La guerra dei sonnambuli


Nel tempo del pericolo nucleare, i decisori politici e l’opinione pubblica sono prigionieri della logica binaria che non vede alternative alla violenza per rispondere alla violenza (e «vincere»). È necessario rimettere al centro i principi e i saperi della resistenza nonviolenta. Prima che sia tardi.

Di questi tempi bisognerebbe rileggere il libro I sonnambuli dello storico Christopher Clark che descrive tutti coloro che avevano le leve del potere e dell’informazione nel 1914 come sonnambuli, apparentemente vigili, ma incapaci, in realtà, di rendersi conto che stavano conducendo il mondo nel baratro di quella «grande guerra» che papa Benedetto XV avrebbe definito «l’inutile strage».

A giudicare dalle scelte fatte e reiterate dai governi rispetto alla guerra in Ucraina, e dalle posizioni veicolate dalla maggior parte dei mezzi d’informazione, un’analoga epidemia di sonnambulismo sembra contagiare anche i decisori e i media di oggi.

Essi, infatti, fanno scelte ed esprimono posizioni non all’altezza dei tempi che attraversiamo, perché prive di consapevolezza della «situazione atomica» nella quale siamo immersi.

Siamo come gli «utopisti al rovescio» de Le tesi sull’età atomica del filosofo Gunter Anders: «Mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto». Siamo incapaci di superare la distanza che separa la capacità distruttiva delle armi nucleari da quella di generare pensieri, discorsi e azioni consapevoli e responsabili. Soprattutto in questo varco critico della storia, nel quale la minaccia atomica viene brandita come mai prima.

Photo by Thomas Gaulkin/Bulletin of the Atomic Scientists.

100 secondi alla mezzanotte

Se questa definizione di Anders del 1960 era vera allora, quando la coscienza del pericolo atomico era diffusa, è incomparabilmente più vera oggi, quando si è persa la memoria del trauma di Hiroshima e Nagasaki: se nel 1960 le lancette dell’«orologio dell’apocalisse», l’orologio simbolico ideato dal «Bollettino degli scienziati atomici» per misurare quanto siamo vicini all’olocausto nucleare, erano posizionate a 7 minuti dalla mezzanotte (la fine del mondo), oggi sono a soli 100 secondi.

Questa dimenticanza dell’olocausto atomico la spiega bene lo storico Daniel Immerwahr su «The Guardian», riportato da «Internazionale» del 21-27 ottobre 2022: «Con il passare del tempo i traumi svaniscono, per nostra fortuna. Vogliamo che la bomba atomica sia proprio questo: un fatto arcaico definitivamente relegato nel passato. Ma non raggiungeremo questo obiettivo ignorando la possibilità della guerra nucleare. Dobbiamo smantellare gli arsenali, rafforzare i trattati e consolidare le norme contro la proliferazione. In questo momento stiamo facendo il contrario. La nostra coscienza nucleare si è atrofizzata. Ci rimane un mondo pieno di armi atomiche che però si sta svuotando delle persone consapevoli delle possibili conseguenze».

Benzina invece di pompieri

Questo svuotamento di consapevolezza sembra attraversare il dibattito pubblico e le scelte politiche fin dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina conducendo tutti a irreggimentarsi nella logica binaria – pace/vittoria; resistenza/resa – che ha militarizzato il pensiero e la discussione, alimentando «l’emozione unidirezionale pro/contro, come se fossimo tutti noi sul campo di battaglia», come ha scritto la politologa Nadia Urbinati su «Domani» già il 5 marzo 2022.

Il sostegno armato alla legittima difesa degli ucraini è così diventato, immediatamente, il solo mezzo e l’unica via alla «pace». Altre possibilità di uscita dalla guerra sono state escluse. L’unica opzione è rimasta quella di mandare sempre più armi per raggiungere la «vittoria» (impossibile in un contesto di permanente minaccia atomica).

Abbiamo così visto all’opera, ancora una volta, il riflesso pavloviano, automatico, del rispondere alla guerra con la guerra, e di gettare benzina sul fuoco invece di inviare «pompieri» per spegnerlo e dipanare la matassa del conflitto in favore di una soluzione sostenibile e duratura. In un avvitamento progressivo verso l’escalation che ha riportato all’ordine del giorno anche il possibile uso di armi nucleari.

(Photo by Andrea Ronchini, Ronchini / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Ripartire dal dialogo

Tutto questo ha impedito ai singoli governi europei e all’Ue nel suo insieme di assumere una posizione di «neutralità attiva» – come ha chiesto fin da subito la Rete italiana pace e disarmo – che non è equidistanza tra aggressore e aggredito, ma la postura che forse le avrebbe consentito di ricoprire il ruolo di soggetto pacificatore nel contesto di un conflitto che non è scoppiato un anno fa, ma già nel 2014.

Una colpevole rinuncia, questa dell’Ue, che lascia il ruolo di mediatore all’autocrate Erdogan.

Chi, invece, si è tenuto vigile e lungimirante nella ricerca di una mediazione, è stato papa Francesco, con i suoi ripetuti appelli alla pace e al disarmo, sui quali ha condotto anche i principali leader religiosi con la straordinaria Dichiarazione del Colosseo dello scorso 24 ottobre, un testo che – proprio perché ignorato da media e governi – merita di essere ampiamente citato.

«Con ferma convinzione diciamo: basta con la guerra! Fermiamo ogni conflitto. La guerra porta solo morte e distruzione, è un’avventura senza ritorno nella quale siamo tutti perdenti. Tacciano le armi, si dichiari subito un cessate il fuoco universale. Si attivino presto, prima che sia troppo tardi, negoziati capaci di condurre a soluzioni giuste per una pace stabile e duratura. Siamo di fronte a un bivio: essere la generazione che lascia morire il pianeta e l’umanità, che accumula e commercia armi, nell’illusione di salvarsi da soli contro gli altri, o invece la generazione che crea nuovi modi di vivere insieme, non investe sulle armi, abolisce la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e ferma lo sfruttamento abnorme delle risorse del pianeta. L’umanità deve porre fine alle guerre o sarà una guerra a mettere fine all’umanità. Il mondo, la nostra casa comune, è unico e non appartiene a noi, ma alle future generazioni. Pertanto, liberiamolo dall’incubo nucleare. Riapriamo subito un dialogo serio sulla non proliferazione nucleare e sullo smantellamento delle armi atomiche. Ripartiamo insieme dal dialogo che è medicina efficace per la riconciliazione dei popoli. Investiamo su ogni via di dialogo. La pace è sempre possibile! Mai più la guerra! Mai più gli uni contro gli altri!».

Mezzi coerenti con i fini

Per trovare, dunque, una via di uscita dalla guerra che non sia catastrofica per tutti – a cominciare dal popolo ucraino -, occorre recuperare un principio fondamentale e alcuni saperi dell’agire politico. Il principio è quello teorizzato già da Max Weber alla fine della Prima guerra mondiale: l’etica della responsabilità che, al contrario dell’etica delle intenzioni, cerca di prevedere le conseguenze dell’agire. Essa indica il rischio che un obiettivo buono possa essere realizzato producendo «effetti collaterali» negativi. Suggerisce, quindi, di mettere in campo mezzi coerenti con i fini da raggiungere. In altre parole: il fine non giustifica i mezzi.

Nel nostro tempo il «Principio responsabilità», riformulato da Hans Jonas come «etica per la civiltà tecnologica», prescrive di agire «in modo che le conseguenze dell’azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra». È il principio espresso anche nel Manifesto Einstein-Russell del luglio 1955: «Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?».

(Photo by Tiziana FABI / AFP)

La nonviolenza

Per fare in modo che il «principio responsabilità» sia applicato nei conflitti, però, non basta enunciarlo, occorre mettere in campo i saperi conseguenti della nonviolenza, fondati esattamente sulla coerenza tra i mezzi e i fini dell’agire. Si tratta, per esempio, dei saperi della mediazione che forniscono la consapevolezza che nei conflitti degenerati in violenza e lasciati a se stessi (o, peggio, alimentati da istigatori come l’industria bellica che vince tutte le guerre), a ogni azione violenta di una parte corrisponde un’azione contraria di livello di violenza superiore dall’altra, in un crescendo che arriva alla potenziale distruzione dell’altro, o di entrambi, se non intervengono soggetti terzi a mediare.

Si chiama dinamica dell’escalation, quella che Mohandas K. Gandhi spiegava dicendo che «occhio per occhio, il mondo diventa cieco».

Inoltre nella vulgata binaria che costruisce fin dagli inizi di questa guerra la narrazione tossica anti-pacifista, mancano i saperi di oltre un secolo di efficaci lotte nonviolente e resistenze disarmate. Essi, anche in Ucraina, soprattutto nel primo periodo di invasione, sono stati praticati dalla popolazione civile, prima di essere superati e oscurati dal massiccio invio di armi.

Sono saperi che non sfuggivano, per esempio, ad Hannah Arendt che ne La banalità del male, faceva un appello (inascoltato) affinché la resistenza disarmata danese all’occupazione nazista fosse studiata in tutte le facoltà di scienze politiche «per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori». La Danimarca, infatti, fu l’unico paese in Europa che, sotto l’occupazione nazista, venne risparmiato da stragi e rappresaglie, e nel quale furono salvati dalla deportazione quasi tutti i cittadini di origine ebraica.

Corpi civili di pace

I movimenti per la pace, da almeno trent’anni – dalla guerra nella ex Jugoslavia -, propongono ai governi, senza essere mai stati presi in considerazione, la costituzione dei Corpi civili europei di pace, e mettono in campo esperienze di interventi di mediazione internazionale di pace nati e gestiti dal basso.

Con un esperimento di storia controfattuale potremmo immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se nelle regioni del Donbass, a partire dal 2014, invece di far arrivare armi e armati a entrambe le parti, fosse stato inviato un Corpo civile di pace internazionale per fare interposizione, mediazione, comunicazione, riconciliazione tra le comunità, secondo la proposta che già nel 1995 Alex Langer aveva avanzato al Parlamento europeo. Langer non fu ascoltato, e nemmeno i movimenti nonviolenti che hanno continuato a proporlo, a progettarlo e, qualche volta, anche a sperimentarlo.

(Photo by Andrea Ronchini, Ronchini / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Obiettori e disertori

Tra i saperi da recuperare e valorizzare, ci sono poi quelli dei disertori e obiettori di coscienza, sia alla guerra di Putin che alla difesa armata dell’Ucraina.

Il movimento degli obiettori di coscienza russi è in crescita: si stima che siano almeno 100mila, come spiega Elena Popova, coordinatrice del Movimento degli obiettori russi: «Sono tanti i giovani che non vogliono partecipare alla guerra, e quelli che sono stati obiettori di coscienza in passato stanno ora aiutando altri a diventare obiettori. Grazie alla loro esperienza, guidano amici e familiari in tutto ciò che è necessario fare per non prendere parte all’esercito».

Anche i pacifisti ucraini – incontrati dalla delegazione della carovana #Stopthewarnow lo scorso ottobre (cfr. MC dic 2022) – rifiutano la logica della guerra a oltranza e chiedono al proprio governo di impegnarsi nei negoziati di pace. Per gli uni e gli altri è attiva la campagna internazionale di protezione e asilo.

Ripudiare la guerra

Nella Costituzione italiana il «principio responsabilità» e i saperi elencati sopra non mancano. A essa i costituenti iniziarono a lavorare poco meno di un anno dopo le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

Per questo, nell’articolo 11, non sembrò abbastanza esplicito il verbo «rinunciare» della prima stesura, e scelsero il verbo «ripudiare», che contiene il disprezzo per ciò che si è conosciuto e si vuole allontanare per sempre.

Inoltre, non sembrò sufficiente ripudiare la guerra come «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», ma aggiunsero anche come «mezzo di risoluzione delle controverse internazionali», nella duplice consapevolezza che i conflitti non sono eliminabili e che non si possono risolvere con la guerra. Soprattutto nell’epoca atomica. Per questo bisogna trovare mezzi alternativi alla guerra per affrontarli.

A questo scopo, il secondo comma dell’articolo 11 – che «consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni» e «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» – fa riferimento alle
Nazioni Unite che erano nate già nell’ottobre del 1945 per «liberare l’umanità dal flagello della guerra» attraverso la risoluzione delle «controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace, la sicurezza internazionale e la giustizia non siano messe in pericolo».

Un’altra difesa possibile

È alla luce di questi principi e saperi che le organizzazioni impegnate per la pace e il disarmo, riunite nel cartello Europe for Peace, hanno organizzato molte iniziative di mobilitazione dal basso: da quella del 5 marzo a quella del 23 luglio, dal 21-23 ottobre alla grande manifestazione del 5 novembre a Roma.

La richiesta ai governi, sempre più pressante, è di cessare il fuoco, indire una Conferenza internazionale di pace, sottoscrivere il Trattato Onu per la messa al bando delle armi nucleari.

Principi e proposte coerenti con la campagna «Un’altra difesa è possibile» che, in Italia, già per due legislature consecutive ha presentato in parlamento una proposta di legge organica per la creazione di una vera difesa civile, non armata e nonviolenta, secondo gli articoli 11 e 52 della Costituzione.

