Sudan. La guerra più dimenticata


In seguito alla caduta del dittatore Al-Bashir sì è creato un equilibrio precario. Sfociato, nel 2023, in guerra aperta. Le potenze regionali appoggiano una o l’altra parte. Anche la Russia ha interessi per un possibile accesso al Mar Rosso. Intanto l’emergenza umanitaria è enorme.

Sullo sfondo si sentono i colpi che esplodono. Raffiche continue, inframezzate da colpi più forti. «No, non stanno combattendo – spiega la nostra fonte al di là della linea telefonica -, stanno festeggiando. Qui a Port Sudan, la capitale provvisoria del Sudan, c’è una grande felicità per la conquista di un quartiere di Khartoum da parte dell’esercito sudanese. C’è entusiasmo e la gente spara in aria. La guerra però non è finita e temo che il bilancio delle vittime e degli sfollati sia destinato a crescere ancora nei prossimi mesi».

Trascurato dai media internazionali, tutti concentrati sui conflitti in Ucraina e nella Striscia di Gaza, il Sudan è il teatro di un conflitto devastante che rappresenta una delle crisi umanitarie e geopolitiche più complesse degli ultimi anni. Questo conflitto non solo ha destabilizzato il Paese, ma ha anche attirato l’attenzione della comunità internazionale, con diverse potenze regionali e globali che sostengono indirettamente una delle due fazioni.

People take to the streets of Port Sudan to celebrate the reported advance of Sudanese military forces and allied armed groups on the key Al-Jazira state capital Wad Madani, held by the paramilitary Rapid Support Forces (RSF), on January 11, 2025. (Photo by AFP)

Gli attori in campo

La guerra, scoppiata nell’aprile 2023, ha visto scontrarsi le Forze armate sudanesi (Saf) e le Rapid support forces (Rsf), una milizia paramilitare. Le forze armate sudanesi, guidate dal generale

Abdel Fattah al-Burhan, rappresentano l’esercito regolare del Paese. Fin dai tempi del presidente dittatore Omar al-Bashir (al potere dal 1989 al 2019), i militari hanno svolto un ruolo centrale nella politica sudanese, spesso intervenendo direttamente negli affari di Stato. D’altra parte, le Rapid support forces (Rsf), comandate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (noto come Hemeti), sono una milizia nata dalle ceneri dei Janjaweed, un gruppo noto per le atrocità commesse nel Darfur nel corso degli anni 2000.

Le Rsf, pur essendo state formalmente integrate nelle strutture di sicurezza statali, hanno sempre mantenuto una forte autonomia e sono state accusate di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani.

Il conflitto tra Saf e Rsf è scoppiato a causa di tensioni legate alla transizione politica del Sudan verso un governo civile. Dopo la caduta di Omar al-Bashir nel 2019, il Paese ha vissuto un periodo di instabilità, con l’esercito e le Rsf che hanno inizialmente collaborato per mantenere il controllo. Tuttavia, le divergenze sulla futura struttura del potere e sulla riforma delle forze armate hanno portato a uno scontro aperto. «Non ci sarà alcuna negoziazione né compromesso con i gruppi armati che combattono contro lo Stato – ha detto al-Burhan -. Non ci sarà negoziazione né compromesso con chi ha preso le armi contro lo Stato e il popolo. Continueremo sulla strada della vittoria fino a quando ogni centimetro del Paese non sarà liberato dalle Rsf».

foto-jrandy-fath-unsplash

Alleanze internazionali

Il conflitto in Sudan non è solo uno scontro interno. In esso si riflettono anche le dinamiche geopolitiche regionali e globali. Diverse potenze internazionali hanno preso posizione, sostenendo indirettamente una delle due fazioni in lotta. L’Egitto, confinante con il Sudan, ha tradizionalmente sostenuto le forze armate, vedendo nell’esercito regolare un baluardo contro l’instabilità nella regione.

Gli Emirati arabi uniti hanno invece sostenuto le Rsf, fornendo armi e finanziamenti. Questo sostegno è legato agli interessi economici degli Emirati nel Paese, in particolare nel settore agricolo e minerario. Le aziende della famiglia di Dagalo controllano le miniere d’oro del Darfur. Secondo un’analisi dell’agenzia di stampa britannica Reuters, nel 2018-2019 una di queste società inviava negli Emirati trenta milioni di dollari in lingotti d’oro ogni tre settimane. Va ricordato che gli Emirati sono il terzo importatore mondiale di oro e che il 75% dell’oro sudanese viene trafficato proprio sul mercato emiratino. Inoltre, in passato, le Rsf hanno collaborato con gli Emirati in operazioni militari nello Yemen contro gli Houthi, rafforzando i legami tra le due parti. «Gli Emirati – ci spiega una fonte locale che vuole mantenere l’anonimato -, inviano tonnellate di armi ai ribelli delle Rsf. Queste armi, in parte acquistate da aziende serbe, in parte da aziende francesi, vengono fatte arrivare in Libia, nelle aree controllate dal generale Khalifa Haftar. Da lì transitano in Ciad per poi arrivare in Darfur». Secondo «The Africa report», gli Emirati avrebbero fatto avere al presidente ciadiano Mahamat Deby, un miliardo di dollari in cambio del sostegno alle Rsf e del via libera al traffico di armi e munizioni sul suo territorio.

Più ambigua invece la posizione della Russia. Mosca ha sempre mostrato interesse per il Sudan. Gruppi paramilitari russi, come il gruppo Wagner, hanno fornito addestramento e supporto alle Rsf, cercando di espandere l’influenza russa in Africa. Negli ultimi mesi, però, si è registrato un avvicinamento tra Mosca e Khartum. In gioco, l’accesso al Mar Rosso, via di transito tra le più importanti del mondo e possibile base strategica dell’esercito russo, in vista di un possibile ritiro dalla Siria. Ufficialmente la Marina militare di Mosca aveva reso nota la volontà di creare un centro logistico in Sudan a novembre 2020: all’epoca si era riferito che nella struttura avrebbero potuto essere presenti contemporaneamente fino a quattro navi russe e che il personale addetto alla base non avrebbe superato le 300 unità. Negli anni si sono poi susseguite notizie, sempre smentite sia da Mosca sia da Khartoum, su accordi falliti o respinti dalla parte sudanese. A fine febbraio il ministro degli Esteri sudanese, Ali Yousef Sharif, al termine dei colloqui con il suo omologo russo Sergei Lavrov, ha annunciato che Mosca e Khartum avrebbero raggiunto «un’intesa reciproca» per la creazione di una base navale russa proprio sul Mar Rosso. Lavrov, dal canto suo, non ha confermato, né ha citato accordi, memorandum, decisioni o firme. Nonostante il silenzio del braccio destro di Vladimir Putin, secondo alcuni analisti, i due Paesi stanno però continuando a trattare su questo punto.

Sfumate invece sono le posizioni di Stati Uniti e Unione europea. Entrambi hanno cercato di mediare un cessate il fuoco, ma senza successo. Hanno condannato le violenze e chiesto una transizione verso un governo civile, ma il loro ruolo rimane limitato rispetto alle potenze regionali.

foto-mohamed-tohami-unsplash

Etiopia, il vicino scomodo

Un ruolo delicato nella partita sudanese è giocato dall’Etiopia. Il nodo della discordia è la Grande diga del millennio etiope che Addis Abeba sta realizzando sul Nilo Azzurro, il principale affluente del Nilo. L’Egitto teme che questo mega sbarramento possa ridurre in modo massiccio il flusso idrico a valle e quindi mettere in crisi i rifornimenti di acqua dolce alla sua popolazione. Il Sudan, altro Paese a valle della diga, si è sempre schierato con Il Cairo fin dai tempi di Omar al-Bashir. La caduta di quest’ultimo non ha cambiato nei fatti la politica di Khartum. Al-Burhan ha continuato a essere un alleato fedele dell’Egitto e quest’ultimo lo ha ripagato con un aperto sostegno nell’attuale conflitto. L’Etiopia ha inizialmente tenuto una posizione più neutrale ma, con il tempo, si è progressivamente avvicinata alle Rsf, in forza anche della sua alleanza strategica con gli Emirati arabi uniti. Questi ultimi hanno sostenuto Addis Abeba anche nella disputa sul triangolo di al-Fashaga, un’area molto fertile sotto la sovranità sudanese, ma abitata da popolazione Amhara (una delle principali componenti del mosaico etnico etiope). Il conflitto è peg- giorato dopo la guerra civile in Tigray, Etiopia (2020), quando il Sudan ha cercato di riprendere il controllo della regione approfittando della crisi etiope. Nonostante periodici negoziati, le tensioni restano alte e la disputa rimane irrisolta, con il rischio di nuovi scontri.

