Dallo scorso 7 agosto il paese latinoamericano è guidato da Gustavo Petro e Francia Márquez, un politico di sinistra e un’afrocolombiana. In queste pagine Angelo Casadei, missionario della Consolata, racconta il proprio stupore davanti a un cambio considerato epocale.
Arrivai in Colombia per la prima volta nel 1986, poco dopo l’assalto e la terribile strage (101 morti) al Palazzo di giustizia di Bogotá, compiuta dal gruppo guerrigliero M-19 (novembre 1985).
In quegli anni, il paese era in pieno boom (bonanza, in spagnolo) della coca e le Farc, il principale gruppo guerrigliero, avevano trovato nel traffico della droga un mezzo per finanziare la loro guerra contro lo stato. Era pure il tempo del grande narcotrafficante Pablo Escobar (1949-1993), che con la sua guerra mise in ginocchio l’intero paese.
Il 9 marzo del 1990 l’M-19 depose le armi (pagando l’accordo con l’assassinio di molti suoi leader) e iniziò a partecipare attivamente alla vita politica: all’assemblea costituente e al rinnovo della Carta costituzionale (1991), nella quale le popolazioni indigene e gli afrocolombiani, fino ad allora invisibili, trovarono finalmente spazio con diritti e doveri.
Gli anni di Uribe
Nel 2002, le elezioni presidenziali furono vinte da Álvaro Uribe Vélez che aveva creato un suo partito. Una volta salito al potere, Uribe iniziò una guerra sfrenata contro la guerriglia e in modo particolare contro le Farc, definendo queste un gruppo terrorista davanti alla comunità nazionale e internazionale.
Quando – era il 2005 – per la seconda volta tornai in Colombia, trovai una popolazione esausta per tanta violenza e una guerra di cui non vedeva la fine. Nel 2006, Uribe venne riconfermato presidente governando fino al 2010. Suo successore venne eletto Juan Manuel Santos, già ministro della difesa del suo governo. Santos però si allontanò dalla politica uribista facendosi promotore di un accordo di pace.
Nel 2014 venne rieletto proprio per portare a termine questo percorso di pacificazione che, dopo un lungo e travagliato cammino, si chiuse con gli accordi firmati in territorio neutrale, a Cuba, il 26 settembre 2016.
Nel 2018, alla presidenza del paese arrivò Iván Duque, un altro delfino di Uribe, anzi una sua brutta copia che avrebbe alimentato il malcontento tra la popolazione, soprattutto tra i giovani i quali, mossi anche da gruppi di sinistra, nel 2021 avrebbero organizzato i paros nacionales (scioperi nazionali) contro alcune riforme governative che ancora una volta andavano a favorire il sistema politico vigente e le classi più elevate.
Il 19 giugno 2022 (nel secondo turno elettorale), dopo un’intensa campagna con tensioni e conflitti, il popolo colombiano ha eletto presidente della Repubblica Gustavo Francisco Petro Urrego e Francia Elena Márquez Mina come vicepresidente.
Una svolta storica
Sicuramente l’elezione di Gustavo Petro e Francia Márquez segna un cambio profondo nella storia colombiana, un punto di rottura nella politica nazionale e internazionale. L’elezione di un ex guerrigliero di sinistra e di una donna afro proveniente da una classe povera è qualcosa d’impensabile fino a qualche anno fa.
La Colombia è stata sempre governata da politici della destra e dai ricchi che dominano il paese fin dall’indipendenza dalla Spagna (luglio 1810). Pertanto, quello che è successo il 19 giugno 2022 è una pagina nuova e inaspettata.
È un fatto che queste elezioni abbiano dato un «giro» completo alla politica della Colombia, un paese «dove si vive il classismo, il razzismo, la violenza e la paura dei poveri», come direbbe la giornalista Yolanda Ruiz.
Esse hanno rappresentato l’emergere dell’«altra Colombia», della Colombia emarginata e messa alla periferia della vita. Esse hanno significato l’emergere di gruppi e settori storicamente discriminati ed esclusi, come sono i giovani, le donne, gli afrocolombiani, gli indigeni, i contadini e le minoranze sessuali.
Analizzando il risultato delle votazioni, un’altra impressione è che il paese ha messo in luce una forte polarizzazione politica sia per il numero di candidati presentatisi sia per le poche migliaia di voti che hanno separato Gustavo Petro dal suo rivale Rodolfo Hernández.
Alla fine di tutto nessuno ignora che l’elezione di Gustavo Petro e di Francia Márquez rappresenta una grande sfida per il paese e per il mondo: per la sua novità e per i possibili ostacoli che si potranno incontrare lungo questo nuovo cammino.
È sicuramente vero che sono molti i rischi che aleggiano sulla presidenza di Gustavo Petro. I maggiori sono la frattura sociale, lo scontento diffuso, la violenza. L’opposizione di certo non lo lascerà governare facilmente, come pure gli enti di controllo, gli apparati della giustizia, i gestori della finanza pubblica, e lo stesso esercito. In una parte dei colombiani c’è, inoltre, il timore che la Colombia intraprenda una strada come quella del vicino Venezuela.
La realtà è molto diversa. Ci troviamo davanti a un popolo lavoratore che, in questi anni, ha sostenuto l’economia, anche nei duri momenti della pandemia. Penso che, se la Colombia avesse voluto un cambiamento, in questo momento storico non avrebbe potuto che trovarlo nel presidente eletto.
Una coppia unica
Gustavo Petro ha una grande esperienza politica che ha coltivato e sperimentato prima come sindaco di Bogotà, poi facendo parte dell’opposizione.
Petro è stato anche l’unico dei candidati che avesse un progetto di governo chiaro e preciso che punta molto sulla pace, la giustizia, l’educazione, l’ambiente e sull’appoggio alle classi povere. D’altra parte, per prima cosa, il neopresidente ha chiesto collaborazione all’opposizione per governare insieme e fare crescere il paese.
Al suo fianco, Petro si trova Francia Márquez, altra grandissima novità della storia politica colombiana: un evento nell’evento.
È, infatti, la prima volta che una donna afrocolombiana, proveniente dalle classi povere e madre sola, arriva nelle alte sfere del potere. Si tratta di una forma di rivincita storica del popolo afrocolombiano, discriminato ed escluso. Speriamo che sia questo l’inizio di un grande processo di emancipazione e di consolidamento dell’altra Colombia, quella emarginata, ghettizzata e senza dignità.
L’Uribismo di Iván Duque
Qual è il bilancio sul governo uscito di scena? Non è facile esprimere un giudizio sulla presidenza di Iván Duque. La sua elezione aveva significato il ritorno al potere dell’«uribismo». Duque è stato il successore di Juan
Manuel Santos, un altro discepolo di Álvaro Uribe che però, una volta eletto, aveva preso le distanze dal maestro (soprattutto firmando un accordo di pace mai accettato dall’ex presidente).
Iván Duque è stato eletto presidente come il consacrato di Álvaro Uribe. Grazie a quest’ultimo, egli è passato dall’anonimato a figura di primo piano nella politica nazionale. Anzi, secondo alcuni, Duque è stato una specie di reincarnazione di Álvaro Uribe e il suo progetto si è identificato con l’«uribismo».
La presidenza di Iván Duque può essere classificata come una sorta d’esperimento. L’apparente improvvisazione nella selezione dei membri dell’esecutivo (con continui cambiamenti) e l’attuazione d’iniziative e progetti estemporanei ne sono la prova.
Sul suo bilancio complessivo ci sono pareri differenti: la presidenza Duque ha cioè generato sentimenti contrastanti, alcuni di approvazione, altri di disapprovazione.
Mons. Luis Castro, costruttore di pace
Nel percorso colombiano verso la pace va ricordato mons. Luis Augusto Castro Quiroga, missionario della Consolata, morto a 80 anni lo scorso 3 agosto. Lui è stato coinvolto in prima persona negli accordi di pace: è stato ai colloqui di Cuba, ha parlato a favore delle vittime, ha dialogato con molti ex guerriglieri. È sempre stato in favore dell’accordo di pace, perché – diceva – «un cattivo accordo è sempre meglio che la guerra».
Non è diventato cardinale di Bogotá perché ha sempre parlato chiaro per la pace e contro la politica di guerra dell’allora presidente Uribe.
A parte l’opera di mons. Castro, in questi ultimi anni, la Chiesa cattolica colombiana ha avuto notevoli cambiamenti impegnandosi di più in ambito sociale.
Nell’ultimo processo elettorale, non si è allineata con nessuno dei candidati alla presidenza. Al secondo turno, ha rispettato le proposte dei candidati rimasti in lotta: quella di Gustavo Petro e quella di Rodolfo Hernández. E ha invitato a esercitare il diritto al voto. In occasione delle ultime elezioni la partecipazione è stata, in effetti, molto alta rispetto alle votazioni precedenti. Finalmente molti giovani hanno esercitato il loro diritto di scelta.
All’inizio della mia seconda esperienza missionaria in Colombia, i superiori mi avevano destinato a Remolino del Caguán (Caquetá), terra di narcotraffico e con una forte presenza di guerriglia. All’epoca, quando m’incontravo con alcuni comandanti delle Farc, tutti mi confermavano che, per cambiare la situazione, bisognava arrivare al potere a tutti i costi e, l’unico modo – argomentavano ,- era attraverso le armi perché il sistema politico colombiano – incentrato su 46 famiglie che da oltre 200 anni detengono il potere – si disinteressava delle classi più povere della nazione.
La storia ha invece preso un cammino diverso con gli accordi di pace, lo scioglimento delle Farc e, infine, la vittoria di un ex guerrigliero e di una donna afrocolombiana.
Il popolo colombiano
Vivendo in questo bellissimo paese ormai da anni, sono stato testimone delle sue mille contraddizioni con un popolo che, da decenni, vive in mezzo alla violenza e all’ingiustizia, ma nonostante tutto rimane pieno di speranza e con una voglia di vivere straordinaria; un popolo accogliente, felice e sempre pronto a fare festa; un popolo lavoratore, mal retribuito ma con una grande capacità di superare le avversità per costruire un futuro diverso e migliore.
«Portiamo un messaggio di speranza e futuro per la nostra nazione violata e spezzata. Verità scomode che sfidano la nostra dignità, un messaggio per tutti come esseri umani, al di là delle opzioni politiche o ideologiche, delle culture e delle credenze religiose, dell’etnia e del genere». E ancora: «Invitiamo a guarire il corpo fisico e simbolico, multiculturale e multietnico che formiamo come cittadini e cittadine di questa nazione».
