Italia-Congo: La lunga marcia per la pace


Lui è un rifugiato congolese in Italia. Dove ha vissuto metà della sua vita. Ha il suo lavoro, vive bene. Ma un giorno succede qualcosa. Il Congo chiama e John sente di dover agire. Ma come? La strada si presenterà da sola, e lui dovrà fare delle scelte. E avere molto coraggio.

John Mpaliza porta con sé un entusiasmo dirompente. Quando lo incontri per la prima volta percepisci intorno a lui un’energia positiva. E ti diventa subito simpatico. È tipico di chi sta a suo agio nella propria pelle. Detto in altre parole, ha trovato la sua strada. Lo conosciamo grazie a una serie di incontri organizzati per lui dall’Ong Cisv di Torino.

Nato a Bukavu, in Kivu, nell’Est dello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), 46 anni fa, all’età di 11 anni John va a vivere a Kinshasa da sua sorella maggiore che si è sposata in capitale. Qui frequenta il liceo scientifico Boboto, gestito dai gesuiti, «una delle migliori scuole in Africa centrale», dice, e poi si iscrive all’università a ingegneria. È il 1988-89, anno in cui cade il muro di Berlino. Non c’è né Inteet né tv satellitare. «Ascoltavamo la radio sulle onde corte – ci racconta John -. All’università si riuscivano a creare momenti di confronto». Proprio in quegli anni nascono dei movimenti di dissenso, molto legati a un partito clandestino, l’Udps (Unione per la democrazia e il progresso sociale) di Etienne Tshisekedi, l’attuale maggiore partito di opposizione.

«Una volta fui contattato da qualcuno che mi portò a un incontro segreto e fu così che aderii a questo partito». John inizia a fare attività di propaganda, distribuendo volantini clandestinamente. «Non avevamo computer, si scrivevano a mano e si buttavano nei mercati».

Nel 1990 Mobutu fa un discorso importante: «Comprendete la mia emozione». Permette la creazione di altri partiti. È il multipartitismo. Il momento storico è quello del discorso di La Boule di François Mitterrand, nel quale il presidente francese sancisce che ormai è giunto il momento del multipartitismo per gli stati africani. «Lui diceva che non sarebbe mai stato chiamato “ex presidente”» ricorda John.

«Studiavo e manifestavo. Andai avanti fino al ’91. In quell’anno furono uccisi molti studenti a Kinshasa, Lubumbashi e Kisangani. Io fui tra i fortunati».

Congo addio

Incarcerato con alcuni compagni John rischia grosso, ma viene salvato dalla famiglia. «Vista la corruzione che ormai si era installata, pagando si veniva rilasciati. Da noi, in Congo, si dice: “Un figlio nasce da una madre e un padre, ma viene cresciuto da una società”. Così la mia famiglia allargata è riuscita a fare una colletta per tirarmi fuori e aiutarmi a scappare all’estero».

Il giovane John lascia il Congo proprio nel 1991. «Il mio viaggio è stato di lusso, in aereo, non è paragonabile alle traversate dei migranti di oggi».

John tocca diverse capitali africane, per arrivare a Orano, in Algeria, dove ha degli amici che stanno studiando. «Avevo iniziato gli studi a Kinshasa, così mi sono riscritto all’università, per studiare telecomunicazioni. È stata dura perché nel 1992 il Fis (Fronte islamico di salvezza, gruppo radicale, nda) vinse le elezioni, e la Francia disse che non potevano governare». Sono gli anni in cui infuria il terrorismo algerino, con attentati e bombe nelle città. Il presidente Mohamed Boudiaf viene ucciso in diretta tv: «Io l’ho visto e sono rimasto scioccato».

Così John, nel 1993 decide di fare un viaggio in Europa per andare a visitare degli amici a Parigi, Bruxelles e Roma. In Francia passa anche dalla comunità ecumenica di Taizé, in Borgogna.

«Sulla via del rientro in Algeria, a Roma, dovevo prendere l’aereo ma lo persi. Allo stesso tempo ci fu un attentato all’aeroporto di Algeri. Decisi allora di restare in Italia, anche perché in Algeria c’erano manifestazioni e se la prendevano ancora con gli studenti universitari». Così John Mpaliza chiede asilo politico in Italia e per lui inizia una nuova vita. «Una vita difficile, anche se non posso confrontare quei tempi alla situazione di emergenza attuale. Perché i numeri dei migranti erano diversi, così come la percezione che ne aveva la gente. Anche se la normativa non è cambiata molto».

Una nuova vita

Mpaliza si stabilisce nel Sud Italia dove svolge svariati lavori. Dalla raccolta di pomodori in Puglia, a quella delle arance a Rosao e a Castel Voltuo. Vive pure nella terra dei fuochi. «A Giuliano (in Campania) ho conosciuto gente meravigliosa che mi ha cambiato la vita. Avevo un permesso di soggiorno con divieto di studio e di lavoro. Ma non ricevevo sovvenzioni. Facevo dunque dei lavoretti per sopravvivere. In quel periodo ero presso una famiglia di Giuliano. Ci fu una sanatoria nel ’96. La padrona di casa decise di aiutarmi, mettendomi in regola per farmi avere il permesso di soggiorno. Da lì sono andato a Bologna e poi a Reggio Emilia».

Qui, finalmente, John può tornare a studiare e consegue la laurea breve in ingegneria informatica. Poi inizia a lavorare in comune. Un lavoro che svolgerà per 12 anni.

«Nel 1996 appresi dai media l’invasione dell’esercito ruandese in Congo, con a capo Desiré Kabila (che diventerà presidente del Rdc, nda) e subito telefonai a mia madre. Quando le dissi dove ero, replicò: “Cosa fai in Italia?”. Lo stupore era dovuto al fatto che l’Italia non gode di ottima fama, esporta troppi stereotipi, come la criminalità. In quell’occasione mi dissero che mio padre era morto durante l’ingresso dei soldati ruandesi a Bukavu, perché durante una crisi ipoglicemica, a causa della guerra non si era trovata l’insulina».

Ritoo all’inferno

Nel 2009 finalmente John decide di tornare in Congo, a Kinshasa, per una visita. Non è più tornato in patria dalla sua partenza, anche se ha sempre tenuto i contatti con la famiglia.

Quello che vede lo fa stare male: «Era come un paradiso trasformato in inferno. Il mio paese è un paradiso per le risorse che possiede. Terra fertile, acqua dolce, foresta, ecc. Quando ero piccolo, negli anni ’80, si viveva bene in Congo. Ho trovato tutto distrutto. Forse anche perché ero abituato a vivere in Europa.

Ho saputo di una sorella dispersa nell’Est, stessa sorte per molte cugine. Ho ritrovato mia madre, che si era trasferita a Kinshasa».

Nella guerra in Kivu è stato usato, e lo è tuttora, lo stupro come arma di guerra. Le donne inoltre sono rapite e ridotte in semi schiavitù alla mercé dei miliziani.

«Mia madre allora mi confidò: “Ogni sera prego Dio perché vostra sorella sia morta. È meglio così, piuttosto che soffra troppo”».

Si parla di 8 milioni di vittime in otre 20 anni di conflitto nell’Est del Congo. «Un genocidio dimenticato, ci ricorda John».

Tornato in Italia, dopo tre settimane di Congo, va in crisi.

«Ho vissuto 23 anni in Congo e 23 anni in Italia. Mi sento europeo, ma anche africano. Ritrovarti nelle tue radici e trovare questa situazione è stato un disastro. Avevo gli incubi tutte le notti. Ho provato a scrivere un articolo ma non sono stato considerato dai media». John inizia a maturare l’idea che deve provare a fare qualcosa per il suo paese. Ma cosa? Si chiede. «Qualcosa che desti curiosità, perché l’Africa non fa notizia».

L’ispirazione gli viene proprio dalla sua visita a Taizé di molti anni prima.

«Premetto che io non sono camminatore. Ma a Taizé una ragazza polacca mi aveva detto: se ti piace tanto questo posto, un giorno devi andare a Santiago di Compostela».

Pellegrino per caso

«Decisi di andare a incontrare i pellegrini. Nel 2010, per combinazione, c’era il Giubileo di Santiago. Ho parlato con circa 1.000 persone, di 27 lingue diverse, da 30 paesi. E lì ho capito che camminando e parlando la gente si ferma ad ascoltare». John parla di Congo, guerra, stupri, saccheggio delle risorse. Ma non ha ancora le idee chiare. È il raccontare quello che ha vissuto nel suo recente viaggio a Kinshasa.

«Nel frattempo, in Italia, avevo preparato una documentazione, e i miei dirigenti al lavoro volevano aiutarmi presentandomi a un politico. Ma in quel momento c’era crisi quindi non successe a nulla».

Ancora un altro segnale. «Nel febbraio 2011, una ragazza da Sidney mi chiamò su skype. L’avevo conosciuta al Cammino di Santiago. Era arrabbiata perché io non avevo fatto ancora nulla per il Congo, mi disse. Era un’insegnante e al suo rientro dalla Spagna aveva fatto lavorare i suoi studenti sul tema dello sfruttamento dei minerali del Congo.

Una persona su 1.000 si era attivata a causa di quello che le avevo raccontato. Forse qualcosa poteva cambiare. Decisi di organizzare una marcia da Reggio Emilia a Roma e portare la documentazione ai palazzi del potere. Avevo coinvolto la città: comune, provincia, la scuola di pace di Reggio, il centro missionario. La gente seguiva. Ero andato a parlare su Tele Reggio. Feci una marcia di 21 giorni e mi ricevettero alcuni deputati e senatori».

È la prima marcia di John Mpaliza per il Congo, che ne inaugura una lunga serie, in un crescendo di difficoltà. E, soprattutto, diventerà il modo di vivere e di lottare del congolese-italiano, dalla simpatia irresistibile.

On the road

Come si organizza una marcia per la pace in Congo?

«Si definisce la partenza e l’arrivo. Si prendono contatti con le istituzioni locali lungo il percorso, gli scout, le chiese, le scuole. Così nascono gli incontri. Le persone mi accompagnano per un pezzo della strada. Talvolta vengono ad accogliermi alle porte di una città al mio arrivo. Ma la marcia completa la faccio da solo.

A Roma, ad esempio, una quarantina di persone mi aspettarono fuori città e mi accompagnarono fino in Parlamento».

Segue nel 2012 la marcia Reggio Emilia – Bruxelles, di due mesi. John passa a Ginevra dove incontra l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite. Va anche a Strasburgo dove è ricevuto da parlamentari italiani ed europei. Molti di loro sono promotori dell’emendamento del maggio 2015 sulla tracciabilità dei minerali (si veda il dossier su MC luglio 2015). «Per la prima volta abbiamo chiesto una regolamentazione. C’erano anche congolesi dal Belgio e italiani nella marcia».

Il grande salto

«All’inizio le marce le facevo in estate, durante le vacanze. Oppure, nel caso dovessero durare oltre un mese, prendevo aspettativa dal lavoro. I miei dirigenti erano comprensivi e mi appoggiavano».

Tornato casa dalla marcia di Bruxelles, John si trova sommerso dalle richieste di incontri e conferenze.

Nel novembre del 2012 decide di prendere un part time verticale: alcuni giorni della settimana lavora in ufficio, durante gli altri fa incontri sul Congo, i minerali della guerra, le vie della pace. La sua vita sta cambiando. «Cominciai a chiedermi se fosse questa la via che dovevo seguire. A dicembre 2013 mi sono ammalato e ho capito che questo sistema non reggeva. Così ho spiegato al dirigente che il mio futuro non era più con loro.

Inoltre, la notizia della marcia di Bruxelles era arrivata anche in Congo. I miei famigliari avevano fatto una veglia di preghiera nel paese. Si raccoglievano i primi frutti, perché ormai se ne stava parlando. Mollare, sarebbe stata la dimostrazione che noi (africani) non sappiamo costruire».

John decide di lasciare il lavoro il 31 maggio 2014 e di consacrarsi totalmente alla causa. A luglio parte la marcia Reggio Emilia – Reggio Calabria.

Da quando ha lascia il lavoro John non ha più un reddito. Organizza marce, cammina e fa incontri in scuole, università, parrocchie e istituzioni. Vive di accoglienza e provvidenza.

