia».
In effetti le forze di sicurezza, sebbene siano state formate per decenni dalle Nazioni Unite (missione dei caschi blu Minustah dal 2004 al 2017, preceduta dalla Minuha 1993-96, e oggi sostituita dalla più leggera Binuh, Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti), sono incapaci di opporsi alle bande, e spesso i poliziotti vengono ammazzati. Anche le neonate Forze armate d’Haiti, sciolte dal presidente Jean-Bertrand Aristide nel 1994, e ricostituite da Jovenel Moise nel 2017, non hanno mezzi né risorse.
La piramide del potere
«Ad Haiti – continua il nostro interlocutore – esiste una borghesia industriale, ma è dominata dalla borghesia del commercio (o dell’import-export) che è molto forte e blocca lo sviluppo industriale.
Questa classe dominante non ha però la forza di eliminare il sistema precapitalistico, ovvero quello dei latifondisti, in quanto ha bisogno di loro, sia per la produzione di alimenti da esportazione (caffè, zucchero, banane…) sia per reprimere le rivendicazioni popolari dei piccoli contadini.
D’altro lato l’influenza imperialista, soprattutto statunitense, ma anche canadese, francese, che si appoggia su questa classe dominante, ha dei chiari progetti per il paese».
Si riferisce a quattro settori strategici principali: le zone franche con le manifatture del tessile (aree industriali libere da tasse, delle quali abbiamo parlato in MC gen-feb 2014 e maggio 2016); l’agro industria; le ricchezze del sottosuolo e il turismo di alta gamma.
Manifattura tessile
Le zone franche del tessile fanno parte di una strategia delle multinazionali su Haiti da decenni. Sono state ulteriormente spinte dalla famiglia Clinton (Bill e Hillary) come strategia di ricostruzione dopo il terremoto del 2010. Nel giugno di quell’anno Bill Clinton divenne co-presidente, insieme al primo ministro Jean-Max Bellerive, della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti. Ma di fatto comandava lui. La grande zona franca industriale di Caracol, nel Nord del paese, ad esempio, ha visto un grosso coinvolgimento di Hillary. Inaugurata nell’ottobre del 2012, è gestita da manager e capitali sudcoreani (per Clinton-Haiti si veda MC gen-feb 2014). Altre aree sono quella di Ouanaminthe (Codevi), al confine Nord con la Repubblica Dominicana, comoda per portare i manufatti direttamente oltre frontiera, e alcune più recenti a Santo (Croix-de-Bouquet, Nord della capitale), la Apaid & Baker Sa, e Carrefour (a Sud), la Palm Apparel, oltre a quella storica nei pressi dell’aeroporto di Port-au-Prince, la Sonapi. In tutte queste zone industriali, libere da tasse, vengono assemblati vestiti per i grandi brand statunitensi e non solo. Si tratta di un grande serbatoio di manodopera a bassissimo costo, a due passi dagli Stati Uniti.
Il punto cruciale, più in generale, sta nel costo del lavoro. Il salario minimo dignitoso è una lotta affrontata a più riprese dai sindacati haitiani, in particolare nel tessile, ma non solo.
Un sindacalista ci racconta: «Oggi il salario minimo è di 500 gourde al giorno, che al tasso di cambio attuale equivale a 5 dollari. Nel 2009 era di 70 gourde (1,75 dollari con il cambio dell’epoca), ma noi ne chiedevamo 250 (6,25 Usd). Uno studio di economisti haitiani e statunitensi indipendenti, aveva calcolato che per far vivere una famiglia di quattro persone, undici anni fa occorrevano 1.100 gourde al giorno (27,50 usd). Ce ne concessero 125 (poco più di 3). Oggi l’operaio del tessile salta sistematicamente il pranzo, bevendo un goccio di kléren (distillato grezzo di canna da zucchero, dal costo irrisorio, nda) per resistere al pomeriggio. Altrimenti non porterebbe a casa nulla. Inoltre, sono quasi tre anni che il salario minimo non è stato rivisto, mentre la svalutazione della moneta nazionale è stata elevata».
Agro industria
La borghesia agro industriale è un gruppo socioeconomico che sta emergendo. Ne era espressione lo stesso Jovenel Moise. Un caso esemplificativo è l’area di Savane Diane, dove l’imprenditore Clifford Apaid (di una delle famiglie più ricche di Haiti) sta impiantando la sua compagnia Stevia agro industries (Stevia Sa), per un investimento stimato di 250 milioni di dollari (1). Su circa 8mila ettari, a cavallo di tre dipartimenti, la cosiddetta Export processing zone, produrrà manioca, zucchero di canna, avocado e stevia. La stevia (s. rebaudiana) è un dolcificante ipocalorico naturale molto utilizzato nei paesi ricchi in sostituzione dello zucchero, ad esempio è usato dalla Coca-Cola per le bibite in versione light. L’area, chiamata «Zone franche agro industrielle d’exportation de Savane Diane», è stata creata grazie a un decreto presidenziale (di Moise) dell’8 febbraio 2021, che la definisce una «zona franca» ovvero «tax free zone», o zona senza tasse. Il decreto ha reso operativo un accordo firmato tra il Consiglio nazionale delle zone franche (Cnzf), rappresentante lo stato haitiano, e Nina Apaid, presidente della Stevia Sa, nell’ottobre 2019. L’operazione prevede l’esproprio di terre ai piccoli contadini e il loro impiego come braccianti (a salario minimo).