È necessaria una via d’uscita nonviolenta dalla crisi sistemica globale in corso, che è ecologica, climatica, idrica, energetica, alimentare, pandemica, e che genera continui conflitti per le risorse (circa 170, secondo l’università di Uppsala, Svezia). Oppure, con 13mila testate nucleari puntate sulle teste di tutti, non ne usciremo vivi.

Pasquale Pugliese*

* Filosofo di formazione, ha studiato il pensiero della nonviolenza. Per anni educatore in contesti complessi, oggi si occupa di politiche giovanili. Cura percorsi sulla nonviolenza, ed è formatore per il Servizio civile.
È impegnato nel Movimento Nonviolento e, fino al 2019, nella Segreteria nazionale. Fa parte della redazione di «Azione nonviolenta», rivista fondata nel 1964 da Aldo Capitini.
A Reggio Emilia ha contribuito a fondare e animare la Scuola di Pace.
Sul web, oltre ai suoi profili Facebook, Twitter e Instagram, cura un sito su nonviolenza e disarmo. Inoltre, oltre a collaborare con diverse testate, cura un blog personale sulla rivista vita.it.
Nel 2018 ha pubblicato il volume Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini. Elementi per la liberazione dalla violenza, i cui diritti d’autore vanno al Movimento Nonviolento, e nel 2021 Disarmare il virus della violenza. Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca della pandemia, entrambi editi da GoWare.




Come i Magi, portando doni


Le celebrazioni del Santo Natale avvengono rispettivamente il 25 dicembre per i cattolici e il 7 gennaio per le chiese ortodosse e i greco cattolici. Tra queste due date don Leszek Krzyża ed io siamo stati nuovamente in Ucraina per portare aiuti umanitari e incontrare le comunità.

Dall’Italia sono partiti due grandi tir con destinazione rispettivamente Odessa e Karkhiv per un totale di oltre 35 tonnellate di aiuti, raccolti con un progetto realizzato dall’Associazione Eskenosen di Como, il gruppo SOS emergenza Ucraina Cantú, la Caritas della comunità pastorale San Vincenzo di Cantù, la parrocchia di Rebbio-Como e il sig. Francesco Aiani e alcuni amici di Milano grazie ai quali sono state raccolte tavole di legno per chiudere le finestre degli edifici bombardati, e anche generatori di corrente elettrica, cibo, medicine oltre a una cospicua somma devoluta per acquistare sul posto piccole stufe casalinghe. Noi stessi abbiamo trasportato sulla macchina sei piccoli generatori e scatole di medicinali. Il programma del viaggio è stato creato giorno dopo giorno tenendo conto dei continui combattimenti in alcune zone del paese e rispondendo ai tanti inviti, ma anche ricevendo in diretta garanzie e suggerimenti sulle strade da percorrere. I nostri spostamenti sono stati sempre seguiti dall’Ambasciata italiana a Varsavia così come dalla Nunziatura apostolica in Ucraina.

1° gennaio

Il primo dell’anno arriviamo a Leopoli in serata. Leopoli è una grande città vicina al confine polacco. Qui vivono centinaia di migliaia di profughi provenienti dalle regioni più colpite. Purtroppo, anche qui sono avvenuti bombardamenti soprattutto sulle centrali elettriche della città e provincia. Don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio aiuto alla chiesa nell’Est presso la Conferenza episcopale polacca, con cui viaggio, ha contatti in tutto il paese. Telefoniamo alle Suore Francescane di frate Alberto (Fratelli Albertini e Suore Albertine), una congregazione polacca, per chiedere ospitalità per una notte. La notte trascorre tranquilla.

2 gennaio

Foto 1 – Fratelli Francescani di padre Alberto distribuiscono cibo ai poveri

Al mattino ci raggiunge Rika Itozawa assistente di don Leszek, che era già in Ucraina da qualche giorno in un orfanotrofio visitato nei viaggi precedenti. Prima di lasciare la città le suore ci mostrano il complesso in costruzione che prevede una nuova parrocchia e una casa di accoglienza per giovani madri coi loro bambini. Molte sono le donne che soffrono non solo a motivo della guerra, ma anche per gravi problemi familiari. Qui fra poco potranno trovare conforto e iniziare una nuova tappa di vita. A fianco di questo centro, sempre in città, incontriamo i fratelli della stessa congregazione che quotidianamente distribuiscono cibo ai senza tetto e ai rifugiati (foto 1). Li salutiamo lasciando un’offerta e anche un nuovo tabernacolo comprato in Polonia per la nuova cappella.

Lo stesso giorno il nostro viaggio continua in direzione di Kiev. Raggiungiamo la capitale in serata accolti nella Nunziatura Apostolica. Kiev si trova nel centro del paese ed è il crocevia per tutte le direzioni delle città più importanti. Fino la notte precedente al nostro arrivo a Kiev sono stati lanciati molti razzi e droni, quasi tutti intercettati dalla contraerea. Infatti, la difesa ultimamente è molto migliorata e le percentuali degli abbattimenti sono molto alte. Purtroppo, i detriti non si possono controllare e a volte causano danni. Su uno di questi lanciato la notte di Capodanno c’erano scritti ironicamente gli auguri di buon anno. A sera facciamo un breve giro della città. (foto 2).

3 gennaio – Odessa

Foto 3 – Don Leszek consegna due generatori al cancelliere del vescovo di Odessa (mons. Stanislav Šyrokoradjuk).

La mattina dopo, ristorati e riposati, partiamo per il Sud, destinazione Odessa, che raggiungiamo dopo poche ore di viaggio. La città che si affaccia sul Mar Nero è ricca di storia e di cultura, ed è il porto principale da cui partono gigantesche navi container che trasportano tonnellate di cereali per tutto il mondo. Da quando è scoppiata la guerra queste navi sono rimaste a lungo bloccate nel porto e questo ha innescato una gigantesca crisi con il rialzo dei prezzi in tutto il mondo. La zona del porto e la spiaggia sono minate, non sono accessibili e non si possono fotografare. Odessa deve difendersi dal tentativo di occupazione, vero obiettivo che garantirebbe il totale controllo del traffico marittimo. La nostra visita è breve. Incontriamo il vescovo locale mons. Stanislav Šyrokoradjuk, a cui lasciamo due generatori di corrente e una somma di denaro per gli aiuti da acquistare sul posto (foto 3). Qui deve arrivare a giorni uno dei due tir provenienti dall’Italia con un carico di generatori e di assi di legno. Vediamo solo velocemente la piazza centrale dove al posto della statua della zarina Caterina II oggi sventola la bandiera ucraina (foto 4). Questa città, infatti, come le altre vicine sulla costa, come Mykolaiv e Kherson, sono state costruite dai russi e ancora oggi la lingua più parlata qui è il russo. Queste premesse però non sono bastate alla popolazione locale per accettare l’occupazione, al contrario ci si difende con tutte le forze.

Da Odessa ci muoviamo per raggiungere in serata Mykolaiv, che è anche sulle sponde del Mar Nero. Sono molti i camion che incontriamo durante il viaggio che termina dopo due ore. Ci accoglie un confratello di don Leszek, don Alessandro, giovane prete ucraino parroco del Santuario di san Giuseppe, una delle due chiese cattoliche della città. Con don Alessandro vivono due suore benedettine. Questa zona e duramente provata dalla mancanza di corrente e di acqua. Il danneggiamento della struttura idrica obbliga l’uso della acqua salata marina che a causa dell’acidità del sale rovina spesso le condutture. Durante la notte suonano le sirene di allarme senza conseguenze. Qui è la quotidianità.

foto 4 – Odessa, piazza centrale, dove al posto della statua della zarina Caterina II oggi sventola la bandiera ucraina

4 gennaio – Kyselivka

Il giorno successivo don Alessandro ci accompagna nel villaggio di Kyselivka, dove c’è la chiesa a lui affidata oltre al santuario dedicato a Maria Immacolata. Il villaggio di Kyselivka si trova a 40 km chilometri da Mykolayiv nell’oblast di Kherson. Lo spettacolo che incontriamo è desolante: tutto qui è distrutto. (foto 11) Dopo un’occupazione durata qualche settimana i russi sono indietreggiati per alcuni chilometri e da lì hanno lanciato in continuazione missili che hanno devastato tutto, chiesa compresa. Passeggiamo tra le rovine delle case incontrando solo cani magri e spaventati che scappano al vederci. La chiesa, che don Leszek venti anni fa aveva rinnovato, oggi è un ammasso di rovine essendo stata colpita da quattro razzi (foto 5-6). Un quinto razzo inesploso lo troviamo nei pressi. Avvertiamo i soldati presenti di modo che si adoperino per mettere in sicurezza il luogo. Sono tanti i colpi inesplosi così come le mine lasciate e che gli artificieri fanno brillare bonificando la zona (foto 12-13). In questo villaggio vivono pochissime persone che incontriamo con le suore e don Alessandro. Lasciamo a loro un generatore e dei vestiti invernali. (foto 7-8) Poi siamo invitati per una cena durante la quale cantiamo i tradizionali canti natalizi. Incontriamo una bambina sorridente che si avvicina. Ai piedi ha un solo pattino a rotelle. Le chiediamo dove sia l’altro pattino e lei ci risponde divertita: «a casa». (foto 9) Siamo accompagnati a vedere gli effetti dell’esplosione di un magazzino di concime altamente combustibile, il razzo che lo ha colpito a provocato un cratere largo decine di metri. (Foto 10)

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La sera concludiamo la giornata con una cena. Ci raggiunge il parroco di Kherson, la città sul fiume a poche decine di chilometri da Mykolayiv. Don Massimo è un giovane sacerdote diocesano parroco dell’unica chiesa cattolica di Kherson. La città liberata a novembre si trova sulla sponda sinistra del fiume Dnieper (o Dnipro), lì dove il fiume sfocia nel mar Nero. Dopo la liberazione l’esercito russo si è ritirato sulla sponda opposta del fiume e da lì continua incessantemente e colpire la città e i dintorni.

Don Massimo ci racconta di quando la vigilia di Natale due razzi hanno colpito la sua chiesa uno entrando dal tetto il secondo nella cantina. In chiesa cerano le donne che stavano preparando le feste natalizie. Miracolosamente i razzi non sono esplosi. Tuttavia, vediamo la preoccupazione del parroco nel diffondere questa notizia nel web con filmati che potrebbero essere vista dagli occupanti. Ci spiega infatti che se non è successo questa volta potrebbe accadere nuovamente con esiti ben peggiori. Anche a lui doniamo un generatore di corrente e un’offerta.

5 gennaio

Il mattino dopo ci rimettiamo in viaggio per attraversare il paese da Sud a Est con direzione Karkhiv. La strada che ci consigliano passa per le città di Krzywy Róg e di Dnieper, lasciando sulla destra la linea del fronte che passa per Zaporizhzhia.

Foto 14 – Cucina inviata dalla protezione civile italiana alla comunità dei Salettiani

Il viaggio è tranquillo. Ci fermiamo per un saluto a Krzywy Róg presso la comunità dei Salettiani. In questa città di miniere lunga ben 50 km, è stata aperta una mensa con l’aiuto della Protezione civile italiana che ha inviato una cucina. (foto 14)

La pausa è breve. Riprendiamo il viaggio per arrivare a Dnieper, la città che dà il nome al più grande fiume ucraino. Qui pranziamo presso la comunità dei frati Cappuccini. Sono molto ospitali. La città è senza energia elettrica. Neanche i semafori funzionano e questo rende il traffico caotico. Ci raccontano che da tempo stanno aspettando un generatore che mai arriva. Cogliamo l’occasione per lasciarne uno a loro dalla nostra macchina. Grande è la soddisfazione per questo dono, infatti l’unica illuminazione erano le lampadine di Natale collegate a delle normali batterie stilo. (Foto 15)

In serata, stanchi per il lungo viaggio sotto una pioggia battente, arriviamo a Kharkiw o meglio ci ritorniamo dopo due mesi. Siamo ospitati da don Wojciech, sacerdote polacco direttore diocesano della Caritas locale. Qui è previsto l’arrivo del secondo tir di aiuti umanitari.

Foto 15 – Dono di generatore alla comunità dei frati cappuccini

6 gennaio

La mattina del 6 gennaio concelebriamo in cattedrale la messa dell’Epifania, festa che esprime l’università della salvezza portata da Gesù omaggiato dai Magi (foto 16). Tra i fedeli presenti c’è anche un soldato. Durante il pranzo con il vescovo locale siamo interrotti da alcune lontane esplosioni che solo il vescovo sente e che ci fa notare, essendo lui abituato da mesi. Con un mezzo sorriso, ci dice qui è la quotidianità. La città si trova a soli 30 km dal confine con la Russia.