Sono due passaggi iniziali di Hay futuro si hay verdad, la relazione finale della Commissione della verità (Comisión del esclarecimiento de la verdad, Cev), presentata a Bogotà lo scorso 28 di giugno. Un lavoro di ricostruzione storica presieduto dal sacerdote gesuita Francisco José de Roux Rengifo, durato quattro anni e passato attraverso migliaia di interviste a testimoni, vittime e carnefici.
i numeri della guerra
«C’è un futuro se c’è verità» sarebbe una lettura appassionante se non fosse il «racconto» di una guerra interna che, tra il 1985 e il 2016 (anche se, in realtà, il conflitto colombiano ebbe inizio già negli anni Sessanta), ha prodotto 450.664 omicidi (80% civili, 20% combattenti, 91% uomini, 9% donne).
Secondo i dati raccolti dalla Cev, i responsabili di questi morti sono per il 45% i paramilitari, per il 21% le Farc e per il 12% le forze dello stato.
Gli omicidi, però, sono soltanto uno degli aspetti della guerra civile. Sono stati conteggiati 121.768 casi di scomparsa (desaparición forzada) e 50mila sequestri (opera questi al 40% delle Farc e al 24% dei paramilitari). Senza dimenticare i reclutamenti forzati: sono stati almeno 30mila le bambine e i bambini reclutati attorno ai 15 anni per entrare nelle Farc o nei gruppi paramilitari.
Infine, un altro numero drammatico: 7.752.964 persone sfollate (più del 10% della popolazione colombiana), con il 51% di adulti e il 49% di minori, 52% di donne e 48% di uomini. Una «moltitudine errante» che ha dovuto abbandonare case, terreni, animali, amicizie. Oltre che per i contadini (campesinos y campesinas, dice la relazione), il conflitto armato è stato particolarmente distruttivo per le comunità etniche, indigene e afrocolombiane.
La sfida odierna
Il primo volume (su 10 totali) della relazione finale si chiude parlando di riconciliazione. «Riconciliazione significa accettare la verità come condizione per la costruzione collettiva e superare il negazionismo e l’impunità. Significa prendere la decisione di non uccidersi mai più e togliere le armi dalla politica. Significa accettare che siamo molti – in varia misura, per azione o omissione – i responsabili della tragedia. Significa rispettare l’altro, al di là dei retaggi culturali e della rabbia accumulata. Che non ci sia più impunità. Che quelli che continuano la guerra lo capiscano che non hanno il diritto di continuare a farlo […]. Che dobbiamo costruire dalle differenze con speranza e fiducia collettiva».
Il lavoro della Cev è stato straordinario ed encomiabile. Ora, però, arriva il difficile: passare dalle parole ai fatti, dalla guerra alla costruzione della pace. Vedremo se i colombiani ne saranno capaci. Vedremo se Gustavo Petro e Francia Márquez saranno in grado di spingere il paese nella giusta direzione. Detto questo, è inutile negare quanto la speranza tende a nascondere: la sfida sarà enorme. Come già hanno mostrato le prime settimane di governo: il 2 settembre, sette agenti di polizia sono stati uccisi in un attentato nel dipartimento di Huila.
Paolo Moiola
Le relazioni internazionali dei governi latinoamericani
Da Washington a Pechino?
La nuova Colombia nata con l’elezione di Gustavo Petro va ad allungare l’elenco di paesi latinoamericani guidati da rappresentanti delle sinistre. Ad oggi, infatti, sono in carica Andrés Obrador in Messico, Alberto Fernández in Argentina, poi Luis Arce in Bolivia, Pedro Castillo in Perú, Xiomara Castro in Honduras, Gabriel Boric in Cile, oltre ai tre leader più discussi: Nicolás Maduro in Venezuela, Miguel-Diaz Canel a Cuba e, soprattutto, Daniel Ortega in Nicaragua. In attesa dei risultati delle elezioni di questo ottobre quando, in Brasile, l’ex presidente Lula potrebbe sostituire Jair
Bolsonaro, uomo dell’ultradestra, distruttore dell’Amazzonia e imputato di genocidio.
Sono presidenti di sinistra (pur con una pluralità di sfumature, anche consistenti, di rosso) che si trovano a governare paesi con alcuni tratti comuni. Il primo è dato da società caratterizzate da enormi diseguaglianze con i ricchi che s’intascano la gran parte delle ricchezze, come raccontano i rapporti delle Nazioni Unite (Pnud). Una disparità sociale ed economica che viene amplificata dal colore della pelle e dall’etnia: afrodiscendenti e indigeni sono sempre discriminati rispetto ai bianchi e ai meticci, come ha evidenziato anche la pandemia da Covid-19.
Altro tratto comune è la religione cristiana e la sua influenza sulle società latinoamericane. Tutti i paesi sono a maggioranza cattolica, ma le nuove Chiese evangeliche e pentecostali, schierate a destra (senza se e senza ma), stanno crescendo anno dopo anno, spostando milioni di voti.
La tela cinese
E poi c’è il rapporto con gli Stati Uniti, un rapporto che potremmo definire di odio e amore. Odio che nasce dagli errori storici fatti da Washington nel continente, a iniziare dal golpe cileno del 1973. Amore perché è in quel paese che milioni di latinoamericani vorrebbero trasferirsi (come dimostrano le ininterrotte ondate migratorie). Nel frattempo, negli ultimi decenni, in America Latina è arrivata in forze la Cina con il suo capitalismo di stato. Verso Pechino non esiste (e probabilmente mai esisterà) un’attrazione, ma c’è un forte interesse economico per i suoi investimenti nell’area. Com’è stato confermato nel corso del 14.mo Summit dei Brics (l’alleanza a trazione cinese tra Brasile, Russia, India, Sudafrica e appunto Cina), organizzato da Pechino lo scorso 23 giugno.
Gli Stati Uniti e i paesi occidentali (con l’Unione europea in testa) possono ancora recuperare il terreno perduto in America Latina. Se faranno emenda degli errori del passato e se metteranno da parte gli atteggiamenti neocolonialisti, puntando invece su relazioni di pari dignità.
Paolo Moiola
Colombia: La pace teorica
testi di Angelo Casadei, Paolo Moiola e Mauricio A. Montoya Vásquesz |
Dagli accordi di pace siglati nel 2016 sono trascorsi oltre quattro anni. Il lunghissimo conflitto colombiano è mutato, ma non è terminato. E le cause che lo hanno prodotto sono ancora irrisolte.
Le parole sono importanti, ma spesso insufficienti, sopravvalutate o inutili. La Costituzione colombiana, promulgata nel luglio del 1991, parla di pace in tre circostanze: nel preambolo, nell’articolo 22 e nel 95. Nel preambolo si dice che il potere sovrano assicura ai cittadini «la vita, la convivenza, il lavoro, la giustizia, l’eguaglianza, l’istruzione, la libertà e la pace». L’articolo 22 afferma che «la pace è un diritto e un dovere di realizzazione obbligatoria». Infine, secondo l’articolo 95, tra i doveri della persona e del cittadino c’è quello di «promuovere il raggiungimento e il mantenimento della pace». Eppure, nonostante le parole solennemente scritte nella Carta costituzionale, in Colombia la pace è largamente incompiuta. Ancora oggi essa rimane una promessa di molti e una speranza di tanti.
I numeri del conflitto possono cambiare a seconda delle modalità di raccolta dei dati e dei soggetti che li raccolgono. In tutti i casi si tratta di numeri impressionanti. Il Centro nacional de memoria histórica, tramite l’Observatorio de memoria y conflicto, conta le vittime del conflitto distinguendo tra undici modalità di violenza: azioni di guerra, danni a beni civili, uccisioni selettive, attacchi alla popolazione, attacchi terroristici, sparizioni forzate, massacri, mine antiuomo, ordigni esplosivi improvvisati e ordigni inesplosi, reclutamento e utilizzo illeciti di bambine, bambini e adolescenti, sequestri, violenze sessuali.
Le informazioni, raccolte e minuziosamente catalogate dall’istituzione, disegnano un quadro dettagliato di cosa abbia significato e significhi il conflitto interno per i colombiani. Secondo questa fonte, nel periodo 1958-2020 le vittime mortali (víctimas fatales) della guerra sono state 266.988.
Gli attori principali del conflitto sono quelli conosciuti: la guerriglia (politicamente di sinistra), i gruppi paramilitari (politicamente di destra), gli agenti dello stato, banditi, altri gruppi non identificati.
Leggendo i dati dell’Observatorio de memoria y conflicto, non mancano però le sorprese. Per esempio, la vulgata comune, sia in Colombia che all’estero, ha sempre attribuito le maggiori responsabilità del conflitto alla guerriglia (Farc, in primis). Invece, i colpevoli principali pare siano stati i gruppi paramilitari. Questi sarebbero i primi responsabili delle uccisioni mirate, delle sparizioni forzate, delle violenze sessuali e dei massacri. La guerriglia (Farc, Eln, M-19, Epl, Cgsb), invece, sarebbe in testa per i sequestri, gli attacchi a centri abitati, la distruzione di infrastrutture pubbliche e l’arruolamento nelle proprie file di minori. Gli agenti dello stato sarebbero i protagonisti della maggior parte delle azioni belliche. Dopo la firma dell’accordo di pace del 2016 (prima respinto dal referendum, poi modificato e approvato dal Congresso), la situazione sul campo è mutata, ma non i risultati. In alcune zone sono tornate le Farc con gruppi di dissidenti (identificati come Gao-r), mentre vari attori legati al narcotraffico hanno esteso il proprio dominio. Perché dunque, dopo decenni di lutti e devastazione, la guerra non ha ancora termine? Una delle cause principali è il persistere nel paese di condizioni di povertà e diseguaglianza. Per citare soltanto un dato, nel 2019 la povertà interessava il 35,7% dei colombiani (Departamento administrativo nacional de estadística, Dane). Con percentuali molto più alte in alcune regioni (con un massimo di 68,4% nel dipartimento del Chocó) e nelle zone rurali e amazzoniche.
Queste ultime ospitano anche le zonas cocaleras. Secondo il White House office of national drug control policy (Ondcp, marzo 2020), nel 2019 erano coltivati a coca 212mila ettari per una produzione di 951 tonnellate di cocaina. Invece, secondo lo United Nations office on drugs and crime (Unodc), gli ettari coltivati sono di meno (154mila), ma la produzione maggiore (1.136 tonnellate nel 2019). Quali che siano i dati corretti, la realtà mostra una produzione enorme di cocaina con il coinvolgimento di migliaia di famiglie contadine costrette a coltivare piante di coca non per arricchirsi ma per sopravvivere.
Secondo l’organizzazione non governativa Planeta paz, la pace va costruita e suppone la creazione di condizioni politiche, sociali ed economiche. Essa non significa semplicemente superare il conflitto armato. È necessario «sradicare dalla vita sociale colombiana lo stato di guerra in cui vive la maggior parte dei suoi abitanti a causa dell’incertezza sull’ottenimento dei mezzi necessari per garantire la vita biologica e una vita dignitosa».