Sudanese people who fled escalating violence in the al-Jazira state are pictured at a camp for the displaced in the eastern city of Gedaref on November 23, 2024. (Photo by AFP)

L’Arabia Saudita

Altro attore importante nel teatro sudanese è l’Arabia Saudita. Riad ha forti interessi economici e geopolitici in Sudan, in particolare nella regione del Mar Rosso. Investimenti sauditi nei settori agricolo e infrastrutturale sono significativi, e la stabilità del Sudan è cruciale per la sicurezza marittima e le rotte commerciali saudite. Inoltre, il Sudan è stato un partner militare dell’Arabia Saudita nella guerra in Yemen, fornendo truppe per la coalizione guidata da Riyad. Ufficialmente il suo coinvolgimento si è concentrato principalmente su una mediazione diplomatica e l’invio di aiuti umanitari. L’Arabia Saudita, insieme agli Stati Uniti, ha facilitato i colloqui di pace tra le fazioni in guerra. A maggio 2023, ha ospitato a Gedda i negoziati tra l’esercito sudanese e le Rsf, allo scopo di ottenere un cessate il fuoco e un accesso umanitario sicuro. Riyad ha fornito assistenza umanitaria al Sudan, inviando aiuti alimentari e medici attraverso il King Salman humanitarian aid and relief center (KSrelief). Inoltre, ha evacuato cittadini sudanesi e stranieri in pericolo durante le fasi più intense del conflitto. Nonostante il suo ruolo di mediatore, alcuni analisti ritengono che l’Arabia Saudita mantenga legami con entrambi gli schieramenti, specialmente con le Rsf, attraverso gli Emirati arabi uniti, un alleato storico di Riad.

People struggling to commute gather around a packed bus in Port Sudan as local transportation is strangled after government authorities reportedly changed two currency notes, invalidating old notes, on December 30, 2024 in the Red Sea port city, where the government loyal to the army is based. Sudan is reeling from 20 months of fighting between the Sudanese army and the paramilitary Rapid Support Forces, led by rival generals, which have led to a dire humanitarian crisis. The war since April 2023 has killed tens of thousands of people and uprooted 12 million, creating what the United Nations has called the world’s largest displacement crisis. (Photo by AFP)

Una tragedia umanitaria

Il bilancio umanitario del conflitto è drammatico. Secondo le stime delle Nazioni Unite e di organizzazioni umanitarie, dal suo inizio nel 2023, la guerra ha causato oltre diecimila morti, tra civili, combattenti e personale medico. Le violenze hanno colpito indiscriminatamente la popolazione, con bombardamenti aerei, scontri armati e saccheggi che hanno devastato intere città, in particolare la capitale Khartum e la regione del Darfur.

Secondo le agenzie Onu, il numero di sfollati interni ha superato i cinque milioni, ai quali si aggiungerebbero un milione e mezzo di rifugiati nei Paesi vicini, tra cui Ciad, Sud Sudan, Egitto ed Etiopia. In realtà si sospetta che il numero complessivo di rifugiati e sfollati tocchi gli undici milioni. Molti vivono ai confini con l’Egitto in campi improvvisati, senza accesso a cibo, acqua potabile o assistenza medica. «Al confine tra Sudan ed Egitto – racconta un missionario cattolico che vuole mantenere l’anonimato – esistono campi profughi enormi. Le condizioni sono terribili. Gli sfollati sono abbandonati da tutti e non hanno alcun tipo di assistenza. Le organizzazioni umanitarie (Onu, Pam, Cri, ecc.) non possono fare molto. Esercito e milizie temono che il cibo possa finire nelle mani del nemico e quindi limitano l’accesso alle derrate alimentari e ai farmaci. La situazione è così critica che molti eritrei che erano fuggiti dal durissimo regime di Isaias Afewerki, hanno preferito ritornare a casa piuttosto che patire qui sofferenze inaudite».

Nelle zone sotto il diretto controllo dell’esercito, la vita è quasi normale. «Qui a Port Sudan – spiega un altro missionario cattolico – vivono almeno 300mila sfollati. La situazione è calma sotto il profilo dell’ordine pubblico. Non tutto però è semplice. Ci sono problemi a trovare lavoro e non è facile reperire una sistemazione abitativa, perché i prezzi degli affitti sono lievitati. Anche il cibo costa molto. Tanti sono alloggiati in famiglie amiche. La maggior parte però sta in campi profughi». Nonostante ciò, i ragazzi e le ragazze sono tornati a scuola, le strutture religiose sono attive e gli uffici pubblici e privati funzionano.

«Di fronte a questa situazione – conclude il missionario -, la Chiesa cattolica si è attivata per fornire assistenza agli sfollati. Siamo una realtà piccola, ma cerchiamo di fare il massimo che possiamo con i mezzi che abbiamo. Le autorità ci rispettano e lasciano che operiamo. Questa, d’altra parte, non è una guerra di religione. Qui non ci sono musulmani contro cristiani. È una guerra di potere e sia i musulmani sia i cristiani ne sono vittime. Le nostre strutture e quelle islamiche sono attaccate dai ribelli perché interessa loro avere luoghi dove accamparsi e dove rubare legna, mezzi e beni di conforto. Infatti, hanno occupato sia chiese che moschee. Se dobbiamo essere sinceri, le violenze sono state perpetrate soprattutto dalle Rsf. Sono i loro miliziani ad aver ucciso e ad aver compiuto i peggiori atti di vandalismo. Assaltano e distruggono tutto. Fanno tabula rasa».

Enrico Casale

foto-yusuf-yassir-unsplash




Gaza, «qui non c’è più niente»


Per il governo israeliano è una guerra di legittima difesa. I fatti raccontano però una realtà molto diversa. A cominciare dal numero impressionante dei morti palestinesi. E mentre le accuse di genocidio si moltiplicano, c’è chi parla di suicidio di Israele.

Quindici mesi di guerra, una fragile tregua e una pace che pare lontanissima. Terrorismo o resistenza? Legittima difesa o genocidio? Difficile trovare un tema tanto divisivo come quello che riguarda Israele e Palestina.

Per limitarci a un esempio italiano, il giorno seguente all’annuncio della tregua, il direttore di un quotidiano pubblica un peana in onore di Benjamin Netanyahu: «Quest’uomo si è dimostrato un eccezionale leader di guerra», si legge tra l’altro (Libero, 16 gennaio). Ben diversa è l’opinione del cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, secondo il quale il premier israeliano non può essere il futuro (la Repubblica, 21 gennaio).

Fuori dell’ospedale Al-Ahli (ospedale Battista), alcune donne piangono sul corpo di un loro caro ucciso nei bombardamenti israeliani su Gaza City (16 gennaio 2025). Foto Omar Al-Qattaa / AFP.

E poi arrivò Trump

La tregua tra i contendenti è arrivata negli ultimi giorni di presidenza di Joe Biden. L’ex presidente statunitense è stato un protagonista remissivo del conflitto concedendo armi e un’assoluta libertà d’azione al primo ministro israeliano. Premesso questo, Donald Trump, il suo successore alla guida degli Stati Uniti, non è stato l’artefice della tregua (come ha sostenuto in virtù del suo egocentrismo ipertrofico) e certamente non può essere considerato un fautore della pace. Nel primo giorno di insediamento (20 gennaio), il
tycoon ha firmato un ordine esecutivo che ha tolto le sanzioni contro i coloni israeliani della Cisgiordania (West Bank, ma Giudea e Samaria per i fondamentalisti religiosi ebraici), invasori delle terre palestinesi tanto estremisti quanto Hamas. Successivamente, ha proposto di ripulire (testuale, «clean out») Gaza spostando i palestinesi in Giordania ed Egitto. Durante il suo primo mandato, lo stesso Trump riconobbe Gerusalemme come capitale d’Israele (dicembre 2017), un palese atto di sfida ai palestinesi. Da ultimo (4-5 febbraio), sono arrivate le sue sparate (molto apprezzate da Netanyahu e dai coloni) sul trasformare Gaza, svuotata dai palestinesi, nella «riviera del Medio Oriente» sotto controllo Usa.