«Ho deciso di rinunciare a tutto – ricorda – ma devo vedere quando mi sento in forma e posso camminare, fare le cose a modo mio. Ho collaborato con tante organizzazioni, come Rete pace per il Congo, creata dai missionari Saveriani di Parma. Ora mi appoggia anche Libera Internazionale. Non ho ancora fondato un’associazione, ma ci stiamo arrivando. Potrebbe servire per gestire eventuali donazioni».

John approfondisce le rivendicazioni delle sue marce. «L’obiettivo principale è rompere il silenzio, fare breccia. Fare conoscere il dramma congolese, denunciare l’assenza di diritti umani, la guerra economica che produce morti, lo stupro come arma di guerra. I danni che creano i caschi blu dell’Onu, che costano due milioni di dollari al giorno».

I progetti

John ci parla degli incontri: «I giovani a cui parlo sono talmente tanti che tutto questo non può non produrre qualcosa!», ci dice con entusiasmo.

«Voglio spiegare il rapporto che c’è tra noi e quel mondo in Congo». Rapporto che passa dal telefonino che ognuno possiede. «Sì. Non c’è ragazzino che non sia coinvolto. Tutti abbiamo a che fare con i minerali come il cobalto. Per questo parlo della “guerra che abbiamo in tasca”».

I ragazzi si coinvolgono anche con azioni pratiche. «Abbiamo lanciato dei progetti – spiega John – con scuole in Trentino e nel padovano. I ragazzi fanno raccolte di telefonini, per il riciclo. In effetti si può recuperare parte del minerale dall’apparecchio dismesso. È una ricchezza che abbiamo in tasca, anche quando si rompe, senza saperlo. È una miniera d’oro. Ad esempio l’Arpa del Friuli Venezia Giulia collabora con un’azienda svizzera che recupera l’oro dai telefonini».

La normativa in stallo

Oltra alla testimonianza, ovvero «raccontare, spiegare la nostra responsabilità» per formare l’opinione pubblica, è molto importante anche il livello istituzionale.

«Perché comunque abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a far passare una legge sulla certificazione dell’origine dei minerali con i quali si produce l’elettronica di consumo».

Gli Stati Uniti si sono dotati di una legge, nel 2010, la Dodd-Frank Act (vedi dossier MC luglio 2015), mentre l’Unione europea è in una fase di «negoziazione».

«La situazione è complicata. Il Parlamento europeo si è espresso il 20 maggio 2015 rendendo più restrittiva la proposta della certificazione volontaria. In realtà quello è stato il primo round, ora gli stati devono ratificare. In Italia c’è la Focsiv che porta avanti la “Campagna europea sui minerali dei conflitti” (vedi box) e che collabora con Rete pace per il Congo ed Eurac del Belgio».

John è deluso anche del comportamento dell’Italia: «Ero certo, sulla base dei miei contatti, che l’Italia avrebbe subito ratificato. Ma ho appreso che mentre il ministero degli Affari esteri è d’accordo, il ministero dello Sviluppo economico è contrario. Inoltre a dicembre è iniziato un negoziato trilaterale tra Parlamento, Consiglio e Commissione europea. Io non sono un negoziatore, e ho paura che diventi un nulla di fatto».

Oltre l’importante questione normativa, John scende più in profondità, per eradicare le cause: «Non basta la legge sulla certificazione dei minerali. Serve la stabilità in questi paesi. Se ci fosse uno stato che mettesse delle regole, le compagnie dovrebbero rispettarle e il livello dei problemi sarebbe diverso. Nelle miniere potrebbero lavorare solo adulti, non i bambini, e in certe condizioni di sicurezza. E soprattutto queste risorse andrebbero a beneficio del popolo del Congo e non del Rwanda o dell’Uganda che le stanno sfruttando senza controllo. E si vivrebbe un po’ meglio in Congo».

Nel 2015 John realizza la marcia da Reggio Emilia a Helsinki. Percorre a piedi 3000 km attraversando l’Europa in cinque mesi, da maggio a ottobre. «In Finlandia sono stato ricevuto da funzionari del ministero degli Esteri.

La marcia, richiesta da cittadini finlandesi che avevo incontrato a Varsavia, aveva l’obiettivo di incontrare la Nokia, che nel frattempo, a causa della crisi, era stata comprata di Microsoft. Ai finlandesi interessano molto le tecnologie. Io ho detto loro che sarebbe importante far capire ai cittadini da dove vengono i materiali per produrre i dispositivi. Loro temono che una legge di certificazione porterebbe a un aumento dei prezzi per i cittadini».

Obiettivo Africa

John è tornato in Congo in segreto nel 2014, perché sua madre e sua sorella non stavano bene. Ormai la sua lotta è conosciuta e rischia per la sua sicurezza personale. Ha un altro grande sogno che sta diventando un progetto: una marcia panafricana, che lo porti nel suo paese.

«A fine ottobre vorrei fare Reggio Emilia – Roma. Qui parteciperei a degli incontri durante la settimana internazionale per i diritti umani. Da Roma volerei a Città del Capo in Sudafrica. Da lì voglio risalire verso il Mozambico, la Tanzania e Zanzibar. Per poi attraversare la Tanzania verso Ovest per arrivare nell’Est della Repubblica democratica del Congo. Se ci riusciamo! Occorre lavorare con i movimenti della società civile, le chiese, le associazioni europee e africane. Bisogna creare una specie di scudo, perché camminare in Africa è più difficile!».

Marco Bello




I dolori di Pristina


Dallo scorso febbraio il presidente della piccola repubblica è Hashim Thaçi, già leader del (controverso) Esercito di liberazione (Uçk). Sopito (ma tutt’altro che superato) il conflitto etnico con la minoranza serba, oggi il Kosovo rimane un paese in gravi difficoltà e con vari leader accusati di crimini di guerra e contro l’umanità.

26 febbraio 2016. Il parlamento di Pristina, capitale del Kosovo, elegge il nuovo presidente della giovane repubblica. Al terzo scrutinio, con 71 voti su 120,  viene nominato Hashim Thaçi, leader del «Partito democratico del Kosovo» (Pdk).

L’elezione di Thaçi, frutto di accordi politici tra il Pdk e il partner di governo, la «Lega democratica del Kosovo» (Ldk), non arriva a sorpresa: il segretario del Partito democratico è da tempo uno degli uomini politici kosovari più in vista. Nel 1999, durante la guerra combattuta – col supporto decisivo dell’aviazione Nato – per ottenere l’indipendenza dalla Serbia di Slobodan Miloševi?, Thaçi ha vestito i panni di leader politico e militare della guerriglia albanese-kosovara, «eroe» dell’«Esercito di Liberazione del Kosovo» (Uçk).

Il 17 febbraio 2008, stavolta come primo ministro, Thaçi era stato l’uomo che aveva pronunciato la sospirata dichiarazione di indipendenza del Kosovo, accolta con giubilo dalla folla festante nelle strade e piazze di Pristina.

A prima vista, l’investitura di Thaçi avrebbe dovuto quindi segnare non solo il coronamento della sua carriera politica, ma anche un momento di unione e celebrazione dell’intera società kosovara. Le cose, però, non sono filate così lisce.

Il dibattito che ha preceduto il voto è stato interrotto più volte dall’opposizione che – come già successo a più riprese nei mesi precedenti – ha tentato di bloccare la procedura lanciando fumogeni nell’aula parlamentare: protesta che ha portato all’espulsione di numerosi deputati.

Nelle strade del centro di Pristina, intanto, sono andate in scena pesanti scontri tra polizia e manifestanti, soprattutto sostenitori del movimento radicale Vetevendosje («Autodeterminazione») scesi in piazza al grido «Thaçi corrotto!», e terminati con un pesante bilancio di arresti e feriti.

Le parole solenni di Thaçi dopo la sua investitura – «Mi impegno a costruire un nuovo Kosovo, un Kosovo europeo» – non sono bastate a calmare gli animi: l’opposizione ha infatti annunciato ricorsi sulla regolarità del voto alla Corte costituzionale.

E come se non bastasse, il nuovo presidente rischia ora un’incriminazione da parte della nuova Corte speciale, che dal 2016 indagherà sui presunti crimini di guerra dell’Uçk durante e dopo il conflitto armato.

Dal parlamento alle piazze

Lo scontro cruento sull’elezione di Thaçi è la fotografia più efficace delle divisioni e fratture che oggi spaccano «il paese più giovane d’Europa», figlio della dissoluzione della Jugoslavia, del conflitto inter-etnico tra la comunità albanese e quella serba, di una guerra sanguinosa e della contestatissima dichiarazione d’indipendenza dalla Serbia (oggi riconosciuta da più di 100 paesi, ma non dalla stessa Serbia, né da Russia, Cina e cinque paesi dell’Ue) del 2008.

La prima faglia si trova nelle difficoltà del sistema politico di dare vita a una democrazia sostanziale. Le ultime elezioni (giugno 2014), hanno disegnato un parlamento diviso, con il Pdk di Thaçi da una parte e una coalizione di partiti d’opposizione decisi a detronizzarlo dall’altra. Incapaci di trovare una soluzione mediata, i leader kosovari hanno dato vita a un autistico muro contro muro, che ha lasciato il paese senza governo per quasi sei mesi.

La crisi è stata risolta solo con il pesante intervento della comunità internazionale, che ha portato a un «patto innaturale» tra il Pdk e il principale partito d’opposizione, la Ldk, che ha voltato le spalle al patto anti Thaçi.

L’esito di quello scontro ha sciolto il nodo del governo, ma ha esacerbato la vita politica kosovara, portandola ad un livello parossistico di costante tensione, con l’opposizione ormai convinta di non avere alcuna possibilità di arrivare al potere tramite le ue.

Il confronto si è spostato quindi sempre di più nelle piazze, e qui ha incontrato una seconda faglia, quella che ancora divide il Kosovo lungo linee etniche.

La protesta si concentra infatti su alcuni aspetti dello storico accordo sulla normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia raggiunto nell’aprile 2013. L’intesa, primo accordo formale firmato dai due avversari, prevede un faticoso scambio: Belgrado si impegna a non interferire negli «affari interni» del Kosovo, smantellando le sue strutture di sicurezza ancora presenti sul territorio dell’ex provincia, Pristina acconsente alla creazione di una «Associazione delle municipalità serbe in Kosovo», che dovrebbe garantire ai serbi rimasti di godere di un’ampia autonomia locale.

Il vero obiettivo dell’intesa è «normalizzare» la situazione nel Nord del Kosovo, area a grande maggioranza serba che, dalla guerra del ‘99, rifiuta ogni tipo di integrazione nelle istituzioni di Pristina (leggere riquadro).

Quella che per il governo kosovaro è una concessione dolorosa, ma necessaria, per l’opposizione è un patto scellerato che rischia di creare un’ingestibile «entità serba» in Kosovo, sul modello della «Republika Srpska» (Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina) in Bosnia.

Una prospettiva da contrastare a tutti i costi, sia nell’aula parlamentare, trasformata in una curva di stadio, che nelle strade e piazze del Kosovo.

Fuga dalla povertà

Se la politica arranca, ampie fasce della società attraversano acque estremamente agitate. Il Kosovo resta una delle aree più povere del continente europeo, con un’economia basata soprattutto sulle rimesse della diaspora e sul consumo privato, mentre la produzione resta quasi assente.

Dopo anni relativamente positivi, il 2014 ha segnato lo stallo dei principali indicatori, con una debole crescita del Pil (0,9%), l’aumento del deficit nella bilancia dei pagamenti (-8%) e un calo negli investimenti diretti dall’estero (-2,3% del Pil).

Il dato più preoccupante riguarda però la mancanza di lavoro. Se il tasso di disoccupazione generale è al 35,3% (oltre il 38% tra le donne) quello giovanile registra il 61%.

Secondo i report della Commissione europea, il Kosovo è oggi in Europa il paese con i più bassi tassi di occupazione e partecipazione attiva alla vita economica.

Una situazione ormai incancrenita, che negli ultimi anni ha spinto decine di migliaia di persone a cercare opportunità di vita migliore nei paesi ricchi dell’Europa centro-settentrionale, utilizzando lo strumento della richiesta di asilo politico.