Nel pomeriggio siamo accompagnati in macchina nei villaggi vicino al confine con persone che hanno l’autorizzazione a portare aiuti umanitari. Rapidamente la temperatura scende in poche ore fino a -20°. Lungo la strada che si dirige verso il confine vediamo i resti dei combattimenti. I russi infatti erano arrivati fino alla periferia della città per poi essere respinti al di là del confine. Il nostro autista, un volontario della Caritas, ci racconta molti dettagli. Tra questi ci mostra con orgoglio la foto del figlio pilota dei caccia ucraini, morto a 24 anni a soli due mesi dal matrimonio. Il papà lo ricorda senza emozionarsi mostrandoci le sue foto, facendo trasparire l’orgoglio per suo figlio che è stato premiato come eroe nazionale per aver evitato la caduta sulla città del suo aereo colpito, rinunciando a salvarsi la vita catapultandosi. (foto 17-18-19) (20-21-22)

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Visitiamo due famiglie tra le pochissime che ancora qui abitano. Ci raccontano che sono senza corrente dal febbraio scorso. Per scaldarsi usano una stufetta di ghisa mentre una batteria della macchina fornisce un minimo di energia per una lampadina (foto 23 e 24). Ci mettiamo alla ricerca di persone rimaste da sole nelle case. Per trovarle osserviamo se dai camini esce del fumo, segno della presenza in casa di qualcuno. Troviamo un uomo che dopo alcuni minuti apre la porta in risposta al nostro clacson e riceve così del cibo in scatola e, cosa importante, lascia il suo numero di telefono per mantenere un contatto coi volontari.

Ritorniamo al calar del buio, che arriva molto presto in questa stagione, per celebrare la vigilia del Natale ortodosso. Siamo invitati da delle famiglie che abitano nelle cantine dei palazzi colpiti, le stesse famiglie che avevamo incontrato a novembre. Si rallegrano molto della nostra presenza e tra un canto e una preghiera consumiamo la cena che hanno preparato secondo la tradizione. (Video 25)

7 gennaio

Il giorno successivo arriva il tir con gli aiuti spediti dall’Italia e dalla Polonia. Una gioia per il giorno di Natale. La temperatura e molto rigida. L’autista polacco Michele è riuscito ad arrivare in tempo prima del nostro rientro in Polonia. Sono pochi gli autisti che arrivano fino a Karkhiv. (foto 26)
Dopo questo possiamo finalmente metterci sulla strada del ritorno passando solo a salutare le suore Orionine che fuori città si occupane di giovani mamme.

Foto 26 – Camion di aiuti inviato dall’Associazione Eskenosen di Como

Sul tragitto, una inaspettata sorpresa. Incontriamo tre bambini che passano di casa in casa cantando i canti natalizi, tradizione presente in diversi paesi del centro Est Europa. Ci fermiamo per dargli della cioccolata. Ci sorridono e ci ringraziano. (Foto 27) Siamo noi a ringraziarli per portare l’annuncio della buona novella in situazioni così difficili.

Foto 27 – i tre piccoli cantori

Il viaggio di ritorno prenderà due giorni a motivo della lunghezza e dei controlli. L’ultima notte la trascorriamo di nuovo in nunziatura a Kiev dove il personale ci attende per la cena che consumiamo in allegria. (foto 28) Le suore che qui lavorano, di rito greco cattolico, cantano i canti tradizionali di Natale.

Alla fine di questa lunga cronaca mi sento di ringraziare il Signore per averci guidato, le tante persone che ci hanno sostenuto con la loro preghiera e le loro offerte. La pace purtroppo e ancora lontana. Per questo senza scoraggiarci continuiamo a pregare per la pace e a costruirla attorno a noi. (Foto 29)

padre Luca Bovio, IMC

Foto 28 – Cena in nunziatura a Kiev

Foto 29 – Padre Luca Bovio con don Leszek e Rika

 




A Charkiv, un Natale speciale


Con padre Luca Bovio a Kharkiv in Ucraina il 6 e 7 gennaio 2023, per celebrate il Natale secondo il rito greco-cattolico e ortodosso.

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Ed ecco alcuni semplici video che aiutano a vivere con padre Luca questi momenti speciali.

  1. 20230106 Charkiw video (1)
  2. 20230106 Charkiw video (2)
  3. 20230106 Charkiw video (3)
  4. 20230106 Charkiw video (4)
  5. 20230106 Charkiw video (5)
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I ringraziamenti del direttore della Caritas di Kharkiv.

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Mosca soffre (ma non piange)


Anche nella capitale russa la guerra in Ucraina (già «operazione speciale») si fa sentire, ma il popolo russo è abituato alle privazioni. Che però pesano molto su istituzioni prestigiose come l’Accademia delle scienze.

Mosca è una città tranquilla. Passando per le sue vie affollate di gente, quasi non ci accorgiamo che è la capitale di una nazione in guerra. Di guerra, anzi, non se parla quasi più. Un segno che il conflitto ucraino è entrato nella vita quotidiana di molti cittadini; una delle molte scocciature a cui ormai sono abituati, come la corruzione, la burocrazia, le difficoltà economiche.

A differenza delle ultime visite*, però, ci accorgiamo della moltiplicazione di manifesti a sfondo bellico: soldati in assetto di guerra, inviti all’arruolamento volontario (e non), esortazioni a non abbandonare il proprio paese (e Putin) nell’ora del bisogno, a combattere i neonazisti (alias gli ucraini).

La stessa parola «guerra» è stata sdoganata, oltre che da molti politici, anche tra la gente di strada dopo che per mesi era stata abolita dal vocabolario a favore di una indefinita e più neutra «operazione speciale».

Mosca non è alle strette, come spesso si vuole far intendere nei talk show televisivi nostrani: l’economia del paese, dopo aver subito il colpo delle sanzioni con stime di una preoccupante recessione, ha reagito con una contrazione inferiore alle prime aspettative. Di fronte a una diminuzione del Prodotto interno lordo (Pil) pari al 7-12% stimata dal ministero dell’Economia, oggi le cifre dello stesso dicastero parlano di un calo del 4,2%. Probabilmente la verità sta nel mezzo e gli stessi organismi internazionali (Oecd, Fmi, Banca mondiale) assestano la contrazione tra il 6 e il 9%. Male, ma non malissimo. La Russia può aggirare parte delle sanzioni avvalendosi delle sue relazioni con i paesi che non vi hanno aderito (Cina, Iran, Pakistan, Kazakhstan, Armenia, Serbia, Turchia).

Cartelloni di propaganda dell’esercito russo per le strade della capitale. Foto Yuri Kadobnov – AFP.

Prodotti e ricambi

Sugli scaffali dei supermercati mancano i prodotti stranieri di cui i russi si rifornivano con piacere e abbondanza. Non c’è più il whiskey, le birre ceche e irlandesi, i vini francesi, la pasta italiana, i formaggi. Mancano anche gli abiti firmati e, cosa ben più impattante, i pezzi di ricambio delle auto. Ma questi sono gli effetti secondari delle sanzioni, quelli che meno interessano ai paesi che le hanno imposte. Già, perché, a parte i proclami propagandistici e trionfanti lanciati dai media italiani (quelli europei sono sempre stati meno «ottimisti»), l’embargo non è tanto diretto a colpire l’economia «spicciola» della Russia. Nessuno si era illuso che gli oligarchi subissero danni così ingenti da convincere, con le buone o con le cattive, Putin a fermare la sua pazza impresa in Ucraina. Del resto, la stragrande maggioranza della popolazione vive di sussistenza, dei prodotti del loro lavoro nei campi, di pastorizia, di servizi. È un popolo, quello russo, abituato alle privazioni, alla durezza della vita che la stessa geografia del territorio aggrava. E Putin lo sa bene, visto che proprio da questa fetta di popolazione riceve la più assoluta abnegazione e fedeltà. Le sanzioni sono invece dirette a danneggiare la produzione bellica. E su questo hanno fatto centro.

L’arresto dell’avanzata russa e, anzi, l’arretramento delle proprie forze dai territori già conquistati, è in gran parte dovuto a una mancanza di ricambi che hanno costretto l’esercito a cannibalizzare i propri mezzi. Carri armati, camion, velivoli, artiglieria che necessitano di riparazioni devono ottenere i pezzi necessari da altri mezzi funzionanti che, arrivati in Ucraina per essere utilizzati sul campo, ora fungono da magazzino di ricambi. Le industrie militari, prive di scorte, lavorano a singhiozzo utilizzando materiali scadenti. La Cina, a cui Putin guardava sperando fungesse da arsenale militare, a parte le dichiarazioni formali in appoggio a Mosca, non ha mai trasformato le parole in fatti. Xi Jinping sa di non aver bisogno di Putin e, anzi, di lui proprio non si fida, continuando la consuetudine di amore-odio iniziata sin dai tempi di Mao e Stalin.

La polizia moscovita ferma una donna che protesta contro la mobilitazione parziale decretata da Putin lo scorso 21 settembre. Foto AFP.

La minaccia nucleare

Più volte è stato detto che un Putin messo alle strette è molto più pericoloso di un Putin libero di agire, anche impunemente, nel campo d’azione che storicamente è legato alla vecchia Rus’ (l’entità politica sviluppatasi nel X-XI secolo e da cui sono nati Ucraina, Bielorussia e Russia, ndr). Molti temono che il leader del Cremlino, vistosi braccato e senza via d’uscita, non esisterebbe a lanciare l’ultimo suo messaggio al mondo: una testata nucleare.

Ma nell’universo politico non tutto è lineare: vi sono richieste che vengono espresse in forma fittizia, così come vi sono azioni già da tempo decise (come, ad esempio, l’invasione dell’Ucraina), che vengono celate da frasi concilianti fino a pochi minuti dalla loro attuazione. Sono in molti, quindi, a credere che sotto le minacce nucleari vi sia invece una disperata ricerca di dialogo da parte del governo russo che permetta di raggiungere un accordo (o un armistizio) che possa salvare la faccia a Mosca.

Putin sa molto bene che le sue armi sono tecnologicamente poco affidabili e che molti dei vettori che dovrebbero lanciare le bombe atomiche custodite nei suoi arsenali sono inutilizzabili. I sistemi di sorveglianza degli Stati Uniti e della Nato sono sufficientemente sofisticati da poter individuare ogni singolo movimento sospetto e allertare il sistema di difesa. Naturalmente nessuna rete potrebbe garantire la copertura totale, ma lo scoppio anche di una singola bomba nucleare, tattica o strategica che sia, segnerebbe la fine di Putin e del suo governo.

Inoltre, i codici di lancio sono conservati nelle valigette di tre diverse persone: oltre allo stesso presidente della Russia, le chiavi sono in mano al ministro della Difesa (Sergei Shoigu) e al capo di Stato maggiore, il generale Valery Gerasimov. Quest’ultimo è ben conosciuto dai comandi Nato che ne stimano la volontà di dialogo. È stato Gerasimov, proprio nei giorni più travagliati della minaccia nucleare (ottobre 2022), a chiedere un colloquio telefonico con la controparte britannica per cercare di evitare un’escalation del conflitto.

Un eventuale coinvolgimento di armi nucleari nella contrapposizione Est Ovest (termini che si pensava ormai desueti, ma che l’invasione ucraina ha rispolverato) rischierebbe di coinvolgere anche la Cina, assolutamente restia a una destabilizzazione che stravolgerebbe i suoi piani di sviluppo economico.

Cupole ortodosse a Mosca; la Chiesa guidata dal patriarca Kirill è schierata con Putin e per la guerra. Foto Vadim Danilov – Unsplash.

Putin e gli scienzati

Gennady Krasnikov, uomo di Putin, nuovo presidente dell’Accademia delle scienze russa. Foto Wikimedia.

All’Accademia delle scienze incontriamo diversi scienziati, tecnici, ingegneri. La questione nucleare viene proposta regolarmente nelle discussioni informali, a pranzo, a cena, durante le pause di lavoro. Pochi sono coloro che credono a una reale volontà da parte di Mosca di innalzare la tensione del conflitto inviando su un territorio considerato ostile (dai politici) un ordigno atomico. Qui l’Occidente, l’Europa, gli Stati Uniti, sono visti con rispetto per il loro contributo alla scienza e la proficua collaborazione con la Russia avuta fino al 24 febbraio 2022. È proprio nelle stanze e nelle aule di questa prestigiosa istituzione (nel 2025 compirà 300 anni), che è nato il primo nucleo della resistenza alla guerra contro l’Ucraina. Pochi giorni dopo l’invasione, alcuni membri della dirigenza hanno compilato una lettera in cui si chiedeva a tutti gli scienziati di lasciare da parte «posizioni e azioni dettate non dagli interessi della scienza». Accanto a questa, un’altra lettera redatta da «studiosi, scienziati ed esponenti del giornalismo scientifico russi» e rivolta direttamente alla dirigenza nazionale, chiedeva a Putin di fermare un’azione priva di senso affermando che «la responsabilità dell’avere scatenato una nuova guerra in Europa è tutta della Russia».

Lo scontento nelle istituzioni scientifiche è emerso il 20 settembre 2022, quando il fisico Alexander Sergeev, fino ad allora presidente dell’Accademia delle scienze e dato per riconfermato, ha ritirato la sua candidatura alla nuova presidenza a causa di «pressioni amministrative», aggiungendo che la sua era stata una «decisione forzata». Al suo posto è subentrato Gennady Krasnikov, Ceo della Mikron, la più grande industria produttrice di microchip russa, che con 871 voti ha surclassato il diretto rivale, Dmitriy Markovich, direttore dell’Istituto di ricerca termofisica di Novisibirsk, a cui hanno dato fiducia 397 elettori.