Nel decreto salta all’occhio la frase: «Considerando l’impegno delle autorità pubbliche di prendere tutte le misure necessarie per promuovere lo sviluppo socio economico del paese, in particolare attraverso la realizzazione di zone franche».
Il sottosuolo
Una risorsa non ancora sfruttata, ma presente nel paese, è quella mineraria. Secondo diverse prospezioni, fatte in Haiti e in Repubblica Dominicana (Rd), è presente una ricca vena che taglia l’isola di Hispaniola da Nord Ovest al centro, passando per Santiago (Rd). Sono stimate buone quantità di oro, argento e rame.
Alcune multinazionali che sfruttano già il sottosuolo in Rd, hanno fatto prospezioni ad Haiti, stanno firmando accordi di sfruttamento e stanno procedendo all’installazione di siti estrattivi (2). Naturalmente questo sta causando l’esproprio di terre ai piccoli contadini, i quali hanno dato vita al Komite jistis min (in creolo: Comitato giustizia miniere), per opporsi allo sfruttamento indiscriminato delle imprese minerarie internazionali. Attualmente si tratta di zone nel Nord Est del paese, come Grand Bois e Morne Bossa.
L’ultima frontiera
L’ultimo ambito dello sfruttamento del paese da parte di compagnie internazionali, in joint-venture con l’oligarchia locale, è quella del turismo di alta gamma. Ne avevamo parlato in MC (gen-feb 2014) quando ci eravamo chiesti perché parte dei soldi per la ricostruzione post terremoto 2010 erano stati impiegati per costruire grandi hotel di lusso. Oggi il processo continua: «Ci sono compagnie straniere in diverse zone di interesse turistico. Parlo delle isole Tortue (Nord), Gonave, e poi Mole St. Nicolas e di altre spiagge notevoli. Stanno facendo gli studi per impiantare dei resort. E per far questo manderanno via i contadini e assumeranno personale pagandolo con il salario minimo. Un’ulteriore proletarizzazione del produttore agricolo haitiano», rincara il nostro interlocutore.
«Il grosso problema in tutto questo, è che l’opposizione liberale, oltre ovviamente la destra al potere, non mettono in discussione questi mega progetti né il salario minimo». La mano d’opera a bassissimo costo, oltre che la svalutazione continua della moneta nazionale, è infatti il propulsore dello sfruttamento delle risorse naturali e umane di Haiti.
Perché uccidere il presidente
Torniamo da dove siamo partiti. Perché il presidente Jovenel Moise è stato ucciso e perché con modalità tanto efferate?
Le analisi concordano su un regolamento di conti interno alla classe politica dominante, allo stesso partito Phtk di Michel Martelly e Jovenel Moise.
Un attivista haitiano nel settore dei diritti umani, da noi contattato, che ci ha chiesto pure lui l’anonimato, si esprime così: «Si tratta di un vasto complotto, ben pianificato, che vede coinvolta la mafia haitiana e quella internazionale, insieme a quella che chiamiamo borghesia conservatrice e classe politica tradizionale haitiana. Moise ha sfidato quelli che chiamiamo gli oligarchi, le grandi famiglie più ricche di Haiti, anche se per accedere al potere ha avuto il loro supporto. Ha tentato di sfidarli, riducendo il loro margine di manovra, togliendo certi privilegi, aumentando alcune imposte. Tutto ciò ha prodotto una reazione fino al complotto. Sono passati attraverso la stessa Guardia presidenziale, i cui membri sono stati pagati affinché consegnassero il presidente. Si tratta di un crimine internazionale, costato milioni di dollari, che ha mobilitato decine di persone e materiale militare sofisticato».
In effetti, pure il vilipendio del cadavere, e la sua esposizione sui social media, pare un messaggio chiaro, mandato a chi vuole fare politica ad Haiti: se ci sfidate, ecco cosa può succedervi.
Attualmente, l’inchiesta in corso è condotta dal giudice istrutture Garry Orélien, che ha sostituito ad agosto Mathieu Chanlatte, dimissionario. Una trentina di accusati sono agli arresti, tra i quali ex militari colombiani e tre haitiani-americani. Tra loro lo sconosciuto Christian Emmanuel Sanon, indicato come leader dell’attentato, colui che avrebbe voluto prendere il potere. Molto probabilmente l’uomo di paglia degli ideatori del complotto.