Un escamotage reso necessario dal fatto che il Kosovo – unico tra i paesi della regione – rimane ancora escluso dalla politica di liberalizzazione dei visti con l’area Schengen. Dalle 20mila richieste depositate da cittadini kosovari in stati Ue nel 2013, si è passati alle 37mila dell’anno successivo, fino ad arrivare a una vera esplosione nel corso del primo semestre 2015: ben 62.860 richieste.

Un vero e proprio esodo (la popolazione totale del paese è circa due milioni di abitanti), che è stato tamponato con una forte stretta sui controlli alle frontiere e con migliaia di rimpatri, volontari o forzati. Le cause profonde alla base della fuga non sono però state risolte. Accanto a difficoltà economiche e disoccupazione, ad affossare le speranze nate con la dichiarazione d’indipendenza del 2008 sono anche la corruzione diffusa, l’emarginazione di gruppi sociali ed etnici (come ad esempio i rom), la scarsa qualità dei servizi foiti dallo stato.

Tutti fattori che contribuiscono all’infiammabilità della situazione sociale e politica e, secondo molti osservatori, costituiscono terreno fertile per la tentazione jihadista. Secondo varie stime, circa 300 giovani kosovari si sono arruolati negli ultimi anni nelle fazioni più radicali impegnate nei conflitti in Siria e Iraq, come il fronte al-Nusra e il sedicente Stato islamico.

Numeri preoccupanti, che oggi fanno del Kosovo il paese europeo col maggior numero di foreign fighters pro capite, nonostante le frequenti operazioni di polizia e forze di sicurezza contro il fenomeno.

Accuse di crimini

Nonostante la prossima entrata in vigore dell’«Accordo di stabilità e associazione» con l’Ue, primo ed importante passo sulla strada dell’integrazione, il Kosovo resta oggi il paese balcanico più lontano da una futura membership europea.

Al tempo stesso, però, dal febbraio 2008 il paese ospita Eulex (European Union Rule of Law Mission) – la più grande missione Ue all’estero – schierata da Bruxelles per aiutare Pristina a consolidare le proprie istituzioni, soprattutto nel campo giudiziario e nella lotta a criminalità organizzata e corruzione.

Forte di 1.600 membri e di un budget annuale intorno ai 110 milioni di euro, Eulex – attualmente guidata dal diplomatico italiano Gabriele Meucci – è partita con grandi aspettative, ma si è scontrata sul terreno con la resistenza di parte della società kosovara e con una capacità limitata di incidere nel cambiamento, soprattutto sull’obiettivo centrale delle sue attività: la lotta a corruzione e criminalità organizzata. Già nel 2012 un report della Corte dei conti europea metteva in risalto che l’attività di supporto di Eulex era stata generalmente inefficace, mentre la corruzione rimaneva «endemica» in Kosovo.

A intaccare ulteriormente la credibilità della missione, nel 2014 è poi arrivato un grave scandalo: Maria Bamieh, procuratore britannico, ha accusato pubblicamente Eulex di aver coperto un caso di corruzione giudiziaria al proprio interno. Le accuse hanno spinto Federica Mogherini, Alto rappresentante Ue per gli affari esteri, a chiedere un rapporto sullo stato della missione, affidato a Jean-Paul Jacqué, professore di diritto francese.

Il rapporto, pur smentendo le accuse di corruzione, ha gettato però una certa luce sulle gravi carenze strutturali della missione, che è parsa incapace, o disinteressata, a combattere fino in fondo l’élite criminale che, in Kosovo, si sovrappone significativamente all’élite politica.

Nel frattempo, una nuova iniziativa europea ha fatto irruzione sullo scenario kosovaro, in risposta al rapporto prodotto nel 2010 per il Consiglio d’Europa dal senatore svizzero Dick Marty. In quel rapporto venivano accusati vari leader di spicco dell’Uçk, oggi leader politici, di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, soprattutto nei confronti delle comunità serba e rom. Secondo Marty, tra i crimini commessi c’è anche quello – infamante – dell’espianto di organi a prigionieri a fini di lucro.

Per indagare su accuse così pesanti, l’Ue ha creato una Special Investigative Task Force (Sitf), che nel 2014 ha confermato la fondatezza del «rapporto Marty». Ora le prove e le imputazioni raccolte dalla Sift aspettano di essere presentate di fronte a una «Corte speciale», che dovrebbe aprire i battenti entro il 2016.

Ufficialmente la Corte fa parte del sistema giudiziario kosovaro, ma avrà sede all’Aja, per proteggere i testimoni da pressioni e minacce, problema che ha minato molti dei processi a ex leader Uçk già tenuti dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, terminati in gran parte in contestate assoluzioni.

Tra i nomi dei possibili imputati, il più discusso è proprio quello del neo presidente Hashim Thaçi, citato più volte nel rapporto Marty come «esponente di spicco del mondo criminale kosovaro», ma anche numerosi leader, sia della compagine governativa che dell’opposizione.

Difficile prevedere l’impatto della Corte sulla vita politica del Kosovo: potenzialmente, il nuovo tribunale potrebbe però causare un vero terremoto a Pristina e dintorni.

Giovani con voglia di futuro

Nonostante la situazione socio-economica e politica, segnata più da ombre che da luci, tanti kosovari, soprattutto tra i giovani, non si rassegnano al presente e cercano con determinazione di costruire la propria strada verso il futuro. Un esempio importante è quello del gruppo di lavoro – cornordinato dal fondatore e amministratore delegato Mergim Cahani – di «Gijrafa.com», piattaforma e motore di ricerca tutto dedicato alle informazioni online in lingua albanese. Un progetto coltivato per anni e che, recentemente, ha attirato investimenti per oltre due milioni di dollari, cifra ragguardevole per il Kosovo.

Anche nel cinema le idee e le proposte non mancano. Nato nel 2002 per iniziativa di un gruppo di amici, il DokuFest di Prizren, città nel Kosovo Sud occidentale, è diventato negli anni uno dei punti di riferimento per il cinema documentario a livello sia europeo che internazionale e, nel 2014, ha registrato non meno di 18mila presenze. Più recentemente, nel 2015, è stata invece una produzione anglo kosovara a far parlare di sé: il cortometraggio Shok («Amico»), diretto dalla regista inglese Jamie Donoughue, ma con un cast tutto kosovaro che, dopo aver vinto numerosi riconoscimenti, è stato nominato agli Oscar 2015 nella categoria «film brevi».

Se c’è una storia che più di ogni altra rappresenta la voglia di farcela nonostante tutto, è però quella di Majlinda Kelmendi. Nata nel 1991 a Peja/Pe?, Majlinda si è imposta negli ultimi anni come uno dei talenti più puri del judo internazionale vincendo quasi tutto quello che si può vincere – campionato del mondo incluso – nonostante tutte le difficoltà dovute allo status incerto della federazione kosovara.

Ai giochi olimpici di Londra 2012 Majlinda ha dovuto partecipare con la squadra dell’Albania, visto che all’epoca il Kosovo non era stato ancora ammesso al Comitato olimpico internazionale. Oggi, però, dopo l’ingresso a pieno titolo del paese (2014), Majlinda può realizzare il suo sogno ed entrare nella storia: portabandiera designato, durante la cerimonia di apertura dei giochi di Rio de Janeiro di questa estate sarà la prima a far sventolare alle Olimpiadi i colori del Kosovo.

Francesco Martino

 




Lettera da Bangui, capitale della Misericordia

Bangui, 22 marzo 2016.

Eccomi con qualche importante aggiogamento da Bangui. Tra pochi giorni – dopo tre anni di attesa – la Repubblica Centrafricana avrà ufficialmente un nuovo presidente, questa volta eletto dal popolo e non dopo un colpo di stato, nella persona di Faustin-Archange Touadéra. L’elezione è stata un po’ una sorpresa in quanto Touadéra non era tra i favoriti. Ex-primo ministro di Bozizé – il presidente destituito dal colpo di stato del marzo 2013 – 58 anni, di confessione protestante, decano dell’università di Bangui e professore di matematica… dovrebbe avere tutti i numeri per prendere in mano le sorti di un paese provato da anni di guerra e di malgoverno. Siamo quindi autorizzati a dire che la guerra è finita per davvero? Preferiamo dirlo ancora sottovoce perché un po’ di prudenza e di realismo sono d’obbligo; ma c’è sicuramente un’atmosfera diversa e un grande desiderio di voltare pagina, chiudere questo triste capitolo della storia del paese e ripartire su nuove basi. Alcuni fatti sono incontestabili. Da quasi quattro mesi a Bangui – a parte qualche episodio isolato e senza particolari conseguenze – non si spara più. La campagna elettorale – chiassosissima, coloratissima e divertentissima – e le elezioni (presidenziali e legislative con primo e secondo tuo) si sono svolte senza grossi problemi o particolari incidenti. Se forse non sono state elezioni perfette, bisogna però considerare e apprezzare che sono state un passo importante e non scontato verso la normalizzazione del paese. Ma non ci facciamo illusioni: se la guerra è probabilmente finita, c’è però una battaglia importante da combattere contro la povertà e il sottosviluppo. Vi sono poi ancora alcune zone del paese dove l’autorità dello stato e le forze di pace faticano ancora ad imporsi. Inoltre, le minacce dei ribelli ugandesi del LRA, già attivi nella parte orientale del paese, come quelle di Boko Haram, attivi nel nord del Camerun, confinante con la parte nord-occidentale del Centrafrica, non sono da sottovalutare. C’è poi da vincere l’importante battaglia della riconciliazione tra cristiani e musulmani. Se devo essere sincero, mi sembra che sia molto di più ciò che è da costruire per la prima volta, rispetto a ciò che è da ricostruire perché distrutto dalla guerra. Questi brutti anni di sofferenza hanno rivelato i mali antichi del paese, i problemi sottovalutati, le negligenze colpevoli e le occasioni mancate. Ora non c’è che da mettersi al lavoro. Tutti, a cominciare soprattutto dai centrafricani, che forse dovrebbero amare di più il loro paese, essere più esigenti nei confronti di chi li governa, smetterla di accusare gli altri, avere qualche ambizione e osare anche qualche sogno per un Centrafrica diverso. Ma anche il vostro aiuto e il vostro sostegno sono importanti. Ci avete seguito con passione e amicizia in questo notte di guerra… non abbandonateci in questa alba di pace che ci pare di intravedere all’orizzonte!

Non c’è dubbio che la visita di Papa Francesco a Bangui – il 29 e 30 Novembre 2015 – abbia notevolmente contribuito a questo cambio di rotta. Forse non è azzardato affermare che la visita del Papa – incerta fino all’ultimo – sia stata addirittura determinante. Ma andiamo con ordine…

Guerra, ritorno di fiamma

In effetti, tra la fine di settembre e l’inizio di novembre, la città di Bangui è stata nuovamente colpita da una fiammata di violenza, soprattutto nella zona del Km5. Barricate sulle strade, spari, saccheggi, case bruciate, una chiesa distrutta, evasione di massa dalla prigione, decine di morti, feriti, coprifuoco e, ovviamente, un nuovo movimento di profughi in fuga dai quartieri colpiti dalle violenze verso la zona sud della capitale. Gli scontri non sono mai stati così vicini al Carmel e per diversi giorni gli elicotteri da combattimento hanno sorvolato sopra la nostra zona. Per alcune settimane ci è come sembrato di trovare alla casella di partenza. Se a fine agosto contavamo circa 2.000 profughi attorno al convento, in quei giorni il loro numero è rapidamente aumentato, giungendo – nella fase più acuta dei combattimenti e soprattutto durante la notte – a circa 7.000 persone, tra le quali anche qualche vecchia conoscenza e non pochi bambini che, fuggendo, avevano perso i loro genitori. Ovviamente siamo stati costretti a riaprire il grande cortile all’intero del convento e, per qualche notte, anche la chiesa per permettere ai nuovi arrivati di dormire in sicurezza. I ‘vecchi profughi’, che erano ancora rimasti al Carmel, hanno dapprima preso in giro i nuovi arrivati e fatto qualche difficoltà, ma poi l’accoglienza è stata calorosa: “Ve l’avevamo detto che la guerra non era finita! E voi pensavate che fossimo rimasti qui solo per il riso e per i fagioli della Croce Rossa. Non importa. Ci stringiamo un po’ e ci sarà spazio anche per voi”. Non sono mancate le corse all’ospedale per qualche ferito o malato grave e le mamme che hanno dato alla luce le loro creature in situazioni precarie. Una donna ha avuto giusto il tempo di partorire in quartiere e poi, a causa dei combattimenti, è subito scappata qui da noi con la sua bambina in braccio. Un’altra ha partorito durante l’adorazione eucaristica della domenica. Non ha fatto in tempo ad arrivare al cancello del convento e ha partorito distesa per terra, in una tenda. Il nostro postulante Aristide è accorso, quasi a cose fatte, con fra Jeannot-Marie che, senza neanche togliersi il santo abito, ha fatto da aiuto-ostetrico… Un’altra ancora è riuscita a camminare fino al cancello. L’abbiamo subito accompagnata nella sala del capitolo dove si è distesa per terra. Aristide ha avuto giusto il tempo d’indossare i guanti e un grembiule… e abbiamo sentito un bambino piangere. Eravamo tutti alla ricreazione dopo cena. Quando la bimba è stata presentata non sono mancati gli applausi e il padre priore ha proceduto alla benedizione di rito. Se la mamma fosse partita un minuto dopo, o il convento fosse stato 50 metri più in là, avrebbe partorito chissà dove e chissà come!