Gennady Krasnikov ha la stima di Putin, in particolare dopo che nel 2014, a seguito dell’annessione della Crimea alla Russia, ottenne dal leader l’incarico di priorità assoluta nella produzione di chip per l’industria nazionale. Nel suo primo discorso da presidente, Krasnikov ha introdotto il concetto, caro a Putin, di «sovranità tecnologica» collegando la crisi che sta gravando sulla scienza russa, non all’ingerenza del governo di Mosca, ma alle sanzioni internazionali. È stato ancora Putin, nel 2013, a legare ancora di più l’Accademia delle scienze al governo, privandola del controllo sugli istituti di ricerca a essa collegati.

familiari salutano gli uomini in partenza per il fronte ucraino (4 ottobre). Foto Sefa Karacan – Anadolu Agency – AFP.

Le conseguenze

Subito dopo l’invasione dell’Ucraina diversi stati hanno congelato le loro collaborazioni con le istituzioni di ricerca russe, isolando il mondo scientifico, un tempo vanto della nazione.

Le sanzioni hanno rallentato, se non addirittura fermato, alcuni studi ed esperimenti scientifici: molti macchinari sono ormai inutilizzabili perché privi di manutenzione o di pezzi sostitutivi di quelli guasti.

La spesa per la ricerca e sviluppo, già bassa nel 2020 (1,1% del Pil), nel 2022 si prevede crollerà sotto l’1%. Il colpo è stato duro e la ricerca russa ne subirà le conseguenze per diversi anni, se non per decenni.

La guerra non ha solo falcidiato vite umane e distrutto infrastrutture, ma ha congelato i programmi di sviluppo scientifico di un intero paese scavando una formidabile trincea che rischia di separare la Russia dallo sviluppo in atto nelle nazioni mondiali, Cina e India in primis.

Piergiorgio Pescali*

 * L’autore, storica firma di MC, frequenta Mosca e l’Accademia delle scienze russe in qualità di collaboratore scientifico per alcuni suoi istituti.

 




I costi degli eserciti


La spesa militare continua a crescere. Nei paesi ricchi come in quelli poveri. I soldi vengono sottratti alla sanità, all’istruzione, alla sicurezza sociale. Un domani senza eserciti rimane un sogno lontano.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oltre due miliardi di persone non dispongono di servizi idrici sicuri, mentre quattro miliardi non dispongono di servizi igienici adeguati. La Banca mondiale stima che, per garantire questi servizi minimi a tutti, basterebbero 450 miliardi di dollari. Ma non si trovano, e così gli obiettivi sanitari dichiarati dall’Agenda 2030 rischiano di rimanere lettera morta. In realtà, i soldi ci sono, ma si preferisce spenderli per altri scopi, per obiettivi di morte.

la spesa militare

Il Sipri, l’istituto di Stoccolma per la ricerca sulla pace, ci informa che, nel 2021, la spesa militare mondiale ha raggiunto 2.113 miliardi di dollari, lo 0,7% in più di quanto speso nel 2020 e il 12% in più di quanto speso nel 2012. In termini assoluti, il paese con la spesa militare più alta sono gli Stati Uniti che, nel 2021, hanno investito 801 miliardi di dollari, pari al 38% dell’intera spesa mondiale. Seguono Cina con 293 miliardi, India (76), Gran Bretagna (68), Russia (66). Vale la pena precisare che il 54% della spesa militare mondiale è sostenuta dalla Nato, l’alleanza di cui fanno parte ventisei paesi europei, oltre a Stati Uniti, Turchia e Canada. Non esistono sul pianeta altre alleanze così strutturate.

Oltre che in termini monetari, ci sono altri due modi per rappresentare la spesa militare: in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), ossia alla ricchezza complessiva prodotta nel paese, e in rapporto alla spesa pubblica. A livello globale, nel 2021 la spesa complessiva in rapporto al Pil è stata del 2,2%. Ma con profonde differenze fra singoli paesi. Da questo punto di vista, il primato tocca all’Oman col 12%, seguito da Arabia Saudita (7,7%), Israele (5,6%), Usa (4,5%), Russia (3,7%).

La spesa militare si valuta anche in rapporto alla spesa pubblica, perché è sui bilanci pubblici che essa va a gravare. Ci sono paesi che, pur avendo una bassa spesa militare in termini assoluti, dimostrano di avere una grande propensione per gli armamenti perché vi dedicano una parte cospicua delle proprie entrate pubbliche, pur molto magre. Un esempio è l’Eritrea che, secondo la Banca mondiale, nel 2020 ha destinato all’esercito il 31% del bilancio statale. Ma si può citare anche l’Armenia che ha speso in armi il 16% delle entrate fiscali, o il Ciad che si attesta al 15,6%, e l’Uganda al 13%. Tutti paesi molto poveri con gravi problemi, perché è dimostrato che più si spende in armi, meno soldi rimangono per sanità, istruzione, sicurezza sociale.

Se abbandoniamo i paesi minori e veniamo alle vere grandi potenze militari, troviamo che il paese che dedica alle armi la percentuale più alta di risorse pubbliche è la Russia per una percentuale pari all’11,4%. Seguono l’India (9,1%), gli Stati Uniti (7,9%), la Cina (4,7%), la Gran Bretagna (4,2%).

Le spese militari in Italia

Quanto all’Italia, reperire dati completi sulla spesa militare non è semplice perché alcune voci di costo sono inserite nei bilanci di ministeri diversi da quello della Difesa (da ottobre guidato da Guido Crosetto, consulente e imprenditore del settore militare, ndr). Ad esempio, le spese per le missioni militari all’estero sono inserite nel bilancio del ministero dell’Economia e delle finanze (Mef), mentre alcune somme utili ad acquistare nuove navi o nuovi aerei, prodotti da imprese italiane, sono inserite nel bilancio del ministero per lo Sviluppo economico (Mise). Mettendo insieme tutte le voci, lo stesso ministero della Difesa conferma che, per il 2022, la spesa militare complessiva è fissata in 28,875 miliardi di euro, per il 61% a favore del personale, per il 27% destinati all’ottenimento di nuovi sistemi d’arma, per il 12% per l’acquisto di materiale d’uso corrente.

In termini percentuali, attualmente la spesa militare italiana   rappresenta il 3,5% della spesa pubblica complessiva e l’1,6% del Pil nazionale. Ma il 16 marzo 2022 la Camera dei deputati ha approvato un ordine del giorno che impegna il governo ad aumentare la spesa militare fino al 2% del Pil, presumibilmente entro il 2028. Tradotto in moneta suonante dovremo aspettarci una crescita stimabile in 10 miliardi di euro realizzata, con tutta probabilità, a scapito di altri comparti, magari la sanità, l’istruzione o le pensioni. La conclusione sarà che dedicheremo alla spesa militare il 4,5% dell’intero gettito fiscale solo perché «ce lo chiede la Nato».

Armi e inquinamento

Abbiamo l’abitudine di misurare il comparto militare solo in termini monetari, ma i soldi non danno la vera dimensione del danno che ci procura l’apparato militare. Lasciando da parte la perdita di vite umane e la distruzione di infrastrutture che si verificano quando le armi parlano, non dobbiamo dimenticare che produrre armi e anche solo limitarsi a compiere esercitazioni, comporta un grande consumo di risorse e rilascio di inquinanti. Uno studio della Commissione europea del 2016 sull’industria bellica, sostiene che la produzione di aerei, navi, mezzi meccanici, necessita dell’apporto di trentanove diverse materie prime, fra cui primeggiano alluminio, titanio, rame, cromo, berillio, litio. Tutti materiali con un pesante zaino ecologico, in quanto lasciano dietro di loro grandi quantità di detriti e inquinanti. Ad esempio, per ottenere una tonnellata di alluminio ci vogliono 4,8 tonnellate di bauxite, la quale, a sua volta, richiede l’estrazione di terra e rocce pari a una volta e mezzo il suo peso. E non è tutto perché il passaggio da bauxite ad alluminio richiede non solo una considerevole quantità di energia, ma anche l’apporto di numerosi materiali che però non rimangono nel prodotto finito. In conclusione, il Wuppertal Institute calcola che ogni tonnellata di alluminio lascia dietro di sé 8,6 tonnellate di materiale esausto. Se effettuassimo lo stesso tipo di calcolo per tutti i materiali utilizzati, scopriremmo che, dietro a ogni nave, ogni aereo, ogni carro armato, si celano montagne di scarti. Purtroppo, la produzione di armi è avvolta da una cortina di segretezza che rende difficile ogni tipo di indagine, per cui certe informazioni non le avremo mai. Ciò non di meno alcuni ricercatori hanno provato a valutare il contributo degli eserciti alle emissioni di anidride carbonica. Basandosi sui dati forniti dal Pentagono relativi ai consumi energetici, la professoressa Neta Crawford ha calcolato che l’esercito statunitense produce annualmente 59 milioni di tonnellate di anidride carbonica, una quantità pari a quella emessa da intere nazioni come Svezia o Svizzera. Ma l’ammontare si moltiplica per cinque se ci aggiungiamo le emissioni rilasciate dall’industria delle armi statunitense. La conclusione è che, a livello mondiale, eserciti e produttori di armi, messi assieme, contribuiscono al 6% delle emissioni globali di anidride carbonica.

Integrità e valori

Di fronte a un simile dispiegamento di mezzi, consumo di risorse e produzione di rifiuti, la domanda che sorge spontanea è: «Perché lo facciamo?». La risposta è che gli eserciti servono per difendere la nostra integrità territoriale e i nostri valori, in particolare democrazia e libertà, valori a cui terremmo così tanto da sentirci perfino autorizzati a guerre di aggressione pur di vederli trionfare. Ma tutti sanno che si tratta di motivazioni parziali, se non di paraventi per ragioni ben più venali. Il dato da cui partire è che il sistema economico in cui viviamo, il capitalismo, è aggressivo per costituzione. Il capitalismo è il sistema dei mercanti che hanno come fine l’accrescimento continuo dei profitti, possibile solo se c’è una crescita costante delle vendite. Ma queste possono crescere solo se si produce sempre di più. In altre parole, i mercanti hanno sempre avuto due esigenze: disporre di quantità crescenti di materie prime a basso costo e sbocchi di mercato sempre più vasti. Per queste due ragioni, il capitalismo ha sempre avuto una forte tendenza a virare verso il nazionalismo. Identificandosi con le imprese di casa propria, i governi hanno spesso utilizzato i propri eserciti per aggiudicarsi le risorse a buon mercato presenti nei territori altrui. L’Italia stessa fra le proprie missioni all’estero, ne annovera un paio che hanno come scopo la difesa delle attività estrattive di Eni: una in Libia, l’altra nel golfo di Guinea. E, mentre continuano le operazioni militari dal vecchio sapore colonialista, si è rafforzato il neocolonialismo che oggi si presenta con il volto dello scambio ineguale, del land grabbing, dello strangolamento finanziario. Fino a ieri, la lotta era per il carbone, il petrolio, i minerali ferrosi, oggi è per le terre agricole, i minerali rari, la biodiversità, l’acqua.

Globalizzazione e istinti nazionalistici

La storia coloniale ci ha insegnato che gli eserciti servono anche per spianare la strada alle imprese di casa propria affinché possano garantirsi nuovi sbocchi di mercato. Quando l’India venne conquistata dall’Inghilterra pullulava di artigiani che da tempo immemorabile producevano tessuti in cotone commercializzati in tutta l’area.  Con grave danno per l’industria tessile inglese che chiese al governo di adottare ogni misura doganale e fiscale utile a mettere fuori gioco i produttori indiani. E gli artigiani che continuavano a resistere venivano puniti con il taglio delle dita. La repressione fu così violenta che nel 1834 lo stesso governatore inglese dichiarò che «le ossa dei tessitori imbiancano le pianure indiane».

Ci avevano detto che con la globalizzazione i cannoni avrebbero taciuto per sempre. L’adagio era che, permettendo alle imprese di collocare i propri prodotti ovunque nel mondo, di spostare la produzione dove appariva più conveniente, di trasferire i capitali dove erano garantiti maggiori vantaggi, avremmo creato un mondo più interdipendente e quindi più interessato a mantenere la pace. Ma le crescenti tensioni fra Usa e Cina e, da febbraio 2022, la guerra in Ucraina, che si rivela sempre più un conflitto fra Russia e Occidente, mostrano che la maggior internazionalizzazione degli affari non è sufficiente a sopire gli istinti nazionalistici dei governi i quali mostrano di voler fare di tutto per aprire la strada commerciale alle multinazionali battenti bandiera di casa propria.

Vari analisti hanno dimostrato che l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti del contenzioso Russia-Ucraina è stato condizionato dall’obiettivo di rompere il rapporto privilegiato che l’Europa aveva con la Russia rispetto al gas, in modo da trasformare il nostro continente in un acquirente del gas liquefatto fornito dalle imprese statunitensi.