Che la tregua si trasformi da temporanea a permanente sarebbe già un successo. Mentre la pace pare tanto lontana quanto la soluzione «due popoli, due stati», l’unica plausibile.

Distruzione, morte e il suicidio di Israele

Osservare le immagini aeree di Gaza significa vedere una distruzione tale da rimanere senza fiato. Secondo un’analisi del Centro satellitare delle Nazioni Unite (Unosat), più di due terzi degli edifici della striscia sono stati distrutti o danneggiati (pari a oltre 170mila edifici, compresi ospedali, scuole, luoghi di culto, infrastrutture civili). Tuttavia, le città si possono ricostruire, mentre la stessa cosa non può avvenire per le vite umane.

Secondo i numeri di Al-Jazeera, su informazioni del ministero della Salute palestinese, al 3 febbraio 2025 i morti sono stati 1.139 tra gli israeliani e (alme-

  1. no) 62.614 tra i palestinesi. Tra questi, 17.673 bambini. Altre 14.022 persone risultano disperse.

Il governo israeliano ha sempre negato le cifre diffuse dai palestinesi e dai media internazionali. Eppure, The Lancet, una delle più prestigiose riviste scientifiche del mondo, ha addirittura parlato di cifre sottostimate (articolo del 9 gennaio 2025 che ne segue uno del 5 luglio 2024).

Il già impressionante numero delle vittime palestinesi è sottostimato in quanto, per esempio, non considera le morti indirette. «I conflitti armati – spiega The Lancet nell’articolo di luglio – hanno implicazioni indirette sulla salute oltre al danno diretto della violenza. Anche se il conflitto finisse immediatamente, continuerebbero a esserci molte morti indirette nei prossimi mesi e anni per cause quali malattie riproduttive, trasmissibili e non trasmissibili. […] Nei conflitti recenti, tali morti indirette vanno da 3 a 15 volte il numero di morti dirette».

La rivista stima che, al 30 giugno 2024, i morti tra i palestinesi fossero 64.260. Dunque, a questa cifra andrebbero aggiunte le persone morte tra luglio 2024 e febbraio 2025.

Ragionare attorno al numero dei morti non è un esercizio vano. A parte il dolore per la perdita di vite umane, la questione è l’odio che da questi lutti inevitabilmente si genera. Anche per questo pare adeguato il titolo che la storica ebraica Anna Foa ha scelto per il suo ultimo libro: «Il suicidio di Israele» (Laterza, ottobre 2024).

Immagini di devastazione a Gaza. Foto Naaman Omar / apaimages.

Se l’antisionismo diventa antisemitismo

In Occidente, chi critica il governo israeliano è spesso tacciato di antisemitismo. Per comodità, per partito preso, per allergia alla critica. Il termine antisemitismo significa – secondo l’Enciclopedia dell’Olocausto (curata dallo United States Holocaust memoria museum di Washington) – «pregiudizio o odio nei confronti del popolo ebraico. […] È una forma di intolleranza e razzismo. […] è un insieme di credenze e idee dettate dall’odio contro gli ebrei e la religione ebraica, il giudaismo».

A volte può trattarsi di antisionismo, probabilmente più comune, ma anch’esso sbagliato come il precedente. Secondo la Treccani, l’antisionismo è un «atteggiamento culturale e politico di opposizione e di contrasto alle più radicali espressioni del sionismo. [Questo è il nome dato al] movimento politico e ideologia volti alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina (da Sion, nome della collina di Gerusalemme)».

La realtà è probabilmente quella descritta da Anna Foa: «Cresce l’antisemitismo nel mondo e l’antisionismo si colora sempre più di antisemitismo». Anche in Italia, paese che ha conosciuto l’antisemitismo non soltanto negli anni del fascismo. I ricorrenti insulti alla senatrice Liliana Segre, superstite dell’Olocausto, ne sono la testimonianza.

Massacro o genocidio?

Una mappa con la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, le Alture del Golan (Siria) e Israele.

Rimane da stabilire se la guerra tra Israele e Palestina sia stata un atto di legittima difesa del governo Netanyahu dopo l’assalto di Hamas del 7 ottobre 2023, oppure, come appare ai più, una vendetta trasformatasi presto in massacro. O in genocidio.

«Il termine “genocidio” – si legge nella citata Enciclopedia dell’Olocausto – non esisteva prima del 1944. Si tratta di un termine molto specifico, che indica crimini violenti commessi contro determinati gruppi di individui con l’intento di distruggerli». Ha parlato di genocidio papa Francesco, che non ha mai risparmiato frecciate al premier Netanyahu. Parlano di genocidio i rapporti di tre grandi organizzazioni internazionali: Amnesty International, Human rights watch e Medici senza frontiere.

Scrive Human rights watch: «Le azioni delle autorità e delle forze israeliane per privare la popolazione di Gaza dell’accesso all’acqua equivalgono ad atti di genocidio ai sensi della Convenzione sul genocidio e dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale» (Extermination and acts of genocide. Israel deliberately depriving palestinians in Gaza of water, dicembre 2024). Altrettanto circostanziate sono le accuse di Amnesty che, nelle ultime pagine del suo rapporto, scrive: «Amnesty International ritiene che il modello di condotta che ha caratterizzato le operazioni militari di Israele […] forniscano prove sufficienti dell’intenzione di Israele di distruggere i palestinesi di Gaza, in quanto tali» (“You feel like you are subhuman”. Israel’s genocide against palestinians in Gaza, dicembre 2024).

Leggiamo, infine, nel rapporto di Medici senza frontiere (Gaza: life in a death trap, dicembre 2024): «Gli ospedali sono stati assediati, presi di mira da attacchi aerei o bombardamenti e presi d’assalto dalle truppe di terra, le ambulanze sono state colpite, i pazienti e il personale sono stati uccisi».

La conclusione del rapporto di Msf è carica di pessimismo: «Anche se il brutale assalto di Israele finisse oggi, l’impatto a lungo termine di tale carneficina e distruzione sfiderebbe qualsiasi tentativo di definirlo. […] Ricostruire Gaza sarà un compito monumentale in questa scala di distruzione senza precedenti. […] Potrebbero volerci fino a 15 anni per ripulire le macerie e 80 anni per ricostruire le abitazioni».

«Qui non c’è più niente», conferma a Francesca Caferri (la Repubblica, 22 gennaio) padre Gabriel Romanelli, missionario verbita. Nativo di Buenos Aires, prime esperienze in Egitto e in Giordania, il sacerdote è a Gaza dal 2019, dove è parroco della chiesa della Sacra Famiglia, l’unica chiesa cattolica della Striscia. Dice che ora la sua prima preoccupazione è quella di riaprire la scuola della parrocchia.

Preoccupazione comprensibile se si considera l’impatto devastante prodotto dalla guerra sull’educazione scolastica dei bambini palestinesi, un’educazione peraltro già altamente deficitaria prima di quest’ultimo conflitto. Quali sentimenti rimarranno nella loro testa rispetto a chi li ha ridotti a vivere così? Non pare azzardato ipotizzare almeno risentimento, ma più probabilmente vero e proprio odio nei confronti del nemico israeliano. «Tutti i bambini di Gaza – scrive l’Unicef – sono stati esposti alle esperienze traumatiche della guerra, le cui conseguenze dureranno tutta la vita».

Le colpe dei governanti

Il presidente palestinese Abu Mazen è in carica da vent’anni. Foto Freddie Everett – US State Department, 2022.

Il premier israeliano Benjamin Netanyhau ha trascorso 17 anni alla guida d’Israele. Foto Avi Ohayon – Government Press Office, 2023.

A Gaza, il governo fondamentalista di Hamas è stato fallimentare. In Cisgiordania l’anziano e inconcludente presidente palestinese Abu Mazen è in carica senza interruzione da vent’anni. I palestinesi meritano rappresentanti politici nuovi e migliori. Quanto agli israeliani, Benjamin Netanyahu è al suo terzo mandato per un totale di sei governi e diciassette anni al potere, gli ultimi caratterizzati anche da scandali e processi per corruzione. Del suo attuale governo fanno parte integrante alcuni partiti, noti per il loro fondamentalismo religioso (che trova nella Bibbia ebraica la giustificazione del loro agire) e politico (che si manifesta nell’ultranazionalismo e nell’ideologia antiaraba).