ALLIEVO SCUOLA CAMPO PROFUGHIQuando la città era semideserta – e anche noi per giorni abbiamo evitato di uscire – c’è stata però una persona che ha avuto il coraggio di raggiungerci per ben due volte, sfidando, con il suo immancabile sorriso e la sua ostinata voglia di pace, le barricate dei ribelli, portando riso, olio, sardine per i nostri profughi. Questa persona è mons. Dieudonné Nzapalainga, il nostro infaticabile arcivescovo.

Superata la fase più acuta dei combattimenti ci siamo organizzati, con l’aiuto di diverse Ong, per venire in soccorso di questo nuovo afflusso di popolazione. Dapprima è stato installato un nuovo serbatornio di acqua, poi sono state fatte alcune distribuzioni di cibo, sapone, vestiario e zanzariere. Sono ripresi i controlli dei bambini malnutriti e le iniziative in favore delle persone anziane o vittime di violenze. In collaborazione con l’Ong Enfants sans frontières siamo stati poi ‘costretti’, in tempi record, ad aprire una scuola elementare di emergenza… senza sedie e senza banchi, ma almeno al riparo del sole e della pioggia. La scuola è ancora funzionante e conta ben 927 allievi!

BAMBINI SCUOLA CAMPO PROFUGHI 1

Papa Francesco

Papa porta BanguiPotete quindi ben immaginare come un po’ di apprensione per la venuta del Papa fosse più che giustificata. Ma per fortuna Papa Francesco – dopo aver dichiarato di essere disposto a raggiungerci anche con il paracadute e di temere più le zanzare che la Seleka – è riuscito finalmente a venire a Bangui e il programma previsto è stato perfettamente rispettato. Quando lo attendavamo in migliaia, assiepati nella cattedrale in attesa dell’apertura della Porta Santa, temevo che Papa Francesco – pur di ricordarci che dobbiamo essere una Chiesa in uscita – sbucasse dalla sacrestia, aprisse le porte della cattedrale dall’interno verso l’esterno e ci facesse uscire tutti per le strade di Bangui fino al Km5. Ma il cerimoniale è stato rispettato, anche se con una piccola sorpresa che è anche una grande responsabilità: papa Francesco ha aperto la Porta Santa di Bangui dall’esterno verso l’interno e ha dichiarato che da quel momento Bangui sarebbe diventata la capitale spirituale del mondo. Ma le strade di Bangui Papa Francesco le ha percorse per davvero. E non ha temuto di attraversare – di fatto il primo a farlo, dopo l’ultima ondata di violenze e senza particolari misure di sicurezza – anche la temutissima zona del Km5 visitando la Moschea Centrale e incontrando i nostri fratelli musulmani. Questo e altri gesti, insieme ai diversi discorsi pronunciati nei due giorni trascorsi a Bangui, hanno di fatto segnato una svolta in questa brutta guerra nella quale il paese era caduto e dalla quale non riusciva a rialzarsi. Ci vorrà del tempo per valutare correttamente le conseguenze di questa visita, ma qualcosa è sicuramente cambiato, qualcosa è iniziato, e nessuno ha più voglia di tornare indietro.

Sorprese natalizie

Poi è arrivato Natale, ormai il terzo in compagnia dei nostri profughi. Per l’occasione abbiamo pensato di compiere un censimento da fare invidia a Cesare Augusto. Ci siamo quindi organizzati in modo che il censimento fosse fatto bene e in tempi rapidi. Una sera, a partire dalle 19.00 quando ormai tutti erano rientrati, ci siamo sparpagliati tra le tende del campo profughi. Ognuno di noi ha censito – persona per persona, indicando le dimensioni di ogni famiglia e il quartiere di origine – una delle dodici zone in cui è suddiviso il campo. È stata anche una bella occasione per stringere la mano a tutti i nostri ospiti. Quando è ormai notte, ad un giovane papà pongo la domanda di rito: “Quanti figli?” “Otto”, mi risponde con un sorriso e non poca fierezza. “Non è possibile! So mvene! Stai mentendo per avere più riso dalla Croce Rossa”. “Mbi tene mvene ape! Non mento! Se non ci crede, entri pure e verifichi. È una scuola matea”. Entro discretamente nella sua umile dimora e conto – su un solo letto e qualche stuoia – otto bambini e ragazzi, profondamente addormentati. “Mio padre ha avuto dieci figli ed io sono l’ultimo. Devo fare altrettanto”. Che dire? Paese che vai, usanze che trovi. A ciascuno le sue tradizioni, i suoi obiettivi e le sue unità di misura! Manca poco a mezzanotte e siamo tutti rientrati in convento. Il conto è presto fatto sommando i dati di ogni zona: nel nostro campo profughi abitano 5.031 persone. Dopo aver comunicato questo dato all’Alto Commissariato per i profughi scopriamo che il nostro è, per popolazione, il secondo campo profughi più grande dopo quello dell’aeroporto.

Natale 2014 nel campo profughi del convento dei carmelitani di bangui.
Natale 2014 nel campo profughi del convento dei carmelitani di Bangui.

Anche questa volta, due giorni prima di Natale, la Provvidenza non ha mancato di sorprenderci. Una mamma molto buona si è presa a cuore i nostri bambini (ne ha messi al mondo cinque e quindi se ne intende) e ci ha fatto pervenire ben 1500 giocattoli in regalo per i tutti i nostri bambini: palloni, bambole, orsacchiotti, macchinine, pupazzi, giochi di società… Per una simpatica e curiosa coincidenza, questi doni per i più piccoli hanno viaggiato, sullo stesso aereo proveniente dalla Francia, insieme alle schede elettorali per i più grandi. Ma non è stato tutto. Tutti i nostri bambini – sempre grazie alla stessa persona – hanno ricevuto anche un grazioso libretto di preghiere tutto colorato e stampato apposta per loro. Siamo ormai capitale spirituale del mondo… noblesse oblige!

Ricominciare

A questo punto sono sicuro che avete una domanda: “Ma se la guerra è finita, perché questa brava gente non se ne torna a casa? Non stanno forse approfittando della situazione? Questa gente non se ne andrà più…”. La domanda è legittima e ce la poniamo anche noi ogni giorno; la risposta è più complessa e richiede discernimento e molta pazienza. Ci siamo dati – fin dall’inizio – alcune semplici regole: accogliere chiunque stia fuggendo (a condizione che non sia armato), non cacciare nessuno, rispondere alle urgenze (nei limiti delle nostre capacità e degli aiuti ricevuti), non fare nulla che favorisca la formazione di un villaggio attorno al Convento. L’impressione di chi viene a visitarci è che ormai il villaggio ci sia già – e anche grande e ben organizzato! – e che le condizioni di vita dei nostri profughi non siano poi così diverse da quelle di chi vive nei quartieri. Occorre però tenere presenti alcune cose. Questa povera gente non è venuta al Carmel per una vacanza: molti di loro hanno effettivamente perso la propria casa perché distrutta, bruciata, saccheggiata o rimasta senza il tetto. E non hanno i mezzi per ricostruirla. Chi aveva i mezzi è già rientrato. Molti hanno anche tentato a rientrare nei quartieri, ma poi sono stati costretti a ritornare da noi a causa degli avvenimenti dello scorso autunno. Non è poi psicologicamente facile rientrare da dove si è fuggiti, soprattutto se si è stati testimoni di violenze. Ci auguriamo che, una volta insediato il nuovo presidente e il nuovo governo, si possano creare le condizioni per un effettivo ritorno dei profughi ad una vita normale nei quartieri di origine. Molte Ong hanno già in cantiere diverse iniziative per incoraggiare e favorire il ritorno al quartiere e l’abbandono del campo profughi. Vi terremo aggioati.

Preghiera, la nostra forza

Nel frattempo – e chissà quanto durerà questo frattempo! – la nostra vita conventuale continua al ritmo della vita del campo profughi. A volte le nostre giornate procedono abbastanza tranquille e quasi dimentichiamo che accanto a noi vivono 5.000 persone; altre volte la loro presenza si fa invece sentire e bisogna intervenire senza ritardi. Molti ci chiedono dove abbiamo trovato la forza e il senso di questo pezzo di strada percorso insieme a questa gente in fuga dalla guerra. Senza fare della retorica e offrirvi una risposta preconfezionata e clerically correct, penso che la forza e il senso di questa avventura si rinnovino ogni giorno quando, insieme, ci ritroviamo per pregare e – per dirla nel gergo carmelitano – facciamo orazione. Un carmelitano senza orazione sarebbe come Roma senza il Colosseo, Parigi senza la Torre Eiffel, il Centrafrica senza bambini. Ogni mattina all’alba e ogni sera al tramonto, la nostra comunità si raduna per pregare insieme, per un’ora e in silenzio. Anche nei momenti più duri della guerra – anche quando il silenzio era solcato dallo scoppio delle bombe o dalle raffiche dei kalashnikov – siamo quasi sempre riusciti ad essere fedeli a questo appuntamento. Anche i profughi sanno bene che, durante questi due momenti di preghiera, possono disturbarci solo per cose importanti: solo se c’è qualcuno che ha fretta di nascere o se per qualcun’altro è giunto il momento di morire.

Quando siamo in orazione i rumori del campo profughi giungono fino alla nostra chiesa: quasi un sottofondo a cui siamo ormai abituati, un brusio che non ci distrae e che non ci disturba affatto, ma anzi sostiene la nostra preghiera. Ogni sera, mentre preghiamo, c’è un bambino che percorre tutte le strade del campo, gridando: “Petrole! Petrole! Petrole!”. Questo bambino non ha trovato un giacimento di petrolio nel ricchissimo sottosuolo del Centrafrica, ma semplicemente vende cherosene per le lampade che i profughi accendono davanti alle loro case, trasformando il Carmel in un bellissimo presepe. Mentre prego, quasi attendo la sua voce e mi piace ascoltarlo. E mi viene sempre in mente la parabola delle dieci vergini, riportata al capitolo 25 del vangelo di Matteo. Cinque vergini furono sagge e si procurarono una provvista di olio con la quale alimentare le loro lampade in attesa dello sposo. Le altre cinque non furono altrettanto sagge e, nel cuore della notte, si trovarono senza olio. Le cinque sagge – a dire il vero un po’ poco generose e un po’ molto supponenti – si rifiutarono di aiutarle e si misero addirittura a prenderle in giro, esortandole ad andare al mercato. Ma era impossibile comprare dell’olio a quell’ora della notte. Qui al Carmel, invece, da ormai più di due anni, c’è olio per tutti e se ne trova a qualsiasi ora del giorno e della notte. Anzi: c’è addirittura chi viene a venderlo davanti alla porta di casa. Per i Padri della Chiesa non c’era dubbio: l’olio in questione sono le opere buone, la carità che non deve mai mancare, anche nella notte più buia e nell’attesa più lunga, nella lampada della fede di ogni cristiano. Al Carmel siamo quindi fortunati: c’è olio in abbondanza per la nostra e la vostra carità. A qualsiasi ora del giorno e della notte. Lo Sposo è sempre tra noi. E grazie a voi e ai nostri profughi questa lampada non si è ancora spenta.