In questo quadro, nell’ultimo anno si è anche inserita la pandemia da coronavirus. Una tessera in più da sistemare nel complicato puzzle colombiano.
Paolo Moiola
Colombia
Forma di governo:
Repubblica presidenziale.
Presidente: Iván Duque Márquez del
partito conservatore Centro democratico, guidato dall’ex presidente Álvaro Uribe.
Superficie: 1.141.748 km² (quasi quattro volte l’Italia).
Città principali: Bogotá (capitale), Medellín, Cali, Barranquilla, Cartagena de Indias.
Religioni: 79% cattolici, 12% protestanti; in rapida crescita le chiese evangeliche e pentecostali.
Economia: agricoltura molto varia, con il caffè e la coca al primo posto; allevamento, in primis di bovini; risorse minerarie come oro, smeraldi e petrolio; il paese ha sostituito il Venezuela come primo esportatore sudamericano di petrolio verso gli Usa.
Conversazione
Perdono, riconciliazione e… indifferenza
Nel conflitto e nel processo di pace colombiano, le variabili in gioco sono numerose. Proviamo a fare ordine con il professor Mauricio A. Montoya Vásquez, studioso del conflitto.
Per chi ha pagato sulla propria pelle le conseguenze di un conflitto, dimenticare e magari perdonare sono passaggi complicati o forse impossibili. «In primo luogo – ci spiega il professor Mauricio A. Montoya Vásquez, storico e studioso del conflitto -, occorre differenziare tra perdono e riconciliazione. Il perdono è una cosa più personale, che può includere anche caratteristiche religiose. La riconciliazione è una cosa più ampia, che include l’instaurazione di legami di fiducia. È meglio non iniziare un processo di pace con la parola perdono e utilizzare invece la parola riconciliazione».
Chiediamo se la società colombiana sia in grado di dimenticare oltre sessant’anni di conflitto interno. Il nostro interlocutore ha un’opinione particolare. «Non credo – dice – che il problema sia dimenticare, che, a volte, può essere in qualche misura un elemento salvifico. Io credo che, per la maggior parte dei colombiani, il grande problema sia quello dell’indifferenza, come abbiamo visto bene nel plebiscito del 2016. Erano più di 30 milioni le persone aventi diritto, ma solamente 13 milioni hanno partecipato. Inoltre, le persone che hanno votato per il “Sì” (all’accordo di pace) erano quelle che vivevano nei territori più colpiti dalla violenza. È qui che si è deciso di voltare pagina».
Mauricio Montoya ricorda Tzvetan Todorov. «Secondo il filosofo bulgaro – spiega -, ci sono due memorie: una letterale e una esemplare. Ci sono società che vogliono rimanere legate a una memoria letterale, che è quella che ricorda, commemora e – sfortunatamente – mette il dito nella piaga e in ogni occasione cerca vendetta. Con la seconda invece si commemora e si ricorda. Non dimentica, ma è disposta a voltare pagina perché la società del futuro non soffra e non ripeta queste situazioni. Perché la società vecchia sia d’esempio a quella nuova».
Dissidenti e banditi
«Già all’inizio c’erano persone che non erano disponibili ad accettare il processo di pace. In seguito altri – come Iván Márquez, Jesús Santrich, el Paisa y Romaña – si sono ritirati dicendo che non c’erano garanzie sufficienti e che non si stava compiendo quanto stabilito».
«Secondo me, questo è stato un errore. Avrebbero dovuto aspettare visto che il nostro sistema è lento e per questo richiede pazienza. Costoro sono dunque tornati alle armi formando la dissidenza che sta tentando di occupare il territorio che un tempo era dominio delle Farc. In molte zone sono in competizione con bande criminali dedite al narcotraffico. Io penso che i dissidenti abbiano un progetto politico sempre meno visibile e si avvicinino ai Bacrim (acronimo di Bandas criminales come los Urabeños, ndr), ovvero i gruppi paramilitari che non hanno accettato il processo di smobilitazione».
Tuttavia, non c’è soltanto la dissidenza. Ci sono anche notizie incoraggianti: «Un 70 per cento di ex combattenti delle Farc – precisa Mauricio – sta scommettendo sulla pace, anche con vari progetti produttivi: i cento ex guerriglieri e rispettive famiglie che si sono trasferiti su una terra di Mutatà, quelli impegnati nel turismo ecologico, o quelli che hanno aperto fabbriche di abbigliamento (marca “Manifiesta-Hecho en Colombia”) e di birra artigianale (“La Roja”)».
Si tratta di progetti d’inserimento nella società civile da incoraggiare, ma anche da difendere visto che, al 7 gennaio 2021, erano già stati assassinati almeno 252 ex membri delle Farc (un film già visto negli anni Ottanta quando i paramilitari sterminarono gli iscritti al partito Unión patriótica). Ancora più alte sono le cifre riguardanti l’assassinio di líderes sociales (difensori dei diritti umani, ambientalisti, attivisti indigeni e afrocolombiani). Negli ultimi quattro anni sarebbero stati 421, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Mentre la Defensoría del pueblo riporta oltre 700 morti. «Eppure – precisa Mauricio -, secondo alcuni, questi líderes sociales sono stati uccisi a causa di lios de faldas (letterale, “litigi per le gonne”, ndr) come fossero cioè problemi amorosi che non hanno nulla a che vedere con il contesto politico».
Chi vuole il fallimento?
Oltre ai dissidenti delle Farc e ai gruppi paramilitari, ci sono molti altri attori che lavorano per far fallire il processo di pace. Il nostro interlocutore non ha dubbi al riguardo.
«Dagli anni Ottanta – spiega – la pace è un tema elettorale. In questo senso, molti lo hanno manipolato per arrivare alla presidenza. È chiaro che ci sono persone che non vogliono che gli accordi si compiano nei modi sottoscritti a l’Avana e, dopo la sconfitta nel plebiscito, al Congresso. Il problema è quello degli approfittatori, dei mercenari che cercano di portare confusione e di preservare i propri interessi particolari. Costoro lavorano affinché le cose non si sappiano e da qui nascono gli attacchi alle istituzioni che operano per il processo di pace».
Dall’accordo di pace firmato dall’allora presidente Manuel Santos e dai vertici delle Farc-Ep, è nato il «Sistema integrale di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione» (Sistema integral de verdad, justicia, reparación y no repetición, in sigla Sivjrn). Incorporato nella Costituzione attraverso il decreto legislativo 01 del 2017, il Sistema è fondato su tre componenti: la «Commissione di chiarimento della verità, convivenza e non ripetizione» (Comisión de esclarecimiento de la verdad, la convivencia y la no repetición, Cev); l’«Unità per la ricerca delle persone date per scomparse» (Unidad para la búsqueda de personas dadas por desaparecidas, Ubpd) e la «Giurisdizione speciale per la pace» (Jurisdicción especial para la paz, Jep).
Tra i maggiori oppositori del processo di pace c’è Álvaro Uribe, l’uomo forte della Colombia, fondatore del partito Centro democrático (Mano firme. Corazón grande, «Mano ferma. Cuore grande») del quale è militante anche l’attuale presidente Iván Duque. «È ovvio – conferma Mauricio Montoya – che l’ex presidente Uribe ha avuto ed ha influenza. Ha guadagnato appoggio e popolarità tra una fetta importante della popolazione per la sua opposizione ai gruppi armati, per la sua volontà di non negoziare con essi. La sua scelta militare ha però portato anche a violazioni ed eccessi come per i “falsi positivi” (civili innocenti assassinati dall’esercito che li faceva passare per guerriglieri per ingigantire i propri successi militari, ndr). Uribe continua ad essere molto influente in ambito politico, cosa che gli permette di far eleggere senatori, governatori, sindaci. Oggi rimane popolare tra la popolazione più anziana, ma non tra i giovani colombiani».
Come fare giustizia?
Dopo gli accordi del 2016, le Farc si sono trasformate in partito politico, mantenendo la denominazione ma con un significato diverso: da «Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia» a «Fuerza alternativa revolucionaria del Común». Lo scorso 24 gennaio i responsabili hanno annunciato di aver cambiato il nome in «Comunes» per non confondere il gruppo firmatario degli accordi di pace con il gruppo dei dissidenti. Il leader Rodrigo Londoño, alias Timochenko, ha ammesso che mantenere il nome di Farc non è stata una buona idea e che il nuovo nome del partito fa riferimento alla gente comune.
Questo non significa però che gli ex guerriglieri non verranno giudicati. Gli accordi di pace non sono infatti una patente d’impunità, una rinuncia a fare giustizia e a punire i responsabili.
«I media e i social – spiega Montoya – hanno creato un ambiente negativo attorno alla Jep. Dicendo che è una giustizia dei guerriglieri e che è contro i militari. Tutti argomenti che a poco a poco sono caduti». Anzi, lo scorso 29 gennaio il tribunale speciale creato con gli accordi di pace (la citata Jep, Jurisdicción especial para la paz) ha accusato l’antica cupola della guerriglia di crimini di guerra e di lesa umanità per i sequestri commessi per decenni. Sono stati incriminati otto membri delle ex Farc, tra cui lo stesso Rodrigo Londoño e due senatori.
«A dimostrazione – chiosa Montoya – che il compito che sta svolgendo la Jep è reale».
L’irrisolta questione della terra
In Colombia la diseguaglianza è visibile e confermata da tutti gli indici. Chiediamo al professor Montoya il peso della questione della terra.
«Durante i colloqui e il processo di pace – risponde -, la questione della terra è stata un tema ricorrente. “Perché ancora una volta il tema della terra?”, domandava molta gente. La risposta è semplice: perché in realtà il problema della terra non è stato mai risolto. Sta scritto negli accordi, ma la soluzione ancora non si vede. Un passaggio fondamentale è la trasformazione e attualizzazione del catasto rurale, che significa riuscire a sapere quanti ettari di terra possiedono le persone, quante imposte pagano e se queste sono coerenti con le terre possedute, perché ci sono territori vuoti che non vengono consegnati ai contadini e alle comunità agricole che li richiedono. Molti ritengono che il problema della diseguaglianza e della terra non sia una causa della guerra. Forse non è l’unica, ma è fondamentale».
Il narcotraffico
Legata al tema della terra è la questione delle piantagioni di coca e del commercio della stessa. «Il narcotraffico – spiega il professore – ha attraversato il conflitto dagli anni Settanta. Le coltivazioni di coca continuano sotto il controllo dei gruppi armati, illegali e legali. È infatti comprovato che in questo lucroso business ci sono anche politici. In molti territori ci sono combattimenti tra i vari gruppi armati per controllare le rotte della droga. Un esempio tra i tanti possibili: l’ex paradiso dell’arcipelago di San Andrés, Providencia e Santa Catalina (davanti alle coste del Nicaragua, ndr) ha altissimi livelli di violenza essendosi convertito in un ponte per il traffico con Stati Uniti ed Europa. Accanto a queste rotte c’è poi il microtraffico all’interno delle città colombiane dove le bande si contendono con le armi il traffico non soltanto di droga ma anche di persone».