«Netanyahu e il suo governo – scrive ancora Anna Foa – devono pagare non solo per quello che hanno fatto ai palestinesi di Gaza, ma anche per quello che la loro politica ha comportato per la stessa Israele. Gli israeliani dovranno trattare con Hamas, colpevole della terribile strage del 7 ottobre, ma i palestinesi dovranno trattare con chi è colpevole di aver distrutto le loro case e ucciso le loro famiglie».

Paolo Moiola

Il missionario verbita Gabriel Romanelli è parroco a Gaza, nell’unica chiesa cattolica della Striscia. Foto Latin Patriarchat of Jerusalem.




Myanmar. Quattro anni di guerra civile

 

Nel conflitto civile che da quattro anni insanguina il Myanmar non si vedono spiragli di pace. In primis perché nessuno dei due contendenti in lotta – la giunta militare al potere e le forze di opposizione – è disposto a fare concessioni all’avversario, continuando a dichiarare di volerlo sconfiggere. In seconda battuta a causa dell’assenza della comunità internazionale che finora si è dimostrata impotente o indifferente. Con due eccezioni: Cina e Russia. Mentre, infatti, il blocco occidentale e gli Stati Uniti d’America hanno lasciato campo libero, le due potenze hanno continuato a sostenere la giunta militare al potere, al fine di tutelare i loro interessi strategici ed economici.

La Casa Bianca, nel tempo dell’amministrazione Trump, non sembra volersi coinvolgere per promuovere il ritorno della democrazia in Myanmar.
Nel 2022, il Congresso Usa aveva approvato il Burma Act, un provvedimento legislativo che autorizzava «l’assistenza umanitaria e il sostegno alla società civile» tramite un programma Usaid (United States agency for international development) volto ad assistere giovani esuli birmani nel loro percorso di istruzione e formazione.
Il presidente Trump, bloccando i finanziamenti all’agenzia governativa, ha fermato anche 45 milioni di dollari stanziati per oltre 400 studenti birmani che erano sostenuti tramite il Development and inclusive scholarship program dell’Usaid.

L’opposizione birmana e il governo in esilio, il National unity government (Nug), hanno incassato lo stop degli aiuti Usa con amarezza, puntualizzando che le forze della resistenza birmana non si fermeranno e che continueranno nella lotta fino al rovesciamento del regime.

Anche nelle giornate di analisi e riflessione organizzate a Roma dall’Associazione Italia-Birmania insieme, in occasione del quarto anniversario del golpe, all’inizio di febbraio, si è osservato con disappunto l’atteggiamento dell’Occidente che – focalizzato sulla guerra in Ucraina e sul conflitto in Medio Oriente – sembra aver dimenticato il quadrante del Sudest asiatico e la sofferenza del popolo birmano.

I quattro anni di guerra civile, gli ultimi due particolarmente cruenti, restituiscono ora il volto di un paese tormentato e deturpato da profonde ferite. Dal golpe che il 1° febbraio del 2021 ha rovesciato il governo democraticamente eletto, la nazione si ritrova a essere definita «il luogo più violento del mondo», come ha scritto l’Armed conflict location and event data project (Acled), organizzazione che monitora i conflitti nel mondo, rilevando oltre 50mila morti – tra i quali oltre 8mila civili -, più di 3,8 milioni gli sfollati e circa 23 milioni di cittadini interessati dal conflitto civile in corso, su una popolazione complessiva di 51 milioni di abitanti.
La popolazione è allo stremo, ha avvertito il Programma alimentare mondiale (Wfp) dell’Onu, prevedendo che oltre 15 milioni di persone soffriranno la fame nel 2025, sperimentando alti livelli di insicurezza alimentare, soprattutto nelle aree attraversate da scontri armati (in particolare negli Stati di Chin, Kachin e Rakhine, e nella regione di Sagaing). La crisi unitaria, si avverte, è destinata ad aggravarsi, anche perché le associazioni e Ong internazionali non hanno la possibilità e l’autorizzazione per soccorrere e portare aiuti ai civili.

In tale scenario la situazione sul terreno militare, nonostante il prosieguo dei combattimenti, sembra cristallizzarsi: da un lato, l’esercito birmano ha a disposizione, grazie ai rifornimenti dei potenti alleati, arsenali di armi pesanti, forze aeree, carri armati, e mantiene il controllo della parte centrale del Paese e delle grandi città come Mandalay, Naypyidaw, Yangon; dall’altro, le forze di opposizione hanno conquistato aree e municipalità nelle zone di confine, quelle che vengono orgogliosamente definite «zone liberate», cioè sottratte al potere della giunta, e controllano, secondo gli analisti, il 50% del territorio nazionale.

Intanto il regime militare al potere, che ha lanciato una campagna di reclutamento obbligatorio per rafforzare le fila dell’esercito, ha prolungato lo stato di emergenza fino a luglio 2025 e ha annunciato che entro l’anno terrà una tornata elettorale.
Si tratta, tuttavia, di un piano difficile da realizzare, dato che il censimento elettorale è stato possibile soltanto in 145 municipalità sulle 330 che compongono lo Stato, cioè meno della metà, e in zone abitate solo dalla gente dell’etnia maggioritaria, i bamar, in una nazione che si configura come multietnica e multiculturale.

La sola notizia positiva negli ultimi mesi è stata quella dell’accordo di cessate il fuoco, limitato alla regione del Nordest, siglato tra esercito e gruppi ribelli grazie alla mediazione della Cina che, come detto, tiene a tutelare i propri interessi commerciali e ha così ristabilito il traffici alla frontiera.

In un quadro di violenza generalizzata, la Chiesa cattolica ha registrato il tragico episodio dell’uccisione del primo sacerdote: si tratta di don Donald Martin Ye Naing Win, ucciso il 14 febbraio nella sua parrocchia di Nostra Signora di Lourdes dell’arcidiocesi di Mandalay, nella regione di Sagaing, nel Centro Nord del Paese, una delle aree maggiormente interessate da scontri e combattimenti.
A compiere il brutale omicidio (il prete è stato accoltellato e mutilato) un gruppo di miliziani di forze di difesa locali per motivi ancora tutti da chiarire. Sulla morte del religioso le Forze di difesa polare, che combattono sotto l’egida del National Unity Government e che controllano quella porzione di territorio in Sagaing, hanno aperto un’indagine arrestando un gruppo di dieci aggressori.

Paolo Affatato




Libano. Quaderno di guerra

 

Sabato, 25 gennaio 2025, Libano meridionale. Domani, stando agli accordi per il cessate il fuoco stipulati a novembre tra Israele e governo libanese, i soldati dell’Idf (Israel defense forces) dovrebbero ritirarsi dal Sud del Libano. Dopo 16 mesi, passati da rifugiati interni nel proprio Paese, migliaia di persone si preparano a tornare nelle proprie città.

Alì Ghaleb Kouteich è una di queste. Nato e cresciuto ad Houla, uno dei villaggi più a ridosso del confine con Israele, era proprietario di un supermercato, fino a che, a causa dei bombardamenti di Tel Aviv cominciati ad ottobre 2023, non ha dovuto evacuare come la totalità degli abitanti. Anche nel paese dove ha trovato rifugio, Alì ha aperto un supermercato ma, ora, alla vigilia del ritiro delle truppe israeliane, il suo unico pensiero è quello di tornare a casa. Ad Houla sono rimaste in piedi appena il 10 percento delle abitazioni, tutto il resto è stato distrutto dai bombardamenti. Nonostante questo, tutti sono pronti a tornare e a lavorare per una ricostruzione. Negli ultimi giorni, Alì ha deciso di raccogliere tutto quello che poteva dal suo negozio, aiuti di ogni genere da portare nella sua città natale per contribuire a questo nuovo inizio.