Un abbraccio e buona Pasqua!

Padre Federico, i fratelli del Carmel e tutti i nostri ospiti.

Ecco qualche link interessante:

https://www.youtube.com/watch?v=znLJba_WJ8s&feature=youtu.be

https://youtu.be/x1n9JbCq4w4

https://youtu.be/n3FsA5y5m1o




perche no alla guerra in libia

Noi rappresentanti di movimenti, associazioni e gruppi del mondo della pace e della nonviolenza siamo preoccupati delle pressioni esercitate sul nostro governo perché assuma un ruolo guida nell’intervento militare in Libia a fianco di altre potenze occidentali. Il Presidente del Consiglio ha detto che “non è in programma una missione militare italiana in Libia”. Ne prendiamo atto. Ma i problemi restano:

  • il contrasto all’espansione del terrorismo del sedicente Stato islamico;
  • una minaccia alla sicurezza del nostro paese;
  • la stabilizzazione della nazione nordafricana.

La guerra non è il mezzo adeguato per sconfiggere il terrorismo né tantomeno per portare stabilità alla Libia. Basterebbe guardare alla storia di questi ultimi anni per capire che gli interventi militari non hanno risolto i problemi, li hanno invece aggravati.

A partire dalla dissennata guerra lanciata dalla Nato nel 2011 contro il regime di Gheddafi che avrebbe dovuto inaugurare un’era nuova di pace e democrazia. Invece la Libia è precipitata nel caos e nella guerra intestina. Non solo. Quella guerra ha posto le basi per altri conflitti. È ormai risaputo e documentato che il saccheggio di vasti arsenali di armi del colonnello durante l’operazione della Nato ha alimentato la guerra civile in Siria, rafforzato gruppi terroristici e criminali dalla Nigeria al Sinai e destabilizzato il Mali.

Di fatto nessuno dei conflitti iniziati dal 1991 ad oggi – Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Siria – ha risolto i problemi sul campo, anzi sono tragicamente aggravati. Il fallimento di tali operazioni è sotto gli occhi di tutti: milioni di profughi abbandonati al loro destino che fuggono a causa delle nefaste conseguenze delle recenti guerre.

Oggi poi, un eventuale secondo intervento armato in Libia avrebbe gravi ripercussioni anche sulla vicina Tunisia che teme il debordare della crisi libica oltre i suoi confini, mettendo a repentaglio il suo fragile equilibrio politico e il faticoso cammino verso la democrazia avviato in questi ultimi anni.

Inutile e ovvio dire che saranno i civili a pagare il prezzo più alto di imprese militari, anche nel caso di attacchi effettuati dai droni. Per quanto si voglia far credere che la precisione di tale aerei telecomandati non causerà vittime tra la popolazione, i fatti dimostrano l’esatto contrario. Indagini condotte su una lunga serie di attacchi hanno messo in evidenza che per un terrorista colpito i droni uccidono altre trenta persone circa, tra cui donne e bambini.

Se un intervento armato di polizia internazionale in Libia ci dovrà essere, sarà da considerarsi come estrema ratio, fatta nell’ambito delle Nazioni Unite e in seguito alla esplicita richiesta del governo unitario libico. Senza la quale – ammoniscono le autorità del governo di Tripoli – “qualsiasi tipo di operazione militare si trasformerebbe da legittima battaglia contro il terrorismo a palese violazione della nostra sovranità nazionale”.

Va aggiunto che la lotta al terrorismo dello Stato Islamico non potrà mai essere vinta con un dispiegamento di forze militari. Anche la macchina bellica più potente è inefficace di fronte al fanatismo e alla capacità di mimetizzarsi dei terroristi in grado di colpire ovunque nel mondo cittadini inermi con attentati sanguinari. La nostra penisola è in una posizione particolarmente vulnerabile perché è la più esposta per la sua vicinanza geografica alle coste libiche.

Per i motivi esplicitati qui sopra, ci rivolgiamo al governo italiano perché assuma un ruolo guida per indicare alla comunità internazionale la ricerca paziente e perseverante di una soluzione politica alla grave crisi libica.

A tale scopo proponiamo con urgenza che l’Italia si impegni:

  • a ricostruire l’assetto statuale della Libia, sostenendo con la diplomazia e la politica l’iniziativa per un accordo tra le controparti e la formazione di un governo unitario tra i governi di Tobruk e di Tripoli;
  • a coinvolgere gli stati membri della Lega araba e dell’Unione africana anche al fine di bloccare i finanziamenti ai movimenti terroristici islamici che provengono da Arabia saudita e Qatar, dal commercio di petrolio e di droga;
  • a valorizzare la partecipazione della società civile della Libia nel processo di ricostruzione della loro nazione;
  • a garantire da parte dell’Europa l’apertura delle frontiere per accogliere e assistere i profughi, mettendo in campo in campo un’operazione di salvataggio in mare.

Sulla base della nostra Carta costituzionale che sancisce che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie inteazionali» chiediamo al governo di adoperarsi con determinazione e concretamente al fine di promuovere e restituire pace e giustizia al popolo della Libia. Lavoro al quale partecipano da tempo schiere di cittadini che a vario titolo e in diverse organizzazione operano per la promozione della pace e della giustizia tramite l’educazione nelle scuole, con corsi di formazione alla nonviolenza attiva, con la disseminazione di informazione, con la ricerca, il monitoraggio e la denuncia di vendita illegale di armi e con una variegata gamma di iniziative e progetti.

Infine desideriamo rivolgere un appello a papa Francesco che negli anni del suo pontificato non si è stancato di dichiarare la propria ferma opposizione alla guerra. Che anche in questo caso levi la sua voce profetica per denunciare l’assurdità e l’immoralità di un intervento armato in Libia, sollecitando la comunità internazionale a cercare soluzioni pacifiche e giuste.

Efrem Tresoldi, direttore di Nigrizia;
Mao Valpiana, direttore di Azione nonviolenta;
Alex Zanotelli, direttore di Mosaico di Pace;
Mario Menin, direttore di Missione Oggi;
Filippo Rota Martir, direttore di Cem Mondialità;
Marco Fratoddi, direttore di La nuova ecologia;
Riccardo Bonacina, direttore di Vita;
Pietro Raitano, direttore di Altreconomia;
Claudio Paravati, direttore di Confronti;
Michele Bornato, direttore di Gaia;
Pier Maria Mazzola e Marco Trovato, direttori di Africa;
Silvia Pochettino, direttrice di Volontari per lo sviluppo;
Redazione di Mondo e Missione;
Antonio Vermigli, direttore di In dialogo;
Luca Kocci, direttore di Adista;
Luigi Anataloni, direttore di Missioni Consolata e segretario della Federazione Stampa Missionaria Italiana

 




La guerra facile dei droni

Si comandano da molto lontano. Utilissimi per cercare informazioni sul nemico in battaglia. Ma anche per sparare su convogli e bunker sospetti senza rischi. Tutti gli eserciti li vogliono. E ora sono anche diventati tascabili e ambiti giochi per appassionati e ragazzi.

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Nei cieli africani si combatte una guerra nuova e silenziosa, ma non per questo meno micidiale di quelle tradizionali. È la guerra dei droni. Sempre più presenti sui campi di battaglia del continente, i velivoli senza pilota rappresentano un sostegno alle truppe impegnate sul terreno, ma anche un’arma efficacissima per l’eliminazione mirata di capi politici o comandanti militari di movimenti ribelli.

Osservazione e omicidi mirati

A dispiegarli per primi sono state le forze armate statunitensi. Washington, stretta tra la preoccupazione per l’impatto mediatico che può avere la morte di soldati americani in Africa (ricordiamo la grande eco che ebbe nel 1993 la morte di 19 ranger nella battaglia di Mogadiscio che convinse Clinton al ritiro delle truppe Usa dalla Somalia) e la necessità di contrastare il fondamentalismo islamico jihadista, ha deciso di scommettere su quest’arma, sia a livello tattico che strategico. È così che nel 2001 gli Stati Uniti prendono in affitto dal governo di Gibuti la base di Camp Lemonnier, nella cittadina di Ambouli, sul lato meridionale dell’aeroporto internazionale di Gibuti. Oltre alle truppe delle forze speciali, Washington vi trasferisce alcuni droni. La posizione è strategica. Partendo da Gibuti si possono tenere sotto controllo sia la Somalia, dove dagli anni Duemila si è assistito a una progressiva radicalizzazione dei movimenti ribelli jihadisti, sia lo Yemen, per anni base delle milizie qaediste.

Dall’alto, i droni sono un alleato silenzioso che osserva gli spostamenti delle truppe nemiche, ne individua le basi, i rifugi dei comandanti. Inizialmente i vertici militari Usa li utilizzano prevalentemente con funzioni di osservazione e controllo. Un surrogato degli agenti dei servizi segreti. Qualsiasi operazione dei servizi speciali è preparata e accompagnata dai voli dei droni. Ma poi capiscono che essi possono diventare un’arma potentissima per le eliminazioni mirate, quelle che, in gergo militare, vengono chiamate «targeting killings». Sui velivoli senza pilota vengono montati missili aria-terra Hellfire che sono poi sparati sui rifugi o sulle vetture che trasportano i comandanti delle milizie.

«Non esistono, ovviamente, statistiche ufficiali – spiega Giulia Tilenni, junior analist di Caffè Geopolitico -, però, alcuni documenti riservati di cui sono venuta in possesso parlano di una ventina di attacchi offensivi in cui sono perite 108 persone. Le uccisioni mirate sono avvenute negli ultimi anni nel Coo d’Africa e hanno preso di mira i capi del movimento Al Shabaab».

Se su Camp Lemmonier ci sono notizie certe, poco si sa invece delle altre basi statunitensi sul continente. Anche in questo caso, di ufficiale non esiste nulla. Da alcuni leaks diffusi dalla stampa internazionale però si è venuto a sapere che Washington ne avrebbe diverse: Camerun, Ciad, Etiopia, Niger e Seychelles.

Quelle in Ciad (stanziati in una vecchia base francese) e in Niger (una ad Agadez e l’altra a Niamey) avrebbero l’obiettivo di tenere sotto controllo gli spostamenti dei miliziani jihadisti in Africa dell’Ovest.

Da questi aeroporti, oltre ai droni, decollerebbero anche piccoli aerei bianchi e senza alcuna insegna e con sofisticate apparecchiature elettroniche per l’osservazione a bordo. I velivoli verrebbero tenuti lontani dalle zone di combattimento per evitare che un eventuale abbattimento possa mettere a rischio i piloti. Questi ultimi sono agenti dei servizi segreti, ma anche contractors assunti ad hoc.

Dal Camerun i droni svolgerebbero funzioni di intelligence e sorveglianza sulla vicina Nigeria, offrendo informazioni alle truppe camerunensi, nigeriane e nigerine in azione contro le milizie di Boko Haram. Probabilmente verranno impiegati anche a sostegno del piccolo contingente Usa schierato al confine tra Camerun e Nigeria. In Etiopia, ad Arba Minch, e nelle isole Seychelles invece i droni vengono utilizzati prevalentemente per la sorveglianza delle rotte che dall’Oceano Indiano si spingono, attraverso lo Stretto di Aden, verso il Mar Rosso.

«Le forze statunitensi – sottolinea Luca Mainoldi, giornalista, esperto di Africa – utilizzano, anche a livello tattico, piccoli droni, molto simili a modelli radiocomandati, che volano nel raggio di pochi chilometri per osservare eventuali pericoli o minacce. Di questi velivoli sono dotate, per esempio, le truppe speciali Usa che danno la caccia al ribelle ugandese Joseph Kony» (cfr. MC luglio 2012).

Droni transalpini

Gli Stati Uniti non sono gli unici a utilizzare gli «aeromobili a pilotaggio remoto» in Africa. Anche Parigi ha iniziato a impiegare i droni a supporto delle proprie truppe. L’Aeronautica militare francese ha attualmente in dotazione quattro Harfang, velivoli derivati dagli Heron israeliani. Questi droni sono costati alle casse di Parigi 440 milioni di euro contro i 100 preventivati. L’aumento del costo è legato alla necessità di adeguarlo alle specifiche pretese dai comandi dell’Armée de l’air.