Con il Venezuela e gli Stati Uniti
Lo scorso febbraio il presidente Iván Duque ha annunciato la regolarizzazione (tramite il nuovo Estatuto nacional de protección) per dieci anni di oltre due milioni di immigrati venezuelani, che permetterà loro di accedere ai sistemi pubblici della salute e dell’educazione e di lavorare regolarmente. Il presidente colombiano ha sempre usato (furbescamente) la lotta contro il Venezuela di Maduro come strumento di lotta politica interna e internazionale.
«Duque usa quel paese – spiega Mauricio Montoya – in termini elettorali per spaventare la popolazione su certi candidati o modelli politici o idee per supposte affinità al Venezuela o, come viene spesso detto, al castrochavismo. Credo perciò che le relazioni tra i due paesi si manteranno tese, instabili e polarizzate».
Nel frattempo, negli Stati Uniti, storico alleato del paese, la presidenza è passata da Donald Trump a Joe Biden. «Non cambierà molto – osserva Montoya -. Alcuni media dicono che, avendo il governo colombiano appoggiato Trump, Biden presenterà il conto. Non credo sarà così. La Colombia non perderà l’appoggio statunitense né in termini economici né di lotta al nartraffico. Credo però che gli Usa avranno un ruolo nella competizione per la prossima presidenza la cui campagna inizierà ancora quest’anno».
In effetti, l’ex presidente ed ex senatore Álvaro Uribe ha già iniziato le audizioni per selezionare i propri candidati.
Paolo Moiola
Incontro con un dissidente Farc
«Ricercato, vivo o morto» (l’ultima intervista)
Abbiamo incontrato Dúver, uno dei leader dissidenti delle Farc. È stata una conversazione unica. Due mesi dopo, Dúver è stato ucciso in un’operazione militare che ha avuto una grande eco sui media locali.
Solano (Caquetá). Ho ricevuto un invito da parte di Dúver Guzmán, nome di battaglia di Marco Tulio Salcedo, importante guerrigliero delle Farc-Ep, a Mononguete, lungo il fiume Caquetá. Il luogo prescelto è presso il distributore galleggiante di benzina, situato nel porticciolo principale del paese. L’appuntamento è per venerdì 18 settembre, alle 10,30.
Con Rito, il motorista della parrocchia, arrivo in anticipo, alle 9,30. Mentre attendo, vedo arrivare dall’altra parte del fiume, in territorio della regione del Putumayo, altri guerriglieri che non fanno però parte di coloro che sto aspettando.
La guerriglia vuole sapere tutto
All’ora concordata arriva Dúver. Viene verso me, mi dà la mano e mi offre da bere una gazzosa. Ci accomodiamo uno di fronte all’altro: io su una panca, lui su una sedia. Alla cintura porta una pistola. Indossa una maglietta con la mappa della Colombia e l’immagine di Marulanda: il contadino che fondò le Forze armate rivoluzionarie della Colombia è raffigurato che impugna un fucile, mentre nel mezzo della mappa campeggia la sigla Farc-Ep.
Iniziamo a parlare. Subito mi chiede: «Padre, mi parli del progetto». Non capisco, o meglio, fingo di non capire quello a cui vuole riferirsi Dúver, e così inizio a parlargli del progetto di evangelizzazione che portiamo avanti nel Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano con mons. Joaquin Humberto Pinzón, il nostro vescovo; dell’équipe missionaria in parrocchia, composta da quattro suore, due seminaristi, un laico missionario e me come parroco e coordinatore.
Proseguo la mia descrizione: «Dúver, il territorio della parrocchia è molto vasto, visto che comprende 106 comunità, 90 villaggi di coloni e 16 popoli autoctoni. In esso ci sono la parrocchia San Francisco d’Asis formata nel 2019, il centro di missione Assunzione, il centro di missione San José, la parrocchia Nuestra Señora de las Mercedes. Per la vastità del territorio in futuro sono previste quattro parrocchie».
Dúver ascolta attentamente, anche perché la guerriglia vuole sapere tutto ciò che succede nell’area in cui essa opera. «Come missionari della Consolata – continuo -, siamo presenti in questa regione dal 1951 e a Solano in modo permanente dal 1959, mentre la parrocchia è stata istituita nel 1969. La nostra presenza ha come sua prima finalità l’annuncio di Gesù Cristo, ma abbiamo sempre tenuto presente l’educazione scolastica, e oggi proseguiamo il lavoro appoggiando e proponendo alcuni progetti sociali».
Gli spiego la nostra filosofia: «L’annuncio del Vangelo non è scollegato dall’aspetto sociale: evangelizzazione e promozione umana, che come missionari della Consolata, le abbiamo nel sangue».
Dúver mi interrompe dicendo: «Il Vaticano ha molti soldi!». Gli rispondo: «Non so quanti soldi abbia il Vaticano. Io so solo che il nostro Vicariato e il nostro vescovo di soldi non ne hanno. Viviamo alla giornata, di quello che si riceve dalle offerte delle persone semplici del nostro popolo caqueteño e da aiuti di alcuni benefattori sia colombiani che di altri paesi».
Insiste che gli parli del progetto, però di nuovo chiedo che mi dica a quale progetto si riferisce. Alla fine, gli suggerisco: «Il progetto cambio climatico?». Annuisce. «Il nome completo è “Miglioramento sostenibile della situazione socio-economica e ambientale della popolazione amazzonica nelle regioni del Caquetá e Putumayo”. È appoggiato dalla Cooperazione tedesca e dalla Caritas tedesca, ed è coordinato dalla Pastorale sociale colombiana».
«Sosteniamo 60 famiglie della zona, con supporto tecnico nell’area agroforestale e con un adeguato allevamento del bestiame nei pascoli. Ne deriva quindi un lavoro anche di formazione al lavoro comunitario e impegno politico».
A Dúver però queste informazioni non bastano: vuole sapere l’ammontare in denaro degli aiuti economici che arrivano. Minaccia che, se non gli darò l’informazione, parlerà con il vescovo.
Per evitare di esporre mons. Joaquin gli dico che «più o meno il progetto ha una base di appoggio di 200 milioni di pesos colombiani (50mila euro, ndr) all’anno per un periodo di tre anni». Dúver commenta: «Pensavo molto di più!».
Dall’età di 12 anni nella guerriglia
Dopo aver raggiunto il suo obiettivo, la conversazione si apre a vari argomenti. Gli chiedo: «Da quanto tempo si trova nelle Farc?». «Da quando avevo 12 anni. Sono originario del Caguán. Ho vissuto nella regione del Meta. Ora vivo in questo territorio, in una zona tra il fiume Caquetá e il fiume Caguán».
Domando: «Quando finirà questa guerra che dura da più di 60 anni?». «Quando – risponde – il popolo aprirà gli occhi e avrà in mano il potere». «Ma come pensate di arrivare al potere?», insisto io. «L’unica soluzione sono le armi. È il linguaggio più chiaro per farsi capire, sentire, e rispettare anche se noi tuteliamo la giustizia a favore della comunità».
«Le racconto, padre, che, poco tempo fa, un grande proprietario terriero ha venduto una grandissima finca (fattoria). Noi gli abbiamo chiesto una percentuale ma lui ci ha negato il denaro. Lo abbiamo processato davanti al popolo ed abbiamo lasciato decidere alla stessa comunità che lo ha graziato». E continua: «Padre, ha visto quanti líderes delle comunità sono stati assassinati perché hanno aperto gli occhi al popolo?»
Allora gli chiedo: «Dúver dov’era quando si sono fatti gli accordi di pace?». «Nel “monte”, in foresta a continuare la guerra. Non possiamo lasciare scoperti spazi che altri potrebbero occupare».
«Che altri gruppi ci sono oltre le Farc nella zona?», domando. «Il gruppo narcotrafficante messicano di Sinaloa: il loro territorio è un po’ più giù verso Curillo. Ma sono interessati solo ai soldi. Noi paghiamo 2.300 pesos (circa 0,55 euro, ndr) al grammo la pasta di coca, mentre loro la pagano molto meno. Se il contadino non si adegua alle regole da loro imposte, viene ucciso senza chiedere il parere alla comunità».
Dopo quasi due ore di chiacchierata, ci salutiamo. Mi accorgo che, dietro a me, ci sono altre persone in attesa di parlare con il dissidente delle Farc. Li saluto. Poi, con Rito salgo sulla barca e ci dirigiamo dal porto verso il paesino per salutare la gente. Con tutte le precauzioni possibili.
Angelo Casadei
L’UCCISIONE
Il 24 novembre 2020 le autorità colombiane hanno annunciato la morte di Marco Tulio Salcedo Pinilla alias Dúver, responsabile («cabecilla») delle finanze di un gruppo dissidente delle Farc (ufficialmente, «Grupo armado organizado residual», Gao-r), struttura Míller Perdomo, operante nei dipartimenti di Caquetá, Putumayo e Meta.
L’operazione è stata effettuata dalla Sesta divisione dell’esercito nazionale nella vereda Mononguete, nel municipio di Solano, Caquetá.
Sulla testa di Dúver vigeva una taglia di 150 milioni di pesos (circa 35mila euro) per la sua cattura o morte.
Secondo le autorità competenti, la struttura criminale era incaricata di raccogliere denaro tramite estorsioni e sequestri, traffico di droga, reclutamento forzoso, soprattutto di minori, attacchi a strutture militari.
Pa.Mo.
Il reclutamento forzato
Storia di Isabel, guerrigliera per forza
Reclutata, arrestata, condannata, liberata e ancora reclutata. In questo cammino disperante, Isabel ha trovato l’aiuto della Chiesa. Eppure, oggi è scomparsa di nuovo, persa nel gorgo di un conflitto infinito.
Solano (Caquetá). Siamo in piena novena della festa patronale Nuestra Señora de la Mercedes (Nostra Signora della Misericordia), che ricorre il 24 di settembre. Lunedì 21 settembre arriva in canonica una donna (la chiamerò Isabel) con un bambino di quattro anni, mezz’ora prima dell’eucaristia delle 18,00. «Padre, provengo dal villaggio Yurilla che è lungo il fiume Mecaya – mi dice -. La prego, deve aiutarmi a mettermi in contatto con i militari della Forza aerea».