Una delle strade bombardate di Tiro. Con la sua splendida posizione sul mare, questa città del Sud del Libano era molto frequentata da turisti provenienti soprattutto dal mondo arabo. (Foto Angelo Calianno)

Domenica, 26 gennaio. Per impedire il ritorno degli abitanti di Houla, gli israeliani hanno fatto saltare in aria le strade creando crateri che rendano impossibile l’entrata delle auto. I libanesi non si danno per vinti, arrivando tutti a piedi. Alì è il primo ad entrare. Al suo arrivo però, trova i soldati dell’Idf ad attenderlo: hanno deciso di non rispettare gli accordi e continuare a presidiare il villaggio. Aprono il fuoco, Alì si accascia al suolo. Subito dopo, viene colpito anche un suo amico e, successivamente, anche due soccorritori. Nonostante il pericolo, uno dei fratelli di Alì decide di provare a salvarlo. Insieme ad un amico, riesce ad introdursi ad Houla con un piccolo motorino. I due afferrano il corpo di Alì, lo trascinano per un tratto di strada per poi caricarlo in mezzo a loro. Fuggono tra gli spari dei soldati israeliani. Purtroppo, però, per Alì non c’è più nulla da fare.

Ghassan è un giovane ingegnere, anche lui è di Houla, caro amico e vicino di casa di Alì. Ci racconta: «Con Alì siamo praticamente cresciuti insieme. Per lavoro o per studio, molti giovani lasciano il Sud, lui invece aveva deciso di rimanere. Era il più piccolo di dieci fratelli, suo padre era un’insegnante, e sua madre ha sempre lavorato la terra nella produzione del tabacco. Tutti, nel Paese, lo conoscevano come una persona pacifica, dal grande cuore. Nella sua vita non si era mai interessato di politica. Quando hanno evacuato Houla, lui è stato uno di quelli che ha cercato di rimanere fino alla fine, fin quando non è diventato troppo pericoloso. In seguito alla partenza forzata, anche fuori dal suo Paese, Alì continuava a frequentare i suoi concittadini: non vedeva l’ora di tornare. L’amore per la sua terra era così grande che, su Houla, ha scritto poesie meravigliose. Ora, dopo la sua morte e grazie ai social media, le sue parole stanno diventando sempre più conosciute. Una delle cose che più mi ha fatto male, è stato vedere come suo fratello ha dovuto provare a soccorrerlo, caricandolo su un motorino. Il video di quella scena mi ha fatto piangere».

La storia di Alì è solo uno dei numerosi esempi di quello che sta accadendo in questi giorni, nel Sud del Libano. Imboscate, attacchi e bombardamenti stanno colpendo tutti i villaggi da cui Israele avrebbe dovuto ritirare le sue truppe. Famoso è già diventato un video che mostra delle donne, nella cittadina di Maroun El Rais, mettersi di fronte ai carrarmati israeliani per impedirne l’entrata nel loro paese.

Nabatiye, un campo di calcio distrutto. Questo spazio è usato anche durante le funzioni religiose dell’Ashura. Il 28 gennaio, anche Nabatiye ha ripreso ad essere attaccata dall’Idf. Non essendoci più un posto davvero sicuro, molti dei rifugiati del Sud si sposteranno nei centri di accoglienza di Beirut. (Foto Angelo Calianno)

Martedì, 28 gennaio. Oggi si tengono molti dei funerali di chi ha provato a tornare a casa, rimanendo ucciso nel tentativo di farlo. Per molte famiglie è stato impossibile recuperare i corpi, così, molti genitori ora piangono su dei vestiti, l’unica cosa rimasta dei propri figli. Contemporaneamente ai funerali, alcuni razzi israeliani sono tornati anche a colpire Nabatiye, città che era stata già devastata prima del cessate il fuoco. Con il nuovo presidente al potere, sostenuto dall’Occidente, e con il forte indebolimento di Hezbollah, da due mesi totalmente sparito dal campo, le popolazioni del Sud del Libano si sentono abbandonate e senza una voce che possa difenderli.

Quando chiediamo ancora a Ghassan il perché di tutto questo e perché Israele, nonostante gli accordi, continui a occupare il Libano, lui ci risponde: «Storicamente, Israele ha sempre usato la forza contro di noi, anche quando non era necessario. Essendo molto avanzati tecnologicamente, potrebbero raggiungere i loro obiettivi senza il bisogno di uccidere. Invece, usano la violenza per farci del male e intimidirci. Secondo me, questo è il motivo di tutta questa distruzione nel Sud, in nessuna di quelle case bombardate c’era Hezbollah. Gli attacchi sono stati perpetrati per ricordarci la loro presenza, e di che cosa sarebbero capaci se osassimo ribellarci. Noi però non siamo solo numeri, non può esserci tutta questa ingiustizia. Ciò che sta accadendo deve essere raccontato e conosciuto in tutto il mondo».

Angelo Calianno




Libano. La felicità dei cristiani maroniti

 

Beirut, giovedì, 9 gennaio 2025. È festa nel quartiere cristiano maronita della capitale. Dopo due anni di vuoto, il Libano ha un nuovo presidente: il sessantunenne Joseph K. Aoun. Non in tutti i quartieri però, questa elezione è stata presa con lo stesso entusiasmo.

In uno dei caffè della zona centro-sud di Beirut, dove molti intellettuali si riuniscono per discutere e lavorare, incontriamo alcuni ragazzi che, animatamente, commentano la nuova presidenza. Uno di loro ci dice: «Si parla di “elezione” del presidente, ma sarebbe meglio dire “selezione”. Aoun è un candidato voluto da Stati Uniti, Israele, Francia, e supportato direttamente dall’Arabia Saudita. Teoricamente, la sua elezione è anticostituzionale. Aoun era capo delle forze armate e, secondo la nostra Costituzione, un militare non può diventare presidente. A meno che non sia già in pensione e da almeno due anni. Ma, in realtà, la nostra Costituzione viene violata di continuo. Aoun è il quarto ex militare di fila che diventa presidente».

Un altro ragazzo continua: «È stato fondamentalmente un ricatto. Le nazioni straniere che lo supportano hanno mandato una comunicazione agli schieramenti politici: o si sceglieva Aoun, oppure non sarebbero arrivati i fondi per ricostruire il Libano. C’era poca scelta. Per questo, anche il candidato di Hezbollah si è ritirato. La mia rabbia sta nel fatto che chi usa la storia degli aiuti come merce di scambio, sono gli stessi che ci hanno bombardato: Israele con le armi degli Stati Uniti».

Una ragazza appartenente al gruppo ci spiega: «In questo momento, sappiamo benissimo di avere poche risorse e dover essere dipendenti dagli Stati stranieri. Avere un presidente ex militare, e supportato da chi vuole solo consolidare la sua presenza qui, non è per me la situazione ideale. Ma adesso, dopo la crisi economica, dopo la guerra, forse lui è il male minore. A suo vantaggio, posso dire che è più giovane dei suoi predecessori e, almeno, non è mai stato coinvolto in scandali o corruzione. Anche se l’idea non va a genio a molti libanesi, il fatto che lui abbia l’appoggio dell’Occidente e buone relazioni internazionali, è qualcosa che serve per risollevare economicamente le sorti del Paese».

La politica in Libano è molto complessa e vige un sistema settario. Il parlamento è formato in modo da dare a tutte le confessioni religiose (ben 18) una rappresentanza. Così, i seggi sono divisi proporzionalmente tra cristiani (suddivisi in 13 gruppi) e musulmani (5). Il presidente deve essere sempre un cristiano maronita, il primo ministro deve essere sunnita, il presidente del parlamento, sciita.

Subito dopo le elezioni, Aoun ha ricevuto auguri e congratulazioni da ogni parte del mondo, soprattutto da quegli Stati che, in una riunione tenutasi in Qatar nel 2022, lo avevano già appuntato come candidato ideale per il Libano. In particolare, quegli stati erano Francia, Egitto, Arabia Saudita e Israele.

Chi esce sicuramente sconfitto dagli ultimi eventi è Hezbollah, il «partito di Dio». L’organizzazione sciita deve fare i conti con le gravi perdite subite durante la guerra, il vuoto lasciato dalla perdita di Nasrallah, ucciso in un attacco israeliano il 27 settembre 2024, e il ritiro del proprio candidato dalle elezioni. Sempre più incerto pare essere il suo futuro, anche per le accuse di offrire rifugio ai gerarchi del deposto Bashar al-Assad, fuggiti dalla Siria e ricercati dal nuovo governo.

Nel suo primo discorso da presidente, Aoun ha detto che perseguirà una politica positiva e neutrale, volta soprattutto a migliorare le relazioni con gli altri Stati arabi.