Nonostante l’alto costo, i generali transalpini non sono soddisfatti di questo apparecchio. Ha, infatti, impianti di videoripresa con risoluzioni basse, costi di volo alti e necessita di una manutenzione continua. Per questo motivo, Parigi ha deciso di acquistare dagli Stati Uniti tre Reaper (altri due sarebbero in arrivo) che hanno prestazioni decisamente migliori rispetto agli Harfang. Per il momento le truppe transalpine non hanno armato i velivoli. Ma, con l’omologazione per i droni dei missili prodotti da Mdba, un’azienda di proprietà di Airbus, Bae Systems e Finmeccanica, i comandi starebbero progettando di impiegarli anche sui Reaper.

Finora la Francia ha impiegato i suoi droni in Africa occidentale. A partire dal 2013, Parigi ha dislocato a Niamey (Niger) due droni a sostegno delle truppe dell’Operation Barkhane, la missione transalpina nel Nord del Mali. Le truppe francesi sul terreno impiegherebbero anche piccoli droni portatili che li aiuterebbero nelle operazioni contro le milizie ribelli, come già fanno le forze speciali statunitensi.

Stati Uniti e Francia non condividono solo le tattiche di combattimento, ma anche le basi. A Niamey infatti i velivoli a stelle e strisce e quelli transalpini partono dallo stesso aeroporto.

«In Africa – continua Luca Mainoldi – corre voce che Parigi e Washington abbiano aperto una base comune e segreta anche in Libia. Da lì farebbero partire i droni per tenere sotto controllo il Sud della Libia e l’Algeria. Difficile dire se si tratti di una diceria o se ci sia un fondamento. Così come è difficile confermare la notizia secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero una base di droni proprio in Algeria. Secondo alcune indiscrezioni, infatti, Washington avrebbe riaperto una lunga pista che le era stata data in concessione da Algeri a Tamanrasset, in pieno Sahara, per gli atterraggi di emergenza dello Space Shuttle. Ma nessuna conferma ufficiale è mai arrivata dal Segretario alla Difesa Usa o dal Pentagono».

E anche i paesi africani…

Nei cieli del continente volano anche droni africani. I primi a svilupparli sono stati i sudafricani. Ai tempi del regime dell’apartheid (1945-1993), Pretoria aveva ottime relazioni con Tel Aviv e le industrie belliche dei due paesi collaboravano in diversi ambiti. Tra questi lo sviluppo dei droni. Negli anni Sessanta e Settanta si trattava soprattutto di modelli non dissimili dai normali aeroplani telecomandati, poi, col tempo, sono andati tecnologicamente evolvendo. La fine dell’apartheid non ha portato alla chiusura del progetto. Anche dopo il 1993 l’industria bellica ha continuato a sviluppare aerei senza pilota. Probabilmente la collaborazione con Israele è terminata, certamente c’è un rapporto con gli Emirati arabi uniti che, a loro volta, stanno sviluppando un progetto insieme all’Italia.

«In Africa – conclude Giulia Tilenni – possiedono droni anche la Nigeria, la Guinea Equatoriale e l’Angola. Ma non li usano per scopi militari quanto per tenere sotto controllo gli impianti petroliferi e gli oleodotti e difenderli da eventuali attacchi o minacce. Anche l’Algeria ha propri droni, acquistati dal Sudafrica, così come l’Egitto, che invece li ha comperati da Stati Uniti e Russia. Eh sì, perché anche Russia e Cina hanno propri velivoli senza piloti, anche se, per il momento, non volano sui cieli africani».

Enrico Casale




Sulla pelle dei siriani

 


(La Siria) È uno dei pochi paesi mediorientali dove è stata possibile la convivenza tra etnie e fedi religiose diverse. Dove esiste una Costituzione, un governo laico e in cui la donna ha un ruolo paritario. Da oltre 30 mesi questo paese è sconvolto da eventi tragici. Un paese in cui vari stati stranieri – mediorientali e occidentali – stanno combattendo per i propri interessi e dove si sono moltiplicate le bande jihadiste, incontrollabili e molto pericolose. Mentre tutto si svolge sempre e soltanto sulla pelle dei Siriani.
 


Da oltre 30 mesi la Siria è sconvolta da tragici eventi. Per cercare di districarsi è importante capire cosa sia quel paese, come sia strutturato, quali siano le differenze con gli altri paesi del Medio Oriente, soprattutto di quelli che si sono schierati a fianco dei ribelli.

Fino a oggi la Siria ha garantito la convivenza tra almeno 7 etnie e 17 fedi religiose diverse. In Siria il governo (laico) non distingue i cittadini in base all’appartenenza etnica o religiosa.

Tra mille contraddizioni, errori, limiti e, in alcune fasi della storia siriana, anche durezze e repressioni feroci, per quarant’anni la Siria è riuscita ad essere questo. È riuscita a costruire una società con uno stato sociale minimo garantito (sanità, scuole, università), con un ruolo paritario della donna, con diritti civili e sociali superiori alla media dei paesi mediorientali. Se si fa un sintetico raffronto con i paesi dell’area, emergono dati e situazioni a dir poco sconcertanti.

Ecco chi sono i paladini della democrazia?

La domanda è: paesi come l’Arabia Saudita, il Bahrein, il Qatar, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti come possono ergersi a paladini della democrazia – armando e finanziando le bande criminali e terroriste che stanno insanguinando la Siria e la sua popolazione -, quando a casa loro tutto ciò che invocano e pretendono da Damasco è totalmente negato o inesistente?

Questi paesi, in prima linea con gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali (Gran Bretagna e Francia in primis), nell’attaccare – mediaticamente, politicamente e militarmente – la società siriana, a casa loro negano qualsiasi tipo di diritto civile minimo alle minoranze etniche, religiose e politiche e non solo alle minoranze.

Sono paesi dove la condizione della donna è ferma al medioevo. Da decenni, in Siria le donne sono ministri, medici, docenti, giudici e anche ufficiali dell’esercito, normalmente.

Sono paesi dove la fede religiosa può essere solo quella dei regnanti e le altre non possono essere dichiarate o praticate. In Arabia Saudita, il più grande e fedele alleato degli Stati Uniti e dell’Occidente in quell’area, il solo fatto di portare una croce al collo può essere causa di arresto. In Siria sono riconosciute e sostenute dallo stato 17 fedi diverse, persino la sinagoga ebraica di Damasco è stata ristrutturata con i contributi del governo.

Sono paesi dove le minoranze etniche non hanno alcun diritto civile e non sono riconosciute. In Siria da decenni 7 etnie hanno medesimi diritti e doveri, e ogni cittadino è uguale davanti alla legge. La struttura statale è fondata su una rigida ripartizione delle cariche e dei funzionari. Per esempio, il 62% dei medici, degli ingegneri, dei giudici, degli insegnanti, sono sunniti, il 12% sono cristiani, il 7% alawiti, e poi armeni, curdi, drusi. Identica divisione percentuale si ha nell’esercito siriano.

Sono paesi dove i diritti sociali di lavoratori e immigrati non sono minimamente riconosciuti o praticabili. In questi paesi orari di lavoro, paghe, contratti, sicurezza sono a discrezione dei vari sceicchi e padroni, e, ove siano reclamati, si va incontro all’accusa di sedizione e sovversione, o al carcere. In Siria esistono vari sindacati di settore, legalmente riconosciuti con relativi diritti e relative proteste. Sono paesi dove non esistono opposizioni politiche e dove, come accaduto in Arabia Saudita o in Bahrein, pacifiche dimostrazioni popolari vengono schiacciate nel sangue da feroci repressioni con decine di morti nelle piazze, migliaia di arresti e decine di condanne a morte,  coprifuoco per settimane. In Siria qualsiasi manifestazione pacifica e non armata è legale; da sempre esiste una opposizione politica legale al governo, esistono partiti politici (anche due partiti comunisti), non allineati e critici al governo. E dopo la riforma del 2012 ci sono diciotto partiti nuovi legalizzati e nell’attuale governo del presidente Bashar al-Assad, due ministri appartengono all’opposizione.
Sono paesi dove il diritto allo studio, a essere curati, a migliorare la propria condizione sociale è esclusiva delle famiglie dei funzionari dello stato e dei clan regnanti, o discende dall’appartenenza alla fede religiosa dominante. In Siria ogni cittadino parte dalle stesse possibilità, qualsiasi sia la sua etnia, la sua fede religiosa, il suo ceto sociale.

Da ultimo, un aspetto che, se non avesse risvolti tragici, sarebbe comico: l’Arabia Saudita chiede modifiche e riforme della Costituzione siriana quando in quel paese non esiste una costituzione!

Ma c’è un altro paese dell’area mediorientale che sta fomentando questa guerra ed è storicamente coinvolto da oltre sessant’anni in tutti i conflitti di quell’area: Israele. Un paese che con forza e arroganza chiede il disarmo delle dotazioni chimiche dell’esercito siriano (in sè una cosa giusta, se valesse per tutti), ma che possiede ufficialmente – senza che alcun paese importante osi protestare – armi nucleari, armi di distruzione di massa e chimiche. Un paese che invoca il rispetto dei diritti umani in Siria, ma che ha la possibilità del cosiddetto «arresto amministrativo», la possibilità cioè di detenere una persona anche senza accuse specifiche, e che in questi decenni ha portato centinaia di migliaia di cittadini (ovviamente palestinesi) nelle carceri israeliane come forma di prevenzione. Un paese che ha la tortura legalizzata e praticata normalmente.

Insomma, viene da dire: da che pulpiti provengono le morali dirittumaniste per la Siria!

Le parole della minoranza cristiana e del Papa

Mons. Giuseppe Nazzaro, francescano, ex vicario apostolico di Aleppo, racconta: «Per come io la conosco, la Siria era il paese islamico più democratico di tutto il Medio Oriente (…). Quello che mi sta a cuore è che in Europa si sappia bene che cosa sta succedendo qui e in tutto il Medio Oriente e per colpa di chi. Questa è soprattutto una guerra di commercio. Siamo in una nuova colonizzazione che si traduce così: “Io vi dò le armi, voi vi autodistruggete e poi vengo io a ricostruire tutto”».  

«Io lancio un allarme per tutta la situazione che siamo obbligati a vivere oggi. I potenti della terra che l’hanno causata, la devono smettere, la devono finire. Noi stavamo benissimo. Vivevamo in pace. Ci hanno portato una guerra che è diventata guerra fratricida, che sta distruggendo un paese che era bellissimo, ricco di storia, ricco di civiltà».  

Un discorso che viene confermato dalla testimonianza di padre Daniel Maes, sacerdote cattolico belga del Monastero S. Giacomo di Qara: «Qualche anno fa, quando siamo venuti in Siria, non abbiamo incontrato una società politica perfetta, ma abbiamo incontrato una società prospera e sicura, e abbiamo anche sperimentato l’uguaglianza di tutti i gruppi religiosi.
C’era la libertà di religione, l’ospitalità e una sana e serena vita di famiglia. Nella vita pubblica, discriminazioni, furti e criminalità erano sconosciuti.
All’improvviso sono apparse le atrocità più orribili. Si massacra, si saccheggia e ci sono attentati in tutto il paese. Quella società abbastanza armonica si è trasformata in un incubo. I villaggi cristiani circostanti sono stati distrutti e tutti i fedeli che potevano essere catturati sono stati uccisi, secondo una logica di odio settario. Per decenni cristiani e musulmani hanno vissuto in pace in Siria. Il fatto che bande criminali possano scorrazzare e terrorizzare i civili, questo non è contro le leggi internazionali?… I giovani sono delusi, perché le potenze straniere dettano loro l’agenda. I musulmani moderati sono preoccupati, perché salafiti e fondamentalisti vogliono imporre una dittatura totalitaria di stampo religioso.
I cittadini sono terrorizzati perché vittime innocenti di bande armate». Parole isolate? Non proprio se anche Papa Francesco, durante l’Angelus dell’8 settembre 2013, ha detto: «Sempre rimane il dubbio se questa guerra di qua o di là è davvero una guerra o è una guerra commerciale per vendere queste armi o è per incrementare il commercio illegale. (…) Preghiamo perché cessi subito la violenza e la devastazione in Siria e si lavori con rinnovato impegno per una giusta soluzione del conflitto fratricida… Dire no all’odio fratricida e alle menzogne di cui si serve, alla violenza in tutte le sue forme, alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale. Questi sono nemici da combattere uniti e con coerenza, non seguendo altri interessi se non quelli della pace e del bene comune».