Industrie belliche e governi

Va da sé, in ogni caso, che le più interessate a spingere gli stati verso scelte militariste sono le imprese che producono armi. L’ammontare totale del loro giro d’affari è avvolto nel mistero, ma il Sipri valuta che, nel 2020, le prime cento imprese mondiali di armi abbiano avuto un fatturato complessivo di 531 miliardi di dollari, una cifra superiore al prodotto interno lordo del Belgio.

Fra le prime cento, compaiono anche le imprese italiane Leonardo e Fincantieri. Leonardo si colloca al 13esimo posto della graduatoria mondiale ed appartiene per il 30% al ministero dell’Economia. Fincantieri si colloca al 47esimo posto ed appartiene per il 71% alla Cassa depositi e prestiti.

Come tutte le imprese, anche quelle di armi hanno bisogno di uno sbocco di mercato che per loro è rappresentato dalle guerre e dalle scelte di riarmo da parte degli stati. Per cui fanno di tutto per ottenere questo doppio risultato.

Non a caso i produttori di armi mantengono rapporti continui con i ministeri della difesa e  spendono fiumi di denaro per ottenere dai governi scelte a vantaggio delle proprie attività. Secondo Open secrets, nei soli Stati Uniti, negli ultimi 20 anni, le industrie belliche hanno speso 285 milioni di dollari per contributi alle campagne elettorali e ben 2,5 miliardi per spingere le istituzioni statunitensi a compiere scelte politiche e finanziarie favorevoli ai propri interessi. Quanto all’Unione europea, i numeri ufficiali, risalenti al 2016, dicono che le prime dieci imprese di armi spendono oltre cinque milioni di euro all’anno e dispongono di trentatré lobbisti a libro paga per esercitare pressione sulle istituzioni di Bruxelles.

Per vivere senza eserciti

È possibile avere un mondo senza eserciti? Qualche stato lo sta facendo. Un esempio è il Costa Rica che, guarda caso, si trova ai primi posti nella graduatoria dell’indice di sviluppo umano. Segno che chi non spende in armi ha più soldi per migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Vivere senza esercito è possibile, ma servono almeno tre passaggi. Primo: bisogna mettere al bando le industrie di armamenti. Secondo: occorre perseguire un modello di economia basato sulle energie rinnovabili e sulla sobrietà in modo da ridurre la tentazione di sopraffare gli altri popoli per impossessarsi delle loro risorse. Terzo: bisogna ridurre il peso del mercato e ampliare quello dell’economia collettiva in modo da poter vivere anche senza dover conquistare i mercati altrui. La conclusione è che non può esserci pace senza un cambio di paradigma economico.

Francesco Gesualdi




In Ucraina, dove Caritas è speranza


foto di padre Luca Bovio


Con l’avvicinarsi dell’inverno, con don Leszek e Rika, un gruppo ormai ben collaudato e affiatato, mi metto in viaggio per l’Ucraina per portare aiuti e raccogliere testimonianze. Con l’auto piena di aiuti umanitari e con i permessi della Caritas passiamo la frontiera senza grandi difficoltà. Appena entrati in Ucraina ci colpisce immediatamente la mancanza di luce, non solo di quella naturale per le giornate ormai molto corte, ma anche e soprattutto di luce elettrica. Le strade sono buie. Ci raccontano che il 40 % della produzione di energia in tutto il paese è fuori uso a seguito degli ultimi attacchi avvenuti alle centrali elettriche nel mese di ottobre. Il carburante e i generi alimentari, invece, si trovano senza difficoltà, soltanto a prezzi raddoppiati.

Trascorriamo la prima notte nella città di Lutsk, a meno di due ore dal confine con la Polonia. Siamo ospitati dal vescovo della diocesi, S.E. Vitalij Skomarovs’kyj. Durante la cena ci racconta circa la situazione attuale dalla sua diocesi. Lutsk, pur trovandosi lontano dai territori dei conflitti che avvengono ad Est e a Sud del paese, è stata colpita le scorse settimane per danneggiare la centrale elettrica causando così la perdita parziale di corrente. Oltre a questo, il problema più grande che qui si deve affrontare è l’accoglienza dei profughi arrivati dall’Est del paese. Ogni settimana presso il centro della Caritas della diocesi vengono distribuiti aiuti per oltre 300 nuclei familiari. Grazie alla generosità di diversi benefattori possiamo lasciare una somma che aiuterà l’acquisto di generi alimentari e di beni di prima necessità.

Con il vescovo di Lutsk, mons Vitalij Skomarovs’kyj

Il giorno successivo, di buon mattino, ci mettiamo in macchina per raggiungere la capitale Kiev, dove, negli ultimi giorni, il numero degli attacchi è diminuito. A differenza di luglio, quando arrivammo qui l’ultima volta, notiamo un minor numero di controlli stradali. La città mostra ancora le ferite degli attacchi precedenti ai palazzi e alle infrastrutture. Facendo una passeggiata alla sera vediamo nel centralissimo parco della città il nuovo ponte distrutto da un razzo poche settimane fa. Gli abitanti della città vivono normalmente, ci racconta il nunzio apostolico, mons. Visvaldas Kulbokas, che gentilmente ci ospita. La corrente elettrica è collegata solo per poche ore al giorno e i grandi quartieri della città devono fare a turno per riceverla. Sono tantissimi i palazzi popolari molto alti, a volte di 30 piani, dove vivono migliaia di persone. La mancanza di energia interrompe l’uso degli ascensori obbligando a raggiungere a piedi il proprio appartamento. Il giorno successivo, prima di lasciare la città, visitiamo brevemente una parrocchia in costruzione dei padri Pallottini.

Dopo alcune ore di viaggio e dopo esserci assicurati sulla situazione raggiungiamo Charkiw, la seconda città per grandezza dell’Ucraina. La città è all’estremo Est del paese a soli 30 km dal confine con la Russia. Prima dello scoppio del conflitto, Charkiw contava più di 3 milioni di abitanti, oggi poco più di un milione. Qui gli attacchi sono quasi ininterrotti da febbraio e la città, così come la provincia, mostra tutte le sue ferite.

Arriviamo in serata avvolti da una nebbia molto fitta. La città è completamente al buio non solo a motivo del razionamento elettrico, ma anche e soprattutto per non dare riferimenti agli aggressori che sono stati respinti fino al loro confine a soli 30 km. A settembre erano arrivati a soli 10 km dal centro città per essere poi respinti di nuovo dietro al confine. Don Wojciech, sacerdote polacco che lavora qui da 6 anni, è il direttore diocesano della Caritas, attraverso la quale gli aiuti vengono distribuiti alla popolazione.

Dopo l’arrivo siamo accompagnati da due volontari della Caritas in una zona popolare della città pesantemente colpita. In quei palazzi vivono centinaia di persone nelle cantine. Lì le incontriamo. Scendendo una scaletta illuminata dalla torcia del telefonino, incontriamo le prime famiglie che qui vivono da ormai otto mesi. Sono nuclei familiari grandi, composti dai nonni, dai genitori e da bambini, a volte anche molto piccoli. I locali sono scaldati o dai tubi del sistema principale di riscaldamento ancora intatto, oppure da alcune stufette a legna. I letti sono costruiti sopra dei bancali di legno usati per le merci e ammorbiditi da materassi o da coperte. Quello che colpisce è la semplicità con cui vivono queste persone che riescono a sorridere incontrandoci e ringraziano continuamente per tutto quello che facciamo. Una tra queste ci dice: «Padre ci sono persone che stanno peggio di noi». Siamo guidati per i corridoi delle cantine. Su ogni porta con un gessetto ci sono scritti i cognomi e il numero della famiglia che in quella cantina vive. Una cantina è attrezzata con un wc rialzato da dei bancali e serve per decine di famiglie.

Una famiglia ci spiega che nella propria cantina hanno l’accesso a internet grazie a un vicino che abita al pian terreno e che ha messo il router in una posizione favorevole affinché il segnale arrivi. Un’altra cantina è organizzata come spazio di incontro per i bambini. Chi vive in queste condizioni in varie parti della città sono coloro che hanno la casa completamente distrutta o gravemente danneggiata. Una signora ci spiega che il suo appartamento al sedicesimo piano è del tutto senza finestre distrutte dall’onda d’urto delle esplosioni. Se anche le finestre fossero intere o riparate, lei sceglierebbe comunque di stare in cantina perché i piani alti dei palazzi sono quelli più esposti alle esplosioni.

Dopo questa toccante visita, conclusasi con abbracci e con la promessa che non li avremmo dimenticati, andiamo a trovare un parroco in un quartiere periferico della città. Ci racconta che nella sua parrocchia c’erano circa mille cattolici. Ora solo 4 o 5 vengono ancora per la Messa domenicale, tutti gli altri sono scappati. Nelle sale della parrocchia vivono alcuni anziani che qui si sentono più al sicuro che nelle proprie case. Nel garage ci mostra i resti di alcuni razzi caduti nei pressi della chiesa che per fortuna non è stata seriamente danneggiata. Ci fa vedere un mucchio di schegge affilate come rasoi delle bombe a grappolo. Colpiscono tutto nei dintorni dell’esplosione.

La notte, nonostante le allerte che arrivano sui telefonini, trascorre tranquilla e finalmente il giorno successivo alla luce del giorno possiamo vedere la città coi nostri occhi. Siamo accompagnati dal giovane vescovo Pavlo Hončaruk. I grandi palazzi centrali della città sono quasi tutti senza finestre a motivo delle esplosioni. Alcune sono riparate con dei pannelli di legno, altre sono distrutte e senza vetri.

Scuola bombardata a Korobochkyne

Ci dirigiamo rapidamente nei villaggi fuori città in direzione Sud Est. Raggiungiamo un villaggio, Korobochkyne, accompagnati da una troupe televisiva polacca che avendo saputo della nostra presenza ci ha raggiunto per fare delle registrazioni. Andiamo in una scuola pesantemente colpita. La direttrice ci dà il benvenuto e ci mostra i danni dell’edifico. Ci racconta che i soldati russi hanno portato via anche le scarpe degli alunni più grandi lasciando solo quelle piccole. Alla domanda di che cosa più urgente ha bisogno, ci risponde che i suoi bambini possano ritornare al più presto nel paese e a scuola. Oltre alla distruzione degli edifici il problema più grande, ci spiegano due soldati, è quello delle mine. Nei campi attorno alla città sono state collocate molte mine che rendono impossibile e molto pericoloso ogni tentativo di coltivazione. Riceviamo un appello affinché l’esercito si possa occupare della messa in sicurezza del territorio. Ora capiamo inoltre perché nei campi tantissimo granoturco e frumento sono rimasti non raccolti.

Nel pomeriggio abbiamo ancora la possibilità di vedere in città dove vengono distribuiti gli aiuti dalla Caritas. La fila di persone è impressionante. Ci raccontano che mediamente in un pomeriggio distribuiscono aiuti a più di 2000 persone, 30mila in due settimane. Per aiutare il numero più grande possibile di persone la distribuzione è regolarizzata con un sistema di tagliandi per cui i beneficiari possono ritirare i beni una volta ogni due settimane. Ognuno riceve 1 kg di pasta, latte, conserve di carne. I bambini in fila sono invitati a fare dei disegni e per questo ricevono cioccolata, caramelle e quaderni. Non solo gli anziani ricevono questi aiuti, ma anche adulti rimasti senza lavoro, una vera piaga lasciata dalla guerra. Tra questi un insegnante ci dice che con vergogna deve ricevere questo aiuto per sopravvivere, ma preferirebbe lavorare e pagare di tasca sua la spesa. Sono 4 i punti di questo tipo organizzati dalla Caritas nella città Charkiw.

Alla fine della giornata ritorniamo a Kiev prima delle 23.00 appena in tempo per evitare il coprifuoco che dura fino alle 5 del mattino.

Il penultimo giorno del nostro viaggio lo viviamo in una casa di bambini orfani gestita dalle suore Benedettine in un villaggio nel centro ovest del paese di Balyn. Per raggiungerli passiamo vicino alle città di Zytomyr e di Vinnica. Nella casa vivono 9 bambini dai 3 ai 12 anni senza genitori oppure con difficolta che non permettono loro di vivere in un normale clima familiare. L’attesa per il nostro arrivo è trepidante. Riceviamo durante il viaggio video e messaggi dai bambini che ci incoraggiano a raggiungerli al più presto. Alla sera siamo accolti con una grande festa. Una squisita cena preparata dalle suore, e il dono di bellissimi vestiti ricamati a mano secondo la cultura tipica di quelle regioni, fanno da contorno alla compagnia festosa e rumorosa dei bambini.

Il giorno dopo rientriamo in Polonia, per fortuna senza essere fermati a lungo alla frontiera (la volta scorsa furono ben dieci ore di attesa). Durante il viaggio abbiamo ricevuto tante altre richieste di aiuto tra queste alcune dalla città di Kherson liberata pochi giorni fa. L’inverno e solo all’inizio ma siamo sicuri che tanti di voi continueranno ad aiutare. Qualcuno ci ha detto: «Padri, avete degli ottimi angeli custodi che vi hanno sempre protetto durante questo viaggio». È vero lo abbiamo avvertito. Tuttavia, agli angeli custodi ci proteggono ancora di più quando qualcuno li prega e per questo ringraziamo anche per le tante preghiere che non sono mancate e che non mancheranno.

padre Luca Bovio imc

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Ucraina: la solidarietà sfida l’inverno

da https://www.ildialogodimonza.it/ucraina-la-solidarieta-sfida-linverno/

Campi minati attorno a Korobochkyne




Wagner e i suoi fratelli


Operano da oltre dieci anni, ma solo di recente si è iniziato a parlare di loro. Agiscono nell’ombra, ma calcano i principali teatri di guerra. Sono organizzazioni strutturate, e orientate al business, nelle quali l’ideologia non c’entra. Facciamo il punto sulle compagnie dei contractor russi.