«Nella finca (fattoria) dove vivo, ci sono 24 ragazzini dai 12 ai 14 anni che le Farc-Ep stanno addestrando alla guerra. Quattro di loro sono gravemente feriti. Vi è stato un violento scontro con il gruppo Sinaloa (potente cartello di narcotrafficanti messicani, ndr) lungo il fiume Putumayo un po’ più in giù della nostra finca».
«Uno dei ragazzi mi ha chiesto di cercare un sacerdote e chiedergli aiuto. Sono qui a Solano perché ho dei seri problemi ginecologici e il medico, dopo la visita, mi ha indirizzata a Florencia per degli accertamenti più approfonditi, ma non posso andarci finché non avrò l’autorizzazione del comandante Danilo. Vivo qui nel Mecaya dall’inizio dell’anno con mia sorella. Lei è la moglie di un comandante delle Farc».
«Un giorno è venuto Danilo e mi ha imposto di essere parte del movimento. Avevo due possibilità: o m’inserivo come guerrigliera militare o collaboravo come guerrigliera “civile”. Vedendomi costretta, ho deciso per questa seconda scelta».
«Mi ha proposto di andare con lui in un loro centro per fare da cuoca a sessanta persone promettendomi che mi avrebbe dato 750mila pesos il mese (circa 170 euro, ndr), e la possibilità di poter uscire dalla finca ogni due mesi».
«Non ho ancora visto un soldo e sono quattro mesi che sono chiusa in quel posto».
«Prima di trasferirmi nel Mecaya sono stata quattordici anni in prigione. Ero stata condannata a trentacinque anni ma, per buona condotta e per i vari corsi a cui ho partecipato, mi hanno condonato gli anni rimanenti».
«Padre, io voglio salvare questi ragazzini: me
l’hanno chiesto e, come le ripeto, quattro sono feriti gravemente e hanno bisogno di cure immediate. Per favore mi metta in contatto con il colonnello della base aerea, e anche con il vescovo. Con lei e con loro, attorno a questo tavolo, posso indicare il luogo preciso dove si trova la finca di addestramento delle Farc. Devo parlare velocemente con la Forza aerea perché intervenga immediatamente, domani potrebbe essere troppo tardi! Nella Farc ho fatto parte dell’équipe di strategia militare, quindi sono in grado di dare le coordinate dove si trovano i ragazzi. Mi aiuti, padre».
«Isabel – le rispondo -, mi lasci pensare questa notte per vedere cosa fare, e domani ci sentiremo». Mi dà il suo numero di cellulare, anche se mi dice che è senza caricabatterie.
Contatto con il «personero»
Non dormo tutta notte con il pensiero di quei ragazzini. Devo e dobbiamo fare qualcosa. Ne parlo con il vescovo Joaquin che mi suggerisce di mettere Isabel in contatto con il «personero» (figura giudiziale dello stato presso la quale chiunque, anonimamente, può fare ricorso per eventuali denunce soprattutto quando sono violati i diritti umani, ndr).
Alle otto contatto la segretaria che mi dà il suo numero. Gli telefono subito e mi dice che sarà libero alle nove. Chiamo Isabel che viene nell’ufficio della parrocchia per continuare il dialogo.
La aggiorno dicendole che ho parlato con il vescovo e che la cosa migliore è metterla in contatto con il personero. Isabel insiste però che vuole parlare con un colonnello della Forza aerea per intervenire immediatamente.
Ha anche delle esigenze pratiche: «Padre, mi può prestare il caricabatterie. Inoltre, sono rimasta senza soldi. Mia sorella mi ha dato 50mila pesos (11 euro, ndr), ma li ho spesi per l’alloggio e la cena per me e il mio bambino. Questa mattina, quando sono uscita dalla casa dove abbiamo dormito, la signora che gestisce il posto aveva una colazione prenotata per una persona che poi non è arrivata. Quando ha visto che il bambino piangeva perché aveva fame, ce l’ha regalata».
Testa bassa e manette ai polsi
Isabel ripercorre gli anni della sua esistenza. «Quando avevo 8 anni, i miei genitori sono stati uccisi a San Vicente del Caguán. Allora il vescovo Luis Augusto Castro mi ha accolta alla Finca del niño (Fattoria del bambino) con mia sorella e mio fratello, e lì sono rimasta quattro anni».
«Terminate le scuole elementari nella Finca del niño, sono tornata a casa dalla nonna. Avevo soltanto 12 anni, ma su di me, allora non lo sapevo, erano puntati gli occhi della Farc che mi ha preso e mi ha introdotta nelle loro fila, per addestrarmi a combattere».
È un’esistenza difficile quella di Isabel. «Mi hanno fatto abortire molte volte, perché i bambini sono un “peso” e un pericolo per i guerriglieri. Noi viviamo nella foresta, ci nascondiamo, combattiamo. Ed è proprio a causa di questi aborti che ora ho questi seri problemi di salute. Ho avuto però un figlio da un compagno guerrigliero, il quale è morto in uno scontro a fuoco e in quel contesto l’esercito mi ha fatto prigioniera. Le dicevo, padre, che sono stata condannata a 35 anni, ma per buona condotta ne ho scontati soltanto 14».
Mi accorgo che Isabel si sta commuovendo mentre continua a raccontare: «Mi trovo in carcere. Ho la testa bassa e le manette ai polsi. So che si stanno svolgendo i colloqui per trovare un accordo di pace. Il vescovo Luis Castro visita i carcerati. Appena lo vedo lo riconosco. Lo vorrei abbracciare, come feci da bambina quando mi uccisero i genitori, ma non posso farlo perché sono custodita da due guardie e devo rimanere seduta. Allora lo saluto alzando le mani e le muovo come se fossero ali di una farfalla, perché, padre Angelo, facevo questo gesto quando il vescovo veniva a trovare me e tutti gli altri bambini alla Finca del niño. Il vescovo mi guarda, mi riconosce, mi chiama per nome. E io piango».
Durante i lunghi dialoghi per trovare un accordo di pace tra la Farc e lo stato colombiano, mons. Luis Castro è il rappresentante della Conferenza episcopale colombiana. Da quel momento tra Isabel e mons. Castro si ristabilisce il contatto e il vescovo la aiuterà per buona parte della sua lunga detenzione. Isabel è molto riconoscente di quel provvidenziale appoggio.
Dubbi (tra fedeltà e tradimento)
Dopo aver ascoltato il suo drammatico racconto, le offro del denaro per comprare vestiti al bambino, per pagare la camera e il cibo. Si convince anche a chiamare il personero.
Chiamo la segretaria che si mette in contatto con lui. Così, finalmente, tutti e tre ci sediamo attorno al tavolo del suo ufficio.
Il personero, Carlo Mario, dice subito che lui è un tramite. Non può coinvolgersi direttamente vivendo in un territorio ad alto rischio. Può «aprire porte» e offrire contatti e propone autorità a livello nazionale come il procuratore. Tuttavia, Isabel insiste che ci deve essere un intervento immediato dell’esercito.
Carlo Mario allora fa un esempio chiarificatore: «Se tu – spiega – dai un pezzo di carne a un cane affamato, lui lo addenta e se lo divora immediatamente senza tenere in conto chi sta attorno e le eventuali conseguenze. In questo territorio, in questo momento, le forze dell’esercito cercano dei risultati. Se vi è un obiettivo preciso e chiaro, loro arrivano con un potente spiegamento di uomini, senza tener conto di chi si trova nel luogo: civili bambini, donne… Così possono andarci di mezzo le stesse persone che la guerriglia obbliga con la forza di stare dalla loro parte. Oppure può accadere che la stessa guerriglia le elimini per non lasciare testimoni».
Isabel mi chiede dei fogli e incomincia a disegnare la posizione della finca, dove si trovano i ragazzi e le postazioni della guerriglia attorno e nel resto del Putumayo e Caquetá.
Carlo Mario allora si mette in contatto con la base aerea di Tres Esquina e parla direttamente con il colonnello, che non può venire, ma invierà il vice che nel pomeriggio arriverà a Solano. Il luogo dell’incontro con l’intelligence della Forza aerea sarà nel salone della catechesi.
A questo punto Isabel mi prende la mano e me la stringe forte. Sente che, in qualche modo, sta tradendo il movimento guerrigliero dopo tanti anni di fedeltà e mi dice: «Lo faccio per i ragazzi che sono stati strappati alle loro famiglie e arruolati contro la loro volontà, per la durezza del comandante Danilo verso loro e verso me».
«Un giorno mi ha colpito violentemente con il calcio della pistola sul viso facendomi cadere per terra e per questo sono svenuta. Mio figlio di quattro anni si è messo in piedi, davanti al comandante, e con autorità l’ha minacciato e gli ha detto di smettere di picchiare la sua mamma».
Sicuramente il tempo trascorso fuori dalle file della guerriglia, quando era in carcere, i corsi di studio e il contatto con altre persone hanno fatto pensare Isabel.
È forte il desiderio di non collaborare più con il movimento guerrigliero. Non può scappare perché il figlio di sedici anni è sequestrato. L’ha dovuto lasciare nella fattoria come garanzia che sarebbe ritornata.
Le chiedo: perché, dopo il carcere, sei tornata in questo territorio? «La mia famiglia è qui, dove potevo andare? Sono uscita di prigione che non avevo assolutamente niente. Sono venuta da mia sorella che vive come guerrigliera civile in un paesino del fiume Mecaya con un guerrigliero che, ogni tanto, la viene a trovare».
I colloqui, il ritorno, la scomparsa
In attesa dei militari andiamo a pranzo. Nel pomeriggio Isabel mi vuole mostrare quello che ha comprato per il figlio e mi ringrazia.
All’ora stabilita inizia l’incontro con i due militari della base aerea. A un certo punto, uno esce per confermarmi che il dialogo è iniziato, ma Isabel non ha voluto dare il suo numero di telefono. Mi domanda se posso fare da intermediario con il mio cellulare, e naturalmente accetto. La conversazione dura sino alle sei del pomeriggio.
Alla fine, i militari mi dicono che vi sarà un nuovo incontro però ancora non sanno quando.
Il giorno dopo, mercoledì, mi chiamano e mi dicono che ci troveremo quello stesso giorno o il successivo ma che, in ogni caso, devo attendere una conferma.
Nel pomeriggio Isabel viene in parrocchia mentre mi trovo in un incontro. Vado a parlarle. È preoccupata perché ancora non la chiamano, e insiste a chiedermi di vedere il vescovo. Tramite il mio cellulare la metto in contatto con i militari. Nel frattempo parlo con il vescovo, che la incontra poco dopo. Isabel gli chiede una benedizione e gli affida i suoi due figli se dovesse succederle qualcosa.
Ha piena fiducia nella Chiesa perché, nella sua vita, è stata aiutata con mons. Castro. Una storia che sembra ripetersi.