Avvisi a comparire davanti al giudice sono stati emanati ai miliardari uomini d’affari haitiani Réginald Boulos, Jean-Marie Vorbe e Dimitri Vorbe, e agli ex senatori Steven Benoit e Yuri Latortue, come riporta The Strategist, dell’Australian strategic policy institute, un think thank australiano di studi strategici(3).
L’arrestato più illustre è Samir Handal, fermato il 15 novembre scorso all’aeroporto di Istanbul. Haitiano di origine palestinese (e residente a Miami), fermato grazie a un mandato d’arresto dell’Interpol, fa parte dell’oligarchia haitiana. Si stava recando in Giordania, provenendo da Miami. Dovrà essere estradato ad Haiti.
Il giudice Orélien ha ricevuto numerose intimidazioni: il suo ufficio è stato forzato da ladri nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, la sua auto presa a fucilate lo stesso giorno, e uomini armati hanno cercato di fare irruzione, sempre nel suo studio, a inizio novembre.
Chi governa adesso?
Intanto la dinamica politica vede opporsi il governo de facto di Ariel Henry (che è stato ancora rimaneggiato il 24 novembre scorso, con il cambio di 8 ministri su 18) appoggiato da Core group e Binuh, e l’opposizione democratica, firmatari del cosiddetto accordo del 30 agosto, che chiede un processo di transizione differente. Si cerca una «riconciliazione nazionale» sul piano politico.
Gli obiettivi del nuovo governo de facto, dice Henry il 25 novembre, sono ristabilire la sicurezza, la riforma costituzionale e portare il paese alle elezioni a tutti i livelli. Il problema immediato è un deficit di bilancio statale. Un budget di circa 254 miliardi di gourde (2,5 miliardi di dollari), ma le casse dello stato ne avrebbero solo 96, di cui 30 già impegnati per sovvenzionare il carburante.
Come se non bastasse, un forte terremoto ha colpito il Sud Ovest del paese il 14 agosto, causando 2.246 morti e 329 dispersi e perdite economiche stimate di 1,6 miliardi di dollari. I bisogni recensiti per la ricostruzione sono di 1,97 miliardi.
Ma occorre ricordare che, dalle casse dello stato, mancano circa 3 miliardi di dollari, «evaporati» con lo scandalo PetroCaribe.
Marco Bello (fine prima puntata/ continua)
Note
1 • Haiti-agriculture: new agro-industrial export free zone, Haiti Libre, 12/02/2021.
2 • Ruée vers l’or en Haiti, Enquet’action, 10/06/2020.
3 • Who benefits from insecurity in Haiti?, The Strategist, 14/07/2021.
Haiti. Esecuzione del presidente avvolta dal mistero
aggiornamento dell’8 luglio 2021
La notte tra il 6 e il 7 luglio, verso le 7 in Italia, un commando ben equipaggiato si è introdotto nella residenza del presidente Jovenel Moise, uccidendolo e ferendo la moglie (poi ricoverata a Miami). Il primo ministro ad interim Claude Joseph (doveva essere sostituito proprio il 7 luglio da Ariel Henry, nominato da Moise due giorni prima), assume di fatto il controllo, dichiara lo stato di assedio, che concede al governo poteri straordinari, chiede la calma e afferma che polizia ed esercito (Moise aveva rifondato un nucleo di esercito, istituzione soppressa da J.B. Aristide nel1995) manterranno la sicurezza.
Moise, in carica dal febbraio 2017, governava per decreto da gennaio 2020 dopo aver fatto scadere il parlamento e non aver indetto nuove elezioni. Stava inoltre per modificare la Costituzione in modo unilaterale e illegale. Il suo disegno era una modifica delle istituzioni democratiche del paese senza precedenti. La sua deriva autoritaria era contestata da opposizione politica e ampi settori della società civile.
L’esecuzione – perché di questo si tratta – resta avvolta nel mistero. Come è possibile che un commando (di mercenari stranieri dice Joseph) assalti la residenza del presidente, eludendo la sicurezza, e non risultino scontri, morti e feriti? Perché ci si affretta subito a dire che si tratta di mercenari stranieri, che parlano inglese e spagnolo? Il capo della polizia dice, in serata, che gli agenti ne hanno uccisi quattro e arrestati due. Come mai le gang, che controllano il territorio in capitale e nelle maggiori città del paese, rimangono tranquille?
Secondo noi, chi ha voluto la morte del presidente è da cercare nel paese.
Intanto, Ariel Henry prende la parola per dire che il primo ministro sarebbe lui, e quindi occorre trovare un accordo.
Nazioni Unite, Usa e Ue chiedono che si svolgano le elezioni generali previste il 26 settembre prossimo (Moise aveva da poco firmato il decreto per indirle). Scadenza che pare irrealistica per un paese senza guida, e in mano alle gang criminali.