Su un punto tutti sono d’accordo: il Gruppo Wagner esiste. Su un altro punto tutti sono altrettanto d’accordo: il mistero avvolge ogni cosa riguardi questa società di mercenari. Su di essa si rincorrono voci, si parla di interessi e influenze importanti, ma anche di una sorta di invincibilità. Tutto però è avvolto in quella nebbia tipica degli ambienti militari o paramilitari che flirtano con i servizi segreti, la politica, l’industria. A maggior ragione se si parla di Russia, un paese che vanta, fin dagli anni sovietici, una tradizione di assoluta riservatezza e opacità in materia militare. Per parlare del Gruppo Wagner, bisogna, quindi partire da quelle poche cose certe che si conoscono sulla sua esistenza.

Wagner in Centrafrica (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Le origini

Secondo l’intelligence militare britannica, la nascita di questa moderna compagnia di ventura risale alla fine degli anni Duemila per iniziativa di un ex ufficiale dell’esercito russo di 51 anni, tal Dmitri Utkin. Si pensa che sia stato lui a fondare questo gruppo e gli abbia dato il nome di Richard Wagner, suo compositore preferito e molto apprezzato anche negli ambienti dell’estrema destra europea.

Utkin è un veterano delle guerre cecene, un ex ufficiale delle forze speciali e del Gru, il servizio di intelligence militare russo.

Il battesimo del fuoco di Wagner sarebbe avvenuto (ma non è certo) nel 2014, nella guerra che ha portato all’annessione russa della Crimea. «Si pensa che i suoi mercenari siano alcuni di quegli “omini verdi”, senza alcuna insegna addosso che occupavano la regione – ha spiegato alla Bbc, Tracey German, professore di Conflitto e sicurezza al King’s College di Londra -. Un migliaio di suoi mercenari ha poi sostenuto le milizie filo russe che combattevano per il controllo delle regioni di Luhansk e Donetsk».

La nascita e l’impiego del Gruppo Wagner è però controverso fin dall’inizio. In Russia, come in Italia e in molti altri paesi occidentali, le attività militari «private» sono espressamente vietate dalla Costituzione. Anche se una forza militare ben addestrata e di pronto impiego può tornare utile in caso di operazioni nelle quali la Russia non voglia esporsi ufficialmente. «Wagner può essere coinvolto all’estero e il Cremlino può dire: “Non ha nulla a che fare con noi”», ha detto alla Bbc, Samuel Ramani, membro associato del Royal United Services Institute.

Anche se la questione è più complessa di quanto sembri. «In Russia – osserva Mattia Caniglia, ricercatore dell’European Council on foreign relations -, a differenza di quanto possa apparire a un occhio esterno, non c’è un soggetto unico a prendere le decisioni. Il sistema del governo è molto competitivo, al suo interno c’è una grande gara fra centri di poteri: ministero della Difesa, ministero degli Affari esteri, le diverse agenzie di intelligence, ecc. In questo contesto, il Gruppo Wagner e le altre agenzie private agiscono in collaborazione con alcuni di questi centri, oppure si muovono addirittura da sole. Bisogna pensare che sono società strutturate, come conglomerati di industrie e aziende che si occupano non solo di difesa, ma anche di minerali, comunicazione, formazione. Questo conglomerato opera con uno spirito imprenditoriale e cerca i business laddove pensa possano esserci. Se il business porta a far crescere la rete della Russia, Mosca sostiene le compagnie mercenarie. Altrimenti ne prende le distanze».

Proteste in Mali (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Aree d’influenza

La Russia, è l’analisi di Mattia Caniglia, al contrario dell’Unione europea, della Cina, della Turchia, non ha strumenti di soft power (cioè la fornitura di aiuti economici e influenza culturale). Quindi, queste compagnie di mercenari (Wagner non è l’unico gruppo di contractor russo) si configurano come uno strumento di influenza non ufficiale per Mosca in aree in cui può avere interessi geostrategici. Nell’Africa occidentale, per esempio, la Russia può infastidire la presenza dell’Unione europea (che in loco ha la sua missione più grande) e la Francia. Wagner e altre compagnie simili possono facilitare i rapporti tra Russia e paesi africani. Una volta in Africa poi, le società dei mercenari si ritagliano uno spazio nell’economia locale.

E proprio in questo contesto si inseriscono i legami di Utkin e il Gruppo Wagner con Yevgeny Prigozhin, l’oligarca russo noto come «lo chef di Putin», perché in passato ha fornito i servizi di ristorazione e catering al Cremlino. Prigozhin ha sempre negato ogni legame con Wagner, ma a fine settembre scorso, sui social della sua società Concord, ha detto di aver fondato il Gruppo. Sono infatti i contractor a proteggere gli interessi dell’oligarca in diverse parti del mondo e, in particolare, in Africa.

Nel 2020, il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha affermato che Wagner ha agito da «security» in diverse nazioni per le società minerarie di Prigozhin, come M Invest e Lobaye Invest. Tanto è vero che Washington le ha poi sanzionate.

«Ci viene detto che i soldati di ventura sono un fenomeno tipico dell’Occidente e che il mercenarismo è un prodotto dell’idra capitalista, ma anche noi (la Russia, ndr) ce ne siamo serviti per promuovere gli interessi del nostro paese all’estero – ha scritto Marat Gabidullin in Io, comandante di Wagner (Libreria Pienogiorno, euro 18,90, pp. 288) -. I nostri uomini politici mantengono un silenzio pudico sull’esistenza di compagnie militari private russe e respingono in blocco qualunque allusione al ricorso a tali formazioni non governative. Da parte loro, i propagandisti indottrinano pesantemente i russi inculcando loro l’idea di una politica estera propria della Russia ed eludendo qualunque risposta diretta alle domande riguardanti l’uso dei mercenari».

Former Russian mercenary of the Wagner group Marat Gabidullin poses during a photo session on May 11, 2022 in Paris. (Photo by STEPHANE DE SAKUTIN / AFP)

Chi sono

Il Gruppo Wagner, secondo quanto riportano i servizi di intelligence britannici, è composto principalmente di veterani dei reparti speciali russi. L’analista Samuel Ramani afferma che l’organico attuale dovrebbe contare su un totale di cinquemila mercenari. Si tratta di personale ben addestrato sia all’uso delle armi (anche di sistemi d’arma complessi) sia sotto il profilo tattico. Secondo quanto trapelato da fonti interne, Wagner recluterebbe principalmente ex militari che hanno bisogno di saldare debiti e che provengono da zone rurali dove ci sono poche altre opportunità per fare soldi. Sono quindi soldati di professione che non hanno alternative e che sono disposti a continuare il mestiere delle armi una volta congedati dalle forze armate. La paga si aggirerebbe sui due-tremila euro al mese, ma la cifra varierebbe a seconda del tasso del rublo e non sarebbe mai stata costante negli anni. Si sa che Wagner ha dato vita anche a un sistema di «assistenza sociale» per i propri uomini. Chi rimane ferito in combattimento dovrebbe ricevere, a seconda della gravità delle ferite, tra i 500 e i tremila dollari di indennità. E alle famiglie dei caduti verrebbe promessa una cifra tra i 35mila e i 50mila dollari.

I contratti sono sempre «a tempo determinato» o, meglio, «a progetto». Per la campagna nel Donbass, sono stati offerti contratti di pochi mesi, per la Siria fino a un anno (con ferie ogni sei mesi). La formazione è affidata a ex ufficiali russi e, durante il periodo di addestramento, gli uomini prenderebbero circa mille dollari. Sono cifre e condizioni che rappresentano un incentivo notevole per uomini che non hanno prospettive nella vita civile. Ma, sebbene nei ranghi di Wagner siano presenti emarginati e disadattati, ciò non toglie che il Gruppo abbia grandi capacità militari. Secondo quanto riporta il New York Times, in Siria, proprio i mercenari russi sarebbero stati in grado di resistere per più di quattro ore a una formazione statunitense composta da uomini della Delta Force e dei Berretti Verdi. Le forze speciali Usa, per avere la meglio sui russi, avrebbero dovuto chiedere l’intervento dell’aviazione. Prima di far bombardare l’area, però, avrebbero chiesto al comando delle forze armate russe in Siria di ritirare i propri uomini. Ma Mosca avrebbe negato di avere propri militari nell’area condannando, di fatto, i contractor a morte certa.

Ma chi finanzia il Gruppo Wagner? Su questo punto la nebbia è fittissima. Secondo fonti dell’intelligence britannico, sarebbe il Gru, i servizi segreti militari russi, a sostenere economicamente e a supervisionare segretamente Wagner. Fonti mercenarie hanno confessato ad alcuni media che la base di addestramento di Wagner si trova a Mol’kino, nel Sud della Russia, e sarebbe vicina a una base dell’esercito russo.

Bangui, Centrafrica. Manifestazione a sostegno della Russia (Photo by Carol VALADE / AFP)

Dove ha operato e opera

Nel 2015 il Gruppo Wagner ha iniziato a operare in Siria, combattendo al fianco delle forze filogovernative e facendo la guardia ai giacimenti petroliferi. Un’operazione condotta con le truppe di Mosca, per la quale i mercenari avrebbero pagato un prezzo altissimo. È ancora Marat Gabidullin a descrivere la situazione: «I generali russi in Siria hanno messo in campo con successo una strategia che avrebbero potuto battezzare “qui non ci sono”, creando l’illusione di vittorie poco costose in termini di vite umane nei ranghi dell’esercito. Ma le cifre reali dei cittadini russi morti nella guerra contro lo Stato Islamico non corrispondono ai dati ufficiali. Il numero dei mercenari morti è superiore, e di gran lunga, a quello dei soldati regolari. E tuttavia, ai russi viene tenuta nascosta perfino la partecipazione della compagnia militare privata, sempre per alimentare il mito di una guerra non sanguinosa. I militari russi di ogni grado presenti in Siria si crogiolano nella gloria e si lasciano adulare dal popolo ignorante».

Ma è in Africa che Wagner ha iniziato a farsi conoscere. «La strategia russa in Africa si muove su due livelli – sottolinea Mattia Caniglia -. Quello ufficiale, lavora attraverso diversi strumenti: diplomazia, scambi culturali, accordi che prevedono lo scambio di sistemi d’arma per risorse naturali, ecc. Poi c’è un livello non ufficiale. Di questo fanno parte le azioni di disinformazione portate avanti attraverso la collaborazione tra i media russi e quelli africani. Ma anche le azioni delle compagnie militari private. Uso volutamente il plurale perché se il Gruppo Wagner è la compagnia russa di mercenari più famosa, non è la sola. La presenza di mercenari russi, in questo momento, è forte in Botswana, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Libia, Mali, Mozambico, Madagascar, Zimbabwe, Centrafrica».

Che ruoli ha

Come si muovono sul terreno? «Noi abbiamo in mente i mercenari come soldati combattenti. In realtà, spesso svolgono ruoli di addestramento e di formazione. In altri casi, come in Libia e in Centrafrica sono schierati sul campo, ma a protezione di impianti.

Nel 2016 i contractor russi sono stati impiegati in Libia a supporto delle forze fedeli al generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Rapporti delle agenzie di intelligence occidentali stimano che nel 2019 siano stati impiegati fino a mille mercenari Wagner nell’avanzata di Haftar verso Tripoli. Un’avanzata fallimentare, fermata dalle milizie fedeli al presidente Fayez al Sarraj, sostenuto dall’esercito e dagli armamenti forniti dalla Turchia.

Nel 2017, il Gruppo Wagner è stato invitato nella Repubblica Centrafricana. Testimonianze di missionari cattolici in loco parlano di una presenza massiccia di un gruppo di uomini determinati e senza scrupoli. «Nella Repubblica Centrafricana abbiamo il coltello dalla parte del manico – osserva Marat Gabidullin -: i leader dipendono totalmente dai mercenari». Ciò fa sì che la compagnia possa fare affari milionari sfruttando le miniere di diamanti senza minimamente curarsi del rispetto dei diritti umani della popolazione locale.

«Il continente africano rimane terreno vergine per la diplomazia russa e gli intrallazzatori politici – è ancora Gabidullin a parlare -. Il potere è in mano a leader senza scrupoli che hanno saputo apprezzare l’aiuto fornito da Mosca a Damasco e si sono mostrati pronti a lasciare che la Russia mettesse le mani sulle risorse naturali dei loro paesi ricchi d’oro, diamanti e petrolio. Il ricorso ai mercenari da parte della Russia è un fatto assodato, irrefutabile».