Giovedì mi richiamano i militari perché contatti la muchacha per continuare il dialogo. L’appuntamento è per le nove del mattino. Isabel non mi risponde. Nel frattempo arriva il vice colonnello. Isabel chiama. Arriva dopo qualche minuto. La conversazione si protrae sino alle cinque del pomeriggio. In seguito i militari mi chiamano e mi dicono che si è creata una certa fiducia e, quindi, continueranno il contatto.
Venerdì mattina presto Isabel mi chiama e mi avvisa che cercherà di viaggiare in giornata per rientrare alla finca dove ancora si trova il figlio più grande. È lui la ragione per la quale lei fa ritorno in foresta.
Durante il suo viaggio, Isabel mi invia vari messaggi Whatsapp. Dopo quel giorno, non ho più saputo nulla.
Testo di padre Edegard Silva Junior a nome della diocesi di Capo Delgado, Mozambico |
La provincia di Cabo Delgado, nell’estremo nord-est del Mozambico, ha come capitale Pemba, situata a circa 2.600 km a nord di Maputo. La Provincia ha una superficie di 82.626 km2 e una popolazione di 2,3 milioni di abitanti. È divisa in 17 distretti e cinque comuni. È in questa regione, una delle più povere del paese, che dall’ottobre 2017 è in corso una guerra che ha lasciato più di 1.500 morti e migliaia di sfollati.
Contestualizzare la guerra
Il primo attacco da parte di gruppi armati, precedentemente sconosciuti nella provincia di Cabo Delgado, ha avuto luogo il 5 ottobre 2017, nella città di Mocàmboa da Praia. Nel novembre dello stesso anno, alcune moschee sono state chiuse perché, inizialmente, si sospettava che gli attacchi fossero stati pianificati in loro. Tuttavia, le motivazioni di questa guerra e i suoi rappresentanti non sono mai stati sufficientemente presentati. A causa della realtà in cui viviamo, presupponiamo le ragioni, ma si rende necessaria una spiegazione da parte dello Stato. Dopo quel primo attacco, la situazione sembra aver perso “controllo”.
La regione colpita da una violenta aggressione comprende nove comuni o distretti: Palma, Mocàmboa da Praia, Nangade, Mueda, Muidumbe, Macomia, Meluco, Quissanga e Ibo Island. Circa 600.000 persone vivono in questa zona. Sono piccoli semplici agricoltori, artigiani, per lo più senza alcun coinvolgimento ideologico o senza alcun conflitto religioso. Tutti questi luoghi hanno sofferto e continuano a soffrire di attacchi da parte di insorti o terroristi. È necessario chiarire che non si tratta di una guerra tribale o di gruppi etnici.
Il Vescovo della Diocesi di Pemba, Dom Luiz Fernando Lisboa, C.P., ha assicurato la presenza di missionari in tutte le comunità di questa regione. Attualmente, la Diocesi ha mantenuto sacerdoti e religiosi in tutti questi distretti. Questi missionari hanno seguito da vicino la situazione della guerra e il dramma vissuto dalle comunità.
Gli attacchi o le azioni terroristiche sono aumentati gradualmente. Le strategie sono cambiate nel tempo. Inizialmente, usavano armi più leggere e attaccavano in piccoli gruppi. Quando gli insorti arrivano nei villaggi, in realtà attaccano persone innocenti e indifese. Le vittime sono i poveri che vivono molto semplicemente, in case di fango, coperte di paglia. Abbiamo una strategia: quando arrivano, se c’è tempo, qualcuno della comunità fa suonare la campana per segnalare il pericolo alla popolazione (ma non sempre questa tattica è efficace e di successo). A quel punto, ogni famiglia sa già dove correre, sempre dirigendosi verso la boscaglia. Loro bruciano le case e tutto quello che c’è dentro. È anche successo che alcune persone sono state bruciate vive o addirittura decapitate. All’inizio degli attacchi, questo è stato fatto usando soprattutto il machete (strumento molto comune nelle attività rurali).
Da queste parti, tutti i villaggi sono interconnessi con membri della famiglia e conoscenti presenti nei vari distretti. Anche con poche risorse, la comunicazione avviene rapidamente. In questo modo, quando si verifica un attacco, la notizia si diffonde in ogni villaggio. Questo fa vivere l’intera popolazione nella paura, incidendo fortemente sulle loro abitudini quotidiane. Ad esempio, l’orario delle celebrazioni nelle chiese e quello delle scuole sono cambiati. Le persone si chiudono in casa presto, e spesso hanno anche paura di andare a lavorare da soli in giardino o nei campi. Lo scenario è spaventoso: tutti vivono nel terrore, sempre in attesa di dove e come sarà il prossimo attacco.
Come ogni guerra, le tattiche degli attacchi sono cambiate. Dall’attacco ai villaggi, sono passati ad attaccare auto, pullmini e autobus sulle strade. Se prima la nostra paura era limitata solo a rimanere nei villaggi, ora questa paura si estende al viaggiare, data la necessità di prendere trasporti per muoverci. Diversi attacchi sono stati segnalati con molti morti e con auto bruciate.
Abbiamo realizzato, valutando le tattiche e rapporti, che il gruppo degli insorti sta aumentando. Abbiamo sentito parlare di reclutamento giovani attraverso l’offerta di denaro. In una realtà di disoccupazione e abbandono, molti tendevano ad accettare questa proposta.
Sottolineiamo che finora non abbiamo informazioni chiare su chi è responsabile, né che ci sia un’azione chiara del governo per controllare le azioni terroristiche. Di conseguenza, ci rendiamo conto che, da un «piccolo esercito» armato di machete stiamo passando ad un terrorismo armato di armi pesanti e moderne. Basti dire che in uno degli attacchi al distretto di Mocàmboa da Praia, i terroristi sono entrati via terra e via mare armati con un forte arsenale di guerra, e lo stesso è accaduto nel distretto di Quinga.
Gli attacchi aumentarono e circolarono informazioni che l’interesse del gruppo sia quello di attaccare gli uffici distrettuali, in particolare gli edifici pubblici. Così, ogni giorno c’era una successiva ondata di attacchi contro “edifici ufficiali”. Molte cose sono state distrutte e bruciate: tribunali, scuole, ospedali, banche, case, uffici, sedi amministrative. Purtroppo, la gente è stata lasciata nella boscaglia senza acqua né cibo. In tutti i distretti, il commercio è stato compromesso in quanto la strategia degli insorti è quella di bruciare ogni piccolo negozio. Alla fine del 2019 e nella prima metà del 2020, alcuni chiese cattoliche sono state violate e bruciate.
Tuttavia vogliamo far notare che pastoralmente la diocesi di Pemba è presente nella regione settentrionale con un team di 35 missionari:missionariesacerdoti mozambicani e missionari e provenienti da dieci paesi diversi. Queste presenze garantiscono l’assistenza religiosa e sociale in queste località. Nei nostri incontri con gli operatori pastorali o attraverso i social network ci chiediamo sempre: chi sono questi malfattori? Cosa vogliono? Perché uccidono gli innocenti? Pensiamo che questa guerra abbia un “volto nascosto” (un occulto esplicito). Abbiamo iniziato a parlare delle possibili “ipotesi” che configurano questo “volto”.
C’è una chiara identificazione dei responsabili di questiconflitti?
Abbiamo qualche ipotesi per spiegare questa guerra che va avanti da quasi tre anni. Alcuni parlano in diversi scenari per capire questa situazione. D’altra parte, la popolazione si sente inquieta di fronte a una certa “indifferenza” del governo mozambiano sulla realtà degli attacchi. C’è poca copertura mediatica giornalistica. Questo è in una regione in cui il governo ha una delle sue più grandi basi politiche. Oltre a questi attacchi, la regione di Cabo Delgado ha affrontato, allo stesso tempo, altre calamità. Tra questi, il ciclone Kenneth e le forti piogge iniziate nel dicembre 2019 che hanno lasciato la regione isolata per quasi cinque mesi.
Ma quale organizzazione terroristica ha dato sostegno economico e militare a questa guerra, il cui costo è sempre molto alto? Chi ha allenato gli insorti con tattiche militari? In realtà, non abbiamo parole ufficiali in grado di rispondere a queste domande. Assumiamo che sia la presenza di gruppi che sostengono la radicalizzazione islamica, compreso il gruppo Al-Shabab.
A un certo punto, l’orientamento era quello di non formalizzare gli attacchi come derivati da motivi religioso, anche perché questa guerra, come tutte le altre, sembra essere più motivata da interessi economici che religiosi.
Nell’attacco di Quissanga, sono stati trasmessi alcuni video e, in essi, i terroristi parlano chiaramente degli obiettivi religiosi e del loro desiderio di attuare lo Stato islamico nella regione. Questi filmati sono stati registrati da discorsi e dall’innalzamento della bandiera di questo movimento. In un mondo segnato da “fake news“, dobbiamo controllare e mettere in discussione alcune immagini che ci arrivano attraverso i social network, ma comunque quelle immagini ci hanno fatto molto preoccupare.
Un altro punto è che non ci sembra molto chiaro che c’è un legame tra questa guerra e le precedenti. Se guardiamo alle “tre guerre” affrontate dal Mozambico, questa ha un volto molto specifico, perché sembra puntare più alla concentrazione di ricchezza della regione e al suo possibile controllo.
C’è qualche motivazione di un ordine religioso o economico?
Da un punto di vista religioso, gli ultimi attacchi portano alcuni elementi. Ci saranno un sacco di informazioni che non sapremo fino a dopo la guerra. Ci sarà bisogno di fare un discorso più accurato e ascoltare le persone. In questo momento è impossibile saperlo, perché molti villaggi sono abbandonati e in molti ci è proibito entrare.
Alcune morti che si sono verificate sono legate al rifiuto di aderire alla proposta religiosa dello Stato islamico. Al più presto, dovremmo chiarire l’attacco alla Comunità di Xitaxi. In questa comunità, l’8 aprile, c’è stato il massacro di 52 giovani. Si sostiene che questi giovani si siano rifiutati di accettare le proposte dei terroristi di entrare nei loro ranghi. C’è stata anche la violazione e la profanazione di diverse chiese cattoliche. Tuttavia, è necessaria molta cautela prima di affermare che gli attacchi sono mirati alla creazione dello Stato islamico in questa regione.
Un altro aspetto molto chiaro per noi: la provincia di Cabo Delgado è una delle più ricche del paese. Questa regione è ricca di gas naturale. È la provincia dove la Total ha fatto il più grande investimento in Mozambico, per la costruzione della “Città del Gas”, sulla penisola di Afungi. Le risorse petrolifere di Cabo Delgado sono sfruttate dalle multinazionali, mentre la popolazione vive in povertà, senza accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e al lavoro. Così, possiamo dire che questa disuguaglianza economica può favorire i predicatori del fondamentalismo islamico, che hanno visto qui un terreno fertile per la sua espansione o anche gruppi locali che vogliono garantirsi una fetta. Si parla di un controllo della regione in considerazione della ricchezza del suo suolo e del suo oceano. Di conseguenza, attaccare i villaggi sarebbe un modo per spopolare la regione al fine di avere un migliore “controllo” di queste ricchezze. Ci può anche essere un interesse religioso, la cui missione sarebbe quella di impiantare lo Stato Islamico. Ma queste sono solo ipotesi.