Angelo Calianno da Beirut




Europa. Se la guerra bussa alla porta / 2

Nessuna tregua. Anche a Natale sull’Ucraina sono piovute bombe russe, mentre a Betlemme, in Cisgiordania, per il secondo anno consecutivo, le celebrazioni pubbliche sono state cancellate a causa del conflitto con Israele. Ucraina, Palestina, Libano, Siria, Israele: da quasi tre anni la guerra è alle porte dell’Europa. Per questo non c’è da stupirsi se alcuni stati si stanno attrezzando per un’eventuale estensione delle ostilità ai loro territori. Così, seguendo l’esempio di Svezia e Germania, altri tre paesi nordici hanno deciso di preparare i propri cittadini a uno scenario di guerra.

In Danimarca, l’agenzia per le emergenze (Danish emergency management agency, Dema) ha scritto una sintetica guida dal titolo «Siate preparati per una crisi». «Le autorità – vi si legge – raccomandano che tu e la tua famiglia dovreste essere in grado di sopravvivere per tre giorni in caso di crisi. Se sei preparato e in grado di prenderti cura di te stesso e dei tuoi cari, le autorità possono concentrare i loro sforzi dove il bisogno è maggiore e lavorare per stabilizzare la situazione. Più persone sono in grado di prendersi cura di se stesse e di aiutare gli altri intorno a loro durante e subito dopo una crisi, più forti siamo come società».

In Norvegia, la brochure illustrata diffusa dalla Direzione per la protezione civile (Norwegian directorate for civil protection, Dsb) ha un incipit molto pratico: «Come fareste tu e la tua famiglia più prossima se l’elettricità venisse a mancare per un periodo più lungo? Cosa faresti se l’approvvigionamento idrico venisse a mancare? E se non potessi fare la spesa per una settimana? Prepararsi alle emergenze significa essere pronti a gestire questo tipo di situazioni. Le autorità norvegesi raccomandano che il maggior numero possibile di persone sia pronto a essere autosufficiente per una settimana. Questo perché, in una situazione di crisi, i comuni e le agenzie di emergenza dovranno dare la priorità a coloro che non possono fare a meno di aiuto. Se un maggior numero di noi può prendersi cura di se stesso e della propria famiglia, le difese generali della Norvegia saranno rafforzate».

Nelle pagine interne si parla di acqua, riscaldamento ed elettricità, cibo, igiene, medicinali, pagamenti, informazioni e comunicazioni, collaborazione e cooperazione. «In caso di un atto di guerra – si legge nelle ultime pagine -, potresti essere avvisato di cercare un rifugio. Se non ci sono rifugi di emergenza nelle immediate vicinanze, dovresti cercare riparo in un seminterrato o in una stanza al centro dell’edificio. Le esplosioni potrebbero causare la rottura delle finestre e i vetri potrebbero ferire le persone vicine. Pertanto, dovresti stare lontano dalle finestre».

Da ultimo, la Finlandia, il paese più esposto visto che condivide con la Russia un confine lungo quasi 1.400 chilometri. Già dall’autunno 2023 gli otto valichi con l’ingombrante vicino sono chiusi per motivi di «sicurezza nazionale».

Nella pubblicazione curata dal ministero dell’Interno finlandese – Prepared people cope better («Le persone preparate affrontano meglio le situazioni»)si legge: «Quando accade qualcosa di eccezionale, le autorità e le altre parti responsabili si prendono cura della situazione. Tuttavia, le autorità non possono fare tutto da sole. Il modo in cui tutti si preparano e ciò che fanno è importante».

Ormai da alcuni anni papa Francesco parla di una «guerra mondiale a pezzi» che si sta trasformando in una vera guerra globale. A lungo è sembrata un’esagerazione del pontefice.

Paolo Moiola




Asia. Aumenta la produzione di armi

 

La guerra in Ucraina e la crisi in Medio Oriente. Ma anche le minacce della Corea del Nord. Per non parlare dell’assertività cinese nell’Asia-Pacifico. Sono questi i principali fattori ad aver trainato l’acquisto di armi nel 2023, secondo un rapporto dello Stockholm international peace research institute (Sipri), pubblicato il 2 dicembre. Il think tank svedese ha conteggiato per il 2023 vendite di armi e servizi militari per 632 miliardi di dollari per le sole prime 100 aziende produttrici nle mondo, con un aumento del 4,2% rispetto al 2022.

Grandi numeri a parte, la spartizione delle commesse mette in luce piccoli assestamenti, in particolare un graduale ribilanciamento delle transazioni tra gli esportatori asiatici.

A guidare la classifica globale (ormai dal 2018) sono sempre le aziende statunitensi, con una quota di mercato del 50%, mentre i cinesi si posizionano al secondo posto (16%), seguiti dai produttori di Regno Unito (7,5%) e, un gradino sotto, a pari merito, fornitori militari di Francia e Russia, ciascuna con una quaota del 4%.

Sebbene la graduatoria non presenti ancora grandi elementi di novità, sotto traccia sono tuttavia riscontrabili alcune tendenze anticipatrici di quelli che probabilmente saranno i futuri sviluppi del settore.
Tra tutti spicca un dato: le aziende della Repubblica popolare cinese (Rpc) hanno registrato la crescita dei ricavi (103 miliardi di dollari) più bassa degli ultimi quattro anni (+0,7%). Un risultato che il rapporto Sipri attribuisce al rallentamento dell’economia cinese, a fronte di una crescita costante delle vendite nei mercati esteri. Il motivo, come spiega un ricercatore del think tank svedese, è che molti produttori militari in realtà guadagnano dal settore civile, mai uscito completamente dalla crisi pandemica. Con entrate per 20,9 miliardi di dollari (+5,6%), Aviation industry corporation of China (Avic) si è classificata all’ottavo posto nella lista del Sipri, diventando il più grande produttore di armi della Cina. Segno dell’importanza crescente ottenuta dal comparto aerospaziale.

Mentre la Cina arranca, altri esportatori asiatici guadagnano terreno.
Nonostante Corea del Sud (+1,7%) e Giappone, (+1,6%) abbiano ancora quote di mercato complessivamente molto contenute, i due paesi sono in rapida rimonta. Complici le tensioni regionali nella penisola coreana e nel Mar cinese meridionale, ma anche un maggiore protagonismo internazionale di Tokyo e Seul al fianco degli Stati Uniti. Le vendite delle aziende giapponesi (10 miliardi di dollari) hanno beneficiato del progressivo incremento del budget militare del Paese, che sta spingendo le Forze di autodifesa ad aumentare gli ordini dopo decenni di basso profilo.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, obblighi costituzionali autoimposti costringono il Giappone a «rinunciare all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali». Fattore che per decenni ha spinto Tokyo ad appoggiarsi all’alleato americano. Salvo ora dover rivedere la sua posizione difensiva come deterrente davanti alle provocazioni missilistiche di Pyongyang (Corea del Nord) e all’espansionismo regionale di Pechino.
Nel suo rapporto, il Sipri ha notato «un importante cambiamento nella politica di spesa militare» da quando, nel 2022, il governo dell’ex premier Fumio Kishida ha destinato alla difesa il budget più consistente dalla fine del secondo conflitto mondiale (47 miliardi di dollari) con un incremento previsto fino al 2% del Pil entro il 2027. Lo stesso livello dei paesi Nato.

Se nel caso delle aziende giapponesi a fare da traino sono le vendite interne, per i produttori sudcoreani la crescita dei ricavi (11 miliardi di dollari) va ricondotta principalmente alle esportazioni. Soprattutto per quanto riguarda gli ordini di artiglieria terrestre. Con la guerra in Ucraina alla clientela della Corea del Sud – oltre all’Australia – si è aggiunto un numero sempre maggiore di paesi europei. La Polonia, ad esempio, ha comprato da Seul carri armati, aerei da attacco leggeri e obici semoventi K9.

Secondo la Top 100 del Sipri, le forniture delle aziende militari sudcoreane e giapponesi hanno riportato una crescita rispettivamente del 39% e del 35%. A fare meglio è stata solo la Russia che, con un aumento del 40%, ha registrato l’incremento maggiore a livello globale.

Alessandra Colarizi




Siria. Da Aleppo l’appello dei cristiani

Aleppo, nella Siria martoriata dalla guerra, è di nuovo preda della violenza. I cristiani si preparano al Natale anche con la solidarietà.
Il cardinale Zenari: «Non abbandonate la Siria». Padre Karakash, «manca tutto ma noi restiamo con la nostra gente. E prepariamo il Natale».