Con la stessa logica, Wagner è stata impegnata in Mozambico per contenere la ribellione jihadista nel Nord. Dietro l’operazione militare, che è stata un fallimento, c’erano interessi economici forti. Nella regione sono presenti ricchi giacimenti di rubini, ora, in parte, sfruttati da imprenditori conniventi con gli islamisti.

Più recentemente, il Gruppo Wagner è stato invitato dal governo del Mali, nell’Africa occidentale, sempre per fornire sicurezza contro i gruppi militanti islamisti. Il suo arrivo nel 2021 ha influenzato la decisione della Francia di ritirare le proprie truppe dal paese. In Mali, il Gruppo Wagner avrebbe circa 600 effettivi che avrebbero compiuto azioni brutali. Il ministero degli Esteri francese ha diffuso un comunicato nel quale ha fatto sapere di essere «preoccupato per informazioni che parlano di massicce esecuzioni nel villaggio di Moura da parte di elementi delle forze armate maliane accompagnate da mercenari russi del Gruppo Wagner che avrebbero causato la morte di centinaia di civili» (fine marzo 2022, ndr).

Contractor russi avrebbero inoltre partecipato all’operazione antiterrorismo realizzata a fine marzo dall’esercito maliano nel Sahel. Secondo il quotidiano francese Le Monde, nel paese sarebbero presenti «paramilitari bianchi identificati da fonti locali e internazionali come appartenenti alla società di sicurezza privata russa Wagner».

Tripoli, Libia (Photo by Hazem Turkia / ANADOLU AGENCY / Anadolu Agency via AFP)

L’ultimo fronte

In Ucraina, il Gruppo Wagner ha avuto il suo battesimo del fuoco nel 2014, e vi è tornato a febbraio allo scoppio della guerra tra Mosca e Kiev. Reparti di mercenari sono stati segnalati da diverse fonti di intelligence occidentale sul territorio ucraino. Secondo quanto riporta il quotidiano britannico The Times, almeno 400 avrebbero operato intorno a Kiev nelle prime settimane del conflitto. Il loro obiettivo era di uccidere il presidente Zelensky e altre importanti figure politiche governative e locali.

La Brigata delle tenebre, come viene anche chiamata la compagnia di ventura, avrebbe poi spostato i suoi effettivi verso il Donbass, nell’Est del paese, e cioè nell’area strategica balzata in cima alla lista degli obiettivi russi. Non ci sono certezze, ma pare che la Wagner abbia inviato in Ucraina seimila uomini, mille dei quali attivi proprio nel Donbass. Combattono a fianco delle forze regolari del Cremlino e di altri combattenti provenienti da Medio Oriente e Siria e, anche in questo quadrante, si sono distinti per le atrocità.

Secondo quanto riporta il settimanale tedesco Spiegel, l’intelligence tedesca avrebbe intercettato trasmissioni radio del personale militare russo in cui si discuteva di omicidi di civili a Bucha. Alcune delle conversazioni sarebbero legate a specifici cadaveri fotografati a Bucha e il materiale dimostrerebbe anche come membri del Gruppo Wagner sarebbero coinvolti nelle atrocità. Gli omicidi di civili, secondo gli 007 tedeschi, non sarebbero stati né casuali, né azioni di singoli soldati, ma operazioni abituali delle forze armate russe e dei mercenari loro alleati.

Anche su questo fronte però i soldati della Wagner sono come ombre e come tali trattati dallo stato maggiore di Mosca. «I mercenari russi – scrive Marat Gabidullin nel suo libro – sono scritti in una colonna a parte dell’elenco delle vittime, coperta dal segreto. E in Ucraina sono molto numerosi, in tutte le ramificazioni della cosiddetta operazione speciale. Le formazioni militari delle repubbliche del Donbass, riconosciute solo dalla Russia e che in otto anni hanno perseguito unicamente una strategia difensiva, non sarebbero in grado di condurre operazioni offensive senza il supporto di un’altra forza, quella dei contractor. Fino a poco tempo fa, attorno a Kiev c’erano almeno due distaccamenti di mercenari, assegnati specificamente a questa operazione. Inoltre, tre distaccamenti di Wagner partecipano ai combattimenti a Mariupol e Kharkiv.
I mercenari sono pagati in dollari. La nuova tendenza, all’interno delle forze d’invasione, è scambiare il patriottismo con i dollari. L’ideologia non c’entra, quello che conta è riempirsi le tasche».

Enrico Casale

 




Ogni pace e ogni guerra hanno una storia


Una giornalista racconta alcuni dei molti conflitti dimenticati del mondo, e ci dice che ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace. Un diplomatico italiano racconta gli ultimi giorni della Nato in Afghanistan, cercando anzitutto le radici lontane di un fallimento e di una speranza.

La meccanica della pace

Quando La meccanica della pace, firmato da Elena Pasquini, esce a metà luglio con People, è piena estate, e la guerra in Ucraina ha compiuto molte devastazioni. All’orizzonte non c’è alcuna speranza né di un cessate il fuoco, né, tantomeno, di una pace tra le parti. Di fronte a questo scenario che non favorisce l’ottimismo, mi sembra cosa buona e giusta consigliarvene la lettura.

Pasquini è una brava e capace giornalista che, da oltre venti anni, con grande sensibilità, osserva da vicino le crisi internazionali. Soprattutto quelle umanitarie, che sono sempre tante, troppe e molto spesso fuori dal circuito dell’informazione.
Esistono, ma non esistono.

Nel suo La meccanica della pace, non solo ci porta nei luoghi dimenticati dalle cronache di guerra in Africa, Medio Oriente e America Latina, ma ci racconta esperienze che dicono una pace possibile da trovare.

«Ogni guerra è diversa, ogni guerra distrugge qualcosa in maniera definitiva, vite, beni, risorse, storia, radici – scrive l’autrice -, ma ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace e che la pace è possibile. La pace non è un cessate il fuoco e neppure un accordo. E non è data per sempre. Una pace possibile è fatica, impegno incessante, vigilanza anche quando sembra raggiunta o scontata. E la risoluzione dei conflitti armati è “il più drenante” e logorante dei lavori».

Esiste quindi un meccanismo che mette in relazione gli opposti. La diatriba tra Caino e Abele non deve avere per forza un finale scontato. A loro è mancato un mediatore, o una mediatrice.

Nelle dieci storie raccolte nel libro, non a caso, molte protagoniste dei processi di pacificazione sono donne.

Per costruire la pace senza usare la guerra serve tanta voglia di sporcarsi le mani, grande determinazione, enorme spirito di adattamento, rispetto per tutti, ma proprio tutti, gli attori in campo. E no, non servono eroi.

«Fare la pace è dolorosa pazienza che una vittoria militare non garantisce – scrive Elena Pasquini -. Pace compiuta o parziale, che inizia quando si accoglie l’esistenza dell’altro, il nemico, e dove “nessuno vince tutto e nessuno perde tutto”. Serve qualcuno che inneschi la scintilla, che accenda la luce, che riconosca la realtà e metta in moto il meccanismo».

Chissà se e quando questa logica lineare, semplice nella sua essenzialità, inizierà a prendere il sopravvento sul linguaggio della violenza.

 

L’ultimo aereo da Kabul

C’è un altro libro, uscito quasi in contemporanea con Piemme, che, invece, racconta la storia di un fallimento diplomatico e porta la firma di Stefano Pontecorvo, già ambasciatore italiano in Pakistan, ma soprattutto rappresentante civile della Nato in Afghanistan.

È lui l’uomo che ha coordinato, nell’aeroporto di Kabul, l’evacuazione dei civili afgani in fuga dal ritorno dei taliban, in un contesto che definire apocalittico pare misurato.

Era la fine del mese di agosto dello scorso anno.

L’ultimo aereo da Kabul. Cronaca di una missione impossibile è un libro fondamentale, soprattutto per un motivo: alla catastrofe finale il suo autore dedica solo due capitoli, il nono e il decimo. Gli altri otto sono una approfondita analisi storica del contesto che ha preceduto tutto quello che abbiamo visto un anno fa, partendo dagli albori della storia afgana, ed entrando nelle dinamiche tribali, religiose, economiche. Tutto quasi completamente ignorato nei vent’anni di presenza militare occidentale in quel paese.

Pontecorvo, che è figlio di diplomatici, già da bambino viveva in quella fetta di Asia e, in quell’aerea sospesa tra cultura araba e persiana, all’ombra di Cina e India, vi ha trascorso più tempo che in Italia.

«Alle 18.21 di venerdì 27 agosto 2021 terminò formalmente l’avventura afgana della Nato – scrive l’ex ambasciatore -. In quel momento il C130 italiano sul quale ero imbarcato, ultimo rappresentante dell’Alleanza atlantica a lasciare il paese, passò il confine tra l’Afghanistan e il Pakistan. Per la prima volta in vent’anni l’Afghanistan era senza presenza Nato. Lasciammo il paese e lo lasciammo male, in mano a quegli stessi talebani che avevamo cacciato dal potere in poche settimane venti anni prima. E lasciammo un paese che aveva creduto in noi e una popolazione condannata ancora una volta, non certo per scelta, a un futuro ben diverso da quello che le avevamo fatto intravedere».

Avere ignorato la storia del contesto, averne ignorato i meccanismi (per recuperare il lessico della Pasquini), ha prodotto una sequela di errori che alla fine si sono sommati alla decisione presa dall’allora presidente Donald Trump di lasciare del tutto e definitivamente l’Afghanistan per motivi di pura politica interna.

L’ultimo aereo da Kabul è una sorta di manuale, un compendio di «cose da non fare se» ti occupi di diplomazia, se devi sanare ferite, se devi chiedere a tribù che si odiano da secoli di fare un governo insieme.

Interessante è, ovviamente, anche il punto di vista di Pontecorvo: uomo occidentale, che ha vissuto l’Oriente, ne è stato contaminato ed è stato chiamato a scrivere una delle pagine più tragiche della sua storia recente.

Traspare spesso nelle sue parole un senso di amarezza che però attenua nelle ultime pagine del libro, quando si chiede: ne è valsa la pena andare laggiù per vent’anni se il risultato è stato questo? La risposta è: sì. «Conosciamo la storia del bambino che mette il dito nel foro di una parete della diga e impedisce all’acqua di […] allargare la falla, salvando il suo villaggio dall’inondazione. […] Quel bambino è la Nato. Fino a che abbiamo tenuto il dito […], il sistema ha retto per gli afgani e per noi. […] Abbiamo lasciato un Afghanistan ben diverso da come lo abbiamo trovato. Vent’anni fa non vi erano praticamente scuole, sanità, educazione, le donne vivevano nel Medioevo. […] Tutto questo è cambiato e lo abbiamo cambiato noi. […] L’età media afgana è di 28 anni, una intera generazione è crescita esposta alla guerra, ai troppi morti causati da essa, ma anche avendo negli occhi un modello alternativo e la consapevolezza di cosa significhi vivere una vita diversa. Per l’Afghanistan vi è ancora una speranza».

Sante Altizio




Siccità, fame e guerra: il mondo a un bivio


Dal punto di vista climatico, l’estate 2022 è stata complicata. La siccità si è aggiunta alla guerra in Ucraina, spingendo quasi 50 milioni di persone, specialmente nel Corno d’Africa, sull’orlo della carestia. Intanto, le negoziazioni per il clima in vista della Cop27 non fanno progressi e il Programma alimentare mondiale fatica a trovare i fondi per assistere chi è in difficoltà.

La Cop27, o Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si svolgerà a Sharm El-Sheikh, in Egitto, dall’8 al 17 di novembre@. Purtroppo, le premesse non sembrano per il momento incoraggianti.

Qualcosa di più potrebbe uscire dai lavori preparatori della Pre-Cop27 previsti questo mese, magari sulla spinta dei dati pubblicati a settembre dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Ipcc, nell’acronimo inglese) nel Rapporto di sintesi del suo sesto ciclo di valutazione@, ma anche la Conferenza sul clima di Bonn dello scorso giugno si era conclusa con pochi progressi.

Quella di Bonn è stata la prima occasione di incontro per le parti dopo la Cop26 di Glasgow del 2021. Uno dei suoi obiettivi principali era quello di definire un programma concreto per realizzare i tagli alle emissioni decisi dai paesi del mondo a Glasgow. Invece, riferiscono diverse fonti, fra cui la Bbc, la negoziazione ha subito uno stallo: sul tema delle perdite e dei danni, infatti, le parti non hanno trovato un accordo.

I paesi in via di sviluppo chiedono che Unione europea e Stati Uniti mettano loro a disposizione i fondi necessari a contrastare i danni che il cambiamento climatico sta già provocando nei loro territori. Essi ritengono le due potenze mondiali le principali responsabili delle emissioni che hanno portato all’attuale situazione. Dal canto loro, Usa e Ue respingono queste richieste, temendo che se accettassero di pagare per le emissioni storiche, potrebbero trovarsi costretti a farlo per decenni, se non secoli@.