Diritti umani più minacciati
La Chiesa cattolica ha sempre difeso i diritti umani. La Dottrina Sociale della Chiesa riprende e contribuisce alla formulazione di questi diritti basata sulla Parola di Dio. Pertanto, la nostra missione è anche quella di difendere i diritti umani. Non si tratta di prendere ogni articolo in dettaglio. Citiamo solo i primi: “ogni essere umano ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale”. Vedere che questo articolo è costituito proprio da ciò che è stato preso da noi. Per questo motivo, questa diocesi, con i suoi missionari e animatori, ha sofferto e pianto di vedere tante morti, ingiustizie con i poveri, soprattutto perché questa guerra ha causato più di 1.000 morti e più di 200.000 persone sono state sfollate. A questo quadro si aggiunge il numero di persone torturate, sottoposte a crudeli punizioni, detenute e prigioniere. Siamo anche preoccupati per il numero di persone rapite, violando così la sopracitata Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Conseguenze immediate di questi eventi
Abbiamo sperimentato molte conseguenze, tra queste: a) villaggi abbandonati; b) la fame che è aumentata, perché la terra non viene coltivata; c) la perdita del poche risorse (case, vestiti, cibo, ecc.); d) la destrutturazione delle famiglie, costringendone i membri a disperdersi ovunque; e) la vita comunitaria è distrutta: nessuno sa dove siano i catechisti, gli animatori, i ministri di molte comunità; f) l’anno scolastico è stato compromesso; g) la paura attanaglia le persone e c’è sfiducia e diffidenza per l’arrivo di qualsiasi persona sconosciuta nel villaggio.
Gli agenti pastorali
Pensando alla sicurezza e garantendo la presenza dei missionari e dei missionari, Don Luiz Fernando ha riunito gli agenti pastorali nella diocesi. A giugno, i missionari della regione settentrionale hanno inviato un messaggio alle comunità: “Come molti di voi, la maggior parte dei missionari ha dovuto lasciare i propri luoghi di missione. Speriamo di essere di nuovo insieme presto. Questa semplice lettera è quella di dire a tutti che noi Missionari e Missionari preghiamo ogni giorno per tutte le persone e le comunità! Che cii manca tantissimo lo stare con voi! Che speriamo che tutto questo passi presto in modo da poter servire di nuovo tutti, come abbiamo sempre fatto!
La nostra preghiera in questo momento ha sempre due intenzioni: per la fine di questa sofferenza che si è diffusa ovunque e per PEACE in CABO DELGADO! Pregate anche voi per queste intenzioni: che gli attacchi finiscano presto e tutti possano tornare al loro lavoro e alle loro celebrazioni“.
Necessità di misure nazionali e internazionali
A nostro avviso, è più che necessario far conoscere questa guerra sulla scena internazionale in modo che le persone e le organizzazioni internazionali abbiano accesso alle informazioni e alle situazioni del paese. Un altro passo è il coraggio di denunciare, in un linguaggio ecclesiale, come esercizio di profezia.
Da un punto di vista politico/militare, alcuni parlano di cooperazione tra paesi alleati che agiscono in questa regione. Tuttavia, abbiamo poche informazioni sulle azioni che vengono eseguite dalla forza di sicurezza. Ogni tanto sentiamo che l’esercito ha combattuto i terroristi, tuttavia, in un’altra parte della regione, siamo colti alla sprovvista dalla notizia di ulteriori attacchi.
Rapporti dei fatti indecisi e informazioni di parte
Questa guerra ha generato grande angoscia emotiva, sia nel nostro vescovo, come nei missionari e residenti situati nella regione settentrionale e in tutta la diocesi. Le nostre attività quotidiane si rivolgono alle azioni più urgenti: aiutare le persone in fuga dalla guerra, sostenere e confortare i familiari che hanno perso le loro famiglie, fornire cibo, organizzare luoghi di accoglienza. In questo senso, è importante riconoscere l’efficace lavoro della Caritas diocesana in collaborazione con le nostre attività. Inoltre, dobbiamo riconoscere le azioni di molte organizzazioni internazionali: le Nazioni Unite (ONU), il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), tra gli altri.
Questo atteggiamento serve a dire che la nostra attenzione si rivolge puntualmente a questa situazione. Tuttavia, siamo stati costantemente bombardati da rapporti totalmente stravolti, bugiardi, con notizie di tendenziose che attaccano soprattutto la persona di Dom Luiz Fernando. Il Vescovo di Pemba è stato vittima di calunnie e di dure e menzogne. In un primo momento, diversi settori della diocesi hanno cercato di rispondere. Poi facciamo conoscere gli articoli e li lasciamo liberi per le dimostrazioni. Uno di questi articoli che ha calunniato Dom Luiz ha stimolato l’iniziativa di diverse organizzazioni, a Maputo, la capitale del paese, per creare una campagna di sostegno con firme digitali. In cinque giorni, questa petizione aveva migliaia di firme.
Solidarietà internazionale
Sappiamo che il continente africano non suscita l’interesse di molti paesi, né dei media tradizionali. Pertanto, uno degli ordini del giorno che dobbiamo assumere nelle nostre azioni pastorali e nei media che abbiamo è quello di diffondere tutto ciò che possiamo sull’Africa, in particolare la situazione di Cabo Delgado in Mozambico. Qualsiasi azione di solidarietà – che sia il gesto minimo, o un’azione politica – organizzata dal punto di vista politico – in questo momento è di fondamentale importanza. Auguriamo urgentemente pace a Cabo Delgado; speriamo che le persone tornino alle loro case, villaggi e comunità, che i nostri missionari possano tornare all’opera di evangelizzazione in un ambiente sicuro, rispettando e valorizzando le singolarità del nostro popolo africano. In questo momento di fragilità, quando i missionari sono lontani dalla missione come misura di sicurezza, qualche parola o azione che viene da qualsiasi organizzazione, ecclesiale o sociale, è un gesto evangelico. Ogni azione di solidarietà dimostra la nostra umanità, ogni gesto di condivisione mostra il Vangelo vissuto nella pratica, incarnato nell’esperienza del popolo.
Papa Francesco e la solidarietà ecclesiale
In questo clima di guerra e Covid-19, attività pastorali poi nelle dinamiche della “nuova normalità”. È un tempo di tristezza, di famiglie separate, di comunità tutte distrutte… in questo momento la solidarietà, le parole di conforto e di incoraggiamento sono importanti per noi per continuare il nostro cammino. Essi vengono attraverso diverse “porte” e provengono da vari luoghi.
Tra questi gesti di solidarietà, si evidenzia quella di Papa Francesco. Questo riconoscimento del Papa è importante per noi perché indica che non siamo soli in questa ardua missione. Nella recita dell’Angelus della Domenica di Pasqua, il 12 aprile 2020, Francesco ha menzionato la guerra di Cabo Delgado. Cinque mesi dopo, in occasione della sua visita in Mozambico a Maputo, ripete ancora una volta la sua preoccupazione.
Più tardi, Don Luiz scrive personalmente a Papa Francesco riportando ciò che sta accadendo. Il 19 agosto 2020, alle 11:29, Dom Luiz riferisce:“Con mia grande sorpresa e gioia, ho ricevuto una chiamata da Sua Santità, Papa Francesco, che mi ha molto confortato. Ha detto che è molto vicino al Vescovo e a tutto il popolo di Cabo Delgado e segue con grande preoccupazione la situazione vissuta nella nostra Provincia e che ha pregato per noi”. Don Luiz continua e descrive il suo colloquio con il Papa: “finalmente, il Papa ha detto che è con noi e ci ha incoraggiato: adelante!”, che significa: in avanti! coraggio!…
Nella stampa spesso media e calunniosa, c’erano anche coloro che dubitavano della veridicità della telefonata. Per queste menti, la risposta è arrivata in soli quattro giorni quando, nella recita dell’Angelus del 23 agosto 2020, Papa Francesco ha detto: “Vorrei ribadire la mia vicinanza al popolo di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale, che soffre a causa del terrorismo internazionale. Lo faccio nel ricordo vivente della mia visita in quell’amato paese circa un anno fa”.
Pertanto, in questo momento di sofferenza, in cui la fragilità umana aflora, ogni parola o gesto ha un grande significato. Vorremmo finire dicendo che questo racconto è riassunto in una parola così semplice e piccola, ma al momento è ancora lontano da una pratica: vogliamo PEACE! La gente di Cabo Delgado vuole PEACE! La gente vuole tornare alle proprie comunità e vivere in PEACE! I missionari vogliono tornare nelle parrocchie e vivere in PEACE!
Secondo ACLED, acronimo di Location of Armed Conflicts and Event Data, dal 2017 ci sono stati 823 conflitti armati in Mozambico, 534 dei quali si sono verificati a Cabo Delgado (396 direttamente contro i civili). Durante questo periodo, dei 1678 ucciso nei conflitti nel paese, 1496 erano nella provincia di Cabo Delgado.
Padre Edegard Silva Jànior, è un missionario brasiliano salettiano che lavora nella Missione di Muidumbe nella diocesi di Pemba. Il sacerdote ha inviato queste informazioni a nome della Diocesi in modo che il mondo conosca la situazione di Cabo Delgado e mostri solidarietà con quella gente.
Jihad in Africa: nuovo fronte a Cabo Delgado, Mozambico
testo di Enrico Casale |
È il 2010 quando alcuni importanti giacimenti di gas sono individuati nel Nord Mozambico. Poco dopo escono allo scoperto gruppi di miliziani radicalizzati che compiono attentati. Poi il livello degli assalti si alza. E i misteri restano tanti.
Jihadisti? Banditi comuni? Mercenari prezzolati da società straniere? Chi siano, nessuno lo sa con precisione. Come nessuno sa chi li finanzi, li armi, li sostenga. Sul perché degli attacchi violentissimi, anche recenti, nella provincia di Cabo Delgado nel Nord del Mozambico, il mistero è fitto. Non si sa con precisione neppure quante persone siano morte. C’è chi parla di 500, chi di mille, chi molte di più. L’unica cosa certa è il terrore che si è sparso nella provincia e nelle stanze del governo di Maputo.