Trame e registi occulti (o indicibili)

Un’altra domanda da porsi è: chi sta dietro questa guerra? chi sono i registi occulti? Un dato emerge chiaramente: questa guerra è parte di disegni, strategie di cui la Siria è solamente un tassello, in realtà la partita si gioca su tutto il Medio Oriente nel suo insieme. Quella che segue è una sintetica e parziale documentazione, ma dà notevoli elementi di riflessione.

• Nel febbraio 1982 viene pubblicato A Strategy for Israel in the Nineteen Eighties, un saggio di Oded Yinon, allora alto funzionario del ministero degli Esteri di Israele, dove si indica un progetto strategico di disgregazione e frammentazione dell’intero Medio Oriente e paesi arabi, in parti le più minuscole possibili, fomentando e favorendo conflittualità su basi etniche e religiose, fino allo smantellamento di tutti gli stati vicini o ostili a Israele. Nell’articolo si indicano nello specifico, persino descrivendo le province e regioni di ciascun paese, dal Libano all’Iraq, dall’Egitto alla Siria, con Libia compresa. Per la Siria si descriveva – siamo nel 1982 – come andasse disgregata: dividerla su basi etnico-religiose in più stati (sulla costa uno stato alawita e sciita, nella regione di Aleppo sunnita, nella regione del Golan druso, eccetera). «Questo progetto è l’obiettivo prioritario di Israele a lungo termine, a breve nel frattempo l’obiettivo è la dissoluzione militare di questi stati (…). È un progetto alla nostra portata».

• Il 15 settembre 2001, a Camp David, subito dopo gli attentati alle Torri gemelle, dall’amministrazione Bush vengono pianificati una serie di attacchi: Afghanistan, Iraq, Somalia, Sudan, Libia e infine Siria e Iran. Lo rivela pubblicamente il generale Wesley Clark, a capo di una cordata di alti ufficiali che ritengono non sia interesse degli Usa fare queste guerre, sostenute da lobby filo-israeliane negli Stati Uniti. • Il 15 marzo 2005, il Washington Institute for Near East Policy (www.washingtoninstitute.org), un ramo molto influente della lobby israeliana, detta una strategia per la Siria, indicata da Robert Satloff, l’ebraico direttore dell’Istituto, che consigliava tre tipi di azioni:
1) la raccolta del massimo di informazioni sulle contraddizioni sociali ed etniche dentro la Siria;

2) cominciare ad agitare campagne sui temi della democrazia, dei diritti umani, sullo stato di diritto;

3) non offrire al regime siriano alcuna via d’uscita, a meno che Assad non sia disposto a recarsi in Israele per negoziare, o non espella tutte le forze anti-israeliane da lui protette e non rinunci alla «resistenza nazionale».

• Nel dicembre 2003 il Congresso Usa approva il Syrian Accountability Act, che dà il mandato al presidente Bush di preparare l’attacco alla Siria.

• Nel 2006 relazioni pubblicate da ex agenti dei Servizi segreti francesi, definiscono la politica statunitense in Medio Oriente fondata sulla «instabilità costruttiva», una strategia che, come essi dicono, «posa su tre principi: creare e gestire conflitti a bassa intensità, favorire lo spezzettamento politico e territoriale dell’area e promuovere il settarismo e la pulizia etnico-confessionale».

• Il 5 marzo 2007 sul New Yorker, Seymour Hersch rivela che Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita, Fratellanza musulmana siriana e Hariri in Libano, hanno costituito, finanziato e armato frange di estremisti e fondamentalisti qaedisti per rovesciare la Siria e il Libano. 

Si potrebbe, anzi si dovrebbe, continuare con altri attori e burattinai occulti, di solito nascosti dietro fondazioni o istituti di ricerca nonprofit. Come il Canadian Centre for Responsibility to Protect  (www.ccr2p.org), l’Albert instein Foundation (www.aeinstein.org), la Freedom House (www.freedomhouse.org), l’Inteational Republican Institute (www.iri.org), il National Democratic Institute (www.ndi.org), la National Endowment Democracy (www.ned.org), o la lobby saudita dei Sudairi, ecc. Ma sarebbero necessarie molte più pagine di quelle disponibili.

La disinformazione strategica

Per poter perseguire questi obbiettivi vi è un’arma senza la quale, come stabilì il dipartimento di Stato Usa, non si possono più vincere le guerre: è la cosiddetta «Quarta Armata», la Disinformazione Strategica. Quella scienza cioè, che prepara, manipola, falsifica, occulta, inganna e orienta le opinioni pubbliche internazionali (a dire il vero, soprattutto quelle occidentali). Una vera e propria guerra mediatica scatenata contro popoli e paesi con le loro leadership, da aggredire e conquistare poi con le armi, anzi con le «guerre umanitarie».

La «Quarta Armata» funziona sulla base di uno schema ormai collaudato negli ultimi vent’anni, e con meccanismi di dispiegamento quasi fissi, passaggio dopo passaggio. Essa consiste in una serie di fasi:

• Una campagna mediatica martellante e incessante di Tv, giornali, radio, siti web, sui temi dei diritti umani, della democrazia, del regime, dei diritti di opposizioni ininfluenti o residenti all’estero, di minoranze etniche oppresse non sufficientemente tutelate. Una comunicazione ossessiva su quanto siano democratiche le forze di opposizione e la cosiddetta società civile, le Ong create ad hoc e su quanto sia importante finanziare questi attori per lottare contro il regime.

• Si passa poi a sanzioni ed embarghi contro i governi che non collaborino o non siano disponibili ad accettare i diktat.

• Terzo passaggio è la demonizzazione e criminalizzazione scientifica e incessante dei leader, dei partiti, forze locali «renitenti o recalcitranti», o non disponibili a svendere la loro politica e gli interessi nazionali o indipendenti. Nel mentre, se nel paese cominciano insorgenze militari, si inizia a paventare la «minaccia e la necessità di un intervento» o l’apertura di «corridoi umanitari e no fly zone».

• Scatta l’aggressione militare, naturalmente sotto la veste di  «guerra umanitaria», per portare democrazia e libertà in quel paese, e difendere i diritti umani.   Il paese recalcitrante viene occupato militarmente e affidato alle forze «nuove» garanti di un nuovo sistema libero e democratico come Al Qaeda in Libia o personaggi alla Quisling (nome di un noto collaborazionista norvegese, ndr) screditati dalle popolazioni locali (come Karzai in Afghanistan o Chalabi in Iraq), se non mafiosi (come in Kosovo). Nel frattempo le risorse di quel paese passano sotto la «tutela» delle varie multinazionali occidentali e vengono installate basi militari Nato o Usa.

Come abbiamo cercato sinteticamente di spiegare, l’uso dei media e della guerra mediatica per assopire le opinioni pubbliche occidentali, sono fondamentali e imprescindibili nel nostro tempo per qualsiasi aggressione e conflitto. Pensiamo quali tragedie umane e sociali e quali conseguenze hanno prodotto le ultime guerre umanitarie in Somalia, Afghanistan, Iraq, Kosovo, Libia. Sarà lo stesso per la Siria?

Preservare popoli, culture e fedi 

È necessario sottolineare e ribadire che a
essere contro la guerra in Siria e a chiedere la fine dell’aggressione, dell’ingerenza delle potenze occidentali e delle violenze delle milizie qaediste, non si difende un partito, un presidente, una ideologia, una fazione. Agendo così si difende la realtà di un popolo, di una società, di un sistema politico e sociale, fondati sulla laicità dello stato, la multireligiosità, la multietnicità, la multiculturalità. Si difende, in altri termini, la ricchezza di un mosaico di popoli, culture e fedi millenarie, l’equilibrio di un sistema unico in tutta l’area mediorientale.

Nell’essere dalla parte della Siria e del suo popolo, si stabilisce che il presidente Assad e il governo siriano sono e devono essere un problema dei siriani che vivono in quel paese. Scelte e decisioni sul presente e sul futuro di quel paese spettano soltanto a loro.

EnricoVigna*

(*) Enrico Vigna è presidente di «Sos Yugoslavia Onlus», associazione di solidarietà che, a dicembre 2012, ha ricevuto a Belgrado il «Premio Novosti», il più alto riconoscimento della Serbia. È autore di numerosi saggi. Il suo ultimo lavoro è: Le Chiese d’Oriente e il “regime” siriano, prefazione di padre Haddad, Zambon Editore, Francoforte 2013 (www.zambon.net).

 

 


INTERVISTA _____________________________________________

Incontro con mons. Haddad della Chiesa cattolica greco-melchita


Il paese strappato e la guerra importata

Il mosaico religioso della Siria è stato infranto da una guerra importata. Mercenari pagati dai paesi sunniti (Arabia Saudita, in primis) e armati dai paesi occidentali (Stati Uniti e Francia in testa), stanno distruggendo l’unico paese arabo in cui la convivenza interconfessionale era una pratica quotidiana, l’unico dotato di una Costituzione laica. Da quest’intervista esce un quadro molto diverso da quello dipinto dalla maggior parte dei media internazionali.

A Roma mons. Mtianos Haddad è rettore della Basilica di Santa Maria in Cosmedin. La chiesa sorge in piazza Bocca della Verità. Proprio sotto il portico della chiesa è collocato – dall’anno 1632 – il notissimo mascherone in marmo dove tutti introducono la mano per dimostrare che non mentono. «E anch’io oggi dirò la verità, signor Paolo», aggiunge con un sorriso il prelato (*). Siriano, archimandrita della Chiesa cattolica greco-melchita a Roma, mons. Haddad appare come una persona pacifica e gioviale, ma con idee molto chiare sull’«amata Siria», un paese dilaniato da una guerra importata da siriani espatriati e da gruppi islamici foraggiati dai soldi di alcuni paesi sunniti (in primis, Arabia Saudita e Qatar) e dalle armi vendute dai paesi occidentali.

Mons. Haddad, la Siria è un paese dalle molte confessioni religiose.

«La Siria è una culla della cristianità. I cristiani e gli ebrei sono lì da ben prima dell’islam. Dopo 600 anni sono arrivati anche i musulmani. Un mosaico religioso, ben vissuto e ben accettato, che è diventato una ricchezza. Prima di questi ultimi 32 mesi, “maledetti” (mi scuso del termine, ma è così), la Siria era un esempio della convivenza e convivialità tra cristiani (cattolici, ortodossi, protestanti), musulmani e comunità ebraiche. Come prova di quanto affermo, ricordo che, da tanti anni, il governo ha cancellato la voce “religione” dalla carta d’identità, cosa impensabile negli altri paesi arabi. Così, al momento di iscriversi all’Università, nessuno ti chiederà quale sia la tua fede. Ma c’è di più. Nelle scuole pubbliche, che sono gratuite, pure le differenze sociali tra ricchi e poveri sono state azzerate introducendo per ogni studente la stessa uniforme. Anche in questo modo il governo ha aiutato tutti noi a essere semplicemente cittadini siriani. Io sono orgoglioso di essere siriano».

Si potrebbe però obiettare che le decisioni di governo sono prese da un solo partito…

«Con tutte le cose che possiamo dire sul Bath – partito unico, dittatore e altro -, dobbiamo ammettere che esso ha dato stabilità alla Siria. Ricordo che Michel Aflaq (1910-1989, ndr), il suo fondatore, era un cristiano. Egli riteneva che con un unico partito laico si sarebbe potuti andare oltre le differenze dell’appartenenza religiosa. Ricordo che, prima dell’avvento del Bath, la vita media di un governo non superava gli 11 mesi. Oggi si protesta contro la lunga permanenza al potere di Assad, dimenticandosi che in Germania Angela Merkel è appena stata eletta per il terzo mandato».

Dal marzo 2011 in Siria c’è un conflitto. Come spiegarlo?