Nella parrocchia di San Francesco ad Aleppo, i fedeli hanno deciso di non cancellare il Natale. Manca tutto, il pane e la benzina, l’acqua e l’energia elettrica. Manca soprattutto la sicurezza che si era faticosamente ricostruita dopo quattordici anni di guerra. Eppure, nonostante l’occupazione della città da parte dei ribelli, la comunità cristiana non vuole perdere la speranza.

«Per un attimo i nostri giovani hanno dubitato di poter fare il presepe, che quest’anno ha come tema il Giubileo della speranza. Ma proprio questo tema li ha spinti a riprendere le forze per continuare la loro opera», racconta da Aleppo padre Bahjat Karakach, frate della Custodia di Terra Santa. Le linee telefoniche siriane da qualche giorno non funzionano, ma resta ancora possibile, almeno per il momento, comunicare via web.

Quindi, nonostante il rumore degli spari fuori dalle finestre, e il fatto che la maggior parte delle persone, coprifuoco o no, resta chiusa in casa per la paura, in questi giorni «decine di persone si sono offerte per pulire la chiesa e così prepararla alle prossime feste, questo aumenta il senso dell’appartenenza alla comunità e infonde sicurezza nei cuori, perché la vita non si ferma ma va avanti», dice padre Bahjat che della chiesa di San Francesco è il parroco.

Con la stessa determinazione, i francescani, dopo che domenica primo dicembre è stato bombardato il Terra Santa College, hanno riaperto, proprio lì, il panificio che distribuisce pane gratuitamente a chi ha bisogno: «Quando si tratta di fare il bene, nessuno ci deve fermare», dice padre Samhar che, insieme al confratello fra Bassam, per primo ha dato l’allarme del raid in arrivo sul college.

Loro due, poi, dopo l’attacco, sono stati gli ultimi ad andarsene dal luogo distrutto. Volevano assicurarsi, insieme ai vigili del fuoco, che l’incendio causato dalle bombe fosse completamente spento.

Ad Aleppo, la situazione ora è calma e drammatica allo stesso tempo. I religiosi raccontano di file di persone per prendere il cibo che ormai scarseggia nei punti vendita. I prezzi sono alle stelle: «Un litro di benzina costa l’equivalente di uno stipendio», spiega padre Bahjat. Nelle file dei disperati ci sono gli impiegati pubblici «ai quali non è stato pagato lo stipendio di novembre e che per il momento sono senza impiego».

Fuggire da Aleppo è difficile, se non impossibile: è percorribile un’unica strada, ma ci può volere anche una intera giornata per riuscire a uscire dalla città.
I ribelli che hanno preso possesso della città «mandano messaggi di tolleranza, istituiscono commissioni di sicurezza, si rendono disponibili a ogni richiesta», racconta ancora il religioso, ma la gente non si fida. Le cicatrici degli ultimi anni di guerra, con i bombardamenti sui civili e anche le restrizioni imposte dai jihadisti alle minoranze religiose, tra le quali quella cristiana, fanno ripiombare in un incubo.

Di qui l’appello del Nunzio, il cardinale Mario Zenari, che da Damasco chiede: «Non dimenticate la Siria, purtroppo il Paese era scomparso dai radar dei media, adesso è tornato. E allora vi chiedo: non abbandonate la Siria che sta soffrendo enormemente. In quattordici anni di guerra c’è stato mezzo milione di morti e tredici milioni di sfollati. Ora aumenteranno. Non dimenticate la Siria», ripete l’ambasciatore del Papa.

La voce, via telefono, va e viene, ma Zenari ci tiene a scandire più volte il suo appello al mondo: «Rivolgo un pressante appello alla comunità internazionale perché la Siria ha un ruolo importante nel Medio Oriente. Se non è aiutata, questa instabilità rischia di propagarsi», avverte. E deve essere aiutata anche la comunità cristiana che «ha un ruolo importante, ed è qui da prima dell’islam. Ha fondato scuole, ospedali, e i politici cristiani hanno dato un apporto significativo al progresso del Paese. Adesso bisogna aiutarli a restare, ma senza lavoro, senza un futuro, è difficile.

Benché non perseguitati, due terzi dei cristiani, negli anni di questa guerra, sono partiti. E questo è un fatto grave, un guaio per l’intera società siriana», conclude il cardinale Zenari.
Non sono mai andati via invece i religiosi, suore e frati, sacerdoti e vescovi. Restano lì anche i diversi missionari, dai religiosi del Verbo Incarnato alle suore di Madre Teresa di Calcutta. Sempre accanto alla loro gente, anche nei momenti più difficili.

Sabato 30 novembre, quando la situazione stava chiaramente per precipitare, tutti i vescovi di Aleppo, dei vari riti e confessioni, nel mosaico delle tradizioni religiose che in Medio Oriente è sempre stato una ricchezza, si sono rapidamente consultati per decidere il da farsi. «Abbiamo deciso di rimanere tutti con la nostra gente», ha riferito monsignor Hanna Jallouf, vescovo dei cattolici di rito latino. Si va avanti insieme sperando che anche ad Aleppo il Natale porti pace e serenità.

Manuela Tulli




Libano. Una foto tra le macerie

 

Beirut. Dahye, quartiere della capitale libanese, mercoledì 27 novembre, primo giorno di cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah. Migliaia di uomini, donne e bambini, sfilano con i propri mezzi di trasporto sventolando le bandiere del Libano e quelle di HezbollahPartito di Dio»). Ragazzi più giovani, armati di pistole e kalashnikov, esultano sparando per aria. I giornalisti, per la prima volta dall’inizio dei bombardamenti a Beirut, sono stati invitati per un «tour» attraverso il quartiere. Non va dimenticato, infatti, che nei quartieri a maggioranza sciita non si fa nulla con gli accrediti ufficiali rilasciati dal governo libanese: qui decide tutto Hezbollah. Questa parte della città era rimasta inaccessibile per due mesi.

Dahye (anche conosciuta come Dahiyeh) è una delle roccaforti principali di Hezbollah, e per questo, una delle aree più colpite dai raid israeliani. È qui che, il 27 settembre, è stato ucciso Hassan Nasrallah, terzo segretario del «Partito di Dio».

Nel cuore della manifestazione, incontriamo Rana El Sahily, portavoce di Hezbollah. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nel partito ci sono molte donne. «Nonostante il dolore per le tantissime perdite – ci racconta Rana -, per noi questo è un giorno di vittoria. Vittoria, perché Israele non è riuscito a invadere il nostro territorio. Vittoria, perché non ci siamo piegati ai loro attacchi e non ci siamo mai arresi. Se avessero continuato questa guerra, avrebbero perso innumerevoli risorse, ma senza ottenere alcun risultato. Per questo, Israele ha accettato il cessate il fuoco. Noi speriamo che questa pace possa durare, anche se gli israeliani, nella storia, non sono famosi per tenere fede alla parola data. In questo caso però, rompere la tregua sarebbe solo a loro svantaggio. Sono loro che hanno tutto da perdere. Per noi adesso comincia la ricostruzione. Ricostruiremo tutto come prima, anzi meglio di prima».

A Beirut, si festeggia il cessate il fuoco. Foto di Angelo Calianno.

Oggi si festeggia, ma le strade mostrano tutti i segni pesanti della devastazione. Molte case, scuole e infrastrutture sono state completamente cancellate. L’aria, piena di polvere e detriti, è quasi irrespirabile se non si indossa una mascherina protettiva.

Beirut, in questi mesi, è stata l’ombra di sé stessa: locali chiusi, le strade centrali del souq deserte. Scuole, palestre e anche hotel: tutto è stato riconvertito a rifugio per gli evacuati. Per due mesi si è vissuto con l’incessante suono dei droni sopra le teste e la paura degli attacchi che, puntualmente, arrivavano ogni notte.

Nei giorni successivi alla dichiarazione del cessate il fuoco, per strada si sono riversati centinaia di furgoncini e macchine stracolme di bagagli: erano le famiglie che tornavano a casa. Sono stati più di un milione i libanesi che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni a causa del conflitto.

Molti però, al loro ritorno, non trovano più nulla. A Chiyeh, altro quartiere di Beirut a maggioranza sciita e massicciamente colpito, incontriamo due donne. Sono ferme davanti ad un cumulo di macerie. Fino a quattro giorni fa, qui c’era la loro casa. Quello che era un condominio di sette piani, ora è una pila di rovine alta qualche metro.