A complicare il quadro vi è poi la posizione della Cina, oggi principale responsabile delle emissioni con dieci miliardi di tonnellate all’anno, un quarto del totale globale@. La Cina, infatti – ricorda Ferdinando Cotugno sul quotidiano Domani -, per la Convenzione Onu per i cambiamenti climatici, risulta ancora nell’elenco dei paesi in via di sviluppo, come nel 1992, e da quella posizione conduce le trattative sul clima «come (presunto) campione dei paesi in via di sviluppo».

Hunger map 2020 del World food programme

Il cambiamento climatico è già qui

«Il sistema», riporta il pezzo di Cotugno citando le parole dell’esperto della rete Climate action network, Harjeet Singh, «ha i soldi per te, paese in via di sviluppo, se vuoi mettere i pannelli solari, ha i soldi per te se vuoi migliorare l’efficienza termica della tua casa, ma non ha i soldi per te se invece i cambiamenti climatici distruggono la tua casa. Parliamo di azione per il clima, ma le persone stanno soffrendo già oggi, stanno annegando, e noi gli diciamo: non vi possiamo aiutare, ma se sopravviverete, forse vi aiuteremo a prepararvi meglio per la prossima volta»@.

Oggi, a essere distrutte, sono sempre più anche le «case» europee e statunitensi: nel nostro continente, l’estate scorsa è stata la più calda degli ultimi 500 anni@, mentre uno studio della rivista Nature, già a febbraio scorso, indicava il ventennio 2000 – 2021 come il più secco da 1.200 anni a oggi per gli stati sudoccidentali degli Usa@.

Quanto all’Africa, fra Etiopia, Kenya e Somalia, lo scorso agosto erano 22 milioni le persone che avevano difficoltà a trovare sufficiente cibo. Un numero quasi doppio rispetto ai 13 milioni in difficoltà a inizio anno, mentre le persone che non avevano accesso ad acqua pulita erano passati dai 9,5 milioni di febbraio ai 16,2 milioni di agosto.

La maggior parte degli abitanti del Corno d’Africa, riporta Unicef@, dipende dall’acqua fornita da venditori che la trasportano su camion o carretti trainati da asini, e nelle zone più duramente colpite dalla siccità molte famiglie non possono più permettersi di comprarla: ad esempio, il prezzo dell’acqua in Kenya ha subito fra gennaio 2021 e lo scorso agosto aumenti fino al 400% a Mandera, nel Nord del paese, e del 260% a Garissa, città a poco meno di 400 chilometri a Est della capitale Nairobi.

Angola, nel territorio di Luacano

Le difficoltà del Wfp

La regione del Corno d’Africa sta sperimentando la peggiore siccità degli ultimi quarant’anni perché, per quattro volte consecutive, la stagione delle piogge è stata troppo scarsa di precipitazioni e, secondo le previsioni, sarà così anche la prossima. «Ancora non si vede la fine di questa crisi», ha avvertito lo scorso agosto David Beasley, direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (World food programme, Wfp), «perciò dobbiamo trovare le risorse che servono per salvare vite umane e impedire alle persone di arrivare a livelli di fame catastrofici».

Le risorse che servono sarebbero circa 418 milioni di dollari per i prossimi sei mesi, ma ottenerli è più difficile anche a causa della guerra in Ucraina, che sta avendo conseguenze dirette sulla capacità del Wfp stesso di ottenere il cibo da distribuire nelle emergenze umanitarie, innanzitutto, in termini di forniture. Nel rapporto sull’approvvigionamento di cibo del 2021@, infatti, si legge che sia Ucraina che Federazione Russa erano fra i primi dieci fornitori dell’agenzia Onu: su 4,4 milioni di tonnellate di cibo, quasi un quinto – principalmente grano e piselli – venivano dalla prima e il 5,5% dalla seconda, che forniva grano, farina di grano, olio vegetale e legumi.

Inoltre, il Wfp prevedeva a marzo scorso che l’incremento dei prezzi del grano causati dalla guerra avrebbero determinato su base mensile un aumento di circa 23 milioni di dollari nei propri costi di approvvigionamento, che si aggiungevano ai +6 milioni di dollari al mese per maggiori costi di trasporto e ai +42 milioni di dollari di costi in più che l’agenzia già stava registrando rispetto al 2019, per un totale di 71 milioni di dollari al mese di aumento@.

Per questo la partenza dal porto di Odessa della prima nave con 23mila tonnellate di grano diretta in Etiopia, resa possibile dall’accordo Black sea grain
initiative sottoscritto da Ucraina e Russia con la mediazione di Turchia e Nazioni Unite, è stata accolta con sollievo@.

«Per fermare la fame nel mondo non basterà l’uscita delle navi dall’Ucraina – dice Beasley -, ma con il grano ucraino di nuovo sul mercato globale abbiamo la possibilità di impedire a questa crisi di aggravarsi ancora».

Borodjanka

La guerra in Ucraina e l’insicurezza alimentare

Ma le conseguenze della guerra in Ucraina vanno oltre le difficoltà del Wfp, e si traducono in insicurezza alimentare per molti paesi in via di sviluppo. Alcuni di questi, riportava l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, Fao, in una nota informativa di giugno@, hanno una significativa dipendenza dal grano russo e ucraino. L’Eritrea, ad esempio, importa tutto il proprio grano dai due paesi, la Somalia dipende da questi per circa il 93%, il Pakistan importa circa la metà del suo grano dall’Ucraina e circa un quinto dalla Russia.

Al di là della dipendenza diretta dalle importazioni di cibo, che peraltro alcuni commentatori come Ibrahima Coulibaly, della Rete coltivatori dell’Africa occidentale (Roppa), giudicano irrilevanti@, le conseguenze del conflitto riguardano l’aumento dei prezzi e l’inflazione in generale.

La riduzione della produzione agricola e i blocchi nella zona del Mar Nero, si legge in un aggiornamento pubblicato dal Wfp a giugno@, insieme alle restrizioni commerciali, hanno portato a una ridotta disponibilità di prodotti essenziali e a un forte aumento dei prezzi globali dei cereali: rispetto ai prezzi di gennaio 2022, a maggio l’incremento era stato del 48,6% per il grano, del 28,7% per il mais e del 9,3% per il riso, con implicazioni sui prezzi in tutta l’Africa orientale.

L’aumento dei prezzi del carburante e dei generi alimentari ha, inoltre, spinto al rialzo il tasso di inflazione, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie, soprattutto di quelle più povere.

Sempre a causa di sanzioni e aumenti dei costi di produzione, i prezzi globali dei fertilizzanti sono aumentati di quasi il 30% dall’inizio del 2022. Si è così ridotta la quota di fertilizzanti importati in Africa orientale, in coincidenza, fra l’altro, con il picco della principale stagione di semina, quella di marzo-aprile-maggio. Secondo le stime del Wfp, questo potrebbe determinare una diminuzione dei raccolti del 16% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

La pandemia da Covid-19 aveva già fatto aumentare di 161 milioni il numero di persone che soffrivano la fame e, secondo la Hunger Map 2020 (mappa della fame) del Wfp, se l’attuale tendenza continua, nel 2030 le persone affamate saranno 840 milioni@.

Questi calcoli non tengono però in considerazione la guerra, il cui impatto può essere per ora solo stimato: nelle simulazioni della Fao, considerando il calo nelle esportazioni previsto dall’Ucraina e dalla Federazione Russa nel 2022 e 2023 e ipotizzando che la disponibilità globale di cibo non verrà compensata con derrate prodotte altrove, nel 2023 il numero di persone denutrite nel mondo potrebbe aumentare di quasi 19 milioni@.

Funerale di tre fratelli uccisi dalla guerriglia in Colombia

Clima e guerre, un nodo sempre più stretto

La guerra in Ucraina, spiega Champa Patel, che si occupa del futuro del conflitto con il gruppo di ricerca International crisis group, nel suo podcast War & peace@, spiega che la guerra ha anche un impatto negativo sulla lotta al cambiamento climatico, perché il ritorno parziale di molti paesi occidentali a fonti di energia fossili per liberarsi dalla dipendenza dal gas russo, rallenta il cammino verso il raggiungimento degli obiettivi climatici, a cominciare dalla riduzione delle emissioni.

Raggiungere questi obiettivi, spiega Patel, è a sua volta «necessario per evitare che il cambiamento climatico abbia effetti catastrofici, soprattutto in quei paesi che sono già fragili o in conflitto». Il clima non provoca le guerre in modo diretto, ma agisce da «moltiplicatore della minaccia e contribuisce al conflitto esacerbando tensioni che esistono già».

C’è poi un aspetto della guerra e del suo incidere sul clima che a oggi è misurato in modo impreciso: le emissioni del settore militare. Axel Michaelowa, fondatore dell’agenzia di consulenze tedesca Perspectives climate group, ha spiegato all’emittente pubblica Deutsche Welle che le emissioni militari possono raggiungere centinaia di milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno. «Le emissioni annuali dirette dei comparti militari in grandi paesi come Stati Uniti e Regno Unito raggiungono l’1% del totale nazionale», la maggior parte per il funzionamento di aerei da combattimento. Altre derivano anche dalla distruzione delle riserve di carbonio durante le guerre, mentre le emissioni indirette per ricostruire città e infrastrutture dopo un conflitto possono facilmente superare i 100 milioni di tonnellate di CO2: circa un quarto dei gas serra emessi dall’Italia@.

Chiara Giovetti

Campo di girasoli in Ucraina




Aiuti alla gente di Zaporizia


E preparativi per l’inverno a Charkow

Carissimi tutti,
un caro saluto e un doveroso ringraziamento per il continuo sostegno che continuate a dimostrarci. Dopo il viaggio che ho fatto questa estate in Ucraina e di cui vi ho relazionato, continuiamo a organizzare i progetti di aiuto sia per profughi sia per le persone che vivono nelle zone in cui ancora si combatte. Se le temperature estive facilitavano relativamente le condizioni di vita, l’arrivo imminente dell’autunno e ancor piu dell’inverno, rendono più complicata una situazione che di per sé è già molto difficile. Come sapete dai mass media il conflitto in Ucraina continua senza pause e sconti da mesi, anzi in alcune zone da anni (dal 2014). Tutti purtroppo sono concordi con il fatto che durerà ancora a lungo.

Distribuzione di cibo donato dai Missionari della Consolata in Polonia ai Frati Francescani Albertini di Zaporizia

Aiuto ai frati francescani

In queste settimane siamo impegnati in diversi progetti di sostegno, molte infatti continuano ad essere le richieste di aiuto che riceviamo. Nei pressi di Zaporizia (o Zaporizhzhya), la località di cui molto si parla a motivo della presenza della piu grande centrale atomica europea messa a rischio dai continui attacchi, una comunità di frati francescani (Albertini) di origine polacca distribuisce quotidianamente più di mille pasti alla popolazione locale. Il loro sforzo è grande e la preoccupazione maggiore è quella di garantire le scorte alimentari per un lungo periodo e per un numero così grande di persone. Pochi giorni fa siamo riusciti a spedire loro un buon carico di scatolame a lunga conservazione aquistato in Polonia e già giunto sul luogo. Siamo già d’accordo di ripetere l’acquisto a ottobre.

Pannelli di legno per Charkow

Vetri rotti nelel case di Charkow a causa dei bombardamenti

Charkow, la seconda città per grandezza a poche decine di chilometri dal confine russo, è sotto bombardamento ininterrotto dallo scorso febbraio. Le notizie e le immagini che riceviamo dal direttore locale della Caritas, don Wojtech, sono eloquenti. Uno dei tanti progetti di aiuto specialmente con l’arrivo delle basse temperature, consiste nell’acquisto di pannelli di legno che possono sostiutire le finestre della case rotte per la deflagrazione delle esplosioni. Sono molto numerosi gli edifici colpiti. Spesso le onde durto dell’esplosioni distruggono i vetri delle finestre delle abitazioni. Per questo motivo viene messo del nastro adesivo sulle finestre ancora sane, per contenere dopo un eventuale esplosione le schegge che arriverebbero dappertutto. I pannelli di legno sono un’economica alternativa che proteggono minimamente dal vento e dalle precipitazioni di pioggia o di neve le abitazioni colpite. Sempre in questa città stiamo acquistando dei generatori di corrente elettrica indispensabili negli ospedali.

In questo contesto, i tentativi e gli sforzi di vivere e di ritornare a una certa normalità non mancano. Nella stessa città di Charkow, così come altrove, i bambini, con l’inizio del nuovo anno, ritornano nelle scuole o perlomeno in luoghi sicuri dove si possono tenere delle lezioni. Abbiamo ricevuto la richiesta per l’acquisto sul luogo di circa 300 zaini scolastici.

Grazie per l’aiuto

Questi sono solo alcuni esempi di progetti che attualmente stiamo organizzando, senza dimenticare l’aiuto costante dato alle famiglie che ormai da mesi risiedono vicino a noi qui in Polonia. Prevedo di recarmi in Ucraina all’inizio di novembre per poter portare ancora aiuti e per continuare a testimoniare una realtà che speriamo tutti, finisca al piu presto. Grazie di cuore a nome dei numerosi beneficiari per tutto quello che fate. Che il Signore vi benedica e ci renda suoi strumenti di pace. Perghiamo per la pace costruiamo la pace.

padre Luca Bovio IMC
Kiełpin 10.09.2022

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