«Hanno iniziato a dire che in Siria era arrivata la primavera araba e che il governo doveva andarsene. Vediamo cos’è successo negli altri paesi. In Egitto, si è tornati a prima della primavera: un fallimento. In Iraq, la maggior parte della popolazione e delle minoranze rimpiange i tempi del dittatore. I giornali non ne parlano più, ma la pace di oggi costa (almeno) 60 vittime al giorno. In Libia, la liberazione è costata migliaia di morti e adesso il paese è diviso tra tribù. Io come cristiano non posso andare in Arabia Saudita con la bibbia e con la croce. In quel paese le donne non possono neppure guidare un’automobile! L’esempio della Siria era pericoloso per i paesi del Golfo. Pertanto, hanno cominciato a lavorare per distruggere il modello siriano. E non dimentichiamo la confinante Turchia. Quando era in amicizia con Israele, era contro la Siria. Poi, dopo l’incidente della “Freedom Flotilla per Gaza” (maggio 2010, ndr), i due paesi si sono riavvicinati. Adesso le cose sono di nuovo cambiate, dato che Erdogan sogna di far rivivere il califfato ottomano».

Per questo lei parla di una guerra importata…

«Per abbattere il governo sono arrivati in Siria combattenti jihadisti da 17 paesi! Si parla di 80-100 mila uomini armati stranieri nel paese. Sono mercenari, jihadisti per vocazione o fanatici. Un esempio. Sono arrivati nella bellissima Aleppo, città di cultura e commerci, e si sono impossessati di un quartiere. Ebbene, questi personaggi hanno imposto la sharia nella zona conquistata. Hanno usato le persone come scudi umani, hanno ucciso bambini davanti ai familiari. Altri fanatici jihadisti hanno attaccato (settembre 2013, ndr) il villaggio cristiano di Malula1».

Abbiamo parlato dei paesi arabi. Vediamo adesso il comportamento dei paesi occidentali.

«È stato negativo. Si pensi alla Francia. È andata in Mali a combattere al-Qaeda. Adesso la stessa Francia vuole abbattere – assieme ad al-Qaeda – il governo siriano. Dunque, per Parigi al-Qaeda è un diavolo in Mali e un santo in Siria. Dato che non può essere così, è evidente che si tratta soltanto di una questione di interessi. Vediamo ora gli Stati Uniti, che predicano la democrazia dei popoli. Perché vanno contro un governo eletto dal popolo siriano? E infine non dimentichiamo Israele».

Già, non possiamo dimenticare Israele…

«Prima di tutto, io voglio distinguere tra lo stato di Israele e la popolazione ebraica. In Siria, l’ho già ricordato, viviamo bene con le comunità ebraiche. Se gli Stati Uniti vogliono essere gli arbitri o i garanti della giustizia internazionale, allora debbono occuparsi anche del popolo arabo palestinese, privo dei suoi diritti dal 1948. Questa ingiustizia è una spina nel fianco di tutto il mondo arabo. Israele e gli Stati Uniti ne sono responsabili. Ma c’è dell’altro. Perché non si parla mai del nucleare israeliano? Perché non si parla delle emissioni radioattive della centrale di Dimona2?».

Mons. Haddad, diciamo due parole anche sui paesi più vicini alla Siria
come la Russia e l’Iran.

«La Russia è sempre stata legata alla Siria per questioni strategiche e commerciali (il grano e il gas, ad esempio). L’Iran – vedendo questa coalizione di paesi sunniti contro la Siria –  ha pensato di aiutare Assad per riequilibrare la situazione nella regione. Un esempio tra i tanti possibili: l’ex presidente egiziano Morsi, esponente dei Fratelli musulmani, ha fatto chiudere l’ambasciata siriana al Cairo (giugno 2013, ndr)».

Lei nega che quella siriana sia una guerra tra sunniti e sciiti.

«Certamente. In Siria abbiamo tra il 60 e il 65 per cento di sunniti. Hanno il 60 per cento dei posti nell’amministrazione e nell’esercito oltre che una parte rilevante della ricchezza. Se fosse stata una guerra tra sunniti e sciiti, il governo di Assad avrebbe potuto resistere soltanto alcune settimane».

Come sono le relazioni con il Libano dopo i conflitti degli anni passati?

«È una bella storia di vicinanza. La Siria ha bisogno del Libano per accedere al mare, al tempo stesso il Libano ha bisogno della Siria. La guerra iniziò da uno scontro con i palestinesi (aprile 1975, ndr) e poi da alcuni comportamenti dell’esercito siriano che era andato lì per ripristinare la pace. Quel conflitto si trasformò in una trappola per Damasco, come quando fu accusata di aver ucciso il primo ministro Hariri (14 febbraio 2005, ndr). Tuttavia, i nostri popoli sono rimasti in ottimi rapporti come dimostrano i numerosi matrimoni tra cittadini dei due paesi. Durante la guerra in Libano molti si rifugiarono in Siria, mentre adesso avviene il contrario».

Chi sono i ribelli? E soprattutto chi sono i loro capi che parlano dalle capitali europee?

«Abbiamo già detto che la quasi totalità dei combattenti non sono siriani. Poi ci sono alcune persone che hanno lasciato la Siria perché avevano problemi con il governo (per esempio, non volevano fare il servizio militare) e che sono fuori del paese da oltre 20 anni. I loro figli neppure sanno dove sia la Siria! Io non li giudico (molti di loro hanno lasciato il paese per la paura – legittima – delle guerre), ma vogliono decidere le sorti del paese senza averne più diritto.

Io rispetto l’opposizione siriana che dialoga con il governo per cambiare le cose, ma non quella che chiede l’intervento di eserciti stranieri per colpire il paese. Questo è un tradimento. Questi personaggi (che spesso vivono in hotel a 5 stelle) non mi rappresentano. Adesso sono stati chiamati a partecipare alla conferenza di “Ginevra 2”3, ma non ci vogliono andare perché pretendono di imporre le loro condizioni. Il governo al contrario non ne ha poste. A Obama hanno dato il premio Nobel della pace prima che facesse qualcosa. Vediamo se adesso saprà meritarselo».

Dell’opposizione siriana non armata si parla poco. Ci dica lei qualcosa al riguardo.

«Nell’attuale governo di Damasco ci sono 2 ministri dell’opposizione siriana pacifica. Uno è ministro della riconciliazione4. È una dimostrazione della serietà del governo, che vuole ascoltare i bisogni dei suoi cittadini, lavorando per la pace. Anche la Costituzione è stata cambiata: nell’articolo 8 non si parla più di partito unico».

Il presidente Assad viene quasi sempre dipinto come un dittatore sanguinario e senza scrupoli.

«Assad non è nato nell’esercito. È un uomo di cultura, che parla bene le lingue. È un medico oculista. È un uomo che rimane umile anche nella sua vita personale. Quando fummo ricevuti come rappresentanti della Chiesa melchita, ci salutò uno a uno dialogando con ognuno. È un presidente laico e di fede. Va a pregare nelle festività musulmane, va a porgere gli auguri ai patriarchi5 nelle festività cristiane. È stato detto che Assad ha accettato la soluzione sulle armi chimiche perché ha avuto paura. E se invece fosse soltanto un uomo di buona volontà? Per questo e altro Assad è un presidente che non può fare paura».

Come si fa per uscire da questa situazione di guerra e ricostruire un paese distrutto.

«La prima cosa è chiedere l’aiuto dell’Onu. La seconda è rispedire a casa ogni jihadista affinché nel paese rimangano soltanto i siriani».

Un bel proposito, ma come fare per realizzarlo?

«Occorre chiudere i rubinetti: quando non arriveranno più soldi, i jihadisti se ne andranno. Agli oppositori non armati che chiedono cambiamenti va ripetuto: parliamoci. Adesso i siriani hanno perso la fiducia. Occorre riconquistarla. Senza armi sarà molto più facile arrivare a una riconciliazione. Una riconciliazione che sia fondata sulla giustizia e sulla dignità».

 Paolo Moiola
Note

1 – Il villaggio siriano di Malula è molto noto in quanto vi si parla ancora l’aramaico, lingua antichissima diffusa nel Medio Oriente prima di essere soppiantata dall’arabo.
2 – La centrale di Dimona è anche famosa per l’incredibile vicenda di Mordechai Vanunu, il tecnico rapito e imprigionato per aver osato svelare i segreti del nucleare israeliano.
3 – Conferenza di pace sulla Siria alla presenza di Onu, Usa e Russia.
4 – Ali Haidar, medico, è stato nominato ministro per la riconciliazione nazionale nel giugno 2011, pochi mesi dopo lo scoppio della guerra.
5 – La capitale siriana Damasco ospita i patriarchi di alcune chiese cristiane, sia cattoliche che ortodosse.

(*) Questa intervista – riprodotta soltanto nei suoi passaggi essenziali – nasce da due incontri con mons. Haddad. Il secondo di questi è integralmente visibile su YouTube (clicca qui).

Gli anti-Assad

Esercito siriano libero: nato nel luglio 2011, è stata la prima formazione anti-Assad, ora molto indebolita dalle defezioni.
Esercito islamico: il Jaysh al-Islam è nato a fine settembre 2013, include 43 gruppi islamisti.
Alleanza islamica: nato a metà settembre 2013, include 13 gruppi islamisti, tra cui il Jabhat
al-Nusra e Ahrar al-Sham.
Consiglio nazionale siriano: nato nell’agosto 2011, è un’autorità politica anti-Assad con sede
a Istanbul.

Sponsors politici e/o finanziari degli anti-Assad:

Paesi sunniti mediorientali (Arabia Saudita, Qatar, Turchia), Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Israele.

Fonti mediatiche anti-Assad:

Osservatorio siriano per i diritti umani (Londra), al-Jazeera (Qatar), al-Arabiya (Arabia Saudita).

L’OPINIONE_________________________________

La Chiesa Ortodossa Russa: Una «sinfonia» contro i fanatismi

La Chiesa ortodossa russa non è solo la più grande delle Chiese ortodosse nel mondo, ma anche quella che storicamente non è mai stata sotto una dominazione musulmana. Questa combinazione le ha permesso lungo i secoli di difendere gli interessi dei cristiani ortodossi perseguitati, in particolar modo quelli del Medio Oriente. Oggi, il sostegno al popolo siriano, espresso attraverso la preoccupazione per la minoranza cristiana a rischio in Siria, trova le dichiarazioni dei portavoce del patriarcato di Mosca e dello stato russo tanto concordi che è difficile distinguere da chi vengano gli appelli, nonostante negli ultimi anni ci sia stata una coerente pratica di non interferenza nelle rispettive sfere di competenza: si vede qui realizzato il principio di «sinfonia» tra Chiesa e Stato che ha caratterizzato per oltre un millennio l’Impero romano (il riferimento è all’Editto di Tessalonica del 27 febbraio 380 con cui si proclama il cristianesimo niceno religione ufficiale dell’Impero, ndr). Le campagne di raccolte di aiuti per i cristiani in Siria nelle chiese ortodosse del Patriarcato di Mosca, e le prese di posizione del governo russo per scongiurare un intervento armato straniero in territorio siriano (nonché l’appoggio statunitense a bande di ribelli islamisti che di siriano non hanno nulla) sono ben più di un’alleanza per fini politici comuni: sono un esempio di rappresentazione della volontà popolare che avrebbe qualcosa da insegnare alle nostre «democrazie».

L’accordo tra leader di stato e di fede è ancor più sorprendente quando si pensa che da poco più di un ventennio la Russia è uscita da una lunga esperienza di ateismo di stato. Curiosamente, la diffidenza verso il fanatismo di matrice musulmana sembra andare di pari passo con la diffidenza verso il fanatismo laicista nel mondo occidentale. La Russia un tempo ufficialmente atea dimostra un grado di democrazia maggiore di quello del mondo cosiddetto libero, rispettando la volontà della stragrande maggioranza della popolazione più di quanto facciano i regimi occidentali, sia in tema di intervento militare (che vede l’opposizione di una maggioranza della popolazione in tutti i paesi), sia in tema di introduzione di false leggi di «tolleranza», forme di suicidio anti-cristiano non sostenute dalle popolazioni locali, sia in Russia che in Occidente.

Padre Ambrogio , Chiesa ortodossa russa di Torino (*)

(*)  Padre Ambrogio (al secolo Andrea Cassinasco) è dal 2001 il parroco della chiesa ortodossa del Patriarcato di Mosca a Torino. Il Patriarcato di Mosca (noto anche con il nome di Chiesa ortodossa russa) è rappresentato in Italia da oltre una cinquantina di parrocchie e comunità. Sito web: www.ortodossiatorino.net.