Una di loro, la più giovane, racconta: «Siamo dovuti fuggire così in fretta durante i bombardamenti, da non avere avuto il tempo di prendere niente. Non abbiamo più nulla. Tutto quello che possediamo ora, è solo quello che portiamo addosso».

La signora più anziana, tra le macerie, trova una foto di famiglia. La cornice è distrutta ma l’immagine è ancora intatta. La ripulisce, la bacia, e se la stringe al petto. Oggi, nuovi attacchi Israeliani registrati a Sud, mettono nuovamente in dubbio la durata del cessate il fuoco. Malgrado questo, malgrado le grandi divisioni sociali e religiose in Libano, tutti cercano di aiutarsi l’un l’altro superando le proprie diversità e paure. Tutti lavorano insieme pregando che, questa volta, la pace possa essere duratura. Mentre giungono i primi echi del riaccendersi della guerra civile nella confinante Siria.

Angelo Calianno da Beirut




La guerra dentro


Il volume mette in luce le radici affettive della guerra. Quali sono i meccanismi psicologici che inducono a sostenere o rifiutare la violenza armata? Si può considerare tramontata la cultura del «mors tua vita mea»? Alcuni studiosi sostengono di sì.

Il titolo del volume curato da Diego Miscioscia e pubblicato dalle edizioni la meridiana incuriosisce: «La guerra è finita». Ma come? Con tutti i conflitti che ci sono.

«La tesi di questo libro – si legge all’interno – è che sia possibile prefigurare un percorso culturale capace di potenziare alcune funzioni mentali la cui maturazione, in sostanza, possa rendere non più praticabile promuovere o condividere conflitti violenti».

Quello che stiamo vivendo è un tempo in equilibrio sull’orlo di un’estensione incontrollata delle guerre in corso, fino al rischio atomico. È quindi necessaria una riflessione su quali possano essere gli elementi di un percorso diverso che metta la guerra fuori dalla storia e realizzi processi di trasformazione costruttiva dei conflitti e di pace positiva.

Il mondo interno e la guerra

Il testo utilizza punti di vista scientifici diversi (dalla biologia, alla psicologia, alla storia), e parte da un’analisi degli studi psicoanalitici sulle cause della guerra. Questo per mostrare che, nel corso del Novecento, il sistema guerra è entrato in crisi a causa della sua irrazionalità e distruttività, e a causa della sua inefficacia nel risolvere i conflitti. Ma anche per mostrare, allo stesso tempo, che in tale contesto, si sono sviluppate le competenze mentali della pace.

Interessante e opportuno il capitolo di Martina Miscioscia sui conflitti e le pratiche di convivenza tra alcune specie animali. Esso mostra strategie di sopravvivenza orientate più alla cooperazione che alla distruzione del competitore: ci sarebbe molto da imparare dal cervo nobile o dagli scimpanzé bonobo.

Il riferimento teorico più forte è, però, quello ai lavori dei due psicoanalisti italiani Franco Fornari e Luigi Pagliarani che, circa 60 anni fa, elaborarono le prime riflessioni relative a come affrontare il rischio atomico, a partire dall’attivazione delle risorse interiori e dalla presa di coscienza delle responsabilità di ciascuno.

Se la guerra, infatti, «è un fenomeno complesso sostenuto da interessi economici, politici e geopolitici enormi e che muove interessi specifici da riconoscere e da esplorare», essa «si innesta anche su […] dinamiche psicologiche che riguardano i nostri sistemi di relazione ed il mondo interno di ciascuno».

Questa dimensione psicologica ci aiuta a comprendere alcuni processi di sostegno alla violenza e alla guerra, e anche il fatto che, per costruire una solida cultura di pace, è necessario lavorare sul mondo interiore che muove i comportamenti di ciascuno.

Il volume, perciò, mette in luce le radici interiori della guerra, riferendosi alla teoria dei codici affettivi elaborata da Fornari. Essa sostiene che i valori e le motivazioni personali nascono da logiche sentimentali diverse che fanno riferimento al mondo familiare: il codice materno, paterno, fraterno, il codice del bambino e quelli sessuali, virile e femminile.

«In sostanza, l’inconscio, attraverso i codici affettivi, aiuta l’uomo a muoversi nel mondo e a cercare di capire quale sia il valore affettivo più utile alla sopravvivenza», si legge nel testo.

È però importante che si realizzi una sorta di «democrazia affettiva», una «buona famiglia interna» che integri e armonizzi i codici diversi, evitando che qualcuno di essi si radicalizzi, come avviene, ad esempio, nella cultura patriarcale che estremizza il codice paterno.

È questa «condizione intrapsichica di integrazione e armonizzazione tra i codici affettivi che rappresenta l’unica base psicologica per una cultura di pace».

Nel corso dell’ultimo secolo alcuni passi nella direzione di uno sviluppo delle competenze mentali della pace sono stati fatti.

Miscioscia individua tre condizioni significative: il rischio della guerra atomica dopo il 1945, che ha fatto percepire come obsoleto il mito della guerra e dell’eroe guerriero; la crisi della cultura patriarcale; la globalizzazione economica, che ha fatto sentire a molti di essere cittadini del mondo più che di nazioni.

Naturalmente la strada da percorrere è ancora lunga, ma la direzione è segnata: la creazione delle Nazioni Unite e l’articolo 11 della nostra Costituzione ne sono due esempi.

Via la guerra dalla storia

Poiché la mente umana è influenzata da ambiente, educazione e cultura, «un cambiamento interiore orientato verso una cultura di pace […] dovrà essere favorito da profonde riforme sociali e culturali, ma anche da nuovi sistemi di sicurezza nei rapporti tra le nazioni».

Nella terza parte del volume si individuano le azioni collettive che possono incidere sui processi mentali dei singoli: favorire il sentimento di essere parte di una comunità; educare con metodi nonviolenti anziché repressivi; narrare la storia come storia del mondo e delle sue civiltà, delle lotte di resistenza civile e di costruzione della pace con mezzi pacifici, invece che come celebrazione di conquiste ed eroi.

L’ultimo capitolo, di Valeria Cenerini, fornisce indicazioni su come parlare di guerra ai bambini, cosa significa educare alla pace, come coltivare empatia, democrazia e dialogo a scuola.

«Il contributo più importante che abbiamo voluto dare in questo libro è segnalare una necessità […]: quella del cambiamento personale verso la democrazia affettiva. Altrimenti l’idea di pace resterà un’utopia […]. Si tratta di capire che la cultura del passato, quella della guerra e del mors tua vita mea è finita. Si tratta, con l’ausilio di esperti, educatori, psicologi, e sociologi, di acquisire nuovi modelli mentali».

Quello fatto da Diego Miscioscia è un lavoro ricco e importante. La presenza di alcune imprecisioni storico culturali che potevano essere evitate da una più rigorosa revisione delle informazioni, nulla toglie al suo valore. Per fare solo due esempi: Aldo Capitini ha fondato il Movimento nonviolento nel 1962, non nel 1952; il Mean non è tra le associazioni promotrici della campagna «Un’altra difesa è possibile» per la costituzione del Dipartimento della difesa civile non armata e nonviolenta, e nemmeno la Rete italiana pace e disarmo, la quale si sarebbe costituita dopo l’inizio della campagna dall’unione della Rete della pace con la Rete italiana per il disarmo, queste sì promotrici della campagna.

L’augurio è che il libro abbia molto successo e che nelle prossime ristampe si possano rivedere queste sviste, perché è uno strumento davvero prezioso.

Come si legge anche nel Preambolo della Costituzione dell’Unesco (firmata nel 1945): «Poiché le guerre hanno inizio nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che bisogna costruire le difese della pace», ed espellere per sempre la guerra dalla storia.

Angela Dogliotti
Centro studi Sereno Regis

bibliografia

  •  Franco Fornari, Psicanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 2023, pp. 288, 24,00 €.
  •  Luigi Pagliarani, Violenza e bellezza. Il conflitto negli individui e nella società, Guerini e Associati, Milano 2012, pp. 111, 13,50 €.
  •  Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia, Mondadori, Milano 2011, pp. 634, 11 €.
  •  Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1992, pp. 656, 13 €.
  •  Antonella Sapio, Per una psicologia della pace, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 944, 58 €.
  •  Franco Fornari, Dissacrazione della guerra. Dal pacifismo alla scienza dei conflitti, Feltrinelli, Milano 1969.