Lo scenario
Cabo Delgado è una provincia che ha sofferto molto durante la guerra d’indipendenza (1964-1974) e durante quella civile (1977-1992), ed è una delle aree più trascurate del paese. A livello nazionale, ha i più elevati tassi di analfabetismo, disuguaglianza e malnutrizione infantile. È una delle poche province a maggioranza musulmana. Ma è un islam moderato che, da sempre, segue una tradizione sufi. «I musulmani locali – spiega una fonte missionaria che vuole rimanere anonima – non hanno mai dimostrato atteggiamenti violenti o di intolleranza. L’islam si è fuso con la cultura locale e ha dato vita a una fede aperta e tollerante. I rapporti tra cristiani e musulmani sono sempre stati amichevoli. Si lavora e si vive insieme in serenità».
Questa pace sociale ha iniziato a essere messa in discussione dopo la scoperta nel 2010, da parte dell’americana Anadarko e dell’italiana Eni, di enormi giacimenti di gas proprio davanti alle coste di Cabo Delgado. Attualmente, tre dei maggiori progetti di gas naturale liquefatto al mondo sono in fase di realizzazione, con un investimento complessivo che arriverebbe a superare i 50 miliardi di dollari. Due di questi, Coral South e Rovuma Lng, vedono Eni tra le dirette interessate. «Il Mozambico – scrive il quotidiano “Il Sole 24 Ore” – promette di diventare nel giro di cinque anni il secondo fornitore di gas naturale liquefatto al mondo, superato soltanto dal Qatar.
Uno sviluppo col turbo, almeno nelle aspirazioni, persino più veloce di quello pianificato dagli Stati Uniti per lo shale gas (il petrolio da scisto)».
Lo sfruttamento di questi vasti giacimenti ha comportato l’esproprio di numerose terre e la forte riduzione delle aree di pesca. Ciò ha creato ulteriore difficoltà e disoccupazione in una terra povera. E, ovviamente, ha alimentato il malcontento tra la popolazione che viveva già sulla soglia della povertà.
Gli estremisti
In questo contesto, dominato dalla miseria e dallo sfruttamento straniero delle risorse, hanno iniziato a manifestarsi le prime forme di malcontento e di rabbia. Una decina di anni fa è nato il gruppo Ahlu sunnah wa jamo / Ansar al-Sunna. Si sa con certezza che a crearla sono stati Nur Adremane e Jafar Alawi, entrambi di Mocimboa da Praia. Due musulmani fondamentalisti che si sono ispirati ad Aboud Rogo, un predicatore islamico che si ritiene sia stato tra gli organizzatori dell’attentato all’ambasciata Usa a Nairobi nel 1998, e tra i finanziatori di al-Shabaab in Somalia (prima di essere assassinato a Mombasa nel 2012). I due predicatori mozambicani hanno iniziato a frequentare le moschee di Cabo Delgado incoraggiando i giovani a lasciare le scuole governative e ad accettare «borse di studio» per frequentare le scuole coraniche in Sudan e in Arabia Saudita. È proprio nella Penisola arabica che questi mozambicani si sono radicalizzati. Sono giovani tra i 25 e i 30 anni, principalmente Kimwani, il gruppo etnico più emarginato socialmente ed economicamente.
Da qui in avanti la storia si è fatta più nebulosa. Al gruppo originario si sarebbero aggiunti miliziani provenienti da Tanzania, Somalia e Grandi Laghi (Rd Congo, Ruanda, Burundi). Da questo gruppo radicalizzato, che promuove un’applicazione dura e letterale della legge islamica, nel 2013 avrebbe poi preso forma al-Shabab (senza però avere alcun rapporto con l’omonimo, ma più famoso, gruppo jihadista somalo).
Sono supposizioni basate su elementi sommari. Non si sa, per esempio, dove trovino i fondi per finanziarsi e chi abbia promosso le loro azioni. Ciò che è certo è che, nel 2015, sono iniziate le prime violentissime operazioni sul campo.
Terrorismo
I primi attacchi vengono organizzati nelle campagne della provincia di Cabo Delgado nel 2017. I miliziani prendono di mira piccoli villaggi. Li assaltano e uccidono in modo efferato uomini, donne e bambini. Incendiano le capanne e i raccolti. E, una volta compiuta l’azione, spariscono e tornano nei loro rifugi. La gente è spaventata. Molte famiglie fuggono dalle proprie abitazioni per cercare riparo in zone più protette.
La reazione dello stato non è pronta. Di fronte ai primi attacchi, Maputo invia rinforzi alla polizia, ma sono insufficienti. Poi invia i militari. I reparti che salgono al Nord sono composti da ragazzi di leva, male armati, male equipaggiati e, soprattutto, demotivati. Infatti gli attacchi continuano. Sempre più cruenti. Inizialmente, però, i miliziani assaltano all’arma bianca, con vecchi machete. A volte organizzano imboscate ai convogli dei militari o delle forze di polizia. Uccidono i soldati e gli agenti e si impossessano delle loro divise. Travestiti da militari attaccano altri villaggi. La popolazione, confusa, non sa se è stata presa d’assalto dalle forze dell’ordine o dai miliziani. E fugge. In un video girato dai terroristi nella provincia di Cabo Delgado e fatto circolare sul web, si vedono uomini armati che camminano nell’erba alta e costeggiano un grande edificio bianco. La maggior parte di essi porta con sé fucili automatici e indossa uniformi dell’esercito mozambicano. In lontananza si ode qualche sparo e voci che gridano «Allahu Akbar» (Dio è grande). In un altro video, sempre pubblicato sul web, si vede un poliziotto morto e poi, quando lo zoom apre l’inquadratura, se ne vede un secondo, poi un terzo, un quarto. Infine una pila di armi automatiche in quello che può essere un deposito della polizia o delle forze armate.
il Salto di qualità
All’inizio del 2020 si registra «un salto di qualità» negli attacchi. In mano ai miliziani non ci sono più i machete, ma le armi automatiche rubate nei depositi delle forze dell’ordine. L’obiettivo non sono più il villaggio o la colonna di militari, ma centri importanti: Mocimboa da Praia, Kisongo e Mudimbe. A Quissanga attaccano e occupano la caserma della polizia e issano sul tetto la bandiera nera dello Stato islamico. Lo stesso Daesh, attraverso i suoi media, rivendica l’azione e, di fatto, riconosce i miliziani come suoi «soldati».
«All’inizio – spiega dom Luis Fernando Lisboa, vescovo di Pemba in un’intervista alla Fondazione Missio – si parlava di un nemico senza volto. Negli ultimi attacchi si sono presentati come miliziani dell’Isis. Abbiamo però dubbi sulla reale affiliazione allo Stato islamico. Usano questo nome, ma non abbiamo la certezza che siano realmente legati alla rete fondata da Abu Bakr al-Baghdadi». La stessa tesi è sostenuta dai missionari sul posto da noi sentiti: «Gli ultimi attacchi sono stati ben pianificati. Si è notato un salto di qualità nell’azione. Le strutture del governo sono state bruciate in modo sistematico. La matrice religiosa, però, è emersa solo poco tempo fa. In Mozambico si pensa che ci siano interessi particolari che si nascondono dietro la copertura religiosa».
A chi giova?
In realtà non si sa chi ci possa essere dietro questi terroristi. Secondo alcuni esperti internazionali, al-Shabab mozambicano sarebbe uno strumento in mano a gruppi di potere che cercano di accaparrarsi i ricchi giacimenti della provincia, oppure sarebbero la pedina che alcuni politici muovono da Maputo per contrastare il governo legittimo. «Le ricchezze del sottosuolo possono essere la causa di questa ribellione? – si chiede dom Luis Fernando Lisboa -. Difficile dirlo. In merito non abbiamo certezze. Sappiamo che altrove, in Nigeria, ma anche in Iraq e in Siria, gruppi jihadisti hanno sempre cerato di impossessarsi dei campi petroliferi. Qui nel Nord del Mozambico abbiamo grandi giacimenti di gas. Può essere che ci sia qualcuno che sfrutta queste milizie per impadronirsi di queste aree. A mio parere, però, ci sono altre ragioni. Il Mozambico è uno dei paesi più poveri al mondo e la provincia di Cabo Delgado è sempre stata emarginata. Questa povertà spinge i giovani nelle braccia di fondamentalisti, tanto più che al-Shabab paga i miliziani e offre loro cibo».
Di fronte a queste minacce le aziende energetiche coinvolte nello sviluppo del bacino del Rovuma hanno cercato di isolarsi. Le imprese di sicurezza ricevono più di un milione di dollari al mese per tenere al sicuro i lavoratori. Queste guardie arruolano scorte armate provenienti dai reparti migliori delle forze governative. Una pista d’atterraggio è stata costruita a Pelma, la cittadina che serve gli impianti offshore.
Oltre a propagandare un islam feroce e fanatico, questi miliziani controllano anche una serie di traffici illeciti e il contrabbando di merci con la Tanzania. «Tutti hanno puntato gli occhi verso i giacimenti di gas – osserva un missionario del posto -, ma questa zona è ricchissima di risorse naturali: rubini, legno pregiato, ecc. La gestione di queste risorse fa gola a molti. Voci dal territorio parlano anche di traffici di sostanze illecite e, addirittura, di organi umani. Sono voci, e non mi sento di sottoscriverle, ma tutto è verosimile in questo contesto».
Cristiani e musulmani
A subire gli attacchi è tutta la popolazione locale, sia essa di fede islamica o cristiana. Recentemente sono state attaccate anche alcune missioni. Ad Awasse è stata attaccata la comunità dei monaci benedettini. Gli assalitori hanno distrutto tutto e si sono impossessati di molti beni, inclusa un’automobile. I religiosi sono stati costretti a rifugiarsi nella boscaglia dove sono stati due giorni. Il vescovo di Pemba ha chiesto a loro e alle loro consorelle benedettine di trasferirsi in Tanzania per mettersi in sicurezza. Se i cristiani piangono le loro vittime, altrettanto fanno i musulmani. «Le prime vittime di questi attacchi – continua il missionario – sono proprio i musulmani. La comunità islamica locale è terrorizzata». «Fin dall’inizio – osserva dom Luis Fernando Lisboa -, i musulmani del Mozambico hanno preso le distanze da questi attacchi. I leader hanno condannato le uccisioni e le violenze affermando che tutto ciò non ha nulla a che fare con l’islam. Lo stesso hanno fatto il Consiglio islamico e il Congresso musulmano che, in un appello, hanno dichiarato che non considerano islamici questi miliziani e che essi non possono in alcun modo utilizzare il nome dell’islam». «Come fantasmi – conclude il vescovo -, i ribelli compaiono e scompaiono senza farsi vedere, lasciando dietro di se i resti dei disastri compiuti. Ma sappiamo che i fantasmi non esistono. È un pezzo di lenzuolo che nasconde qualcosa o qualcuno. Dobbiamo togliere questo lenzuolo per smascherare chi si nasconde dietro».